Un breve excursus sull'utilizzo del termine “stigma”


I primi ad utilizzare il termine stigma furono i Greci. Con questa parola indicavano i segni fisici, visibili, associati alle caratteristiche morali negative di chi li portava.

“Questi segni venivano incisi col coltello o impressi a fuoco nel corpo e rendevano chiaro a tutti che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore o comunque una persona segnata, un paria che doveva essere evitato, specialmente nei luoghi pubblici.” (Erving Goffman, Stigma L’identità negata)

In seguito, il Cristianesimo assegna un duplice valore allo stigma: quello positivo dei segni sul corpo di Cristo ferito sulla croce, segni che si riproducono sul corpo di santi e martiri cristiani come simbolo della Grazia (San Paolo, San Francesco d’Assisi, Padre Pio ecc) e quello negativo del marchio d’infamia, impresso in origine sulla fronte di Caino, colpevole di avere ucciso il fratello Abele. Dio punisce Caino stigmatizzandolo fisicamente (il marchio) ma anche socialmente: “quando coltiverai la terra essa non ti darà più i suoi frutti e sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra” (Genesi).
I segni corporei e visibili della malattia venivano spesso ricondotti in epoche passate a problemi di ordine interiore: la lebbra, ad esempio, veniva considerata un segno dell’impurità morale di chi ne soffriva, la cecità era considerata la punizione per chi praticava forme di sessualità devianti.
Lo stigma non era solo riconosciuto sul corpo delle persone malate o difformi, in molti casi veniva imposto, provocato su corpi sani per identificare chi lo portava: la legge del Taglione prevedeva come pena per chi rubava il taglio della mano.
Molte forme di imposizione di uno stigma fisico sopravvivono anche oggi.
Lo stigma imposto è sempre discriminatorio, ma a volte non di segno negativo: ad esempio, la circoncisione per gli uomini ebrei è un simbolo di affermazione e di appartenenza alla fede ebraica, mentre l’infibulazione per le giovani donne africane comporta una vera e propria declassazione e segregazione del ruolo sociale di chi la subisce.
Un altro tipo di stigma visibile imposto è quello simbolico: nel primo articolo delle leggi razziali promulgate in Germania nel 1941 si legge che “agli ebrei maggiori di anni 6 è proibito mostrarsi in pubblico senza il simbolo giudeo della stella di Davide”. Lo stigma non è in questo caso impresso a fuoco sul corpo, ma il doloroso effetto inferiorizzante ed escludente del segno è lo stesso.
In tutte le epoche e in tutte le comunità sociali il dispositivo della stigmatizzazione fisica o simbolica entra in gioco come strumento di identificazione e categorizzazione sociale.
Il teorico che più di ogni altro si concentra sull’analisi dello stigma sociale è Erving Goffman: la stigmatizzazione sociale è un processo di attribuzione di caratteristiche negative a persone o gruppi identificati come devianti rispetto a ciò che si decide di considerare “normale”. E’ questo dunque un processo del tutto artificiale e arbitrato dalla maggioranza, che si rivolge a soggetti riconosciuti “diversi” sulla base di caratteristiche fisiche, biologiche, culturali, psicologiche ecc.
L’esito di questo processo è l’assegnazione di stereotipi negativi agli appartenenti alle categorie dei “diversi”, il formarsi di pregiudizi, l’esclusione sociale degli screditati e degli screditabili, e l’innalzamento di una barriera fra stigmatizzati e non stigmatizzati.
Per concludere questo breve excursus sull’utilizzo del termine stigma, vorrei citare il significato che questa parola assume nell’ambito della biologia: lo stigma è quella parte del fiore che durante l’impollinazione è preposta a ricevere il polline, la parte dunque più fertile della pianta. È interessante vedere come in questo caso la parte più colorata, evidente, sporgente, “fuori dagli schemi” del sistema pianta sia chiamata stigma e porti in sé la funzione di riprodurre la vita.


