Traumi di guerra
intervista a Patrizia Brunori





Pec, Kosovo, giugno 1999 - La città dopo i bombardamenti



Quando si pensa alla guerra, si corre col pensiero a edifici distrutti, territori sfigurati, morti, feriti, violenze, corpi martoriati e mutilati, famiglie in lutto, vedove, orfani, dolore, pianto… Meno facilmente l’uomo della strada riesce a figurarsi l’entità e la qualità della devastazione che quegli orrori producono nelle menti.
Il bel libro “Traumi di Guerra - un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina” di Patrizia Brunori, Gianna Candolo, Maddalena Donà dalle Rose, Maria Chiara Risoldi, pubblicato nel 2003 presso Manni editore con il contributo della Regione Emilia Romagna e dell’Associazione Onde Amiche Bologna-Tuzla, ci avvicina a questa dolorosa realtà in modo graduale e pensieroso.
In un diario a più mani vi si racconta di un’esperienza professionale e umana fuori dal comune: per sei anni un’équipe di professioniste della mente di Bologna ha fatto formazione e supervisione accanto a psichiatri, psicologi, pedagogisti e medici bosniaci alle prese con i traumi di una guerra particolarmente efferata nei confronti della popolazione civile.
Chiediamo a una delle autrici, Patrizia Brunori, psicologa, psicoterapeuta e membro dell’Istituto Italiano di Psicoanalisi di gruppo, di rispondere a qualche domanda per i lettori de "Il Faro".





Atrocità delle guerre della ex Jugoslavia
(Croazia 1991-1995, Bosnia Erzegovina 1992-1995, Kosovo 1998-1999)



● Il libro parla di una collaborazione fra terapeute italiane e bosniache nata da un incontro casuale, fortemente voluta da entrambe le parti e portata avanti con passione. Oggi, a più di dieci anni di distanza, ne rimane qualcosa?



Penso che in ognuna di noi rimanga ciò che abbiamo vissuto, condiviso e ciò che, grazie anche a questa esperienza, siamo divenute come persone e come professioniste. Nella realtà l’ultima volta che ci siamo incontrate come gruppo è stato a Bologna alcuni anni fa. Con un residuo di fondi del progetto avevamo avuto la possibilità di ospitare per due giorni tutto il gruppo delle colleghe e dei colleghi bosniaci a Monte Sole. Tutti erano venuti con molto desiderio di rincontrarci come gruppo. A distanza di anni dalla fine della guerra e dalla conclusione del nostro lavoro insieme avevamo condiviso come era stata significativa ed importante l’esperienza di un gruppo di lavoro che nel caos, nelle lacerazioni, nelle frammentazione e nelle emergenze che la guerra aveva comportato si era costituito come uno spazio costante nel tempo e nel setting. Un gruppo esperienziale di formazione che, pur nella asimmetricità dei ruoli – noi avevamo la responsabilità di tutelare il setting del gruppo di lavoro – aveva comportato uno scambio e una condivisione di pensieri, di esperienze e di emozioni e in cui si articolavano per tutti la dimensione della formazione, quella della cura e quella della conoscenza.
Come ogni vera esperienza ognuno la sentiva presente dentro di sé, sia nella sua dimensione storica, sia nelle aperture trasformative che aveva prodotto.



● Una simile esperienza professionale ha certamente arricchito la vostra competenza clinica, offrendo una casistica purtroppo molto ampia di disturbi post-traumatici da stress in adulti e bambini. Può raccontarci questa realtà con qualche esempio?



