Editoriale
L'uomo da quando è comparso
sulla terra ha sempre cercato un
luogo di rifugio dagli agenti atmosferici,
animali e nemici, dove
raccogliere i propri averi. Nutrirsi
in tranquillità e godere di momenti
di intimità. La prima forma
di abitazione è stata la grotta
seguita dalla tenda nel periodo
storico del nomadismo. La
capanna compare nel neolitico e
verso la fine di questo periodo
iniziano in oriente le prime abitazioni
in muratura. In questo
passaggio dal nomadismo alla
dimora stabile inizia l’agricoltura,
il commercio e quindi le civiltà
con leggi e a cui seguono le
prime forme di stato. Nel IV a.C.
iniziano a diffondersi case che
rispecchiano la forma della famiglia
come nucleo autonomo.
La casa dapprima luogo di rifugio
e poi di riunione famigliare
col tempo viene ad essere arricchita
di suppellettili e abbellita
sia internamente che esternamente
al punto che l’aspetto
esteriore e le dimensioni diventano
segno di ricchezza e potenza
fino ai giorni nostri.
Ora l’abitare coesiste con il concetto
di famiglia; infatti la moderna
sociologia identifica cinque
tipi di famiglia:
- nucleare, formata da una sola
unità coniugale,
- estesa, formata da una sola
unità coniugale e uno o più parenti
conviventi,
- multipla, formata da due o più
unità coniugali,
- solitaria, formata da una sola
persona,
- senza struttura coniugale, formata
da persone che convivono.
All’interno di questo numero del
faro si potrà leggere di testimonianze
dirette di questi tipi di
abitare arricchiti delle esperienze,
ricordi ed emozioni.
Buona lettura.
Fabio Tolomelli
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L’abitare per noi prima di tutto
è...
Abitare deriva dal latino habitare ‘tenere’
frequentativo di habere ‘avere’ e significa avere dimora,
vivere in un certo luogo, risiedere.
Gli aspetti dell’abitare che si possono cogliere nel tentativo di dare
una definizione sono molteplici
a seconda che ci si concentri maggiormente sull’aspetto del luogo,
della’avere e del tenere, della
relazionalità legata al luogo in cui stare
o a quello legato al significato stesso di
esistenza, del vivere necessariamente in
uno spazio.
Giampiero considera importante per
l’abitare i concetti di proprietà e quello
di residenza.
Secondo il codice civile italiano, la residenza
è il luogo in cui la persona ha la
dimora abituale (articolo 43 II comma
c.c.). Non essendo specificato che cosa
sia la dimora, il significato del termine è
quello comune: il luogo in cui una persona
si trova ad abitare. È possibile avere
più di una residenza di fatto, anche
se per qualificare una abitazione
come dimora è necessario un minimo di
stabilità. Anche se nel parlare comune i
due concetti hanno un valore analogo,
dal punto di vista giuridico la residenza
(che ha a che fare con l’abitare) non
coincide necessariamente con il domicilio
(definito come sede di affari e interessi),
che ne è quindi ben distinto.
(Nell’ambito del territorio italiano, la
residenza può essere riferita ad un solo
luogo, ai fini dell'iscrizione alle liste elettorali,
dell'abitazione che viene dichiarata
come prima casa, e di tutti gli altri
benefici fiscali e legali cui hanno diritto i
residenti in una determinata località.
Un cittadino può avere residenza in uno
o più Paesi, al di fuori dell'Italia.)
Prendere una nuova residenza cambiando fisicamente casa, non
corrisponde però automaticamente
con il sentirsi parte del nuovo luogo e della nuova comunità che si
abita. Arianna evidenza
dell’abitare il fondamentale aspetto dell’appartenenza e del possibile
senso di esclusione che una
persona può vivere cambiando territorio o anche semplicemente comunità.
Per chi abita in comunità o in gruppo appartamento il concetto
dell’abitare si articola necessariamente
con quello di vivere in gruppo, di relazionarsi e di imparare a vivere
luoghi privati come la
stanza da letto distinti dai luoghi in comune.
Gli spazi abitati possono divenire fobici e procurare ansie e paure,
schiacciare l’esistenza stessa della
persona. Il manicomio era un non-luogo, dove non era possibile abitare,
dove non era dato a p punto
habere.
Per Andrea: Il luogo che si abita è il " nido", inteso come la famiglia
e gli affetti più stretti e cari.
Non è possibile abitare in un luogo dove non ci sono affetti, dove non
ci sono persone che si prendono cura di te. Abitare è vivere con le
persone a cui si vuole bene e che ti vogliono bene. Nel '99
per la prima volta ho convissuto con una donna per qualche mese. E’
stata un esperienza abitativa
molto combattuta perché non era facile andare d’accordo. L’abitare
migliore per me è stato a
Villa B., dove sono stato per un periodo di quasi un anno e ha coinciso
con due relazioni sentimentali.
Era bello il clima per via dei rapporti tra gli ospiti e delle
relazioni che si insatauravano. Anche
nella comunità dove sono stato dopo mi sono trovato molto bene, a me
piace molto abitare in
gruppo.
Per Dino: Abitare è principalmente stare in compagnia e ricambiare
affetti come sto vivendo in
questo periodo della mia vita a Casa Mantovani. Ho una casa di
proprietà di mio padre che ho
abitato per tanti anni e che ora è libera e che mi piacerebbe tornare
ad abitare. So che è difficile
vivere da solo per via di tante incombenze di
gestione, di pagamento, di tante cose e ho
imparato che è importante avere qualcuno
che ti aiuti. Mi auguro di riuscire presto a tornare
nella mia casa e viverla serenamente
senza più problemi con i vicini come avevo
prima.
Abitare in un libro,
in un film,
in un diario,
nella fantasia,
nei sogni,
nella solitudine,
nel silenzio.
Avere un mio spazio nel mondo..
A volte è solo quello del letto
1) letto vuoto come una prigione
2) letto pieno, caotico
Per Mario: Sogni di luoghi realistici dove non c’era nessuno,
disabitati. Figure umane lontane, sullo
sfondo. Luoghi vuoti dove trovare posto. Osservare
relazioni in un luogo in cui non mi
sentivo bene. Inventare personaggi immaginari.
Luogo come contenitore di relazioni che
mi escludono, dove io non trovo posto. Se ci
sono relazioni non posso esserci io.
Per Oriano: Mi piace la montagna per i boschi,
le cascate e gli animali. Anche quest’a n no
torneremo a Courmayeur in villeggiatura
per il terzo anno consecutivo e andremo in
una casa stupenda di un benefattore. L a
gente là è diversa, più affabile e disponibile.
In un posto come quello mi piacerebbe abitare,
dove c’è profumo di erba appena t a gliata,
dove ci sono campi di grano e frutteti,
dove si beve ad una fontana di acqua fresca. In montagna mi rilasso e
faccio passeggiate.
Per Stefano: Per me abitare è gestire la propria casa e l’ideale è che
sia lontano d a lla città per
stare più tranquillo e vivere la vita secondo natura, lo però abito in
città, in un condominio vicino
ad una delle strade più trafficate di Bologna, abitò lì dal 1984.
Spesso la casa diventava per me u n
rifugio dove abitare i sogni e lo spazio dei ricordi, dove inventare
personaggi fantastici per parlare
con qualcuno. Dallo spazio interno dei sogni a quello esterno delle vie
e delle piazze. Più che la casa infatti io amo vivere la città:
ritrovare le proprie vie passeggiando
sotto i portici, andare in centro a studiare gli scorci più particolari
per poi
disegnarli. Mia mamma è nata in centro ed io, come lei, mi sento parte
della città di Bologna.
Una canzone mi viene in mente: ecco il mio abitare la città di Bologna.
Per P. : Abitare è uno sconosciuto che soggiace al tuo cospetto: esigi
rispetto da lui poiché solo lui ti
può donare quella pace di cui tu senti il necessario bisogno. Può
apparire banale, certo scontato,
ma è di vitale importanza captare le onde di questo individuo
dall'apparenza sincera, l'abitare
appunto. Egli è il tuo più grande alleato come può divenire l'acerrimo
rivale, quello senza senso
dell'onore, quello che ti vuole annientare. Abitare come rifugio e
reame di sé stessi, abitare come
sudario finale, morte del corpo e dell'animo, segno che qualcosa deve
cambiare. In ultima analisi,
l'abitare è una continua tensione tra due antitesi vitali, un qualcosa
dal sapor bipolare, una sinusoide
umorale che passa da un minimo esiziale ad un massimo funzionale: è
questo il bello del gioco
della vita, il bello del continuo gioco dell'abitare.
RTP Casa M.D.Mantovani - Laboratorio Scrittura Creativa
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L’adulto coabitante
In esclusiva dal convegno
nazionale delle “Parole Ritrovate” e AUSL Bologna
“Abitare, dove, come con chi? Esperienze e proposte"
Del 23 Maggio 2009, Bologna
Ho quarantasette anni e abito da solo da quando ne
avevo quaranta. Sono pertanto uno dei
tanti che passano dal vivere in famiglia fino all’età matura al vivere
da soli senza alcun passaggio
intermedio, a peggiorare la mia situazione c’è il fatto che io ero e
tuttora sono un utente psichiatrico.
Conosco persone che stanno vivendo ora o vivranno in futuro
l’esperienza che io ho già vissuto
e che sono esposte, o lo saranno quando avranno abbandonato la
coabitazione in famiglia, a
un disagio analogo a quello che ho vissuto io.
Il mio disagio psichico risale alla giovinezza, ma per un breve periodo
della mia vita, che va approssimativamente
dai trentadue ai quarant’anni, sono riuscito a lavorare come educatore,
dapprima
in strutture residenziali sorte dalla dimissione di utenti manicomiali
di lunga istituzionalizzazione,
poi con i minori, prevalentemente in contesti scolastici.
Il primo periodo è stato relativamente positivo. Da un punto di vista
lavorativo, il tipo di utenti
che avevo non mi mettevano in difficoltà. Da un punto di vista
abitativo, abitavo con entrambi i
genitori: il rapporto era conflittuale con entrambi, ma meno di quanto
lo sarebbe diventato con
mia madre dopo la scomparsa di mio padre.
Inoltre pur essendo ormai un uomo, continuavo a vivere in famiglia da
figlio, perché questo i miei
genitori si aspettavano da me e io non avevo ancora riflettuto
adeguatamente su questo fatto.
Per un adulto che ancora coabiti con i propri genitori, è necessario ed
anche urgente abbandonare
il ruolo di figlio. In un contesto dove il figlio è un adulto, con
questa espressione, intendo qui una
persona che, pur in età adulta, continua a demandare ai propri genitori
tutte quelle attività necessarie
per mandare avanti il nucleo familiare e, nei casi peggiori, demanda
loro anche le attività
relative alla cura dei suoi stessi spazi o interessi. È necessario che
assuma invece quel ruolo che si
potrebbe chiamare di “adulto coabitante”, e che consiste nel gestire in
prima persona i suoi spazi e
interessi individuali e nel collaborare secondo i propri mezzi,
compreso un eventuale reddito personale
da lavoro, a tutte le attività riguardanti il nucleo familiare o ad
alcune di esse.
Il periodo compreso tra i trentasette e i miei quarant’anni è quello
che ha coinciso con la coabitazione
con mia madre, rimasta vedova. Essendo mio padre deceduto, io ed i miei
fratelli divenivamo
proprietari di piccole porzioni dell’appartamento di famiglia, ma di
essi solo io ero ospite di
mia madre, proprietaria della maggioranza dell’immobile, in quanto loro
erano da tempo andati
a vivere fuori Bologna. Vista la mia non più verde età, e considerato
che, da un lato, portavo a
casa e mettevo a disposizione quel po’ che il mio lavoro di educatore
mi fruttava e che, d ’altro
lato, ero proprietario di una porzione della casa dove vivevo, sarebbe
stato logico aspettarsi che in
quella casa io avessi goduto di una relativa libertà. Invece, mia madre
non volle mai avere nessuno
per casa e, quelle poche volte che mi impuntai e feci venire qualcuno,
si andò a chiudere in camera per farmi sentire in colpa, e riuscendovi
perfettamente. Considerando che mi sarei trovato
presto o tardi a vivere da solo, chiedevo anche a mia madre, prossima
ai suoi ottant’anni, di lasciar
fare a me le pulizie di casa. Piuttosto che accontentarmi, preferiva
pagare delle signore.
Fu una delle mie sorelle a rendersi conto che non potevo più vivere con
lei senza esporre me stesso
e lei a gravi rischi. Così diede un colpo d’accelerazione alla
prospettiva
che io andassi a vivere da solo. Avrei solo dovuto mettere i miei
scarsi
risparmi insieme al resto del costo dell'appartamento, dopo di che, non
avendo affitto o mutuo da pagare, avrei dovuto riuscire a farcela ad
affrontare le spese vive col mio compenso di educatore. E le cose
iniziarono
in questo modo. Ma, poco tempo dopo, complice anche una situazione
lavorativa che mi impegnava con i minori e si rivelò più stressante,
non fui più in grado di gestire la mia abitazione, persi il lavoro e
iniziai a
collezionare, dal 2002 al 2005, un altissimo numero di ricoveri in
psichiatria.
Ho avuto anche la sfortuna di mantenere a mie spese fra il 2004 e il
2006 una persona che avevo
conosciuto durante uno dei miei ricoveri. Avevamo fatto un patto. Lui
non riusciva a trovare lavoro
perché viveva in montagna, io non riuscivo a tener dietro alla casa e
soffrivo di attacchi di panico
e agorafobia. Stabilimmo che io lo avrei accolto senza fargli pagare
alcun affitto a condizione
che lui trovasse lavoro e con il suo guadagno provvedesse alle spese
quotidiane. Così non avvenne,
perché non lavorò quasi mai. Non mi decidevo, d’altra parte a mandarlo
via, perché temevo di
dover affrontare da solo attacchi di panico che non mi permettevano
nemmeno di uscire di casa, e
da cui mi rimettevo solo grazie ad altri ricoveri. Riuscii a
togliermelo di casa solo due anni dopo e
ricorrendo a un avvocato.
Stante questa lunga storia mi sono convinto di alcune cose. C’è una
cosa che, in realtà, è consigliabile
a tutti, ma mi sembra ancor più necessaria per chi soffre di un disagio
psichico: ossia mettere in
conto che, prima o poi si vivrà da soli, e solo eventualmente con un
partner. È necessario allora,
per chi vive con i genitori, avviare un periodo di transizione in cui
smettere di vivere come figlio e
cominciare a vivere come quell’“adulto coabitante’’ che ho descritto
finora. Credo che se tutto
questo fosse stato fatto nel mio caso, a quest’ora la mia situazione
sarebbe diversa.
Temo tuttavia che l’interessato possa non porsi per tempo questo
problema e che la famiglia metta
in campo delle resistenze. I servizi nulla possono fare per quei
giovani che non seguono, non avendo
essi mai manifestato alcun disagio. Forse potrebbero, se già non lo
fanno, sensibilizzare gli
utenti e le loro famiglie sull’opportunità di questa fase intermedia
che ho definito dell’“adulto coabitante”.
Mei Ancony [Mario Mazzocchi]
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Vivere e abitare
"Abitare" per gli ospiti dell'Ottonello
Una collega infermiera C/O il reparto P.Ottonello ha
così proceduto con gli utenti ricoverati; in soldoni ha
somministrato una sorta di quesito esplicativo sull'argomento:"
ABITARE" e cioè:
Quale è la vostra abitazione reale.
Quella che vorreste avere e quale significato date alla parola abitare?
La nostra abitazione reale è un appartamento sito al quarto piano e
composto: due camere
da letto, un salone, un cucinotto,un bagno, due "sgombrini" e un
terrazzo.
Dove abito ci sto bene anche se mi piacerebbe avere un bagno in più e
non nascondo il
desiderio di un attico panoramico.
Alla parola abitare do un significato di protezione.
B.S.
Abito a Bologna e sono stanco, è difficile ogni giorno
alzarsi e unirsi
al "branco" abitare in
tanti luoghi sarebbe fantasia, abitare in una casa che sia di altri o
la mia,da un senso logico
e compiuto, un senso di benessere e allegria, forse fittizia, questo è
vero; perchè per abitare
non servono mattoni costruiti col pensiero.
Abito in me stesso, non mi sono sposato, la "casa" più bella non è
quella con il prato, sento
di dirlo con le chiavi nella "porta": "Ama te stesso e fallo un'altra
volta"
M.S.
La mia abitazione può essere considerata:
STUPENDA-TRISTE, QUASI IRREALE, STUDIATA IN UN MOMENTO DELLA VITA
DIVERSO.
Oggi vorrei vivere su un'isola in una capanna e godermi la natura.
Abitare per me ora
vuol dire VIVERE.
A.M.
Noi, io e mia madre, abitiamo in un condominio
preferiremmo una casetta isolata dalla
città. Per noi abitare è essenzialmente Esserci
P.G. Ida
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Abitare: ieri e oggi
Il confronto salta subito agli occhi, questa la prima
esclamazione da parte degli utenti del
centro diurno per anziani di san Biagio, quando si sono visti porre
come quesito le differenze
sul modo di abitare di oggi rispetto a quello di ieri. Qualcuno ha
esordito con una
frase d ’effetto che ha subito riscaldato gli animi, di chi soprattutto
ha vissuto in condizioni
più disagiate: oggi il benessere, ieri la miseria!
Le differenze tra ieri e oggi, riferito all’abitare, sono molto marcate
e nette. Gli anziani che
frequentano San Biagio, provengono quasi tutti da una realtà,
contadina, per cui i racconti
di ciascuno di loro si somigliano molto, lo stile di vita era per lo
più similare.
La camera da letto è il luogo dove ci si può rifugiare per distendersi
un po’ per restare soli
con noi stessi, quando sentiamo l’esigenza di avere silenzio accanto a
noi e per riflettere.
Una volta tanta privacy non esisteva, al posto della cameretta c’erano
le camerate, si dormiva
tutti insieme con fratelli e sorelle e una volta si sa le famiglie
erano molto numerose.
In certi casi i letti venivano a mancare così due sorelle dividevano lo
stesso letto.
Si parla di letto, ma nulla a che vedere con quelli di oggi una volta i
materassi erano
riempiti con le foglie secche.
Chi di notte non si alza almeno una volta per andare in bagno, niente
di più semplice oggi
ma ieri bisognava andare fuori dalla casa. Il bagno si trovava vicino
al letamaio delle bestie,
era più che altro un gabbiotto rivestito con tela da sacco e la posto
del water c’era
una buca profonda nel terreno, che una volta piena veniva vuotata dal
contadino e il
contenuto disperso nei campi. In estate può essere piacevole andare
fuori all’aperto dove
l’aria è fresca ma dubito che in inverno sia altrettanto piacevole.
Al posto dell’odierna vasca da bagno c’era una tinozza di legno, che
nei periodi freddi veniva
posta nella stalla delle mucche, certamente era il posto più caldo per
fare il bagno le
case erano molto fredde e non sempre c’era la legna per scaldarle.
L’acqua per fare il bagno
veniva presa dal pozzo e scaldata sul fuoco, in casa non esistevano le
tubazioni dell’acqua
figuriamoci l’acqua calda.
C’è stato un periodo in cui la case non erano neanche più nostre.
Al tempo della guerra i tedeschi si servivano delle nostre case e ci
trattavano come dei servi.
Dovevamo cucinare per loro e pretendevano i nostri stessi letti per
poter dormire, ma
erano ben capaci anche di altre atrocità. La casa è il centro della
nostra vita, attorno la
tavola la famiglia si riunisce dopo un giorno di lavoro e fatiche, per
condividere la gioia di
volersi bene.
Gli anni della guerra per fortuna son passati e così ci siamo
riappropriati delle nostre case
a differenza di ieri oggi siamo circondati da tanti comfort, che
rendono le nostre case belle
da viverci.
ospiti Centro Anziani San Biagio (Casalecchio)
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Io sono la mia casa
CASA: Nido, Dormitorio, Stanza, Villa, Bugigattolo,
Reggia, Castello etc. etc.
Vado a CASA! pensiero rassicurante, angoscioso,
triste, gioioso, avvilente, speranzoso, doveroso.
Trovarsi a CASA: che Meraviglia, che sollievo, il
profumo di CASA MIA non perchè la possiedo e
l'ho comperata ma perchè è il mio luogo segreto,
solo mio, ove posso ESSERE ciò che SENTO!
Sono una persona che ama mettere radici, la
mia casa, la mia famiglia, i miei amici, i luoghi
che frequento abitualmente scelti e rifrequentati
perchè c'è qualcuno che mi regala un sorriso e
anche questo mi fa sentire a Casa.
Da giovane, avevo tanti progetti e idee, sogni di
come avrei creato la Mia Casa: colorata, calda,
accogliente, fiori, musica e non solo per Me, aperta
al Mondo e chiusa nel Mio cuore ove custodirne
il calore e il dolce pensiero di ritrovarla.
Ho lasciate tante case, che mi sono mancate,
quella da bambina quando
ci siamo trasferiti da un paese
del ferrarese per venire
a Bologna per avere più
possibilità di studio, lavoro;
poi quando mi sono sposata,
ma nella casa dei miei
genitori potevo tornare e
ritrovare i miei odori, profumi
e ricordi e costruirne degli
altri insieme ed era un
arrivederci.
Poi...CASA MIA con mio
marito, mia figlia (la Mia
famiglia) e casa, quante
volte l'ho dipinta, cambiando
i colori, la posizione
dei mobili, aggiungevo un ninnnolo, la facevo
crescere con Noi e gli amici più cari e tutto ciò
che circondava (il nostro territorio era Casa).
La scelta dolorosa di andarcene (io e mia figlia)
e per anni ne ho sofferto la mancanza e i ricordi
che Vi avevamo lasciato e così di Nuovo un'altra
casa, e ancora amore e colori e vita gioiosa attorno,
affetto e divertimento, attimi di spensierata
libertà e questa volta anche Nido ove io e
mia figlia ci accoccolavamo a parlare, discutere,
ridere... Insieme (nonostante il doloroso addio al
mio sogno di una casa e una famiglia per sempre).
Poi di nuovo, dovevamo dividerci per permetterci
di crescere ambedue libere dall'altra
per ritrovare un rapporto nuovo e adulto, ho
lasciato la casa, i mobili, i nostri ricordi a Lei, più vivessi non
avrei più perso
niente la MIA CASA sarebbe stata sempre con
ME.IO ero il mio nido colorato di speranze, di
gioia o nero di dolore, ero il mio focolare e ali di
libertà, ero un buco ove nascondermi inaccessibile,
mai più addii.
Da sei anni convivo con il mio amato compagno,
Daniele e per un bisogno reale di cambiamento
per la crescita dei suoi figli, sono cominciati
a fiorire progetti di cambiamenti in Casa
e... ho guardato con occhi diversi questo luogo
ove ho dormito, gioito, pianto, sognato e riposato
e ho Sentito una leggerezza nel mio cuore e il
desiderio di renderLa Mia, di lasciarci l'impronta
del mio viverci e di avere di nuovo il colore, i
sogni e la dolce fatica che ti regala sorrisi di soddisfazione
guardando la casa cambiare.
Progetti... quanto tempo li ho allontanati da me
e ora di nuovo il Coraggio di lasciare la Paura
ed amare di nuovo il Ritorno
a CASA con la consapevolezza
e l'accettazione che può
non essere quella per sempre
ma parlerà di Te, Voi e racconterà
di quella che sei, siete...
è un Regalo Immenso
quello che mi sto facendo:
Sognare, creare e credere di
nuovo.....
Rimane che IO SONO LA MIA
CASA, tutto quello che mi
serve è dentro di Me ma Ora
la Porta è APERTA...
anonimo
|
Il tabacco delle formiche
C'era allora chi fumava troppo: eravamo in montagna, ma
il posto era un manicomio
che echeggiava il mare. Fu Lucio a inventare il tabacco per le
formiche, fumare, non
fumare, questo è il problema, la voce del mare rieccheggiava nelle
stanze, ma in realtà
era in manicomio.
Dunque come le porte della percezione era la nave dei folli oh!!
Il formicaio era pieno di tabacco; Oh!! Marinaio prendi la formica che
assestata intorno
al palo ti dà vita. Madre Rita? E la formica fumava, fumava tutto
l’incenso di questo
mondo così diverso, perso su una nave: la nave dei folli.
Ci trovammo in campagna, fra le piante e gli alberi e campi arati, le
foglie d’autunno
cadevano, svolazzando, danzando in un vortice di vento. M a le stanze
chiuse. Era un
manicomio anche quello. Oh! Nave, nave dei folli, portali frementi
sugli stupendi
armoniosi colli.
Giorgia e Lucio
(tratto liberamente da un brano dei Doors)
***
C’era la formica, navigava piano nel mare di acqua
della pozzanghera davanti alla villa,
navigando navigando un giorno annegò tristemente ahimé, l’altra sua
compagna di
sventura si salvò e proseguì il suo tragitto verso la montagna di pane
e di briciole che le
assicurò una vita agiata e senza problemi di carestia.
Lucio
Casa
Casa triste,
casa assolata,
casa dimenticata.
Cerco la mia casa
nel muschio verde
del profondo respiro.
Casa dell’anima...
G.B.
|
***
Il cuore abita dentro di me,
dentro il mio cuore c’è spazio
per tutti, ma vorrei che la mia
casa fosse solida, come pure
le sue fondamenta.
Luisa Paolucci Delle Roncole
***
Lei è sangue e prelievi dei ricordi,
rifrange nei flutti il suo nome.
Tutto tace, solo gli zampilli rumoreggiano.
L’anima si irradia, la mente cerca
soluzioni, ciò che l’anima contiene è pace,
ciò che ha fuoriesce non controlla più il nostro
bene. La nostra mente continua a lavorare
è un arrovellio!
Come se la vera pace, quella con noi stessi,
non la meritassimo mai.
Luisa Paolucci Delle Roncole
***
Rapida, istantanea, fumosa
è la parigina.
Come una breve veloce sigaretta.
Con una si viene.
Con l’altra si va.
Luisa Paolucci delle "Roncole"
Casa Cucina
Se guardi dalla finestra, tutto il mondo sembra tuo. Se
sei fuori dalla tua casa, non
sembra di aver niente. La stanza più bella è proprio la tua cucina. La
vivi, la godi, la
ami, la condividi. Quando ti sembra di essere sola nella tua casa, vuol
dire che non
ami. Se ami, invece, vivi bene la casa. Chi la possiede può ritenersi
fortunato, chi non
ce l’ha ma è in affitto, anche lui può ritenersi fortunato, solo, però,
se la vive come
fosse la sua.
Luisa Paolucci delle "Roncole"
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Neve
La neve: il silenzio del tempo sugli ultimi cardi
spinosi, i fiori spenti e la campagna
opaca e silente. La mia ombra sulla neve è così grigia e così sola.
Solamente il silenzio può parlare piano, in un sussurro flebile e dirci
la tristezza antica del
mondo, lieve compagna delle nostre stagioni
Giovanni Gruppioni - Montecalderaro
Ricordi di gioventù -
Pontelagoscuro (Ferrara)
Il fiume Po appartiene al paesaggio della mia infanzia.
Il Po anche a quello della miagiovinezza laggiù sulle rive del fiume
viveva una bellissima ragazza che si era innamorata
di me. Pontelagoscuro: potrei farne il simbolo della mia, della nostra
e dei miei
coetanei, giovinezza a Ferrara!
Giovanni Gruppioni - Montecalderaro
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Tramonto
Il bacino di luce guarda il tramonto fluido
sull’acqua tra rive che ignoravamo,
e tristezze che vivono
il lento sogno di un’agonia felice.
Così, discreto potresti celarti anche tu
tra queste ombre spente e segretamente
vivere il più misterioso attimo di vita.
Giovanni Gruppioni - Montecalderaro
Fiori bianchi
Paiono gigli di neve
i pochi fiori gettati
sul piano inerte
della carta,
paesaggio triste
di deserti giardini
dove il vento sussurra
ormai parole d’autunno.
Come l’ultima stagione
della vita, parrebbe
un frullo d ’ali
ancora chiaro,
ma già sfiorato
dal candore eterno
del silenzio
Giovanni Gruppioni - Montecalderaro
Felicità
Questo io chiamo felicità: tendersi in avanti,
scorgere l’azzurro della lontananza serale
e dimenticare per alcune ore
la fredda promiscuità e
la noia del quotidiano.
Giovanni Gruppioni - Montecalderaro
|
Poesia
Soffrire il dolore
Assaporare la gioia
Trepidare l’attesa
Amare l’amore
Vivere il presente
Sognare il futuro
Abitare la vita
Teresa
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Abitare... l’abitare
L’abitare per me è sempre stato associato ad un
progetto da realizzare. Molto, molto
tempo fa chiedevo, alterando i decibel della mia voce, un’abitazione
dove potessi
collegarmi a me stessa in solitudine. Anche oggi sento questa esigenza
necessaria, una
solitudine voluta, cercata proprio per questa funzione.
Credo che ci siano poche persone che abbiano capito questa mia casa.
Non voglio avere una casa perché è bello andare in giro a scegliere il
colore delle tende;
è qualcosa di più intimo, cioè il bisogno di uno spazio tutto mio da
organizzare e da
vivere poiché noi entriamo nella vita in un milione di posti, case,
terrazze da calpestare
e siamo tutti costituiti dello stesso milione di modi di fare, dire,
vivere e “ calpestare”.
lo vorrei arrivare ad essere me stessa anche solo per una metà di
questi posti.
Ora condivido una casa con altre sei persone e quando mi ritiro nella
mia camera sento
che non è neppure quello il mio posto; è vero, sono stati molto buoni
con me
assegnandomi una camera da sola, dato che le altre ragazze condividono
la loro stanza
con altre.
Paradossalmente nella casa dei miei nonni, una casetta a schiera a
Pianoro Nuovo, dove
non mi sarei mai sentita a casa mia, una volta ho provato una strana
empatia tra me,
una mela e il locale della cucina nella quale mi trovavo. Stavo lì,
pelando la mela in
solitudine ed ho sentito un’affinità positiva con il luogo che mi
circondava e con il quale
stavo creando un feeling.
Vorrei questo, vorrei riuscire a stare bene nei luoghi dove sto e
non solo essere una comparsa senza sentimenti.
Silvia Rindello
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Abitare a New York
Metropol: New York , vorrei visitarla per incontrare la
gemella della mia vita che
interrompesse quel vortice di solitudine dove mi trovo invischiato in
parte per mia colpa,
in parte per colpa di altri. Potrebbe essere una persona di colore
piccola nell’aspetto, ma
grande nel portamento e nell’anima, bandita dal gruppo, maltrattata a
causa del
razzismo.
Ogni giorno nel grande circo che è la vita chiedo al Signore la grazia
di arrivare a sera
con un’esperienza di vita in più e accettando tutto da tutti... anche
le persone più
insignificanti... i vecchi in primo luogo.
Questa donna che ho immaginato, potrebbe far sbocciare i fiori di una
nuova
Primavera, essere un inno alla vita, alla gioia come nella “ Pastorale”
di Beethoven.
Vorrei chiedere al supremo autore della vita e del cosmo che mi faccia
amare quelle dita
d’ebano con le unghie rosee; quasi un capolavoro in miniatura.
Dita d’ebano che si intrecciano come in una preghiera perché il loro
piccolo mondo è un
riflesso del grande mondo. Che mi facciano levare il capo verso il
cielo e intonare una
preghiera perenne come la luce che accompagnò la mia uscita in questo
mondo. Luce
pervasa da un crisma e un carisma che accompagnano ogni essere che
viene al mondo.
Giovanni Marcheselli
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Abitare vuol dire convivere
Che cosa significa “ abitare”? Abitare può essere il
sinonimo di vivere: cioè avere un
posto in cui dormire, mangiare e tutto il resto.
Al mondo c’è chi abita nella casa propria, ma c’è anche chi non ha una
casa, oppure
persone (le quali io ho conosciuto) che nemmeno sanno dove sta la loro
casa, perché
quasi tutta la giornata la passano fuori, e tutto questo perché?
Il problema è che non sempre si riesce a convivere, perché abitare è
anche convivere.
Erika
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L’abitare
Viviamo insieme da oltre tre anni, c’è chi va, c’è chi
viene, ma ricordo quando te ne
andasti tu. Era bello nella nostra comunità alloggio dividere la camera
con te: ti amavo
dal profondo del cuore, tutto qui.
Ora ho una nuova compagna: Claudia, che accetto ma che non sei tu.
Era Rossella la mia tinteggiatrice d’anima, la mia bambina. Dott.
Pozzi: avete commesso
un aborto e nemmeno ve ne siete resi conto.
Proprio a lei signora Concetta in questa lettera chiedo di lei, della
mia Ros.
Si pasteggia qui tutti insieme, voleggiando, rispettando, corteggiando
ognuno le proprie
attività esterne. Quando si ritorna non si riparte più, questo qualcuno
mi disse quando
avevo due anni, il mio caro nonno.
Chiudo questa lettera dicendoti grazie per avermi accettata: qualcuno
lo fece, qualcuno
non lo fece mai.
Paola Scatola (del Melograno)
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Abitare
L’abitare è il verbo di un azione, e questa azione ora
cerco di spiegarvi, descrivendo a
cosa mi fa pensare e cosa "abitare" mi fa sentire: Ora io vivo nella
mia stanza e
intendo per ora il luogo in cui riesco a vivere di più, a riposarmi e a
relazionarmi tra
musica e specchio, tra letto e armadio. La mia casa mi evoca una
sensazione di libertà,
stando tra alberi molto alti e tra giardini varii, rimbalza la mia
“fantasia", cioè
immagino la mia casa una villetta a sé; il problema è che non è così,
io abito con altri
inquilini del palazzo, e questa mia fantasia all’incontrarsi si ferma e
torna la proiezione
tridimensionale della mia camera.
La mia camera mi fa sentire un poveretto, perché tutto quello che vi si
trova, è di poco
valore: solo che per me è il contrario e dunque sapendo la verità
pulisco, e pulendo mi
accorgo che sì, all’inizio della loro vita le cose della mia stanza
erano di valore, ma che
poi anche le cose costose si usurano e dimezzano di valore.
Concordo che la vita è una sola e questo lo si capisce, ma per
rendersene conto
veramente, bisognerebbe saper invecchiare, cosa lontana anni luce e
irraggiungibile col
GPS da me.
Le cose a cui siete attaccati con una emozione sono le più vere.
Maurizio Gulizzi
Abitare dentro e fuori di me
Veramente io a fuggire avevo provato, poi il richiamo
della semiresidenza è stato più
forte, e mi ha riportato a riabitarla, incrementando le attività, e a
lavorare in una cooperativa sociale chiamata “Il Martin Pescatore”. Due
volte alla settimana a riparare
biciclette.
Non si sa mai se abiterai in futuro un posto oppure un altro, se avrai
la casa in centro
o in periferia; abitare secondo me si svolge all'interno, dentro me
stesso.
Quindi io potrei stare più comodo su di una panchina che sul mio letto
da 400 euro,
oppure potrebbe succedermi di stare sull’aereo, mentre è in volo, e
stare tranquillissimo.
Anche se in teoria non dovrebbe essere così.
Spero di abitare sempre meglio fuori e dentro di me
Maurizio Gulizzi
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Terra di frontiera
Oy, nem, guter klezmer, dayn fild
un shpil mir do lidl fun goldenem land!
(Gebirtig)
Io sono nudo perché la mia casa è un giardino, non perché sono
impazzito.
E la malizia è negli occhi di chi guarda.
(Myshin)
In questo spettacolo vengono rappresentati alcuni
aspetti della creatività umana.
Costruire la propria casa come costruire se stessi.
C’è l’uomo costruttore della sua schiavitù, il cuore selvaggio che si
chiede se c’è una casa
o siamo irrimediabilmente randagi.
Qui casa significa la profondità del proprio essere, la fiducia del
proprio sentire di
creatura individuale, unica e irripetibile, ogni fibra dell’essere che
si lascia toccare dalla
vita per poter aprirsi al suo unico rifugio: la verità di se stesso per
essere libero, libero
come un poeta cosmico. Qui la casa è il creato, che noi sfregiamo col
filo spinato, perché
Il cuore è tenero, ma noi lo induriamo per apparire falsamente forti,
mentre finché non
saremo buoni con la nostra fragilità non gusteremo la vera gioia di
vivere.
Gridano forte la ribellione a tutto ciò che allontana l’uomo dalla
ricerca dell’acqua pura
di sorgente per essere un cuore puro, per dissetarsi nei suoi viaggi
attraverso verdi prati,
rapinosi deserti o oscure notti, (e questa ribellione è la follia come
nostalgia del Gan
Eden, fa male, ma è la nostra struggente salute) e il desiderio che
siano abbattute tutte
le frontiere, perché sono loro a farci sentire stranieri e questo è
troppo brutto e doloroso,
poiché cosmico è il nostro canto e deve essere libero per poter
respirare.
Tutto ciò che non può far sentire l’uomo a casa viene messo sotto dura
critica, le false
protezioni che sono prigioni così come il solipsismo dei cuori gelosi
della propria purezza,
per quanto autentica.
La gioia di sentirsi a casa nasce dalla scelta della semplicità di
vita, dell’umiltà che sa
abitare con candore e buon umore anche nel fango, perché anche toccando
esso si può
godere della percezione dell’amore infinito col quale è avvenuto l’atto
creativo originario
di Dio, dal non aver paura della propria nudità, perché è paura della
verità che rende
liberi, accoglienza senza pregiudizi, poiché la vergogna è dei superbi,
della propria
miseria che vuole farsi bellezza.
La ricerca del rifugio è tutto un anelare ai corsi d’acqua come fa la
cerva nel Salmo, è
la libertà del cuore dove la mitezza è grande potenza creativa, che ci
restituisce le cetre
appese in terra d ’esilio.
La casa del cuore è fatta di solitudini siderali, di nudità, d'acqua,
così come S. Francesco
d’Assisi l’ha cantata nel Cantico delle Creature, è uno specchio dove
l’uomo può vedere la
sua positività di creatura, che vuole sconfinare nell’innocenza, e
comunione con la vita
cosmica in una tenerezza che coinvolge tutti sino a far vedere il cielo
dall’alto.
E attraverso la ribellione alla condizione di vivere da esiliati,
innanzitutto dentro a se
stessi, ci fa capire che nessun uomo deve lasciare la sua casa per
trovare ciò che cerca,
perché randagio è il nostro canto e scopriamo di essere come il vento e
le stelle per cui
solo la nuda bellezza nella sua mistica ingenuità portata a pelle ed
un’esplosione di
tenerezza cosmica può farci godere l’intimità di sentirci a casa.
E si dedica questo breve momento artistico a tutte le vittime di tutti
gli esilii al mondo,
specie a quelli ai quali sono dati con pietosi inganni, secondo i quali
non ci sarebbe un
vero posto per loro nel creato, ma solo un angolo in un ghetto imposto
da chi non ha
capito nulla di che cos’è la carità, il cuore pulsante della vita.
***
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Poesie
Chissà se ci sarà
ancora un amore per me,
per te.
Se ancora
ti vorrò nel mio letto,
se ancora mi vorrai.
Volerò con qualcuno
sulla tua montagna
per cogliere quel fiore d’azzardo
d’azzurro.
Sui coni di ghiaccio
prenderò la tua mano
e ti porterò via
come un bambino
che non conosce
ancora l’amore.
Per accarezzarti
sfiorare le ginocchia
tue fragili
i tuoi capelli
e aprire
i tuoi sogni.
Sento qualcosa
un ebbro d’oro
che qualcuno nasconde
sento te
e vado via.
Penso a te
e mi piace.
Penso a te
e ti amo.
Sento qualcosa
uno sguardo assente
che qualcuno muove
anche per te
e vado via.
Penso a te
e ti amo.
Penso a te
e mi piace.
Sento il tuo amore
e vado via.
Sento le tue mani
e m’accarezzo
così con te.
Penso a te
che m ’ami.
Penso a te
e mi piace.
Sento il tuo ardore
e m’accarezzo,
sento te così vicino
e ti catturo
così con me.
Paola Scatola (del Melograno)
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La mia prima vera abitazione!!!!
Ricordi, dolci memorie di un’infanzia felice e
spensierata, che ancora raffiorano alla mia
mente, emozioni semplici ma indimenticabili.
Il grande casolare di Monte San Pietro: mamma Marianna, la mia madre
adottiva,
scendeva di buon mattino nella grande cucina, accudiva il camino e si
accingeva a
cuocere nel grande paiolo di rame la polenta, che condita con sugo di
pomodoro, veniva
servita come colazione a tutti i componenti della famiglia: dodici
figli più lei e papà
Vincenzo, che ricordo con affetto. Di lei ricordo solo il pallido viso
ed i capelli neri, è
poco ma è sufficiente per ricordare quanto affetto sprigionasse dal suo
cuore!
C’era poi la grande stalla riscaldata solo dall'alito degli animali,
era il luogo dove io ed il
mio fratellastro quasi coetaneo facevamo spesso riferimento. Lì c’era
la grande altalena!
Irresistibile! Che voli!! Spesso incoscientemente toccavamo il soffitto
con i piedi, per noi
significava raggiungere un grande traguardo, ci faceva sentire felici
ed orgogliosi di saper
fare tanto.
Un caro amichetto che ricordo era un piccolo coniglio bianco dagli
occhi rossi che abitava
nel fienile. Per vederlo dovevo salire una lunga scala di legno a
pioli, cosa che facevo di
nascosto per non essere rimproverata, ma sempre con la complicità del
mio fratellastro.
Quando finalmente lo raggiungevo, lo accarezzavo dolcemente per pochi
minuti, perché
impaurito se ne ritornava nel suo nascondiglio. Che dire? Ognuno di noi
aveva la sua
abitazione anche se diverse fra loro!
Un altro modo piacevole di esprimere il senso dell’abitare, o per
meglio dire di convivere,
può essere quando ci relazioniamo con gli altri, in modo
particolare con quelli estranei alla nostra famiglia. Può voler dire
condividere uno spazio comune anche solo per poche ore, allo
scopo di realizzare un interesse generale, scambiandoci esperienze
gli uni gli altri, nel mio caso partecipando alla realizzazione del
giornalino che state leggendo!
Questo rapporto con gli altri non solo arricchisce il nostro
patrimonio culturale, ma anche quello emotivo, ambedue
importanti per il nostro benessere!
Ciò che però ricerco più ampiamente è convivere con me stessa,
cercando di accettare serenamente i miei limiti, le mie incertezze
e considerando la mia parte interiore come un piccolo angolo
dove poter mettere tutto ciò che mi appartiene: i miei desideri, i miei
progetti, i miei
affanni, i miei affetti e, perché no, anche qualche piccolo segreto.
Mariangela
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Ritrovandoci
Amica notte,
accordando le fresche voci
sfami voglia
d'amata allegria.
Inseguendo il buio
ritrovo i miei pensieri
che il sapiente poeta
mi offre.
Innamorandomi d’aria
sfuggo le catene
delle spezzate ore,
incollando le bizzarre ciglia
ai tepori di riposanti attese.
anonimo
A te
Tra soffici drappi
e rilievi di metallo
ricordo crocefissi
dai confini dorati.
Pensandoti con serenità
le idee ti rincorrono,
in profumi diversi.
I tuoi ingegni
sono libri inediti,
adulte opere
dai lontani echi.
Sei sempre più vivo
ma il tuo cuore
non ha mai battuto.
anonimo
Tramonto di corsa
Lumi fuggono rapidi
al di sopra degli sguardi.
Nel basso scenario
alberi dalle stanche sagome
si ergono
dalla silenziosa montagna.
Spenti corpi
rilegati nel marmo
non intristiscono
emergendo le loro
verdi bandiere di vita.
Sguardi chiari
sembrano rispettare
l’unico vuoto peso
degli scarsi denari.
Inseguendoci monotoni
nell’unico spazio di tempo
ampi paesaggi
restano sempre uguali
nella solita via.
L’umanità rallenta
dileguandosi
per i propri
amati sentieri.
anonimo
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Una bella esperienza
Tra le innumerevoli iniziative realizzate per il
trentennale della legge Basaglia, che ha
dato il via alla chiusura dei manicomi, è stato organizzato un viaggio
in Argentina. Una
delegazione delll'Emilia Romagna formata da utenti, volontari,
educatori, infermieri, è
partita per il sudamerica per testimoniare che anche le persone con
disagio psichico
possono avere una vita normale anche se sentono le voci e se sono
rinchiusi in manicomi.
Per dare questa testimonianza e per uno scambio di esperienze, questa
delegazione si è
recata presso l’Università di Buenos Aires dove è avvenuto un incontro
con una
rappresentanza di studenti.
E sempre partendo da questa testimonianza in quei giorni ci sono stati
tre cortei, uno
purtroppo è stato sospeso per pioggia, gli altri sono stati divertenti
e coreografici, perché
erano accompagnati da canti e balli; lo slogan primo fra tutti è stato;
“No ai
manicomi!”.
Sono state visitate molte cose, tra quelle che più mi hanno commosso ed
emozionato il
palazzo e il parco della Memoria, all’interno del quale si erge un gran
muro sul quale
sono scolpiti i nomi delle persone scomparse, i desparecidos, gettate
giù dagli aerei nel
mare perché oppositori della dittatura. L’incontro con la madre di una
di queste persone
disperse e la partecipazione alle manifestazioni organizzate da
moltissime di queste donne
che ancora chiedono la verità sul destino dei propri figli, dimostrando
in questo modo di
condividere gli ideali per i quali le proprie creature avevano
combattuto: giustizia e
democrazia.
Per me il momento più bello e interessante è stata la visita allo
stadio di Boca, dove ho
potuto visitare un bellissimo museo con le foto e i ricordi dei più
grandi calciatori quali
Maradona, Batistuta, Tarantino. Vi erano anche le coppe e i trofei
vinti dall’Argentina,
e le impronte dei piedi dei giocatori di questa grandissima squadra.
Tra le visite più coinvolgenti c’è stata quella all’Hotel Bauen, dove i
dipendenti sono stati
tutti licenziati, ma anziché disperarsi hanno occupato la struttura
dando inizio
all’autogestione. Questo fatto mi ha insegnato che anche se ti succede
una cosa brutta,
devi prendere in mano la tua vita e risolvere i problemi con energia.
La visita più divertente è stata quella al Caminito, un locale nel
quale si sono esibiti dei
ballerini di tango.
Il clima è stato molto mite, sembrava estate, e devo anche dire che
anche se ero
prevenuta sul cibo, sono stata molto soddisfatta di quello che ho
mangiato.
La compagnia è stata piacevole e intellettualmente stimolante.
Cristicchi
|
Lettera a te
Cara Sofia
lettera sarà un giorno:
solo e semplicemente
il ricordo di lui
nella mia casa.
E’ bello ripensare
ai suoi passi
su quel pavimento,
per preparare
il suo pasto
e la spesa per due.
Ora la casa è vuota.
Tutto è solitudine e solo.
Sono sola.
anonimo
|
***
Fare amicizia con la pazzia è come essere gay o down in
un mondo di normali.
E noi pazzi o gay o down o uomini di colore siamo liberi di mente
perché diversi.
Mentre i normali restano chiusi nei loro pensieri ottusi.
DIB
***
Lottare per andare al mare senza parare in inutili
speranze per ballare le danze che ti
aiutano a stare col fisico e il morale nelle stanze piene di colori e
fiori e acque tricolori.
DIB
***
Stefania che sfonda Porta Pia
e da saggia non la porta via
ma la tiene per la festa dell’Epifania
che arriva Maria e la rimette sulla giusta via.
DIB
|
Neve
La neve:il silenzio del tempo
sugli ultimi cardi spinosi, i fiori spenti
e la campagna opaca e silente.
Solamente il silenzio
può parlare piano, in un sussurro flebile e dirci la tristezza antica
del
mondo, lieta compagna delle nostre stagioni.
G.Gruppioni
Pontelagoscuro (Ferrara)
Il fiume Po appartiene al paesaggio della mia
infanzia. Il Po anche a quello della mia giovinezza
Laggiù sulle rive del fiume, viveva una bellissima ragazza
che si era innamorata di me.
Pontelagoscuro: potrei farne il simbolo
della mia, della nostra e dei miei coetanei
giovinezza a Ferrara.
G.Gruppioni
|
Essere abitati
Sin dalla più remota antichità l’uomo ha saputo questa
verità, eppure, incessantemente,
torna a scordarla, quasi che l’intera costruzione di millenni di
cultura avessero il solo scopo
di rimuoverla, nasconderla, dissimularla; esagero, naturalmente, perché
altrettanto
incessantemente quest’insopprimibile verità torna di tempo in tempo ad
emergere e ad
essere pronunciata: per l'uomo, dove egli abiti non ha la benché minima
rilevanza, ciò
che solo per lui conta è da chi l’uomo sia abitato.
E l’altra verità, inscindibile da questa: nessuno sforzo che l’uomo
possa mettere in atto,
nessun impegno, nessuna abnegazione, nessuna ascesi, nessuna teoria e
nessuna prassi può
rendere la casa dell’uomo, la casa che questi con paziente, diuturna
fatica si è costruito,
più invitante o più appetibile da abitare per un eventuale ospite, in
primo luogo per
quegli ospiti che ad ogni costo l’uomo vorrebbe avere a casa propria.
Tanto per non parlare in astratto, scegliamo come esempio uno di questi
ospiti ambiti: la
felicità. E parlo qui della felicità assoluta, di quella felicità che
quando per caso viene a
trovarci (ad abitare la nostra casa, per l’appunto) quasi ce ne scaccia
fuori da quanto è
totalizzante; che la nostra abitazione sia un tugurio o una reggia
immensa, quando ci
viene a trovare, l’abitazione a stento riesce a contenere e noi e lei,
nessun altro vi
troverebbe posto. Non “ la nostra felicità”, ma la felicità che in quei
momenti ci fa suoi.
Ebbene, se un uomo, qualsiasi uomo, impegnasse l’intera vita a rendere
la propria
dimora interiore più accogliente, più linda, più saggia, più santa: un
tempio di purezza
e di giustizia (ovviamente secondo una qualche prefissata teoria che
stabilisca cosa sia
pulito, savio, santo e giusto), ebbene, non avrebbe aumentato di
un’infinitesimo la
probabilità che la felicità venga a visitarlo.
Diceva qualcuno (forse Clemente Alessandrino) a proposito di un’altra
di questi ambiti
ospiti, la divinità: “ Noi siamo stranieri a casa nostra, ma lei si
trova in casa propria”.
Comprendiamoci, si tratta di due piani distinti, il primo è quello che
con pazienza e con
tenacia (o con menefreghismo e superficialità, o in qualunque altro
possibile modo)
andiamo giornalmente dipanando, per costruire il nostro io, il nostro
sistema di valori, le
nostre inclusioni e le nostre esclusioni, in una parola il nostro
essere e la nostra interiorità.
E, sia detto a chiare lettere, non potremmo in alcun modo evitare una
tale costruzione,
perché - per usare una metafora biologica- che ci piaccia e che non ci
piaccia, i neuroni
li dovremo in qualche modo collegare, o, se si preferisce: che ci
piaccia e che non ci
piaccia, i neuroni in qualche modo si collegheranno tra loro (e a ben
vedere tra le due
cose non c’è poi molta differenza, ma questo è un alto discorso che non
c’è qui spazio
per sviluppare).
E apparirebbe perciò del tutto velleitario ogni sforzo di “arrestare il
pensiero”, di
“sgombrare la mente” da qualunque “pensiero dualistico” (vedi ad
esempio tanta
mistica di stampo buddhista o pseudo tale), perché questo sgombrare la
mente non
sarebbe che un ennesimo nuovo differente modo di collegare i neuroni.
E poi vi è l’altro piano, che dal nostro punto di vista (l’unico che di
fatto ci interessi) si
caratterizza proprio dall’essere totalmente inattingibile da ogni e
qualunque nostra
iniziativa, da ogni e qualunque nostro tentativo di addomesticarlo.
Esso, beninteso, non
ci è affatto estraneo, anzi, in lui ci sentiamo a casa nostra come in
nessun altro luogo,
eppure su di lui non abbiamo alcun potere di intervento.
Quale sia ontologicamente la natura di questo secondo livello, data la
sua inattingibilità,
per definizione non possiamo saperlo, ma anche a saperlo, non ci
potrebbe interessare di
meno.
E’ questa la paradossale situazione dell’uomo: che può impiegare
decenni a costruire la
propria abitazione interiore, profondendo in ciò ogni sua migliore
energia, ergendo le più
ardite costruzioni mentali (ed è inevitabile che ciò faccia, ed ogni
quietismo sarebbe solo
un ennesimo ingannare se stessi), salvo accorgersi poi che nulla di ciò
risulta per lui di
reale giovamento, e che invece nei confronti di ciò che solo per lui
conta, non può
muovere un solo passo, solo aspettare di esserne visitato.
Antonio Marco Serra
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"Libecciata" di Giovanni Fattori
A ispirare l’artista, sarà stato, forse, un vento
sgarbato che gli ha scompigliato i capelli; o forse un
movimento tellurico tutto interiore; o forse sarà stata qualche visione
di battaglia, con un avamposto
di soldati, pronti a resistere contro tutto (Fattori è famosissimo, per
i suoi quadri di soggetto
militare).
O, forse, no, è solo un quadro di cielo, terra, vegetazione, mare e
basta. Libecciata, resta comunque,
memorabile per la sua resa quasi psicologica del malgarbo del vento e
ci fa pensare a come
Giovanni Fattori, fosse capace di una sintesi pittorica esemplare.
16 settembre 2009
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Home sweet home
Quando ero bambina la casa era il luogo della mia
famiglia, una famiglia bellissima e capace di
infondere in noi bambini una grande sicurezza. Ci siamo trasferiti
spesso, ma per me dove era la
mia famiglia, lì era casa.
Fino a poco tempo fa conservavo, nel luogo dove sono nata, una casetta
che portava il mio nome
e che per me rappresentava le radici e il baricentro. Ci tornavo ogni
anno, d'estate. Si può dire che
quella casa ha visto scorrere tutta la mia vita, ha visto crescere i
miei figli, ha sofferto con me ferite
difficili da tamponare... Quando, infine, è arrivato il momento di
rinunciarvi, mi è sembrato di perdere
una persona cara.
La casa della mia adolescenza, che oggi è abitata da mio fratello con
la sua famiglia, ha assistito
alla lunga agonia di mia madre e, in parallelo, al mio diventare
"grande" a tappe forzate.
Da lì sono partita per fare il "nido", cioè la casa del mio matrimonio
e dei miei bambini.
Sono partita con grande entusiasmo e ci ho messo tutte le energie, ma
il risultato è stato diverso
da quello che mi aspettavo... La nuova famiglia non ha le
caratteristiche dell'altra e soprattutto,
purtroppo, non ha la stessa serenità. Non mancano gli affetti né gli
agi (la casa è stata sostituita
da una più grande), ma i problemi da affrontare sono stati così gravi
che mi è capitato di chiedermi
se valeva la pena di spendere una vita per arrivare a questo...
La risposta è una sola: non c'è niente sulla Terra che non possa esser
spazzato via in un attimo.
Noi possiamo solo sperare e continuare a costruire, riparare,
ricostruire, finché ne abbiamo la forza.
Certo che i crolli (metaforici) quando colpiscono la casa (nel senso di
"home sweet home") non sono
paragonabili a quelli esterni (lavoro, amicizie, interessi ecc.). Sono
molto più devastanti perché la
casa è il luogo dell'intimità, degli affetti più profondi, del riposo
sicuro.
Che la si veda come il guscio della chiocciola o come il porto a cui
tornare, è comunque sempre un
"dentro" in cui non dovrebbe mai penetrare il “nemico”.
E particolarmente per la donna, "angelo del focolare" di antichissima
memoria, è facile che il non
riuscire a salvaguardare il nido sia sentito come un fallimento
personale...
Per finire, una domanda che a volte mi faccio: che fine fanno le "case
del delitto"? Come si fa a
tornare a vivere nei luoghi delle famiglie sterminate, degli
infanticidi, dei delitti passionali...
Quando cala il sipario sui processi e finiscono i pettegolezzi sui
giornali, c'è qualcuno che le compra?
E ancora, quanti di noi sanno che cosa è avvenuto nel passato fra le
mura delle loro case, chi ci
stava, che cosa faceva?
Forse, anche in questo caso la memoria corta degli esseri umani è
provvidenziale: il dolore e la
morte, perché possiamo tirare avanti, devono restare per lo più
relegati in un angolino della coscienza...
Una mamma pensierosa
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Un lupo vestito da pastore
1. Un parroco pieno di inquietudini.
Giacomo era un anziano parroco di montagna. Alfredo aveva la sua stessa
età, ma era un cardinale.
Erano cresciuti insieme e avevano frequentato le stesse scuole.
Successivamente, entrambi
continuarono gli studi in Seminario e furono, infine, ordinati
sacerdoti. Ora si erano rincontrati dopo
circa cinquant’anni. Giacomo, dopo avere fatto il cappellano per quasi
trent’anni in un piccolo
paese, era diventato titolare della parrocchia di un ancor più piccolo
paese di montagna, e durante
questi ultimi vent’anni era rimasto sempre lì. Così, durante tutto
questo tempo, Sua Eminenza
Alfredo aveva perso di vista il vecchio amico. O forse si era perfino
dimenticato di lui. Invece Giacomo,
recandosi ogni tanto alla diocesi, aveva in più occasioni costatato che
il suo compagno di
scuola e di seminario stava rapidamente accumulando prestigio e
benemerenze: già da molto
tempo aveva cominciato a prevedere che sarebbe diventato sicuramente
monsignore, probabilmente
vescovo e forse perfino cardinale.
"Eh, lui la testa ce l’ha buona, e ce l’ha sempre avuta. Si vedeva non
solo in seminario, ma anche a
scuola. La sua era senz’altro un’autentica vocazione, per me è diverso".
E si fermava a considerare quanto fossero state decisive le pressioni
della sua famiglia, pressioni
motivate dalla volontà di mantenere indivisa la proprietà terriera.
Sempre seguendo il filo di questi
pensieri, concludeva che forse i suoi erano convinti che la vocazione
l’avrebbe raggiunto quando
già era entrato in seminario, così come, stando a quanto certuni
dicevano, una donna si innamorerebbe
dell’uomo scelto per lei dai familiari quando già l’ha sposato. Lui, al
contrario, si era
spesso trovato a chiedere, prima di celebrare un matrimonio, se i
futuri sposi erano sicuri di amarsi.
E, conoscendo certi andazzi, lo chiedeva soprattutto alle donne. Così,
gli sarebbe piaciuto che gli
fosse stato chiesto, in seminario, se intendeva farsi prete di sua
volontà. Mai accaduto. Gli era stato
chiesto, semmai, se nella sua ascendenza c’erano stati dei delinquenti
o, come sarebbe stato ancora
peggio, dei suicidi.
Ed erano passati gli anni, quelli in seminario, poi gli anni da
cappellano, poi quelli da parroco, tutti
anni durante i quali non si era mai accorto d’essere stato raggiunto
dalla vocazione. Provava a
convincersi che la vocazione l’avesse raggiunto pian piano, un po’ di
più giorno dopo giorno, senza
che nemmeno se ne accorgesse.
A differenza di Alfredo, lui non aveva mai avuto la testa buona, o
almeno così pensava. A scuola
non riusciva a risolvere certi astrusi problemi matematici che non
c’entravano niente con la vita di
tutti i giorni, né riusciva a memorizzare tutte quelle date di eventi
storici così lontani da lui e dalla
gente vicina a lui. Così, anche in seminario non riusciva a capire il
senso di molte sottili questioni
teologiche. In particolare non capiva cosa esse c’entrassero con gli
autentici bisogni di ogni persona.
Fra questi, Giacomo comprendeva anche il diritto di ognuno al rispetto
dei propri valori e delle
proprie idee. Al contrario, Alfredo cominciò ad accumulare le sue
benemerenze già in seminario,
proprio applicandosi allo studio della teologia, della quale era uno
degli studenti più diligenti.
Qualcuno potrebbe dire che Giacomo, pur essendo stato sempre valutato
come uno studente assai
modesto, avesse conservato un certo senso critico. Mai, però, gli
avevano insegnato a chiamare
senso critico questo suo atteggiamento mentale: semmai, gli avevano
insegnato a chiamarlo superbia.
Alla fine, si convinse che il fatto di restare un oscuro parroco di
paese fosse il giusto antidoto
a questa sua propensione alla superbia. E si convinse che, al
contrario, il suo brillante ex compagno
di studi avesse meritato di diventare rapidamente parroco, poi vescovo
e infine cardinale, sicché
non provò mai alcuna invidia per lui.
2. Le vocazioni e il fumo di Satana.
Giacomo e Alfredo erano seduti insieme ormai da una mezz’ora, durante
la quale il cardinale a -
veva parlato a lungo di quanto fosse giustificata la preoccupazione per
la scarsità delle vocazioni
religiose. Nel mentre, Giacomo non poteva fare a meno di pensare alla
sua personale situazione. E
poi, il dubbio sulla propria vocazione non era l’unico. Quante volte si
era trovato in confessionale a
dare ai suoi parrocchiani consigli di dubbia ortodossia? E non solo ai
parrocchiani. Ricordò di avere
confessato anni addietro un turista di passaggio. Ricordava bene le
parole di quell’uomo.
“Ecco, padre, lo sono un cattolico praticante, ma sono, purtroppo,
anche omosessuale. Ho fatto un
voto di castità, perché la pratica dell’omosessualità è condannata
dalla Chiesa. Finora sono riuscito
a rispettare il voto, ma ora ... ecco, ora sono molto preoccupato.
Sento che sono attratto dai bambini.
Attratto sessualmente, intendo. E mi chiedo ... ecco, se peccassi con
un adulto, ci sarebbe ancora
rimedio, ma in caso contrario ... se dovesse mancarmi la forza di
resistere alla tentazione ... di
peccare con un bambino?”.
Ricordava anche la risposta che gli aveva dato.
"Senta, lei ha già, e continuerà ad avere, le sue difficoltà a
controllare il desiderio sessuale nei confronti
dei bambini. Non le sembra troppo dover resistere anche al desiderio di
avere un partner
adulto, anche se fosse del suo stesso sesso? Vede, se trovasse un
partner adulto adatto a lei, col
quale si sentisse libero di confidarsi, potrebbe parlargli di questa
sua pericolosa inclinazione e ricevere
da lui anche un supporto per combatterla”.
Lo sconosciuto apparve sollevato e, quando ripartì, ringraziò il
confessore, che lo invitò a ritornare
a trovarlo. M a passarono giorni, poi mesi, poi anni, finché Giacomo si
convinse che non avrebbe più
rivisto né saputo nulla di quell’uomo. Cosa avrebbe pensato di lui
l’amico cardinale, se avesse conosciuto
questa vicenda in tutti i suoi particolari? No, certo, questa storia
non la poteva davvero
raccontare. Ma forse poteva parlare dei suoi dubbi sulla propria
vocazione. E decise di farlo.
Fino a quel momento Giacomo, quelle poche volte che aveva interloquito
durante i lunghi e dotti
discorsi di Alfredo, lo aveva sempre chiamato “Eminenza”. Forse si
aspettava che il cardinale lo
invitasse a chiamarlo per nome, come ai vecchi tempi. Invece, Alfredo
continuò a farsi chiamare
“Eminenza”, così come continuò a parlare con il tu al vecchio compagno
di seminario, senza nemmeno
anteporre il “don” al nome Giacomo.
“Ecco, Eminenza, vede ... Lei mi parla della sua giusta preoccupazione
per le vocazioni che scarseggiano.
M a forse dovremmo chiederci anche se chi la vocazione l’ha seguita e
si è fatto prete ...
questa vocazione ce l’avesse davvero ...”.
Il cardinale assunse un’aria grave.
"Mi meraviglio di te, Giacomo! Come puoi pensare che nostro Signore
permetta a una sua creatura
di continuare a credere di essere stata chiamata, se così non è
stato?’’. Si sfilò gli occhiali e lo fissò
dritto negli occhi. “Semmai, possiamo chiederci se, fra i tanti che
vestono una tonaca o un saio, ci
sia qualcuno che sa perfettamente di non avere alcuna vocazione, ma è
entrato nei ranghi dei
ministri di Dio al preciso scopo di diffondere nella Chiesa il fumo di
Satana!”.
Dopo queste sferzanti parole, che sembravano scrutarlo dentro, don
Giacomo restò muto.
“Vedi, Giacomo, già ai tempi del Seminario, tu non ti sei mai impegnato
molto nello studio della
teologia: ricorderai i giudizi non certo lusinghieri. Se tu ti fossi
applicato un po’ più a fondo, conosceresti
già le risposte a tutte le tue domande. Certo, non mi stupirebbe che
queste risposte superassero
il tuo intelletto. M a non a tutti è richiesto di capire; a tutti è
richiesto di obbedire”.
3. Domineddio nelle vesti di un cardinale.
Giacomo continuò a tacere. Tornò a pensare a quel turista che aveva
confessato anni fa. Se avesse
accettato tutte le verità teologiche e morali insegnategli a suo tempo,
si sarebbe comportato assai
diversamente. Cosa avrebbe potuto fare ora, se non sapeva neanche il
nome dell’uomo che, a suo
tempo, aveva indirizzato sulla strada del peccato? E, sul filo di
questo ricordo, ripensò a tante altre
situazioni. Certo, se qualcuno gli avesse confessato un crimine,
avrebbe dato l’assoluzione solo a
condizione che la persona si fosse costituita e autodenunciata. A
questo proposito, si era talvolta
chiesto come si regolassero i confessori dei mafiosi. Ma, a lui, questo
non era mai accaduto. Era frequente,
semmai, che qualche adolescente gli confessasse d ’essersi masturbato o
di aver giocato al
dottore. Era frequente, semmai, che qualche padre o madre di famiglia
gli confidasse di ricorrere a
qualche anticoncezionale per non dover mantenere troppi figli. Si
chiese quante volte poteva avere
dato l’assoluzione dai peccati con troppa leggerezza, senza nemmeno
chiedere il proponimento
sincero di non ripeterli, magari perché giudicava che quei peccati non
fossero veri peccati. Cominciò
a pensare di avere sempre sbagliato. Di fronte a sé, sotto le vesti del
cardinale, non vedeva più
il vecchio compagno di studi, ma Domineddio nel giorno del giudizio.
Pensò che dovesse farsi forza. Che fosse giunto il momento di
affrontare le sue responsabilità. Voleva
innanzitutto, comprensibilmente, salvare la propria anima dalla
dannazione. Già, quella dannazione
in cui gli avevano insegnato a credere ben prima degli anni da
seminarista; in essa lui a -
veva effettivamente creduto e continuava a credere. M a a nessuno aveva
mai insegnato a crederci.
E anche qui aveva sbagliato, anche su questo sarebbe stato giudicato,
anche questo doveva
confessare. Q uell'uomo, che tanto tempo prima aveva chiamato Alfredo,
era lì, di fronte a lui, come
un messo del Signore, a offrirgli una possibilità di redenzione, forse
l’ultima della sua vita.
E fu così che Giacomo si ritrovò travolto dal fiume in piena formato
dalle sue stesse parole. Benché
fosse ormai anziano, si stupì della lucidità dei suoi ricordi, anche
lontani. Non trascurò alcun particolare
dei pensieri, parole e opere di tutta la sua vita di sacerdote. Sentiva
la liberazione che progressivamente
raggiungeva, e solo quando sentì d’essersi svuotato di tutte le sue
nefandezze si fermò,
chiuse gli occhi e restò in attesa.
“Guardami, Giacomo. E inchiniamoci entrambi dinanzi alla Divina
Provvidenza. Vedi? Nonostante
tutti i tuoi errori, la tua salvezza rientra ancora nei piani di Dio,
che ha deciso di scegliere me come
suo umile servitore nel guidarti in questo difficile momento. Sei
pentito, Giacomo? Guardati bene
dentro, prima di rispondere”.
Nonostante quest’ultimo invito del porporato, le parole eruppero dalla
bocca del vecchio prete.
“Sì, Eminenza, sono pentito, e desidero solo la misericordia di nostro
Signore”.
“Bene, Giacomo. Qualunque peccato può essere perdonato se il pentimento
è sincero. Mi occuperò
personalmente della tua situazione. Chiederò al Santo Padre di
concedermi un’udienza in tempi
brevi”.
Dopo queste parole, il vecchio Giacomo apparve disorientato.
“Sì, Giacomo, la situazione è tale da interessare Sua Santità. In tutti
questi anni, tu sei stato, per il
tuo gregge, un lupo vestito da pastore, un lupo che ormai non può
nemmeno contare quante pecore
ha divorato. Te ne rendi conto, Giacomo?”.
Effettivamente Giacomo, pur con tutti i suoi scrupoli, non s’era mai
sentito un lupo vestito da pastore.
Anche questa volta le parole uscirono da sole e impetuosamente dalla
sua bocca.
“Eminenza, mi aiuti! Solo ora me ne accorgo, e sono disperato per il
male che ho fatto”.
“Certo che ti aiuterò, Giacomo, e comprendo umanamente la tua
disperazione, ma devo rammentarti
che è peccato mortale disperare della salvezza. Tu troverai la tua
nell’ubbidienza. Il Santo
Padre deciderà del tuo destino e tu lo accetterai, qualunque esso sia”.
4. Ottimi sacerdoti e malavitosi devoti.
“Crede che verrò scomunicato. Eminenza?”.
“Cercherò di evitarlo, Giacomo. Posso dirti quello che mi sentirei di
proporre io qualora Sua Santità
ritenesse opportuno consultarmi. È del tutto evidente che tu non puoi
continuare a operare il male
come hai fatto finora. Un percorso che mi pare appropriato per te
potrebbe partire dalla riduzione
allo stato laicale; dopo potresti prendere i voti da frate in un
monastero di clausura, e trascorrere
lì, nella preghiera e nella mortificazione, i tuoi ultimi anni. E non
preoccuparti di coloro che tu,
finora, hai indegnamente considerato i tuoi parrocchiani. Ci sono
ottimi sacerdoti che, solo a causa
del loro zelo pastorale, hanno incontrato insormontabili difficoltà a
esercitare il loro ministero in
certi ambienti, dove sono stati fatti oggetto delle più infami
calunnie. A uno di questi sarà affidata
la cura delle loro anime”.
Dopo queste ultime parole del cardinale, nella mente di Giacomo
cominciarono a prendere forma
fisionomie di ragazzi che aveva visto nascere e crescere. Cominciò a
immaginare qualcuno di loro
seguire una tonaca sconosciuta prima in confessionale, poi in qualche
stanza della chiusa della canonica.
Si sentì cadere nella disperazione più nera, perché capì di essere
perduto, in tutti i casi. Perduto
se avesse obbedito, perché avrebbe continuato a vedere quelle scene per
tutti gli anni che gli
restavano da vivere in monastero, scene che, prima o poi, lo avrebbero
fatto disperare. Perduto se
si fosse ribellato, perché si sarebbe trovato vecchio e scomunicato,
con la preclusione a esercitare
quel solo mestiere che bene o male fino a quel momento aveva pensato di
saper fare. Solo una
cosa poteva salvarlo: e qui qualcuno potrebbe dire che una qualche
sorta di provvidenza sia veramente
intervenuta, perché proprio quella cosa avvenne. Ma perché pensare
all'intervento di una
qualche sorta di provvidenza? Giacomo era vecchio, era da sempre roso
dalle sue inquietudini, era
logorato dall’essersi fatto sempre carico dei problemi dei suoi
parrocchiani e, occasionalmente, anche
di altri, come quel turista; in questo, aveva sempre dovuto
destreggiarsi fra quelle pretese verità
in cui era obbligato a credere e quelle evidenze, del tutto contrarie,
che l’esperienza e l’esercizio
del suo libero pensiero gli indicavano; ora, grazie a ll’amico Alfredo,
era anche caduto nella disperazione.
Giacomo non dovette più andare in un monastero a illudersi di
combattere con la preghiera la
propria disperazione per la sorte dei suoi ragazzi. Quella disperazione
fu, però, il sentimento che lo
accompagnò alla fine della sua vita.
Ignari di ciò che aspettava loro stessi e i loro figli, i parrocchiani
si strinsero attorno al loro defunto
parroco. Probabilmente, anche quel turista di tanti anni prima avrebbe
partecipato volentieri al
funerale di Giacomo: un funerale sobrio, celebrato dallo stesso Alfredo
nella chiesa che era stata di
Giacomo. Durante l’omelia, il cardinale ebbe cura di sottolineare
ripetutamente le numerose virtù
del defunto parroco, cosa che può apparire sorprendente. Ma Alfredo non
aveva certo cambiato
parere su Giacomo, né avrebbe mai cambiato parere su sé stesso. A
differenza di Giacomo, Alfredo
ritenne sempre doveroso assolvere un malavitoso pluriomicida che si
dichiarasse pentito e devoto,
senza mai pretendere quel segno tangibile di pentimento che Giacomo
avrebbe preteso. A
differenza di Giacomo, Alfredo aveva sempre accettato anche
l’eventualità, o la certezza, che certi
divoratori veri e propri, dopo aver digerito in confessionale qualche
pecora, ne divorassero ancora
un buon numero, per poi tornare in confessionale a digerirle. A
qualsiasi eventualità, o anche
certezza, in questo senso avrebbe sempre continuato ad anteporre
l’inviolabilità del segreto confessionale
e il dovere del confessore di assolvere chiunque si dichiarasse pentito.
Furono dunque tutt’altri i motivi che spinsero Alfredo a lodare
l’indegno Giacomo durante l’omelia:
quelle povere pecore di montagna non avrebbero mai dovuto sapere che,
prima dell’arrivo di
un sacerdote degno della missione, erano state per così lungo tempo
affidate ad un lupo vestito
da pastore.
Mel Ancony
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