Silvia Antonioni


Una lettura sullo stigma,
lavorando per il suo superamento


Le mie considerazioni sullo stigma partono da una doppia esperienza sulle problematiche mentali, in quanto lavoro nel settore e sono una familiare. Non penso affatto che lo stigma sia utile, ma propongo che per capirlo, per cercare di descriverne le cause e le conseguenze, possa essere importante individuare le logiche che lo fondano di volta in volta, ad esempio domandando: " chi lo mette in atto, quale relazione propone"?
Mi sembra evidente la generale difficoltà a guardare gli altri per quello che sono, cercando di conoscerli veramente (ad. esempio provando a comprendere il loro punto di vista). In questa situazione di incertezza, mettere un marchio rassicura, perché crea un copione da seguire e definisce dei ruoli di potere es. il "malato" che deve essere "paziente", i professionisti che rappresentano "la ragione della scienza e dell'esperienza", i parenti che sono fondamentali per aiutare chi ha problemi psichiatrici soprattutto se si prestano a seguire con subordinazione le indicazioni dei tecnici. Non intendo dire che questo è ciò che accade sempre, ma che quando succede, va riconosciuto.
Quando lo stigma "ingessa" ogni interlocutore e non lascia spazio all'espressione dell'interezza di ciascuno, può essere "utile" a negare le difficoltà relazionali, mettendo subito in chiaro che l'unico problema è la malattia e chi la rappresenta.
Il messaggio contenuto in questo "marchio" è una discriminazione prima di tutto verso chi la subisce, ma talvolta può essere esteso anche a chi gli è vicino. Ad esempio, più volte ho ascoltato persone che incontravano di nascosto il loro caro "malato", di cui non hanno riferito l'esistenza neanche a parenti stretti. Il motivo che mi è stato raccontato non era tanto la "vergogna", ma la paura di essere allontanati. Per questa parentela qualcuno si è trovato a dover dimostrare la non ereditarietà della patologia psichiatrica, quindi sono stati richiesti certificati medici di questo tipo; tengo a precisare che questa richiesta mi è stata rivolta di recente, inoltre ne ho sentito parlare anche da parenti in riferimento a tempi molto lontani (oltre sessant’anni fa), quando erano ancora aperti gli ospedali psichiatrici, segno che alcuni stereotipi continuano ad esistere nonostante le leggi innovative.
Nonostante i progressi sociali, culturali e scientifici fatti, lo stigma può essere inflitto ad una persona con problemi psichiatrici e restargli addosso, avvolgendo anche i parenti in un contagio, in un tutt'uno omologante, il cui destino è la stessa marginalità e la stessa esclusione.
La salute mentale per far emergere le risorse della persona richiede anche l'aiuto dell'ambiente circostante (in particolare per rendere possibile una convivenza positiva), quindi come può una persona (tanto più se con problemi mentali) aumentare l'autoconsapevolezza, dei suoi limiti e delle sue capacità, se dagli altri riceve un'immagine che non gli appartiene del tutto (quella del marchio che gli viene attribuito)?
Spesso anche nei rapporti all'interno delle istituzioni (ed è ancora più evidente in quelle totalizzanti come ad es. gli ospedali psichiatrici giudiziari) si osserva la difficoltà a guardare la persona che c'è dietro lo stigma.
In un’altra regione d'Italia mi è capitato molte volte di sentir dire dalla polizia penitenziaria e da sanitari "ma lei crede a ciò che dice il suo parente?” sottintendendo: "è un malato, quindi non attendibile"! Devo ammettere che questo mi ha fatto provare terrore e quando l'ho sentito anche rivolto ai parenti, mi è apparso ancor più evidente il "gioco"che veniva messo in atto da chi ha il potere nell'ambito della gestione del malato e non vuole essere messo in discussione, ma proporsi come "pensiero unico".
Riporto in proposito alcune preziose considerazioni inviatemi da un collega:

lo stigma può essere una forma assunta dal "cordone sanitario" imposto alla devianza e alla follia, che nel tempo è passato dalle forme più concrete a quelle più simboliche (ma con la stessa efficacia pratica) quali la stigmatizzazione: dall'allontanamento medioevale dalla comunità cittadina alla più tardiva reclusione in uno spazio confinato (prima exlebbrosario per i sifilitici, poi manicomio) fino allo "stigma", al marchio morale, che altrettanto allontana, confina ed esclude. E' vero che "paziente" è termine dallo stigma "gentile", terminologia quasi asettica, finché non si aggiunge la diagnosi (affetto da AIDS, malattia mentale…), ma mi piace ricordare quello che la ricerca storica di Michel Foucault ha reperito all'origine della parola "paziente" in "Sorvegliare e punire": all'epoca delle torture degli imputati e dei condannati, da cui non ci separano che pochi secoli (o qualche ora, leggendo alcune cronache dal carcere o dalle zone di guerra) “paziente” era il termine riservato a colui che veniva sottoposto al supplizio.

Di esempi sulla violenza esercitata attraverso lo stigma purtroppo se ne potrebbero raccontare ancora tanti e molte altre possono essere le letture per spiegarlo, ma in conclusione ritengo che uno dei punti centrali per il suo superamento passi soprattutto attraverso l'incontro conoscitivo, l'entrare nel modo di pensare e nei linguaggi dell'altro, evitando di dare o accettare etichette a cui adeguarsi.
Mettere tra parentesi la malattia mentale non vuol dire negarla, ma semplicemente evitare di assumerla come vertice della nostra percezione dell'altro. I diversi ruoli (e il diverso potere che ne consegue), devono essere oggetto di considerazione, perché influenzano i rapporti e la conoscenza reciproca, quindi devono essere usati come strumento e non come obiettivo.
Lasciare spazio all'altro vuol anche dire proporgli di creare insieme una relazione sempre più positiva, a partire dalle modalità di cui siamo capaci; così si comunica anche la fiducia verso l'esistenza delle sue "parti sane" e comunque si creano le premesse perché possa esprimersi (per cercare le proprie soluzioni insieme agli altri).


Grazia Stella


Non è diverso da te.
Curare i disturbi mentali si può
Lo "stigma", molti lo praticano pochi lo conoscono.


La parola stigma sul dizionario significa marchio, impronta, segno distintivo. Per gli esperti di salute mentale, il termine indica la discriminazione basata sul pregiudizio nei confronti del malato. Ma per un malato mentale lo stigma significa, ogni giorno, esclusione, rifiuto, vergogna, solitudine. Il pregiudizio nei confronti dei malati mentali ha radici che affondano nel tempo e si propagano ancora oggi in tutti i paesi, specie quelli progrediti. Nasce e cresce su un terreno di false informazioni accettate in modo passivi e acritico. Le convinzioni alla base dello stigma sono sbagliate perché non riconoscono che persone sofferenti di disturbi mentali, se adeguatamente curate, possono recuperare capacità intellettive e razionali compatibili con una vita sociale attiva e produttiva. Lo stigma oltre ad essere un atteggiamento infondato, è il principale ostacolo alla cura poiché genera un circolo vizioso di malattia e pregiudizio. Il malato, in fuga dalla propria condizione per timore dello stigma, non riesce a migliorare e si isola, peggiorando il proprio stato di esclusione e rafforzando il pregiudizio stesso. Se si inizia col riconoscere che il malato mentale è semplicemente una persona colpita da una malattia dovrebbero essere immediato assumere un atteggiamento corretto e solidale nei suoi confronti. ognuno di noi forse senza saperlo conosce ed apprezza alcuni malati mentali: Van Gogh, Dino Campana e il matematico premio nobel John Nash. Oggi con gli strumenti di diagnosi e di cura disponibili (farmacologici, psicoterapici e sociali) è possibile e doveroso aiutare il malato mentale a liberarsi dal guscio di impotenza e di inerzia imposto dallo stigma.


testo informativo del Ministero della Salute reperibile su internet





Cosa pensano gli italiani dei disturbi mentali


Lo studio è stato condotto dal Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Napoli, nell’ambito del Progetto Nazionale Salute Mentale, con il coordinamento del Prof . Mario Maj e la partecipazione di 30 centri.
È stato attuato su un campione di 714 assistiti di medici di base, selezionato con campionamento casuale e stratificato per area geografica (nord / centro / sud e isole) e densità di popolazione dell’area (più di 100.000 abitanti, tra 25.000 e 100.000 abitanti, meno di 25.000 abitanti).
È stato utilizzato un questionario validato a livello internazionale, somministrato personalmente a ciascun partecipante. Veniva presentata la descrizione di un caso di schizofrenia e si chiedeva di rispondere ad una serie di quesiti riguardanti le persone con una patologia come quella descritta.
Vengono riportate di seguito le frequenze delle risposte ad alcuni dei quesiti.

1. Le medicine sono utili per curare le persone come X
        Non è vero: 5%. E’ vero in parte: 70%. E’ proprio vero: 25%.
2. Altri interventi (psicoterapie, terapie occupazionali) sono utili per curare le persone come X.
         Non è vero: 1%. E’ vero in parte: 41%. E’ proprio vero: 58%.
3. Le persone come X dovrebbero essere informate dai medici sui loro problemi.
         Non è vero: 2%. E’ vero in parte: 36%. E’ proprio vero: 62%.
4. Le persone come X dovrebbero essere informate dai medici sulle medicine da prendere e sui loro effetti collaterali.
         Non è vero: 3%. E’ vero in parte: 19%. E’ proprio vero: 78%.
5. I familiari dovrebbero essere informati dai medici sui disturbi mentali dei loro congiunti
         Non è vero: 1%. E’ vero in parte: 7%. E’ proprio vero: 92%.
6. Le persone come X sono imprevedibili. Non si può mai sapere cosa faranno.
         Non è vero: 15%. E’ vero in parte: 50%. E’ proprio vero: 35%.
7. C’è poco da fare per le persone come X. Si può solo cercare di farle stare in un ambiente sereno.
         Non è vero: 31%. E’ vero in parte: 34%. E’ proprio vero: 35%.
8. E’ facile accorgersi se una persona ha mai avuto disturbi come quelli descritti.
         Non è vero: 40%. E’ vero in parte: 43%. E’ proprio vero: 17%.
9. Si dovrebbe poter ricoverare in manicomio le persone come X.
         Non è vero: 62%. E’ vero in parte: 36%. E’ proprio vero: 2%.
10. I manicomi erano più delle prigioni che degli ospedali.
         Non è vero: 4%. E’ vero in parte: 30%. E’ proprio vero: 66%
11. Le persone come X non dovrebbero votare
         Non è vero: 71%. E’ vero in parte: 18%. E’ proprio vero: 11%.
12. Una persona che ha avuto disturbi come quelli descritti e che ora sta bene può fare la baby sitter
         Non è vero: 29%. E’ vero in parte: 44%. E’ proprio vero: 27%.
13. Le persone come X non dovrebbero sposarsi.
         Non è vero: 60%. E’ vero in parte: 28%. E’ proprio vero: 12%.
14. Le persone come X non dovrebbero avere figli.
         Non è vero: 39%. E’ vero in parte: 42%. E’ proprio vero: 19%.
15. La situazione delle persone come X pesa solo sulle spalle dei loro familiari.
         Non è vero: 17%. E’ vero in parte: 36%. E’ proprio vero: 47%.

Nello studio, le persone più giovani e quelle con maggior livello di istruzione riconoscevano più frequentemente i diritti civili e affettivi dei pazienti, l’importanza dell’informazione sulle patologie mentali e la possibilità di cura.


A titolo di confronto, si riportano alcuni dati di un simile studio condotto dallo stesso Dipartimento nel 1988.
1. I malati di mente mi spaventano per la loro imprevedibilità. Non si può mai sapere cosa faranno.
Assolutamente giusto 23.1%. Abbastanza giusto 42.2%. Né giusto né sbagliato 15.1%. Abbastanza sbagliato 10.6%. Sbagliato 3.5%. Non so/non risponde 5.5%.
2. È facile accorgersi se una persona è mai stata gravemente malata di mente.
Assolutamente giusto 24.4%. Abbastanza giusto 36.1%. Né giusto né sbagliato 13.9%. Abbastanza sbagliato 12.5%. Sbagliato 6.8%. Non so/non risponde 6.3%.
3. Ritiene che debba essere ripristinata la possibilità di ricovero in ospedale psichiatrico?
Sì 48%. No 29.7%. Non so/non risponde 22.2%.
4. Pensa che le persone malate di mente abbiano il diritto di votare?
Sì 20.6%. No 51.0%. Non so/non risponde 28.4%.
5. Non mi creerebbe problemi avere un compagno di lavoro che è stato malato di mente.
Assolutamente giusto 13.6%. Abbastanza giusto 27.1%. Né giusto né sbagliato 16.2%. Abbastanza sbagliato 20.9%. Sbagliato 7.9%. Non so/non risponde 14.3%.
6. Potrei sposare una persona che è stata malata di mente.
Assolutamente giusto 3.9%. Abbastanza giusto 9.1%. Né giusto né sbagliato 9.1%. Abbastanza sbagliato 14.5%. Sbagliato 40.5%. Non so/non risponde 22.9%.
7. Ritiene che la situazione attuale dell’assistenza in Italia comporti un carico eccessivo per le famiglie dei malati di mente?
Decisamente sì 42.1%. Probabilmente sì 35.4%. Probabilmente no 3.8%. Decisamente no 2.0%. Non so/non risponde 16.6%.


Questi dati documentano un aumento dell’accettazione delle persone con disturbi mentali gravi da parte della popolazione italiana negli ultimi 15 anni, in particolare per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti civili di tali persone e il rifiuto del ricovero a lungo termine in ospedale psichiatrico. I diritti affettivi dei pazienti, però, sono tuttora meno frequentemente riconosciuti di quelli civili, e persiste la preoccupazione circa l’imprevedibilità delle persone con malattie mentali. E’ inoltre significativo che non si sia modificata la convinzione che il carico delle malattie mentali ricada in larga misura sulle famiglie.


brochure Campagna di comunicazione, redazione ministerosalute.it 3 dicembre 2004



A testa alta!


Si stanno tenendo e si terranno quest’anno in tutta Italia diversi convegni sul tema dello Stigma.
Ecco alcuni stralci della testimonianza di un familiare che ha partecipato al convegno tenutosi a Sanluri (Cagliari) il 25 e 26 settembre.




Oggi è il giorno nel quale ognuno di noi deve dare il suo contributo in termini di testimonianza legata alla salute mentale, ed io non mi tirerò indietro. [...]
Ero troppo arrabbiato, stizzito, infastidito, forse stanco, logorato, non riuscivo a darmi pace per quello che stava succedendo a me e alla mia famiglia di fronte al dolore che stavano vivendo i miei figli. Nell'ultimo incontro di due giorni ad aprile del 2010 a Sanluri, ho improvvisamente capito, scoperto un altro mondo, sono riuscito ad aprirmi, sono riuscito in quell'occasione a far esplodere tutta la mia rabbia. Forse in quel momento in quel luogo con quelle persone, con i miei simili, mi sono liberato dal pregiudizio sono riuscito a parlare apertamente delle mie cose, della mia famiglia della loro sofferenza, c’erano altri che come me soffrivano e vivevano lo stesso dramma. [...]
Tutte quelle persone straordinarie mi hanno fatto provare emozioni forti, intense... mi hanno dato coraggio, il coraggio di cambiare ed imboccare un'altra strada. E' un mondo al quale non puoi fare a meno di affezionarti, pieno di sensazioni vere, crude, un mondo che non puoi fare a meno di amare e prenderlo a cuore. Per me è un privilegio farne parte, esserne stato coinvolto assieme alla mia famiglia, che ringrazio per essere presente qua oggi, darmi coraggio ed essermi vicina grazie vi amo profondamente. [...]
Esperienza, quella di Sanluri, come ho già detto, che mi ha aperto gli occhi di fronte al pregiudizio sul disturbo mentale, pregiudizio del quale molte volte siamo prigionieri, che ci porta all'isolamento più profondo, che non ci fa vedere altre strade se non quella di nascondere il problema che ci angoscia e nasconderlo tenerlo dentro significa soffrire di più. Dobbiamo al contrario socializzarlo, parlarne in tutti i posti, in tutte le lingue, sempre e in tutte le occasioni in cui ci viene data l'opportunità di farlo, dobbiamo avere insomma unità di intenti e testimoniare quella che è stata la nostra esperienza.
So che molte volte si rischia di piangersi addosso, ma bisogna comprendere quanto forte sia il dolore che si prova vedere chi soffre di questo disturbo ancora di più se questi sono tuoi familiari. Non sempre è facile parlarne senza essere vinti dalla sofferenza, dall'emozione, ti vien voglia di mollare tutto perché non ce la fai più e vi assicuro che è una lotta molto dura, quanto è duro e difficile esprimere i sentimenti e le sensazioni che invadono l'anima nel suo profondo. Chi non ha sofferto, non sa condividere le sofferenze altrui, ma credo sappiate di cosa sto parlando perché anche voi cosiddetti sani per una ragione o per l'altra avete sicuramente sofferto.
La mia famiglia è ormai da quindici anni che combatte questa battaglia, prima con uno e successivamente con l'altro figlio, (due bei ragazzi meravigliosi... vi stimo con tutto il cuore [...]), inizialmente abbiamo peregrinato in lungo e in largo da uno specialista ad un altro sempre con la speranza di risolvere il problema e vi assicuro che non ci è costato poco anche in termini economici. Stremati siamo infine approdati nel servizio pubblico della ASL, il (C.I.M.) che conosciamo e frequentiamo dal 1994. Conosciamo il suo evolversi, i medici e gli operatori che si sono susseguiti, all'alternarsi frequente dei vari psichiatri, i quali non garantivano continuità di trattamento. [...]
Oggi il Centro di Salute Mentale è altra cosa, il disturbo mentale viene seguito con altri metodi, sono cambiati i rapporti con gli operatori, gli stessi psichiatri condividono molteplici attività con i pazienti e i loro familiari, si organizzano con loro attività di vario genere, le bacheche del centro sono piene di comunicazioni di sempre nuove attività, senza dimenticare i corsi psicoeducazionali che si tengono con i familiari dei pazienti, finalizzati all'informazione, per affrontare con più responsabilità e consapevolezza il disturbo mentale e migliorarne la qualità della vita: è cresciuto insomma il livello e la qualità dei servizi [...] sono migliorati i rapporti tra medico paziente familiari e infermieri si sono perfezionati i Centri di Salute Mentale.
E quando andiamo in un Centro di Igiene Mentale, non entriamoci in punta di piedi avendo paura che qualcuno ci veda perché ci vergogniamo, facciamolo a testa alta perché stiamo entrando in un ambiente nobile, ambiente che ci sta fornendo i mezzi per migliorare la nostra qualità della vita e il diritto ad essere malati, in questo modo si combatte il pregiudizio. Queste opportunità non le troviamo di certo negli studi privati degli psichiatri, senza togliere loro nessun merito naturalmente.
Quello che oggi ho capito e che non dobbiamo abbassare mai la guardia che è una lotta che non dobbiamo combattere da soli, che ci sono altre persone disposte a farlo come sta già avvenendo, liberandoci per primi dal pregiudizio e dall'isolamento, tutto questo se vogliamo che lo facciano anche gli altri. Dobbiamo fare assieme ecco dov’è il segreto.
“Fare assieme” ha al suo interno ampie opportunità di relazione. Non si tratta solo di “fare”, ma anche di “ragionare” assieme, “decidere” assieme, “programmare” assieme, insomma tutto quello che si fa deve essere socializzato da tutti. Questo ampio “fare assieme” deve essere finalizzato al recupero del benessere per la propria salute, come familiari utenti e operatori, non solo ma anche per la salute generale della comunità. [...]


Carlo


“Specchiarsi negli occhi degli altri: quanto pesa il giudizio”


Il prossimo 20 di novembre si terra a Bologna un convegno regionale de "Le Parole Ritrovate" dal titolo: “Specchiarsi negli occhi degli altri: quanto pesa il giudizio”, vi aspettiamo numerosi!



brochure Convegno