Si, abbiamo tutti appreso molto da questa esperienza. Abbiamo ascoltato le storie di bambini, adolescenti, donne e uomini traumatizzati dalla violenza della guerra, traumi cumulativi, ripetuti, multipli: la scomparsa o la morte di membri della famiglia, la fuga dalle proprie case e villaggi distrutti, i pericoli durante i viaggi di fuga, il dolore e la depressione del vivere nel campo profughi. Abbiamo pensato insieme a come prestare cura a tali frammentazioni, lacerazioni e a come sostenere le risorse psichiche degli individui e della comunità.
Ricordo il caso di una ragazzina arrivata insieme ad una sorella e a due fratellini in un campo profughi. Il padre era stato ucciso al villaggio da cui erano fuggiti. Per mesi non ebbero notizie della mamma, che riuscì ad arrivare solo in un secondo momento. Dopo del tempo in cui vivevano al campo, la mamma cominciò a trascurare i figli e nel campo giravano voci che si stava per risposare, come di fatto fu. La nuova relazione escludeva i figli. Per la ragazza questo fu un altro trauma, un altro abbandono. Alcune colleghe ci dissero come spesso si creavano conflitti e violenze nelle famiglie traumatizzate dalle violenze della guerra. La ragazza chiuse ogni rapporto con la mamma, rimanendo lei in casa ad occuparsi dei fratellini.
Arrivò dalla psicologa, inviata dal medico scolastico per forti somatizzazioni: tachicardie, disturbi respiratori e violenti dolori mestruali. La psicologa si domandava come avrebbe potuto aiutare questa giovane ragazza così chiusa nella sua rabbia e nel suo dolore. Rabbia che la portava a pensare che avrebbe voluto emigrare, non poteva tornare nel paese dove era vissuta poiché sapeva chi aveva ucciso suo padre e temeva il proprio impulso alla vendetta.
Questo caso aveva stimolato nel gruppo molte riflessioni ed emozioni e anche molti ricordi personali che avevano aiutato l’elaborazione delle emozioni di controtransfert suscitate. Ricordi della seconda guerra mondiale. Alcune colleghe del gruppo, tra cui la stessa psicologa, erano figlie di madri rimaste vedove - chi si era risposata e chi no- e ancora ricordi di racconti fatti dai genitori o dai nonni di violenze, di vendette, di lutti e di dolore.
Ci si era confrontati sull’importanza di comprendere il dolore e la rabbia della ragazza, senza demonizzare troppo la mamma con il rischio di colludere con l’idealizzazione fatta dalla ragazza del padre morto. Avevamo condiviso l’importanza per la ragazza di quello spazio terapeutico dove la psicologa l’aiutava ad elaborare il suo dolore e la sua rabbia. Questo caso aveva anche allargato la riflessione al contesto sociale, storico e politico. Aveva impegnato tutti in una riflessione sull’impossibilità di elaborare i lutti di una guerra in un contesto dove sia negata la verità e la giustizia. Il destino dei traumi, tanto più i traumi di una guerra, è che se non possono essere riconosciuti, pensati, sofferti ed elaborati divengono sempre più indicibili ed impensabili e rischiano di essere trasmessi attraverso le generazioni. Le famiglie possono trasmettere inconsciamente ai figli dolore e depressione, desideri o impulsi di vendetta o richieste idealizzate di riscatto dalle umiliazioni subite.



● Il vostro gruppo o qualcuna di voi singolarmente ha avuto in seguito occasione di affacciarsi in altri teatri di guerra?



Nessuna di noi, direi, ha partecipato ad altri progetti non governativi in realtà di guerra, ma ognuna ha articolato questa esperienza nel proprio lavoro. Purtroppo da allora siamo tutti molto più familiari con le guerre. Ci sono stati in questi anni, anche nel nostro paese, molti profughi e migranti che cercano di fuggire da luoghi di guerra dove la loro vita e quella dei loro figli è a rischio. L’emigrazione è infatti un fenomeno complesso e in continuo cambiamento. Le parole “migrante”, “immigrato”, “richiedente asilo”, “ profugo”, “clandestino”, “senza permesso di soggiorno”, connotano sempre di più una varietà di realtà esistenziali, sociali e storiche che richiedono di essere conosciute con attenzione e sensibilità per poter pensare a progetti e ad interventi adeguati nel sociale, come anche nei contesti di cura ed in quelli educativi. Le sofferenze emotive e i traumi psichici di queste persone sono poco pensate e riconosciute dai servizi sanitari, sociali ed educativi. In primo luogo perché sono nascoste dai problemi concreti della vita quotidiana: la casa, il lavoro, i permessi di soggiorno, i soldi. Ma ancor più perché sono escluse dalla comunicazione: non c’è la lingua condivisa dei pensieri e delle emozioni, e sottili e profonde difese psichiche ci possono rendere distanti a questa compartecipazione. Personalmente in questi anni ho continuato a lavorare nella nostra realtà con gli operatori che lavorano in ambito socio-sanitario o educativo con momenti di formazione e supervisione. Alla sofferenza e solitudine di molti utenti o pazienti infatti ho riscontrato spesso una solitudine degli operatori a confronto con realtà così difficili. Ho approfondito le conoscenze sviluppate dalla etnopsicoanalisi, disciplina che studia la complessità di una relazione di cura con pazienti di culture differenti dalla propria, portatori spesso di complessi traumi migratori.



● Nel primo verbale degli incontri con la collega Rabija Radić di Casa Amica – Tuzla, spicca una frase di grande intensità: “Non potendo dare cose che non avevano, hanno dato ascolto e una parola calda”. L’empatia è un fattore essenziale in ogni relazione d’aiuto, ma in ambito professionale occorre anche tenere la giusta distanza. Come siete riuscite a controllare il vostro inevitabile coinvolgimento emotivo e a contenere quello delle colleghe bosniache?



La nostra collega Rabija Radić disse una cosa apparentemente molto semplice, ma nella realtà molto complessa e profonda di fronte ad esperienze traumatiche così devastanti. Il trauma isola, raggela, ammutolisce, frammenta. Solo un ascolto attento, partecipe ma anche sensibile e discreto può permettere di iniziare a riconoscere, a narrare, a contenere e anche ad elaborare l’esperienza traumatica. Ma “la giusta distanza” in una relazione di cura come in quella di formazione e di supervisione è una costruzione continua che richiede una competenza professionale, sensibilità e consapevolezza. Ci si può difendere infatti nella relazione sia schermandosi troppo, per esempio con un linguaggio molto tecnico e razionalizzante, o ci si può perdere in una relazione troppo empatica e confusiva. Per tutte noi il gruppo è stato uno spazio necessario per elaborare questi movimenti dell’animo e per costruire riflessioni teoriche. Un gruppo esperienziale di formazione è un contenitore prezioso. Si costituisce come uno spazio, un luogo ed un tempo in cui con libertà e fiducia tutti i membri, con la guida attenta di un conduttore esterno, possono elaborare le emozioni ed i pensieri che la relazione di cura evoca e contemporaneamente possono riflettere sulle teorie e sugli assetti di cura. Noi abbiamo partecipato contemporaneamente a più dimensioni gruppali, declinate a diversi livelli di elaborazione e di senso.
Il primo gruppo è stato quello Istituzionale e Politico: Spazio Pubblico di Donne 1, depositario primo delle angosce, del caos, dei bisogni di operatori e istituzioni sconvolti dalla guerra. Un gruppo che aveva permesso che un gruppo di medici, psicologi e psichiatri del luogo organizzassero il loro lavoro a Casa Amica 2. Una casa, un contenitore concreto ed un contenitore mentale a cui si potevano rivolgere le donne ed i bambini traumatizzati nel corpo e nell’animo dagli orrori che avevano vissuto. L’istanza vitale di “cura”, la necessità di creare spazi di speranza e di vita contro la distruzione e la distruttività era alla base del lavoro delle colleghe bosniache. Poiché la sofferenza che deriva dal non riuscire a fare esperienza della vita equivale alla morte psichica. Il terzo gruppo è stato quello che era nato dal nostro incontro con le colleghe di Tuzla. Un gruppo esperienziale di formazione, interdisciplinare, transculturale. Un gruppo di condivisione di pensieri e di emozioni sui traumi della guerra, un gruppo di cura, di ricerca e di conoscenza.



● Nella sua introduzione lei dice: “Mi domandavo come la psicoanalisi potesse aiutarci a comprendere meglio lo scatenarsi ed il perpetuarsi di questi percorsi tragici dell’umanità, ma soprattutto come potesse contribuire a costruire percorsi di vita”. Alla luce della sua esperienza di psicoanalista, oggi riesce a darsi risposta?



Diciamo che queste sono domande che interrogano l’uomo fin dall’antichità. A queste domande hanno cercato di dare risposte la filosofia, la letteratura, i miti, la politica. La psicoanalisi ci fornisce molte riflessioni sulla natura umana, sullo sviluppo affettivo della persona, sulla relazione d’amore e di rispetto, sulle dinamiche della distruttività, sulla perversione, sul conflitto e sulla solidarietà. È l’esperienza primaria di una relazione di tenerezza e di rispetto che permette al bambino la costruzione di un apparato psichico in grado di riconoscere, vivere e contenere le emozioni, di costruire l’esperienza della fiducia e la capacità di sopportare le inevitabili frustrazioni. Nel corso dei primi anni di vita la funzione dell’ambiente, a partire dalle figure parentali, è quella di accompagnare l’essere umano verso quella che la psicoanalisi definisce una buona posizione depressiva. Solo così l’essere umano può accogliere il pensiero del limite, della compresenza del bene e del male, della potenza e dell’impotenza, dell’amore e dell’odio, sia in lui stesso che nel suo ambiente. Può interiorizzare la capacità di comprendere la complessità delle esperienze affettive. La psicoanalisi ci dice infatti che l’“io” ha fin dalle origini la tentazione di proiettare all’esterno ciò che prova all’interno come pericoloso o spiacevole e quindi fonte di angoscia per farne un doppio straniero, inquietante, demoniaco. Ci indica la necessità di riconoscere, di contenere e quindi di modulare dentro di noi sia gli impulsi di amore che quelli di odio fin nelle relazioni più intime. Poiché come ben scrive Kristeva:



Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo o combattiamo contro lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo “improprio” del nostro impossibile “proprio”. Delicatamente, analiticamente, Freud non parla degli stranieri: egli ci insegna a scoprire l’estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo di non perseguitarla fuori’ (3)


Note:

1. Associazione non governativa di donne, nata a Bologna, che realizza il progetto Ponti di donne attraverso i confini in diversi luoghi della ex Jugoslavia.

2. Casa Amica è il nome della struttura nella quale si svolgevano le molteplici attività di cura per le donne ed i bambini, profughi e non, che vi si rivolgevano. Casa Amica è tuttora esistente.

3. J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli Milano 1990, pag.174


Psicofarmaci in Psichiatria


Dr. Pierluigi Boldri, C.S.M. Tiarini, Bo
25 Maggio e 13 Luglio 2012

a cura dell'Associazione UmanaMente



Categorie di psicofarmaci



Gli psicofarmaci possono essere suddivisi schematicamente in 4 principali categorie in base ai loro effetti e alle indicazioni cliniche.

1) ANTIDEPRESSIVI
Sono farmaci attivi nel disturbo dell’umore di tipo depressivo. Ristabiliscono il normale tono dell’umore in persone che soffrono di depressione. Trovano però indicazione anche nei disturbi d’ansia, di panico, ossessivo-compulsivi, nelle fobie e nei disturbi del comportamento alimentare.
Agiscono sul Sistema Nervoso Centrale (SNC) aumentando la presenza e l’attività dei neurotrasmettitori carenti quali la serotonina, la noradrenalina e la dopamina. Hanno poi effetti complessi sui recettori, rimodulandone la sensibilità ai neurotrasmettitori stessi.
Ci sono farmaci antidepressivi che hanno un’azione su più neurotrasmettitori ed altri più selettivi che agiscono su uno solo.
Possono essere distinti in base al meccanismo d’azione:
Gli antidepressivi di vecchia generazione sono i triciclici, come ad esempio l’Anafranil, il Tofranil, il Laroxil, il Noritren ecc. che sono sul mercato da circa 50-60 anni. Sono farmaci molto efficaci, e ampiamente testati, ma possono avere fastidiosi effetti collaterali quali secchezza delle fauci, stipsi, ritenzione urinaria, aumento della pressione endooculare, difficoltà, sudorazione, ipotensione ortostatica, aritmie, diminuzione della soglia anticonvulsivante.
Di più recente commercializzazione sono gli SSRI che sono farmaci inibenti in modo selettivo la ricaptazione della serotonina, con risultato l’aumentata disponibilità. Sono farmaci molto efficaci ed hanno ridotta tossicità ed un profilo di effetti collaterali differente che ne fanno i farmaci di prima scelta nella terapia della depressione (effetti generalmente a carico dell’apparato gastroenterico, della sessualità, cefalea ecc). Gli effetti collaterali sono minori proprio per la loro capacità di ricaptazione selettiva. Tra gli SSRI più comunemente usati: Prozac (Fluoxetina), Sereupin (Paroxetina), Fevarin e Dumirox (Fluvoxamina), Zoloft (Sertralina), Elopram (Citalopram), Cipralex (Escitalopram).
Ci sono poi altre categorie come gli inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina Efexor (Venlafaxina), Cymbalta, Xeristar (Duloxetina), che sono simili ai triciclici ma con meno effetti collaterali, gli inibitori della ricaptazione della dopamina e della noradrenalina come il Wellbutrin (Bupropione) ed altri (Mirtazapina, Trittico).
La terapia con farmaci antidepressivi prevede un periodo iniziale di 4-6 settimane per valutare la risposta al farmaco (si possono aumentare le dosi o cambiare farmaco in caso di assenza di risposta), poi una fase di continuazione della terapia che dura generalmente 4-6 mesi alla quale può o deve succedere una fase di mantenimento che può durare anche diversi anni, in relazione alla storia clinica del paziente.
Alcuni pazienti non rispondono alla terapia con antidepressivi ed alcuni rispondono solo parzialmente. Ci sono alcune strategie terapeutiche che si possono attuare in questi casi.

2) STABILIZZATORI DELL’UMORE
Il nostro umore è soggetto normalmente a oscillazioni nel corso della vita, ma anche della giornata. Non possiamo pensare di essere dello stesso umore tutti i giorni, questo varia anche a seconda di ciò che avviene e di come lo percepiamo e lo viviamo.
E’ presente un disturbo dell’umore quando queste oscillazioni sono troppo frequenti e con intensità troppo elevata in senso depressivo e/o maniacale, come per esempio accade per chi soffre di un disturbo bipolare.
Gli stabilizzatori dell’umore riducono le oscillazioni patologiche dell’umore permettendo anche di prevenire le ricadute o di attenuarne la gravità e la durata. I più usati sono i Sali di Litio, l’Acido Valproico (Depakin) e la Carbamazepina (Tegretol), Lamotrigina (Lamictal), Topiramato (Topamax). Vengono usati come stabilizzatori dell’umore, oltre ai Sali di litio, farmaci tradizionalmente usati per la cura dell’epilessia.
Agiscono sul GABA, acido gamma-ammino butirrico, che è un neurotrasmettitore di tipo inibitorio a livello centrale e diminuisce l’eccitazione contrapponendosi al glutammato, che è un neurotrasmettitore con capacità eccitatoria.
Gli stabilizzatori dell’umore hanno effetti collaterali e per alcuni di essi sono consigliati esami regolari del sangue al fine di valutarne il livello nel sangue e gli effetti su alcuni parametri. A volte posso verificarsi alterazioni di specifici esami di laboratorio, cambiamenti del peso, della funzione renale e tiroidea, tremore alle mani ecc...
Le terapie con stabilizzatori dell’umore sono in genere terapie lunghe di mantenimento per via del tipo di problematica per cui generalmente vengono usati.

3) ANSIOLICI E IPNOTICI
Le Benzodiazepine sono farmaci con effetti ansiolitici, sedativi, ipnotici, anticonvulsivanti e miorilassanti.
I più noti sono: Tavor, Xanax, Valium, En, Lexotan, Prazene, Lorans, Minias... Alcuni di essi hanno effetto ipnoinducente che si verifica a dosaggi inferiori a quelli necessari per l’effetto ansiolitico e sono utilizzati per favorire il sonno (Felison, Dalmadorm, Halcion).
Sono i farmaci di più ampio uso e abuso al mondo e vengono usati per disturbi d’ansia, di panico o associati ad altri farmaci nella terapia di altri disturbi. Andrebbero usati solo per brevi periodi.
Esistono farmaci ipnotici non appartenenti alla categoria delle benzodiazepine (es Stilnox).

4) ANTIPSICOTICI o NEUROLETTICI
I farmaci antipsicotici, sono così chiamati per l’indicazione elettiva che hanno per il trattamento dei sintomi psicotici come allucinazioni, comportamento agitato, disturbi del pensiero, disorganizzazione comportamentale. Vengono però utilizzati anche nei disturbi bipolari o nei disturbi d’ansia particolarmente importanti.
Attualmente gli antipsicotici si dividono in due gruppi: i neurolettici di prima generazione, scoperti negli anni ’50, vengono chiamati TIPICI (es. serenase, haldol, entumin, talofen, largactil ecc..), e quelli di seconda generazione detti ATIPICI (zyprexa, seroquel, risperdal, leponex, abilify ecc..).
Questa divisione si basa sui maggiori effetti collaterali di tipo extrapiramidale che determinano gli antipsicotici tipici, a differenza degli altri, e sulla base del profilo dei recettori sui quali agiscono.
I principali effetti collaterali consistono in disturbi del movimento come la distonia, l’acatisia (irrequietezza motoria e soggettiva), il tremore, la rigidità, il rallentamento motorio, disturbi gastrointestinali, cardiologici, sulla sfera sessuale. A seguito di somministrazione a lungo termine di antipsicotici atipici si può produrre un disturbo del movimento ipercinetico noto come discinesia tardiva, caratterizzato da movimenti ritmici e involontari del volto, della lingua e della mandibola, e da movimenti degli arti che possono essere rapidi o scattanti o coreiformi (simili a una danza).
I farmaci antipsicotici vengono dati in modalità di somministrazione varie: orale, intramuscolare, raramente in via endovenosa, oppure in forme ad azione ritardata o deposito.
Il Leponex è un farmaco che viene usato per le patologie schizofreniche che non hanno risposto ad altri farmaci. E’ buona prassi provare prima gli altri antipsicotici e solo in un secondo momento il leponex. Generalmente il Leponex ha effetti collaterali meno pesanti di altri antipsicotici come il Serenase, ma lo stesso può produrre effetti spiacevoli come molta salivazione o secchezza delle fauci, sedazione, abbassamento della pressione, effetti ematologici.


● SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI
Gli psicofarmaci generalmente vengono assunti per via orale (in preparazioni pronte in cpr, cps o gocce, o a rilascio prolungato). Altre modalità di assunzione sono quella intramuscolare e molto raramente quella endovenosa.
Una particolare modalità di assunzione di un farmaco è quella detta “Depot” che significa deposito e si riferisce a particolari formulazioni di farmaci (come per esempio Moditen Depot, Clopixol Depot, Haldol decanoas) che consentono l’accumulo nel distretto di somministrazione ed il graduale e lento rilascio nel tempo della sostanza terapeutica somministrata. Il farmaco quindi è disciolto in particolari veicoli oleosi che ne consentono lo stoccaggio nel tessuto muscolare (tramite iniezione intramuscolare profonda).


● DIPENDENZA E ASTINENZA
La dipendenza è associata ad altri due concetti:
1) la tolleranza, quando per ottenere lo stesso effetto bisogna aumentare le dosi, oppure quando alla stessa dose l'effetto è sempre minore;
2) la sindrome di astinenza in caso di brusca sospensione del farmaco.
I tranquillanti sono i farmaci che maggiormente danno dipendenza, molto meno gli antipsicotici ma non è sempre vero che chi assume farmaci da tanti anni diventa comunque dipendente; è sempre utile fare considerazioni rispetto ai rischi e ai benefici delle terapie, valutando caso per caso la storia dei pazienti.


● INTERAZIONE FUMO/PSICOFARMACI e ALCOOL/PSICOFARMACI
Alcuni stili di vita che prevedono l’uso di alcool e fumo non vanno molto d'accordo con le terapie a base di psicofarmaci. Nelle sigarette ci sono tanti composti che vanno ad interagire con il cervello e naturalmente con le sostanze che sono attive sul cervello come i farmaci. Il fumo in genere riduce l'effetto dello psicofarmaco, perché tra gli effetti vi sono quelli di far aumentare la pressione, produrre tachicardia e aumentare la vigilanza. Uno è più sveglio quando fuma, per cui se si prende un farmaco tranquillante per dormire si dorme peggio o per avere sedazione, tale effetto del farmaco è minore.
Poi c’è l’effetto del fumo sul fegato e sugli enzimi che vanno a lavorare anche i farmaci ed in questo caso il fumo invece facilita il metabolismo dei farmaci, per cui spesso farmaci come la clozapina, l’olanzapina hanno meno effetti. Fumare riduce l’effetto di molti psicofarmaci e fa stare peggio perché il farmaco riesce meno a curare il problema per cui è stato dato. Il fumo ha degli effetti pericolosi di interazione per cui bisogna aggiustare la dose del farmaco. Bisognerebbe smettere di fumare anche per gli effetti nocivi dei componenti del tabacco su tutti i distretti corporei.
L’alcool come il fumo, soprattutto se abusato, danneggia diversi tessuti e organi del corpo, a partire dallo stomaco e dal fegato, ma soprattutto quando si assumono psicofarmaci bisogna stare molto attenti perché è un po’ come il fumo e va ad agire nelle stesse zone del cervello in cui agisce lo psicofarmaco aumentandone gli effetti sedativi. Se si prendono tranquillanti o neurolettici e ci si mette sopra dell’alcool sommiamo due effetti sedativi. Poi abbiamo l’interazione con gli enzimi del fegato che metabolizzano anche i farmaci, con effetti imprevedibili. Bisognerebbe non bere alcoolici e fumare poche sigarette. Non è facile, ma mischiando queste sostanze si possono ottenere effetti dannosi o anche non avere effetti positivi come si dovrebbe.

Possono provocare danni irreversibili?
Se andiamo a mischiare psicofarmaci e alcool l'interazione può diventare molto pericolosa. Salendo di quantità o gradazione le reazioni possono essere più gravi, fino al coma e questo ovviamente può essere anche irreversibile.

Qualora una persona volesse festeggiare con un bicchiere di vino in una occasione speciale, cosa dovrebbe fare?
Dipende da tante cose, ci sono persone che riescono a metabolizzare l’alcool meglio di altre e generalmente sono coloro che hanno sempre avuto l’abitudine di bere poche quantità di alcool (es un bicchiere di vino a tavola) ed hanno gli enzimi per metabolizzare meglio; poi ci sono differenze rispetto al peso, al sesso e a tanti altri fattori. La regola generale vuole che chi prende psicofarmaci non deve assumere alcool. Andando a buon senso però possiamo dire che se una persona beve una birra e contemporaneamente prende due zyprexa e due tavor io credo che non vada bene, se invece una persona prende una fluoxetina la mattina e prima di andare a letto un tavor e alle nove di sera beve una birretta con gli amici, magari in occasione di una festa o in occasione di una bella e gratificante serata in compagnia, possiamo dire che l’impatto dell’alcool è in questo caso minore.

Come regolarsi con il proprio medico sapendo con anticipo di voler bere un bicchiere di vino o birra, premettendo quanto è importante essere sinceri?
Consiglierei senz’altro di astenersi dall’uso di alcolici o di bere quantità veramente minime (un bicchiere di birra o un bicchiere di vino, possibilmente ai pasti, assolutamente niente super-alcolici) e non assumere contemporaneamente alcool e psicofarmaci. Ci sono farmaci più fastidiosi con l’alcool come i tranquillanti per cui se si devono prendere è meglio aspettare diverse ore, spostando l’orario di assunzione della terapia.


● EFFETTO PLACEBO
Il placebo è una sostanza inattiva che non ha alcun effetto specifico sulla patologia che si dovrebbe curare. L’effetto però è reale, ma non vi è alcun principio attivo. Ci sono molti studi sull’effetto placebo anche riguardanti persone che soffrivano di forti dolori e che si sentivano stare meglio dopo la somministrazione di un placebo. