Editoriale


L'uomo da quando è comparso sulla terra ha sempre cercato un luogo di rifugio dagli agenti atmosferici, animali e nemici, dove raccogliere i propri averi. Nutrirsi in tranquillità e godere di momenti di intimità. La prima forma di abitazione è stata la grotta seguita dalla tenda nel periodo storico del nomadismo. La capanna compare nel neolitico e verso la fine di questo periodo iniziano in oriente le prime abitazioni in muratura. In questo passaggio dal nomadismo alla dimora stabile inizia l’agricoltura, il commercio e quindi le civiltà con leggi e a cui seguono le prime forme di stato. Nel IV a.C. iniziano a diffondersi case che rispecchiano la forma della famiglia come nucleo autonomo.
La casa dapprima luogo di rifugio e poi di riunione famigliare col tempo viene ad essere arricchita di suppellettili e abbellita sia internamente che esternamente al punto che l’aspetto esteriore e le dimensioni diventano segno di ricchezza e potenza fino ai giorni nostri.
Ora l’abitare coesiste con il concetto di famiglia; infatti la moderna sociologia identifica cinque tipi di famiglia:
- nucleare, formata da una sola unità coniugale,
- estesa, formata da una sola unità coniugale e uno o più parenti conviventi,
- multipla, formata da due o più unità coniugali,
- solitaria, formata da una sola persona,
- senza struttura coniugale, formata da persone che convivono.
All’interno di questo numero del faro si potrà leggere di testimonianze dirette di questi tipi di abitare arricchiti delle esperienze, ricordi ed emozioni.
Buona lettura.


Fabio Tolomelli


L’abitare per noi prima di tutto è...


Abitare deriva dal latino habitare ‘tenere’ frequentativo di habere ‘avere’ e significa avere dimora, vivere in un certo luogo, risiedere.
Gli aspetti dell’abitare che si possono cogliere nel tentativo di dare una definizione sono molteplici a seconda che ci si concentri maggiormente sull’aspetto del luogo, della’avere e del tenere, della relazionalità legata al luogo in cui stare o a quello legato al significato stesso di esistenza, del vivere necessariamente in uno spazio.
Giampiero considera importante per l’abitare i concetti di proprietà e quello di residenza.
Secondo il codice civile italiano, la residenza è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale (articolo 43 II comma c.c.). Non essendo specificato che cosa sia la dimora, il significato del termine è quello comune: il luogo in cui una persona si trova ad abitare. È possibile avere più di una residenza di fatto, anche se per qualificare una abitazione come dimora è necessario un minimo di stabilità. Anche se nel parlare comune i due concetti hanno un valore analogo, dal punto di vista giuridico la residenza (che ha a che fare con l’abitare) non coincide necessariamente con il domicilio (definito come sede di affari e interessi), che ne è quindi ben distinto. (Nell’ambito del territorio italiano, la residenza può essere riferita ad un solo luogo, ai fini dell'iscrizione alle liste elettorali, dell'abitazione che viene dichiarata come prima casa, e di tutti gli altri benefici fiscali e legali cui hanno diritto i residenti in una determinata località. Un cittadino può avere residenza in uno o più Paesi, al di fuori dell'Italia.)


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Prendere una nuova residenza cambiando fisicamente casa, non corrisponde però automaticamente con il sentirsi parte del nuovo luogo e della nuova comunità che si abita. Arianna evidenza dell’abitare il fondamentale aspetto dell’appartenenza e del possibile senso di esclusione che una persona può vivere cambiando territorio o anche semplicemente comunità.

Per chi abita in comunità o in gruppo appartamento il concetto dell’abitare si articola necessariamente con quello di vivere in gruppo, di relazionarsi e di imparare a vivere luoghi privati come la stanza da letto distinti dai luoghi in comune.
Gli spazi abitati possono divenire fobici e procurare ansie e paure, schiacciare l’esistenza stessa della persona. Il manicomio era un non-luogo, dove non era possibile abitare, dove non era dato a p punto habere.

Per Andrea: Il luogo che si abita è il " nido", inteso come la famiglia e gli affetti più stretti e cari. Non è possibile abitare in un luogo dove non ci sono affetti, dove non ci sono persone che si prendono cura di te. Abitare è vivere con le persone a cui si vuole bene e che ti vogliono bene. Nel '99 per la prima volta ho convissuto con una donna per qualche mese. E’ stata un esperienza abitativa molto combattuta perché non era facile andare d’accordo. L’abitare migliore per me è stato a Villa B., dove sono stato per un periodo di quasi un anno e ha coinciso con due relazioni sentimentali. Era bello il clima per via dei rapporti tra gli ospiti e delle relazioni che si insatauravano. Anche nella comunità dove sono stato dopo mi sono trovato molto bene, a me piace molto abitare in gruppo.

Per Dino: Abitare è principalmente stare in compagnia e ricambiare affetti come sto vivendo in questo periodo della mia vita a Casa Mantovani. Ho una casa di proprietà di mio padre che ho abitato per tanti anni e che ora è libera e che mi piacerebbe tornare ad abitare. So che è difficile vivere da solo per via di tante incombenze di gestione, di pagamento, di tante cose e ho imparato che è importante avere qualcuno che ti aiuti. Mi auguro di riuscire presto a tornare nella mia casa e viverla serenamente senza più problemi con i vicini come avevo prima.


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Abitare in un libro,
in un film,
in un diario,
nella fantasia,
nei sogni,
nella solitudine,
nel silenzio.
Avere un mio spazio nel mondo..
A volte è solo quello del letto
1) letto vuoto come una prigione
2) letto pieno, caotico

Per Mario: Sogni di luoghi realistici dove non c’era nessuno, disabitati. Figure umane lontane, sullo sfondo. Luoghi vuoti dove trovare posto. Osservare relazioni in un luogo in cui non mi sentivo bene. Inventare personaggi immaginari. Luogo come contenitore di relazioni che mi escludono, dove io non trovo posto. Se ci sono relazioni non posso esserci io.

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Per Oriano: Mi piace la montagna per i boschi, le cascate e gli animali. Anche quest’a n no torneremo a Courmayeur in villeggiatura per il terzo anno consecutivo e andremo in una casa stupenda di un benefattore. L a gente là è diversa, più affabile e disponibile. In un posto come quello mi piacerebbe abitare, dove c’è profumo di erba appena t a gliata, dove ci sono campi di grano e frutteti, dove si beve ad una fontana di acqua fresca. In montagna mi rilasso e faccio passeggiate.

Per Stefano: Per me abitare è gestire la propria casa e l’ideale è che sia lontano d a lla città per stare più tranquillo e vivere la vita secondo natura, lo però abito in città, in un condominio vicino ad una delle strade più trafficate di Bologna, abitò lì dal 1984. Spesso la casa diventava per me u n rifugio dove abitare i sogni e lo spazio dei ricordi, dove inventare personaggi fantastici per parlare con qualcuno. Dallo spazio interno dei sogni a quello esterno delle vie e delle piazze. Più che la casa infatti io amo vivere la città: ritrovare le proprie vie passeggiando sotto i portici, andare in centro a studiare gli scorci più particolari per poi disegnarli. Mia mamma è nata in centro ed io, come lei, mi sento parte della città di Bologna.
Una canzone mi viene in mente: ecco il mio abitare la città di Bologna.

Per P. : Abitare è uno sconosciuto che soggiace al tuo cospetto: esigi rispetto da lui poiché solo lui ti può donare quella pace di cui tu senti il necessario bisogno. Può apparire banale, certo scontato, ma è di vitale importanza captare le onde di questo individuo dall'apparenza sincera, l'abitare appunto. Egli è il tuo più grande alleato come può divenire l'acerrimo rivale, quello senza senso dell'onore, quello che ti vuole annientare. Abitare come rifugio e reame di sé stessi, abitare come sudario finale, morte del corpo e dell'animo, segno che qualcosa deve cambiare. In ultima analisi, l'abitare è una continua tensione tra due antitesi vitali, un qualcosa dal sapor bipolare, una sinusoide umorale che passa da un minimo esiziale ad un massimo funzionale: è questo il bello del gioco della vita, il bello del continuo gioco dell'abitare.


RTP Casa M.D.Mantovani - Laboratorio Scrittura Creativa


L’adulto coabitante


In esclusiva dal convegno nazionale delle “Parole Ritrovate” e AUSL Bologna
“Abitare, dove, come con chi? Esperienze e proposte"
Del 23 Maggio 2009, Bologna


Ho quarantasette anni e abito da solo da quando ne avevo quaranta. Sono pertanto uno dei tanti che passano dal vivere in famiglia fino all’età matura al vivere da soli senza alcun passaggio intermedio, a peggiorare la mia situazione c’è il fatto che io ero e tuttora sono un utente psichiatrico. Conosco persone che stanno vivendo ora o vivranno in futuro l’esperienza che io ho già vissuto e che sono esposte, o lo saranno quando avranno abbandonato la coabitazione in famiglia, a un disagio analogo a quello che ho vissuto io.
Il mio disagio psichico risale alla giovinezza, ma per un breve periodo della mia vita, che va approssimativamente dai trentadue ai quarant’anni, sono riuscito a lavorare come educatore, dapprima in strutture residenziali sorte dalla dimissione di utenti manicomiali di lunga istituzionalizzazione, poi con i minori, prevalentemente in contesti scolastici.
Il primo periodo è stato relativamente positivo. Da un punto di vista lavorativo, il tipo di utenti che avevo non mi mettevano in difficoltà. Da un punto di vista abitativo, abitavo con entrambi i genitori: il rapporto era conflittuale con entrambi, ma meno di quanto lo sarebbe diventato con mia madre dopo la scomparsa di mio padre.
Inoltre pur essendo ormai un uomo, continuavo a vivere in famiglia da figlio, perché questo i miei genitori si aspettavano da me e io non avevo ancora riflettuto adeguatamente su questo fatto. Per un adulto che ancora coabiti con i propri genitori, è necessario ed anche urgente abbandonare il ruolo di figlio. In un contesto dove il figlio è un adulto, con questa espressione, intendo qui una persona che, pur in età adulta, continua a demandare ai propri genitori tutte quelle attività necessarie per mandare avanti il nucleo familiare e, nei casi peggiori, demanda loro anche le attività relative alla cura dei suoi stessi spazi o interessi. È necessario che assuma invece quel ruolo che si potrebbe chiamare di “adulto coabitante”, e che consiste nel gestire in prima persona i suoi spazi e interessi individuali e nel collaborare secondo i propri mezzi, compreso un eventuale reddito personale da lavoro, a tutte le attività riguardanti il nucleo familiare o ad alcune di esse.
Il periodo compreso tra i trentasette e i miei quarant’anni è quello che ha coinciso con la coabitazione con mia madre, rimasta vedova. Essendo mio padre deceduto, io ed i miei fratelli divenivamo proprietari di piccole porzioni dell’appartamento di famiglia, ma di essi solo io ero ospite di mia madre, proprietaria della maggioranza dell’immobile, in quanto loro erano da tempo andati a vivere fuori Bologna. Vista la mia non più verde età, e considerato che, da un lato, portavo a casa e mettevo a disposizione quel po’ che il mio lavoro di educatore mi fruttava e che, d ’altro lato, ero proprietario di una porzione della casa dove vivevo, sarebbe stato logico aspettarsi che in quella casa io avessi goduto di una relativa libertà. Invece, mia madre non volle mai avere nessuno per casa e, quelle poche volte che mi impuntai e feci venire qualcuno, si andò a chiudere in camera per farmi sentire in colpa, e riuscendovi perfettamente. Considerando che mi sarei trovato presto o tardi a vivere da solo, chiedevo anche a mia madre, prossima ai suoi ottant’anni, di lasciar fare a me le pulizie di casa. Piuttosto che accontentarmi, preferiva pagare delle signore.
Fu una delle mie sorelle a rendersi conto che non potevo più vivere con lei senza esporre me stesso e lei a gravi rischi. Così diede un colpo d’accelerazione alla prospettiva che io andassi a vivere da solo. Avrei solo dovuto mettere i miei scarsi risparmi insieme al resto del costo dell'appartamento, dopo di che, non avendo affitto o mutuo da pagare, avrei dovuto riuscire a farcela ad affrontare le spese vive col mio compenso di educatore. E le cose iniziarono in questo modo. Ma, poco tempo dopo, complice anche una situazione lavorativa che mi impegnava con i minori e si rivelò più stressante, non fui più in grado di gestire la mia abitazione, persi il lavoro e iniziai a collezionare, dal 2002 al 2005, un altissimo numero di ricoveri in psichiatria.
Ho avuto anche la sfortuna di mantenere a mie spese fra il 2004 e il 2006 una persona che avevo conosciuto durante uno dei miei ricoveri. Avevamo fatto un patto. Lui non riusciva a trovare lavoro perché viveva in montagna, io non riuscivo a tener dietro alla casa e soffrivo di attacchi di panico e agorafobia. Stabilimmo che io lo avrei accolto senza fargli pagare alcun affitto a condizione che lui trovasse lavoro e con il suo guadagno provvedesse alle spese quotidiane. Così non avvenne, perché non lavorò quasi mai. Non mi decidevo, d’altra parte a mandarlo via, perché temevo di dover affrontare da solo attacchi di panico che non mi permettevano nemmeno di uscire di casa, e da cui mi rimettevo solo grazie ad altri ricoveri. Riuscii a togliermelo di casa solo due anni dopo e ricorrendo a un avvocato.
Stante questa lunga storia mi sono convinto di alcune cose. C’è una cosa che, in realtà, è consigliabile a tutti, ma mi sembra ancor più necessaria per chi soffre di un disagio psichico: ossia mettere in conto che, prima o poi si vivrà da soli, e solo eventualmente con un partner. È necessario allora, per chi vive con i genitori, avviare un periodo di transizione in cui smettere di vivere come figlio e cominciare a vivere come quell’“adulto coabitante’’ che ho descritto finora. Credo che se tutto questo fosse stato fatto nel mio caso, a quest’ora la mia situazione sarebbe diversa.
Temo tuttavia che l’interessato possa non porsi per tempo questo problema e che la famiglia metta in campo delle resistenze. I servizi nulla possono fare per quei giovani che non seguono, non avendo essi mai manifestato alcun disagio. Forse potrebbero, se già non lo fanno, sensibilizzare gli utenti e le loro famiglie sull’opportunità di questa fase intermedia che ho definito dell’“adulto coabitante”.


Mei Ancony [Mario Mazzocchi]


Vivere e abitare
"Abitare" per gli ospiti dell'Ottonello


Una collega infermiera C/O il reparto P.Ottonello ha così proceduto con gli utenti ricoverati; in soldoni ha somministrato una sorta di quesito esplicativo sull'argomento:" ABITARE" e cioè:
Quale è la vostra abitazione reale.
Quella che vorreste avere e quale significato date alla parola abitare?

La nostra abitazione reale è un appartamento sito al quarto piano e composto: due camere da letto, un salone, un cucinotto,un bagno, due "sgombrini" e un terrazzo.
Dove abito ci sto bene anche se mi piacerebbe avere un bagno in più e non nascondo il desiderio di un attico panoramico.
Alla parola abitare do un significato di protezione.

B.S.



Abito a Bologna e sono stanco, è difficile ogni giorno alzarsi e unirsi al "branco" abitare in tanti luoghi sarebbe fantasia, abitare in una casa che sia di altri o la mia,da un senso logico e compiuto, un senso di benessere e allegria, forse fittizia, questo è vero; perchè per abitare non servono mattoni costruiti col pensiero. Abito in me stesso, non mi sono sposato, la "casa" più bella non è quella con il prato, sento di dirlo con le chiavi nella "porta": "Ama te stesso e fallo un'altra volta"

M.S.



La mia abitazione può essere considerata: STUPENDA-TRISTE, QUASI IRREALE, STUDIATA IN UN MOMENTO DELLA VITA DIVERSO. Oggi vorrei vivere su un'isola in una capanna e godermi la natura. Abitare per me ora vuol dire VIVERE.

A.M.



Noi, io e mia madre, abitiamo in un condominio preferiremmo una casetta isolata dalla città. Per noi abitare è essenzialmente Esserci

P.G. Ida


Abitare: ieri e oggi


Il confronto salta subito agli occhi, questa la prima esclamazione da parte degli utenti del centro diurno per anziani di san Biagio, quando si sono visti porre come quesito le differenze sul modo di abitare di oggi rispetto a quello di ieri. Qualcuno ha esordito con una frase d ’effetto che ha subito riscaldato gli animi, di chi soprattutto ha vissuto in condizioni più disagiate: oggi il benessere, ieri la miseria!
Le differenze tra ieri e oggi, riferito all’abitare, sono molto marcate e nette. Gli anziani che frequentano San Biagio, provengono quasi tutti da una realtà, contadina, per cui i racconti di ciascuno di loro si somigliano molto, lo stile di vita era per lo più similare.
La camera da letto è il luogo dove ci si può rifugiare per distendersi un po’ per restare soli con noi stessi, quando sentiamo l’esigenza di avere silenzio accanto a noi e per riflettere.
Una volta tanta privacy non esisteva, al posto della cameretta c’erano le camerate, si dormiva tutti insieme con fratelli e sorelle e una volta si sa le famiglie erano molto numerose. In certi casi i letti venivano a mancare così due sorelle dividevano lo stesso letto. Si parla di letto, ma nulla a che vedere con quelli di oggi una volta i materassi erano riempiti con le foglie secche.
Chi di notte non si alza almeno una volta per andare in bagno, niente di più semplice oggi ma ieri bisognava andare fuori dalla casa. Il bagno si trovava vicino al letamaio delle bestie, era più che altro un gabbiotto rivestito con tela da sacco e la posto del water c’era una buca profonda nel terreno, che una volta piena veniva vuotata dal contadino e il contenuto disperso nei campi. In estate può essere piacevole andare fuori all’aperto dove l’aria è fresca ma dubito che in inverno sia altrettanto piacevole.
Al posto dell’odierna vasca da bagno c’era una tinozza di legno, che nei periodi freddi veniva posta nella stalla delle mucche, certamente era il posto più caldo per fare il bagno le case erano molto fredde e non sempre c’era la legna per scaldarle. L’acqua per fare il bagno veniva presa dal pozzo e scaldata sul fuoco, in casa non esistevano le tubazioni dell’acqua figuriamoci l’acqua calda.
C’è stato un periodo in cui la case non erano neanche più nostre.
Al tempo della guerra i tedeschi si servivano delle nostre case e ci trattavano come dei servi. Dovevamo cucinare per loro e pretendevano i nostri stessi letti per poter dormire, ma erano ben capaci anche di altre atrocità. La casa è il centro della nostra vita, attorno la tavola la famiglia si riunisce dopo un giorno di lavoro e fatiche, per condividere la gioia di volersi bene.
Gli anni della guerra per fortuna son passati e così ci siamo riappropriati delle nostre case a differenza di ieri oggi siamo circondati da tanti comfort, che rendono le nostre case belle da viverci.


ospiti Centro Anziani San Biagio (Casalecchio)


Io sono la mia casa


CASA: Nido, Dormitorio, Stanza, Villa, Bugigattolo, Reggia, Castello etc. etc.
Vado a CASA! pensiero rassicurante, angoscioso, triste, gioioso, avvilente, speranzoso, doveroso.
Trovarsi a CASA: che Meraviglia, che sollievo, il profumo di CASA MIA non perchè la possiedo e l'ho comperata ma perchè è il mio luogo segreto, solo mio, ove posso ESSERE ciò che SENTO!
Sono una persona che ama mettere radici, la mia casa, la mia famiglia, i miei amici, i luoghi che frequento abitualmente scelti e rifrequentati perchè c'è qualcuno che mi regala un sorriso e anche questo mi fa sentire a Casa.
Da giovane, avevo tanti progetti e idee, sogni di come avrei creato la Mia Casa: colorata, calda, accogliente, fiori, musica e non solo per Me, aperta al Mondo e chiusa nel Mio cuore ove custodirne il calore e il dolce pensiero di ritrovarla.
Ho lasciate tante case, che mi sono mancate, quella da bambina quando ci siamo trasferiti da un paese del ferrarese per venire a Bologna per avere più possibilità di studio, lavoro; poi quando mi sono sposata, ma nella casa dei miei genitori potevo tornare e ritrovare i miei odori, profumi e ricordi e costruirne degli altri insieme ed era un arrivederci.
Poi...CASA MIA con mio marito, mia figlia (la Mia famiglia) e casa, quante volte l'ho dipinta, cambiando i colori, la posizione dei mobili, aggiungevo un ninnnolo, la facevo crescere con Noi e gli amici più cari e tutto ciò che circondava (il nostro territorio era Casa).
La scelta dolorosa di andarcene (io e mia figlia) e per anni ne ho sofferto la mancanza e i ricordi che Vi avevamo lasciato e così di Nuovo un'altra casa, e ancora amore e colori e vita gioiosa attorno, affetto e divertimento, attimi di spensierata libertà e questa volta anche Nido ove io e mia figlia ci accoccolavamo a parlare, discutere, ridere... Insieme (nonostante il doloroso addio al mio sogno di una casa e una famiglia per sempre).
Poi di nuovo, dovevamo dividerci per permetterci di crescere ambedue libere dall'altra per ritrovare un rapporto nuovo e adulto, ho lasciato la casa, i mobili, i nostri ricordi a Lei, più vivessi non avrei più perso niente la MIA CASA sarebbe stata sempre con ME.IO ero il mio nido colorato di speranze, di gioia o nero di dolore, ero il mio focolare e ali di libertà, ero un buco ove nascondermi inaccessibile, mai più addii.
Da sei anni convivo con il mio amato compagno, Daniele e per un bisogno reale di cambiamento per la crescita dei suoi figli, sono cominciati a fiorire progetti di cambiamenti in Casa e... ho guardato con occhi diversi questo luogo ove ho dormito, gioito, pianto, sognato e riposato e ho Sentito una leggerezza nel mio cuore e il desiderio di renderLa Mia, di lasciarci l'impronta del mio viverci e di avere di nuovo il colore, i sogni e la dolce fatica che ti regala sorrisi di soddisfazione guardando la casa cambiare.
Progetti... quanto tempo li ho allontanati da me e ora di nuovo il Coraggio di lasciare la Paura ed amare di nuovo il Ritorno a CASA con la consapevolezza e l'accettazione che può non essere quella per sempre ma parlerà di Te, Voi e racconterà di quella che sei, siete...
è un Regalo Immenso quello che mi sto facendo: Sognare, creare e credere di nuovo.....
Rimane che IO SONO LA MIA CASA, tutto quello che mi serve è dentro di Me ma Ora la Porta è APERTA...


anonimo


Il tabacco delle formiche


C'era allora chi fumava troppo: eravamo in montagna, ma il posto era un manicomio che echeggiava il mare. Fu Lucio a inventare il tabacco per le formiche, fumare, non fumare, questo è il problema, la voce del mare rieccheggiava nelle stanze, ma in realtà era in manicomio.
Dunque come le porte della percezione era la nave dei folli oh!!
Il formicaio era pieno di tabacco; Oh!! Marinaio prendi la formica che assestata intorno al palo ti dà vita. Madre Rita? E la formica fumava, fumava tutto l’incenso di questo mondo così diverso, perso su una nave: la nave dei folli.
Ci trovammo in campagna, fra le piante e gli alberi e campi arati, le foglie d’autunno cadevano, svolazzando, danzando in un vortice di vento. M a le stanze chiuse. Era un manicomio anche quello. Oh! Nave, nave dei folli, portali frementi sugli stupendi armoniosi colli.


Giorgia e Lucio
(tratto liberamente da un brano dei Doors)


***


C’era la formica, navigava piano nel mare di acqua della pozzanghera davanti alla villa, navigando navigando un giorno annegò tristemente ahimé, l’altra sua compagna di sventura si salvò e proseguì il suo tragitto verso la montagna di pane e di briciole che le assicurò una vita agiata e senza problemi di carestia.


Lucio


Casa


Casa triste,
casa assolata,
casa dimenticata.
Cerco la mia casa
nel muschio verde
del profondo respiro.
Casa dell’anima...


G.B.


***


Il cuore abita dentro di me,
dentro il mio cuore c’è spazio
per tutti, ma vorrei che la mia
casa fosse solida, come pure
le sue fondamenta.


Luisa Paolucci Delle Roncole


***


Lei è sangue e prelievi dei ricordi,
rifrange nei flutti il suo nome.
Tutto tace, solo gli zampilli rumoreggiano.
L’anima si irradia, la mente cerca
soluzioni, ciò che l’anima contiene è pace,
ciò che ha fuoriesce non controlla più il nostro
bene. La nostra mente continua a lavorare
è un arrovellio!
Come se la vera pace, quella con noi stessi,
non la meritassimo mai.


Luisa Paolucci Delle Roncole


***


Rapida, istantanea, fumosa
è la parigina.
Come una breve veloce sigaretta.
Con una si viene.
Con l’altra si va.


Luisa Paolucci delle "Roncole"


Casa Cucina


Se guardi dalla finestra, tutto il mondo sembra tuo. Se sei fuori dalla tua casa, non sembra di aver niente. La stanza più bella è proprio la tua cucina. La vivi, la godi, la ami, la condividi. Quando ti sembra di essere sola nella tua casa, vuol dire che non ami. Se ami, invece, vivi bene la casa. Chi la possiede può ritenersi fortunato, chi non ce l’ha ma è in affitto, anche lui può ritenersi fortunato, solo, però, se la vive come fosse la sua.


Luisa Paolucci delle "Roncole"


Neve


La neve: il silenzio del tempo sugli ultimi cardi spinosi, i fiori spenti e la campagna opaca e silente. La mia ombra sulla neve è così grigia e così sola.
Solamente il silenzio può parlare piano, in un sussurro flebile e dirci la tristezza antica del mondo, lieve compagna delle nostre stagioni


Giovanni Gruppioni - Montecalderaro


Ricordi di gioventù - Pontelagoscuro (Ferrara)


Il fiume Po appartiene al paesaggio della mia infanzia. Il Po anche a quello della miagiovinezza laggiù sulle rive del fiume viveva una bellissima ragazza che si era innamorata di me. Pontelagoscuro: potrei farne il simbolo della mia, della nostra e dei miei coetanei, giovinezza a Ferrara!


Giovanni Gruppioni - Montecalderaro


Tramonto


Il bacino di luce guarda il tramonto fluido
sull’acqua tra rive che ignoravamo,
e tristezze che vivono
il lento sogno di un’agonia felice.
Così, discreto potresti celarti anche tu
tra queste ombre spente e segretamente
vivere il più misterioso attimo di vita.


Giovanni Gruppioni - Montecalderaro


Fiori bianchi


Paiono gigli di neve
i pochi fiori gettati
sul piano inerte
della carta,
paesaggio triste
di deserti giardini
dove il vento sussurra
ormai parole d’autunno.
Come l’ultima stagione
della vita, parrebbe
un frullo d ’ali
ancora chiaro,
ma già sfiorato
dal candore eterno
del silenzio


Giovanni Gruppioni - Montecalderaro


Felicità


Questo io chiamo felicità: tendersi in avanti,
scorgere l’azzurro della lontananza serale
e dimenticare per alcune ore
la fredda promiscuità e
la noia del quotidiano.


Giovanni Gruppioni - Montecalderaro


Poesia


Soffrire il dolore
Assaporare la gioia
Trepidare l’attesa
Amare l’amore
Vivere il presente
Sognare il futuro
Abitare la vita


Teresa


Abitare... l’abitare


L’abitare per me è sempre stato associato ad un progetto da realizzare. Molto, molto tempo fa chiedevo, alterando i decibel della mia voce, un’abitazione dove potessi collegarmi a me stessa in solitudine. Anche oggi sento questa esigenza necessaria, una solitudine voluta, cercata proprio per questa funzione.
Credo che ci siano poche persone che abbiano capito questa mia casa. Non voglio avere una casa perché è bello andare in giro a scegliere il colore delle tende; è qualcosa di più intimo, cioè il bisogno di uno spazio tutto mio da organizzare e da vivere poiché noi entriamo nella vita in un milione di posti, case, terrazze da calpestare e siamo tutti costituiti dello stesso milione di modi di fare, dire, vivere e “ calpestare”. lo vorrei arrivare ad essere me stessa anche solo per una metà di questi posti.
Ora condivido una casa con altre sei persone e quando mi ritiro nella mia camera sento che non è neppure quello il mio posto; è vero, sono stati molto buoni con me assegnandomi una camera da sola, dato che le altre ragazze condividono la loro stanza con altre.
Paradossalmente nella casa dei miei nonni, una casetta a schiera a Pianoro Nuovo, dove non mi sarei mai sentita a casa mia, una volta ho provato una strana empatia tra me, una mela e il locale della cucina nella quale mi trovavo. Stavo lì, pelando la mela in solitudine ed ho sentito un’affinità positiva con il luogo che mi circondava e con il quale stavo creando un feeling.
Vorrei questo, vorrei riuscire a stare bene nei luoghi dove sto e non solo essere una comparsa senza sentimenti.


Silvia Rindello


Abitare a New York


Metropol: New York , vorrei visitarla per incontrare la gemella della mia vita che interrompesse quel vortice di solitudine dove mi trovo invischiato in parte per mia colpa, in parte per colpa di altri. Potrebbe essere una persona di colore piccola nell’aspetto, ma grande nel portamento e nell’anima, bandita dal gruppo, maltrattata a causa del razzismo.
Ogni giorno nel grande circo che è la vita chiedo al Signore la grazia di arrivare a sera con un’esperienza di vita in più e accettando tutto da tutti... anche le persone più insignificanti... i vecchi in primo luogo.
Questa donna che ho immaginato, potrebbe far sbocciare i fiori di una nuova Primavera, essere un inno alla vita, alla gioia come nella “ Pastorale” di Beethoven.
Vorrei chiedere al supremo autore della vita e del cosmo che mi faccia amare quelle dita d’ebano con le unghie rosee; quasi un capolavoro in miniatura.
Dita d’ebano che si intrecciano come in una preghiera perché il loro piccolo mondo è un riflesso del grande mondo. Che mi facciano levare il capo verso il cielo e intonare una preghiera perenne come la luce che accompagnò la mia uscita in questo mondo. Luce pervasa da un crisma e un carisma che accompagnano ogni essere che viene al mondo.


Giovanni Marcheselli


Abitare vuol dire convivere


Che cosa significa “ abitare”? Abitare può essere il sinonimo di vivere: cioè avere un posto in cui dormire, mangiare e tutto il resto.
Al mondo c’è chi abita nella casa propria, ma c’è anche chi non ha una casa, oppure persone (le quali io ho conosciuto) che nemmeno sanno dove sta la loro casa, perché quasi tutta la giornata la passano fuori, e tutto questo perché?
Il problema è che non sempre si riesce a convivere, perché abitare è anche convivere.


Erika


L’abitare


Viviamo insieme da oltre tre anni, c’è chi va, c’è chi viene, ma ricordo quando te ne andasti tu. Era bello nella nostra comunità alloggio dividere la camera con te: ti amavo dal profondo del cuore, tutto qui.
Ora ho una nuova compagna: Claudia, che accetto ma che non sei tu.
Era Rossella la mia tinteggiatrice d’anima, la mia bambina. Dott. Pozzi: avete commesso un aborto e nemmeno ve ne siete resi conto.
Proprio a lei signora Concetta in questa lettera chiedo di lei, della mia Ros.
Si pasteggia qui tutti insieme, voleggiando, rispettando, corteggiando ognuno le proprie attività esterne. Quando si ritorna non si riparte più, questo qualcuno mi disse quando avevo due anni, il mio caro nonno.
Chiudo questa lettera dicendoti grazie per avermi accettata: qualcuno lo fece, qualcuno non lo fece mai.


Paola Scatola (del Melograno)


Abitare


L’abitare è il verbo di un azione, e questa azione ora cerco di spiegarvi, descrivendo a cosa mi fa pensare e cosa "abitare" mi fa sentire: Ora io vivo nella mia stanza e intendo per ora il luogo in cui riesco a vivere di più, a riposarmi e a relazionarmi tra musica e specchio, tra letto e armadio. La mia casa mi evoca una sensazione di libertà, stando tra alberi molto alti e tra giardini varii, rimbalza la mia “fantasia", cioè immagino la mia casa una villetta a sé; il problema è che non è così, io abito con altri inquilini del palazzo, e questa mia fantasia all’incontrarsi si ferma e torna la proiezione tridimensionale della mia camera.
La mia camera mi fa sentire un poveretto, perché tutto quello che vi si trova, è di poco valore: solo che per me è il contrario e dunque sapendo la verità pulisco, e pulendo mi accorgo che sì, all’inizio della loro vita le cose della mia stanza erano di valore, ma che poi anche le cose costose si usurano e dimezzano di valore.
Concordo che la vita è una sola e questo lo si capisce, ma per rendersene conto veramente, bisognerebbe saper invecchiare, cosa lontana anni luce e irraggiungibile col GPS da me.
Le cose a cui siete attaccati con una emozione sono le più vere.


Maurizio Gulizzi


Abitare dentro e fuori di me


Veramente io a fuggire avevo provato, poi il richiamo della semiresidenza è stato più forte, e mi ha riportato a riabitarla, incrementando le attività, e a lavorare in una cooperativa sociale chiamata “Il Martin Pescatore”. Due volte alla settimana a riparare biciclette.
Non si sa mai se abiterai in futuro un posto oppure un altro, se avrai la casa in centro o in periferia; abitare secondo me si svolge all'interno, dentro me stesso.
Quindi io potrei stare più comodo su di una panchina che sul mio letto da 400 euro, oppure potrebbe succedermi di stare sull’aereo, mentre è in volo, e stare tranquillissimo.
Anche se in teoria non dovrebbe essere così.
Spero di abitare sempre meglio fuori e dentro di me


Maurizio Gulizzi


Terra di frontiera


Oy, nem, guter klezmer, dayn fild un shpil mir do lidl fun goldenem land!
(Gebirtig)

Io sono nudo perché la mia casa è un giardino, non perché sono impazzito.
E la malizia è negli occhi di chi guarda.
(Myshin)

In questo spettacolo vengono rappresentati alcuni aspetti della creatività umana. Costruire la propria casa come costruire se stessi.
C’è l’uomo costruttore della sua schiavitù, il cuore selvaggio che si chiede se c’è una casa o siamo irrimediabilmente randagi.
Qui casa significa la profondità del proprio essere, la fiducia del proprio sentire di creatura individuale, unica e irripetibile, ogni fibra dell’essere che si lascia toccare dalla vita per poter aprirsi al suo unico rifugio: la verità di se stesso per essere libero, libero come un poeta cosmico. Qui la casa è il creato, che noi sfregiamo col filo spinato, perché Il cuore è tenero, ma noi lo induriamo per apparire falsamente forti, mentre finché non saremo buoni con la nostra fragilità non gusteremo la vera gioia di vivere.
Gridano forte la ribellione a tutto ciò che allontana l’uomo dalla ricerca dell’acqua pura di sorgente per essere un cuore puro, per dissetarsi nei suoi viaggi attraverso verdi prati, rapinosi deserti o oscure notti, (e questa ribellione è la follia come nostalgia del Gan Eden, fa male, ma è la nostra struggente salute) e il desiderio che siano abbattute tutte le frontiere, perché sono loro a farci sentire stranieri e questo è troppo brutto e doloroso, poiché cosmico è il nostro canto e deve essere libero per poter respirare.
Tutto ciò che non può far sentire l’uomo a casa viene messo sotto dura critica, le false protezioni che sono prigioni così come il solipsismo dei cuori gelosi della propria purezza, per quanto autentica.
La gioia di sentirsi a casa nasce dalla scelta della semplicità di vita, dell’umiltà che sa abitare con candore e buon umore anche nel fango, perché anche toccando esso si può godere della percezione dell’amore infinito col quale è avvenuto l’atto creativo originario di Dio, dal non aver paura della propria nudità, perché è paura della verità che rende liberi, accoglienza senza pregiudizi, poiché la vergogna è dei superbi, della propria miseria che vuole farsi bellezza.
La ricerca del rifugio è tutto un anelare ai corsi d’acqua come fa la cerva nel Salmo, è la libertà del cuore dove la mitezza è grande potenza creativa, che ci restituisce le cetre appese in terra d ’esilio.
La casa del cuore è fatta di solitudini siderali, di nudità, d'acqua, così come S. Francesco d’Assisi l’ha cantata nel Cantico delle Creature, è uno specchio dove l’uomo può vedere la sua positività di creatura, che vuole sconfinare nell’innocenza, e comunione con la vita cosmica in una tenerezza che coinvolge tutti sino a far vedere il cielo dall’alto.
E attraverso la ribellione alla condizione di vivere da esiliati, innanzitutto dentro a se stessi, ci fa capire che nessun uomo deve lasciare la sua casa per trovare ciò che cerca, perché randagio è il nostro canto e scopriamo di essere come il vento e le stelle per cui solo la nuda bellezza nella sua mistica ingenuità portata a pelle ed un’esplosione di tenerezza cosmica può farci godere l’intimità di sentirci a casa.
E si dedica questo breve momento artistico a tutte le vittime di tutti gli esilii al mondo, specie a quelli ai quali sono dati con pietosi inganni, secondo i quali non ci sarebbe un vero posto per loro nel creato, ma solo un angolo in un ghetto imposto da chi non ha capito nulla di che cos’è la carità, il cuore pulsante della vita.


***


Poesie


Chissà se ci sarà
ancora un amore per me,
per te.
Se ancora
ti vorrò nel mio letto,
se ancora mi vorrai.
Volerò con qualcuno
sulla tua montagna
per cogliere quel fiore d’azzardo
d’azzurro.
Sui coni di ghiaccio
prenderò la tua mano
e ti porterò via
come un bambino
che non conosce ancora l’amore.
Per accarezzarti
sfiorare le ginocchia
tue fragili
i tuoi capelli
e aprire
i tuoi sogni.
Sento qualcosa
un ebbro d’oro
che qualcuno nasconde
sento te
e vado via.


Penso a te
e mi piace.
Penso a te
e ti amo.
Sento qualcosa
uno sguardo assente
che qualcuno muove
anche per te
e vado via.
Penso a te
e ti amo.
Penso a te
e mi piace.
Sento il tuo amore
e vado via.
Sento le tue mani
e m’accarezzo
così con te.
Penso a te
che m ’ami.
Penso a te
e mi piace.
Sento il tuo ardore
e m’accarezzo,
sento te così vicino
e ti catturo
così con me.


Paola Scatola (del Melograno)


La mia prima vera abitazione!!!!


Ricordi, dolci memorie di un’infanzia felice e spensierata, che ancora raffiorano alla mia mente, emozioni semplici ma indimenticabili.
Il grande casolare di Monte San Pietro: mamma Marianna, la mia madre adottiva, scendeva di buon mattino nella grande cucina, accudiva il camino e si accingeva a cuocere nel grande paiolo di rame la polenta, che condita con sugo di pomodoro, veniva servita come colazione a tutti i componenti della famiglia: dodici figli più lei e papà Vincenzo, che ricordo con affetto. Di lei ricordo solo il pallido viso ed i capelli neri, è poco ma è sufficiente per ricordare quanto affetto sprigionasse dal suo cuore!
C’era poi la grande stalla riscaldata solo dall'alito degli animali, era il luogo dove io ed il mio fratellastro quasi coetaneo facevamo spesso riferimento. Lì c’era la grande altalena! Irresistibile! Che voli!! Spesso incoscientemente toccavamo il soffitto con i piedi, per noi significava raggiungere un grande traguardo, ci faceva sentire felici ed orgogliosi di saper fare tanto.
Un caro amichetto che ricordo era un piccolo coniglio bianco dagli occhi rossi che abitava nel fienile. Per vederlo dovevo salire una lunga scala di legno a pioli, cosa che facevo di nascosto per non essere rimproverata, ma sempre con la complicità del mio fratellastro. Quando finalmente lo raggiungevo, lo accarezzavo dolcemente per pochi minuti, perché impaurito se ne ritornava nel suo nascondiglio. Che dire? Ognuno di noi aveva la sua abitazione anche se diverse fra loro!
Un altro modo piacevole di esprimere il senso dell’abitare, o per meglio dire di convivere, può essere quando ci relazioniamo con gli altri, in modo particolare con quelli estranei alla nostra famiglia. Può voler dire condividere uno spazio comune anche solo per poche ore, allo scopo di realizzare un interesse generale, scambiandoci esperienze gli uni gli altri, nel mio caso partecipando alla realizzazione del giornalino che state leggendo!
Questo rapporto con gli altri non solo arricchisce il nostro patrimonio culturale, ma anche quello emotivo, ambedue importanti per il nostro benessere!
Ciò che però ricerco più ampiamente è convivere con me stessa, cercando di accettare serenamente i miei limiti, le mie incertezze e considerando la mia parte interiore come un piccolo angolo dove poter mettere tutto ciò che mi appartiene: i miei desideri, i miei progetti, i miei affanni, i miei affetti e, perché no, anche qualche piccolo segreto.


Mariangela


Ritrovandoci


Amica notte,
accordando le fresche voci
sfami voglia
d'amata allegria.

Inseguendo il buio
ritrovo i miei pensieri
che il sapiente poeta
mi offre.

Innamorandomi d’aria
sfuggo le catene
delle spezzate ore,
incollando le bizzarre ciglia
ai tepori di riposanti attese.


anonimo

A te


Tra soffici drappi
e rilievi di metallo
ricordo crocefissi
dai confini dorati.

Pensandoti con serenità
le idee ti rincorrono,
in profumi diversi.

I tuoi ingegni
sono libri inediti,
adulte opere
dai lontani echi.
Sei sempre più vivo
ma il tuo cuore
non ha mai battuto.


anonimo

Tramonto di corsa


Lumi fuggono rapidi
al di sopra degli sguardi.
Nel basso scenario
alberi dalle stanche sagome
si ergono
dalla silenziosa montagna.

Spenti corpi
rilegati nel marmo
non intristiscono
emergendo le loro
verdi bandiere di vita.

Sguardi chiari
sembrano rispettare
l’unico vuoto peso
degli scarsi denari.

Inseguendoci monotoni
nell’unico spazio di tempo
ampi paesaggi
restano sempre uguali
nella solita via.

L’umanità rallenta
dileguandosi
per i propri
amati sentieri.


anonimo

Una bella esperienza


Tra le innumerevoli iniziative realizzate per il trentennale della legge Basaglia, che ha dato il via alla chiusura dei manicomi, è stato organizzato un viaggio in Argentina. Una delegazione delll'Emilia Romagna formata da utenti, volontari, educatori, infermieri, è partita per il sudamerica per testimoniare che anche le persone con disagio psichico possono avere una vita normale anche se sentono le voci e se sono rinchiusi in manicomi.
Per dare questa testimonianza e per uno scambio di esperienze, questa delegazione si è recata presso l’Università di Buenos Aires dove è avvenuto un incontro con una rappresentanza di studenti.
E sempre partendo da questa testimonianza in quei giorni ci sono stati tre cortei, uno purtroppo è stato sospeso per pioggia, gli altri sono stati divertenti e coreografici, perché erano accompagnati da canti e balli; lo slogan primo fra tutti è stato; “No ai manicomi!”.
Sono state visitate molte cose, tra quelle che più mi hanno commosso ed emozionato il palazzo e il parco della Memoria, all’interno del quale si erge un gran muro sul quale sono scolpiti i nomi delle persone scomparse, i desparecidos, gettate giù dagli aerei nel mare perché oppositori della dittatura. L’incontro con la madre di una di queste persone disperse e la partecipazione alle manifestazioni organizzate da moltissime di queste donne che ancora chiedono la verità sul destino dei propri figli, dimostrando in questo modo di condividere gli ideali per i quali le proprie creature avevano combattuto: giustizia e democrazia.
Per me il momento più bello e interessante è stata la visita allo stadio di Boca, dove ho potuto visitare un bellissimo museo con le foto e i ricordi dei più grandi calciatori quali Maradona, Batistuta, Tarantino. Vi erano anche le coppe e i trofei vinti dall’Argentina, e le impronte dei piedi dei giocatori di questa grandissima squadra.
Tra le visite più coinvolgenti c’è stata quella all’Hotel Bauen, dove i dipendenti sono stati tutti licenziati, ma anziché disperarsi hanno occupato la struttura dando inizio all’autogestione. Questo fatto mi ha insegnato che anche se ti succede una cosa brutta, devi prendere in mano la tua vita e risolvere i problemi con energia.
La visita più divertente è stata quella al Caminito, un locale nel quale si sono esibiti dei ballerini di tango.
Il clima è stato molto mite, sembrava estate, e devo anche dire che anche se ero prevenuta sul cibo, sono stata molto soddisfatta di quello che ho mangiato.
La compagnia è stata piacevole e intellettualmente stimolante.


Cristicchi


Lettera a te


Cara Sofia
lettera sarà un giorno:
solo e semplicemente
il ricordo di lui
nella mia casa.
E’ bello ripensare
ai suoi passi
su quel pavimento,
per preparare
il suo pasto
e la spesa per due.
Ora la casa è vuota.
Tutto è solitudine e solo.
Sono sola.


anonimo


***


Fare amicizia con la pazzia è come essere gay o down in un mondo di normali. E noi pazzi o gay o down o uomini di colore siamo liberi di mente perché diversi. Mentre i normali restano chiusi nei loro pensieri ottusi.


DIB



***


Lottare per andare al mare senza parare in inutili speranze per ballare le danze che ti aiutano a stare col fisico e il morale nelle stanze piene di colori e fiori e acque tricolori.


DIB



***


Stefania che sfonda Porta Pia
e da saggia non la porta via
ma la tiene per la festa dell’Epifania
che arriva Maria e la rimette sulla giusta via.


DIB


Neve


La neve:il silenzio del tempo
sugli ultimi cardi spinosi, i fiori spenti
e la campagna opaca e silente.
Solamente il silenzio
può parlare piano, in un sussurro flebile e dirci la tristezza antica del
mondo, lieta compagna delle nostre stagioni.


G.Gruppioni


Pontelagoscuro (Ferrara)


Il fiume Po appartiene al paesaggio della mia
infanzia. Il Po anche a quello della mia giovinezza
Laggiù sulle rive del fiume, viveva una bellissima ragazza
che si era innamorata di me.
Pontelagoscuro: potrei farne il simbolo
della mia, della nostra e dei miei coetanei
giovinezza a Ferrara.


G.Gruppioni


Essere abitati


Sin dalla più remota antichità l’uomo ha saputo questa verità, eppure, incessantemente, torna a scordarla, quasi che l’intera costruzione di millenni di cultura avessero il solo scopo di rimuoverla, nasconderla, dissimularla; esagero, naturalmente, perché altrettanto incessantemente quest’insopprimibile verità torna di tempo in tempo ad emergere e ad essere pronunciata: per l'uomo, dove egli abiti non ha la benché minima rilevanza, ciò che solo per lui conta è da chi l’uomo sia abitato.
E l’altra verità, inscindibile da questa: nessuno sforzo che l’uomo possa mettere in atto, nessun impegno, nessuna abnegazione, nessuna ascesi, nessuna teoria e nessuna prassi può rendere la casa dell’uomo, la casa che questi con paziente, diuturna fatica si è costruito, più invitante o più appetibile da abitare per un eventuale ospite, in primo luogo per quegli ospiti che ad ogni costo l’uomo vorrebbe avere a casa propria.
Tanto per non parlare in astratto, scegliamo come esempio uno di questi ospiti ambiti: la felicità. E parlo qui della felicità assoluta, di quella felicità che quando per caso viene a trovarci (ad abitare la nostra casa, per l’appunto) quasi ce ne scaccia fuori da quanto è totalizzante; che la nostra abitazione sia un tugurio o una reggia immensa, quando ci viene a trovare, l’abitazione a stento riesce a contenere e noi e lei, nessun altro vi troverebbe posto. Non “ la nostra felicità”, ma la felicità che in quei momenti ci fa suoi.
Ebbene, se un uomo, qualsiasi uomo, impegnasse l’intera vita a rendere la propria dimora interiore più accogliente, più linda, più saggia, più santa: un tempio di purezza e di giustizia (ovviamente secondo una qualche prefissata teoria che stabilisca cosa sia pulito, savio, santo e giusto), ebbene, non avrebbe aumentato di un’infinitesimo la probabilità che la felicità venga a visitarlo.
Diceva qualcuno (forse Clemente Alessandrino) a proposito di un’altra di questi ambiti ospiti, la divinità: “ Noi siamo stranieri a casa nostra, ma lei si trova in casa propria”.
Comprendiamoci, si tratta di due piani distinti, il primo è quello che con pazienza e con tenacia (o con menefreghismo e superficialità, o in qualunque altro possibile modo) andiamo giornalmente dipanando, per costruire il nostro io, il nostro sistema di valori, le nostre inclusioni e le nostre esclusioni, in una parola il nostro essere e la nostra interiorità. E, sia detto a chiare lettere, non potremmo in alcun modo evitare una tale costruzione, perché - per usare una metafora biologica- che ci piaccia e che non ci piaccia, i neuroni li dovremo in qualche modo collegare, o, se si preferisce: che ci piaccia e che non ci piaccia, i neuroni in qualche modo si collegheranno tra loro (e a ben vedere tra le due cose non c’è poi molta differenza, ma questo è un alto discorso che non c’è qui spazio per sviluppare).
E apparirebbe perciò del tutto velleitario ogni sforzo di “arrestare il pensiero”, di “sgombrare la mente” da qualunque “pensiero dualistico” (vedi ad esempio tanta mistica di stampo buddhista o pseudo tale), perché questo sgombrare la mente non sarebbe che un ennesimo nuovo differente modo di collegare i neuroni.
E poi vi è l’altro piano, che dal nostro punto di vista (l’unico che di fatto ci interessi) si caratterizza proprio dall’essere totalmente inattingibile da ogni e qualunque nostra iniziativa, da ogni e qualunque nostro tentativo di addomesticarlo. Esso, beninteso, non ci è affatto estraneo, anzi, in lui ci sentiamo a casa nostra come in nessun altro luogo, eppure su di lui non abbiamo alcun potere di intervento.
Quale sia ontologicamente la natura di questo secondo livello, data la sua inattingibilità, per definizione non possiamo saperlo, ma anche a saperlo, non ci potrebbe interessare di meno.
E’ questa la paradossale situazione dell’uomo: che può impiegare decenni a costruire la propria abitazione interiore, profondendo in ciò ogni sua migliore energia, ergendo le più ardite costruzioni mentali (ed è inevitabile che ciò faccia, ed ogni quietismo sarebbe solo un ennesimo ingannare se stessi), salvo accorgersi poi che nulla di ciò risulta per lui di reale giovamento, e che invece nei confronti di ciò che solo per lui conta, non può muovere un solo passo, solo aspettare di esserne visitato.


Antonio Marco Serra


"Libecciata" di Giovanni Fattori


A ispirare l’artista, sarà stato, forse, un vento sgarbato che gli ha scompigliato i capelli; o forse un movimento tellurico tutto interiore; o forse sarà stata qualche visione di battaglia, con un avamposto di soldati, pronti a resistere contro tutto (Fattori è famosissimo, per i suoi quadri di soggetto militare).
O, forse, no, è solo un quadro di cielo, terra, vegetazione, mare e basta. Libecciata, resta comunque, memorabile per la sua resa quasi psicologica del malgarbo del vento e ci fa pensare a come Giovanni Fattori, fosse capace di una sintesi pittorica esemplare.

16 settembre 2009


Home sweet home


Quando ero bambina la casa era il luogo della mia famiglia, una famiglia bellissima e capace di infondere in noi bambini una grande sicurezza. Ci siamo trasferiti spesso, ma per me dove era la mia famiglia, lì era casa.
Fino a poco tempo fa conservavo, nel luogo dove sono nata, una casetta che portava il mio nome e che per me rappresentava le radici e il baricentro. Ci tornavo ogni anno, d'estate. Si può dire che quella casa ha visto scorrere tutta la mia vita, ha visto crescere i miei figli, ha sofferto con me ferite difficili da tamponare... Quando, infine, è arrivato il momento di rinunciarvi, mi è sembrato di perdere una persona cara.
La casa della mia adolescenza, che oggi è abitata da mio fratello con la sua famiglia, ha assistito alla lunga agonia di mia madre e, in parallelo, al mio diventare "grande" a tappe forzate. Da lì sono partita per fare il "nido", cioè la casa del mio matrimonio e dei miei bambini.
Sono partita con grande entusiasmo e ci ho messo tutte le energie, ma il risultato è stato diverso da quello che mi aspettavo... La nuova famiglia non ha le caratteristiche dell'altra e soprattutto, purtroppo, non ha la stessa serenità. Non mancano gli affetti né gli agi (la casa è stata sostituita da una più grande), ma i problemi da affrontare sono stati così gravi che mi è capitato di chiedermi se valeva la pena di spendere una vita per arrivare a questo...
La risposta è una sola: non c'è niente sulla Terra che non possa esser spazzato via in un attimo. Noi possiamo solo sperare e continuare a costruire, riparare, ricostruire, finché ne abbiamo la forza. Certo che i crolli (metaforici) quando colpiscono la casa (nel senso di "home sweet home") non sono paragonabili a quelli esterni (lavoro, amicizie, interessi ecc.). Sono molto più devastanti perché la casa è il luogo dell'intimità, degli affetti più profondi, del riposo sicuro.
Che la si veda come il guscio della chiocciola o come il porto a cui tornare, è comunque sempre un "dentro" in cui non dovrebbe mai penetrare il “nemico”.
E particolarmente per la donna, "angelo del focolare" di antichissima memoria, è facile che il non riuscire a salvaguardare il nido sia sentito come un fallimento personale...
Per finire, una domanda che a volte mi faccio: che fine fanno le "case del delitto"? Come si fa a tornare a vivere nei luoghi delle famiglie sterminate, degli infanticidi, dei delitti passionali... Quando cala il sipario sui processi e finiscono i pettegolezzi sui giornali, c'è qualcuno che le compra?
E ancora, quanti di noi sanno che cosa è avvenuto nel passato fra le mura delle loro case, chi ci stava, che cosa faceva?
Forse, anche in questo caso la memoria corta degli esseri umani è provvidenziale: il dolore e la morte, perché possiamo tirare avanti, devono restare per lo più relegati in un angolino della coscienza...


Una mamma pensierosa


Un lupo vestito da pastore


1. Un parroco pieno di inquietudini.
Giacomo era un anziano parroco di montagna. Alfredo aveva la sua stessa età, ma era un cardinale. Erano cresciuti insieme e avevano frequentato le stesse scuole. Successivamente, entrambi continuarono gli studi in Seminario e furono, infine, ordinati sacerdoti. Ora si erano rincontrati dopo circa cinquant’anni. Giacomo, dopo avere fatto il cappellano per quasi trent’anni in un piccolo paese, era diventato titolare della parrocchia di un ancor più piccolo paese di montagna, e durante questi ultimi vent’anni era rimasto sempre lì. Così, durante tutto questo tempo, Sua Eminenza Alfredo aveva perso di vista il vecchio amico. O forse si era perfino dimenticato di lui. Invece Giacomo, recandosi ogni tanto alla diocesi, aveva in più occasioni costatato che il suo compagno di scuola e di seminario stava rapidamente accumulando prestigio e benemerenze: già da molto tempo aveva cominciato a prevedere che sarebbe diventato sicuramente monsignore, probabilmente vescovo e forse perfino cardinale.
"Eh, lui la testa ce l’ha buona, e ce l’ha sempre avuta. Si vedeva non solo in seminario, ma anche a scuola. La sua era senz’altro un’autentica vocazione, per me è diverso".
E si fermava a considerare quanto fossero state decisive le pressioni della sua famiglia, pressioni motivate dalla volontà di mantenere indivisa la proprietà terriera. Sempre seguendo il filo di questi pensieri, concludeva che forse i suoi erano convinti che la vocazione l’avrebbe raggiunto quando già era entrato in seminario, così come, stando a quanto certuni dicevano, una donna si innamorerebbe dell’uomo scelto per lei dai familiari quando già l’ha sposato. Lui, al contrario, si era spesso trovato a chiedere, prima di celebrare un matrimonio, se i futuri sposi erano sicuri di amarsi. E, conoscendo certi andazzi, lo chiedeva soprattutto alle donne. Così, gli sarebbe piaciuto che gli fosse stato chiesto, in seminario, se intendeva farsi prete di sua volontà. Mai accaduto. Gli era stato chiesto, semmai, se nella sua ascendenza c’erano stati dei delinquenti o, come sarebbe stato ancora peggio, dei suicidi.
Ed erano passati gli anni, quelli in seminario, poi gli anni da cappellano, poi quelli da parroco, tutti anni durante i quali non si era mai accorto d’essere stato raggiunto dalla vocazione. Provava a convincersi che la vocazione l’avesse raggiunto pian piano, un po’ di più giorno dopo giorno, senza che nemmeno se ne accorgesse.
A differenza di Alfredo, lui non aveva mai avuto la testa buona, o almeno così pensava. A scuola non riusciva a risolvere certi astrusi problemi matematici che non c’entravano niente con la vita di tutti i giorni, né riusciva a memorizzare tutte quelle date di eventi storici così lontani da lui e dalla gente vicina a lui. Così, anche in seminario non riusciva a capire il senso di molte sottili questioni teologiche. In particolare non capiva cosa esse c’entrassero con gli autentici bisogni di ogni persona. Fra questi, Giacomo comprendeva anche il diritto di ognuno al rispetto dei propri valori e delle proprie idee. Al contrario, Alfredo cominciò ad accumulare le sue benemerenze già in seminario, proprio applicandosi allo studio della teologia, della quale era uno degli studenti più diligenti.
Qualcuno potrebbe dire che Giacomo, pur essendo stato sempre valutato come uno studente assai modesto, avesse conservato un certo senso critico. Mai, però, gli avevano insegnato a chiamare senso critico questo suo atteggiamento mentale: semmai, gli avevano insegnato a chiamarlo superbia.
Alla fine, si convinse che il fatto di restare un oscuro parroco di paese fosse il giusto antidoto a questa sua propensione alla superbia. E si convinse che, al contrario, il suo brillante ex compagno di studi avesse meritato di diventare rapidamente parroco, poi vescovo e infine cardinale, sicché non provò mai alcuna invidia per lui.

2. Le vocazioni e il fumo di Satana.
Giacomo e Alfredo erano seduti insieme ormai da una mezz’ora, durante la quale il cardinale a - veva parlato a lungo di quanto fosse giustificata la preoccupazione per la scarsità delle vocazioni religiose. Nel mentre, Giacomo non poteva fare a meno di pensare alla sua personale situazione. E poi, il dubbio sulla propria vocazione non era l’unico. Quante volte si era trovato in confessionale a dare ai suoi parrocchiani consigli di dubbia ortodossia? E non solo ai parrocchiani. Ricordò di avere confessato anni addietro un turista di passaggio. Ricordava bene le parole di quell’uomo.
“Ecco, padre, lo sono un cattolico praticante, ma sono, purtroppo, anche omosessuale. Ho fatto un voto di castità, perché la pratica dell’omosessualità è condannata dalla Chiesa. Finora sono riuscito a rispettare il voto, ma ora ... ecco, ora sono molto preoccupato. Sento che sono attratto dai bambini. Attratto sessualmente, intendo. E mi chiedo ... ecco, se peccassi con un adulto, ci sarebbe ancora rimedio, ma in caso contrario ... se dovesse mancarmi la forza di resistere alla tentazione ... di peccare con un bambino?”.
Ricordava anche la risposta che gli aveva dato.
"Senta, lei ha già, e continuerà ad avere, le sue difficoltà a controllare il desiderio sessuale nei confronti dei bambini. Non le sembra troppo dover resistere anche al desiderio di avere un partner adulto, anche se fosse del suo stesso sesso? Vede, se trovasse un partner adulto adatto a lei, col quale si sentisse libero di confidarsi, potrebbe parlargli di questa sua pericolosa inclinazione e ricevere da lui anche un supporto per combatterla”.
Lo sconosciuto apparve sollevato e, quando ripartì, ringraziò il confessore, che lo invitò a ritornare a trovarlo. M a passarono giorni, poi mesi, poi anni, finché Giacomo si convinse che non avrebbe più rivisto né saputo nulla di quell’uomo. Cosa avrebbe pensato di lui l’amico cardinale, se avesse conosciuto questa vicenda in tutti i suoi particolari? No, certo, questa storia non la poteva davvero raccontare. Ma forse poteva parlare dei suoi dubbi sulla propria vocazione. E decise di farlo.
Fino a quel momento Giacomo, quelle poche volte che aveva interloquito durante i lunghi e dotti discorsi di Alfredo, lo aveva sempre chiamato “Eminenza”. Forse si aspettava che il cardinale lo invitasse a chiamarlo per nome, come ai vecchi tempi. Invece, Alfredo continuò a farsi chiamare “Eminenza”, così come continuò a parlare con il tu al vecchio compagno di seminario, senza nemmeno anteporre il “don” al nome Giacomo.
“Ecco, Eminenza, vede ... Lei mi parla della sua giusta preoccupazione per le vocazioni che scarseggiano. M a forse dovremmo chiederci anche se chi la vocazione l’ha seguita e si è fatto prete ... questa vocazione ce l’avesse davvero ...”.
Il cardinale assunse un’aria grave. "Mi meraviglio di te, Giacomo! Come puoi pensare che nostro Signore permetta a una sua creatura di continuare a credere di essere stata chiamata, se così non è stato?’’. Si sfilò gli occhiali e lo fissò dritto negli occhi. “Semmai, possiamo chiederci se, fra i tanti che vestono una tonaca o un saio, ci sia qualcuno che sa perfettamente di non avere alcuna vocazione, ma è entrato nei ranghi dei ministri di Dio al preciso scopo di diffondere nella Chiesa il fumo di Satana!”.
Dopo queste sferzanti parole, che sembravano scrutarlo dentro, don Giacomo restò muto.
“Vedi, Giacomo, già ai tempi del Seminario, tu non ti sei mai impegnato molto nello studio della teologia: ricorderai i giudizi non certo lusinghieri. Se tu ti fossi applicato un po’ più a fondo, conosceresti già le risposte a tutte le tue domande. Certo, non mi stupirebbe che queste risposte superassero il tuo intelletto. M a non a tutti è richiesto di capire; a tutti è richiesto di obbedire”.

3. Domineddio nelle vesti di un cardinale.
Giacomo continuò a tacere. Tornò a pensare a quel turista che aveva confessato anni fa. Se avesse accettato tutte le verità teologiche e morali insegnategli a suo tempo, si sarebbe comportato assai diversamente. Cosa avrebbe potuto fare ora, se non sapeva neanche il nome dell’uomo che, a suo tempo, aveva indirizzato sulla strada del peccato? E, sul filo di questo ricordo, ripensò a tante altre situazioni. Certo, se qualcuno gli avesse confessato un crimine, avrebbe dato l’assoluzione solo a condizione che la persona si fosse costituita e autodenunciata. A questo proposito, si era talvolta chiesto come si regolassero i confessori dei mafiosi. Ma, a lui, questo non era mai accaduto. Era frequente, semmai, che qualche adolescente gli confessasse d ’essersi masturbato o di aver giocato al dottore. Era frequente, semmai, che qualche padre o madre di famiglia gli confidasse di ricorrere a qualche anticoncezionale per non dover mantenere troppi figli. Si chiese quante volte poteva avere dato l’assoluzione dai peccati con troppa leggerezza, senza nemmeno chiedere il proponimento sincero di non ripeterli, magari perché giudicava che quei peccati non fossero veri peccati. Cominciò a pensare di avere sempre sbagliato. Di fronte a sé, sotto le vesti del cardinale, non vedeva più il vecchio compagno di studi, ma Domineddio nel giorno del giudizio.
Pensò che dovesse farsi forza. Che fosse giunto il momento di affrontare le sue responsabilità. Voleva innanzitutto, comprensibilmente, salvare la propria anima dalla dannazione. Già, quella dannazione in cui gli avevano insegnato a credere ben prima degli anni da seminarista; in essa lui a - veva effettivamente creduto e continuava a credere. M a a nessuno aveva mai insegnato a crederci.
E anche qui aveva sbagliato, anche su questo sarebbe stato giudicato, anche questo doveva confessare. Q uell'uomo, che tanto tempo prima aveva chiamato Alfredo, era lì, di fronte a lui, come un messo del Signore, a offrirgli una possibilità di redenzione, forse l’ultima della sua vita.
E fu così che Giacomo si ritrovò travolto dal fiume in piena formato dalle sue stesse parole. Benché fosse ormai anziano, si stupì della lucidità dei suoi ricordi, anche lontani. Non trascurò alcun particolare dei pensieri, parole e opere di tutta la sua vita di sacerdote. Sentiva la liberazione che progressivamente raggiungeva, e solo quando sentì d’essersi svuotato di tutte le sue nefandezze si fermò, chiuse gli occhi e restò in attesa.
“Guardami, Giacomo. E inchiniamoci entrambi dinanzi alla Divina Provvidenza. Vedi? Nonostante tutti i tuoi errori, la tua salvezza rientra ancora nei piani di Dio, che ha deciso di scegliere me come suo umile servitore nel guidarti in questo difficile momento. Sei pentito, Giacomo? Guardati bene dentro, prima di rispondere”.
Nonostante quest’ultimo invito del porporato, le parole eruppero dalla bocca del vecchio prete. “Sì, Eminenza, sono pentito, e desidero solo la misericordia di nostro Signore”.
“Bene, Giacomo. Qualunque peccato può essere perdonato se il pentimento è sincero. Mi occuperò personalmente della tua situazione. Chiederò al Santo Padre di concedermi un’udienza in tempi brevi”.
Dopo queste parole, il vecchio Giacomo apparve disorientato.
“Sì, Giacomo, la situazione è tale da interessare Sua Santità. In tutti questi anni, tu sei stato, per il tuo gregge, un lupo vestito da pastore, un lupo che ormai non può nemmeno contare quante pecore ha divorato. Te ne rendi conto, Giacomo?”.
Effettivamente Giacomo, pur con tutti i suoi scrupoli, non s’era mai sentito un lupo vestito da pastore. Anche questa volta le parole uscirono da sole e impetuosamente dalla sua bocca. “Eminenza, mi aiuti! Solo ora me ne accorgo, e sono disperato per il male che ho fatto”.
“Certo che ti aiuterò, Giacomo, e comprendo umanamente la tua disperazione, ma devo rammentarti che è peccato mortale disperare della salvezza. Tu troverai la tua nell’ubbidienza. Il Santo Padre deciderà del tuo destino e tu lo accetterai, qualunque esso sia”.

4. Ottimi sacerdoti e malavitosi devoti.
“Crede che verrò scomunicato. Eminenza?”.
“Cercherò di evitarlo, Giacomo. Posso dirti quello che mi sentirei di proporre io qualora Sua Santità ritenesse opportuno consultarmi. È del tutto evidente che tu non puoi continuare a operare il male come hai fatto finora. Un percorso che mi pare appropriato per te potrebbe partire dalla riduzione allo stato laicale; dopo potresti prendere i voti da frate in un monastero di clausura, e trascorrere lì, nella preghiera e nella mortificazione, i tuoi ultimi anni. E non preoccuparti di coloro che tu, finora, hai indegnamente considerato i tuoi parrocchiani. Ci sono ottimi sacerdoti che, solo a causa del loro zelo pastorale, hanno incontrato insormontabili difficoltà a esercitare il loro ministero in certi ambienti, dove sono stati fatti oggetto delle più infami calunnie. A uno di questi sarà affidata la cura delle loro anime”.
Dopo queste ultime parole del cardinale, nella mente di Giacomo cominciarono a prendere forma fisionomie di ragazzi che aveva visto nascere e crescere. Cominciò a immaginare qualcuno di loro seguire una tonaca sconosciuta prima in confessionale, poi in qualche stanza della chiusa della canonica.
Si sentì cadere nella disperazione più nera, perché capì di essere perduto, in tutti i casi. Perduto se avesse obbedito, perché avrebbe continuato a vedere quelle scene per tutti gli anni che gli restavano da vivere in monastero, scene che, prima o poi, lo avrebbero fatto disperare. Perduto se si fosse ribellato, perché si sarebbe trovato vecchio e scomunicato, con la preclusione a esercitare quel solo mestiere che bene o male fino a quel momento aveva pensato di saper fare. Solo una cosa poteva salvarlo: e qui qualcuno potrebbe dire che una qualche sorta di provvidenza sia veramente intervenuta, perché proprio quella cosa avvenne. Ma perché pensare all'intervento di una qualche sorta di provvidenza? Giacomo era vecchio, era da sempre roso dalle sue inquietudini, era logorato dall’essersi fatto sempre carico dei problemi dei suoi parrocchiani e, occasionalmente, anche di altri, come quel turista; in questo, aveva sempre dovuto destreggiarsi fra quelle pretese verità in cui era obbligato a credere e quelle evidenze, del tutto contrarie, che l’esperienza e l’esercizio del suo libero pensiero gli indicavano; ora, grazie a ll’amico Alfredo, era anche caduto nella disperazione. Giacomo non dovette più andare in un monastero a illudersi di combattere con la preghiera la propria disperazione per la sorte dei suoi ragazzi. Quella disperazione fu, però, il sentimento che lo accompagnò alla fine della sua vita.
Ignari di ciò che aspettava loro stessi e i loro figli, i parrocchiani si strinsero attorno al loro defunto parroco. Probabilmente, anche quel turista di tanti anni prima avrebbe partecipato volentieri al funerale di Giacomo: un funerale sobrio, celebrato dallo stesso Alfredo nella chiesa che era stata di Giacomo. Durante l’omelia, il cardinale ebbe cura di sottolineare ripetutamente le numerose virtù del defunto parroco, cosa che può apparire sorprendente. Ma Alfredo non aveva certo cambiato parere su Giacomo, né avrebbe mai cambiato parere su sé stesso. A differenza di Giacomo, Alfredo ritenne sempre doveroso assolvere un malavitoso pluriomicida che si dichiarasse pentito e devoto, senza mai pretendere quel segno tangibile di pentimento che Giacomo avrebbe preteso. A differenza di Giacomo, Alfredo aveva sempre accettato anche l’eventualità, o la certezza, che certi divoratori veri e propri, dopo aver digerito in confessionale qualche pecora, ne divorassero ancora un buon numero, per poi tornare in confessionale a digerirle. A qualsiasi eventualità, o anche certezza, in questo senso avrebbe sempre continuato ad anteporre l’inviolabilità del segreto confessionale e il dovere del confessore di assolvere chiunque si dichiarasse pentito.
Furono dunque tutt’altri i motivi che spinsero Alfredo a lodare l’indegno Giacomo durante l’omelia: quelle povere pecore di montagna non avrebbero mai dovuto sapere che, prima dell’arrivo di un sacerdote degno della missione, erano state per così lungo tempo affidate ad un lupo vestito da pastore.


Mel Ancony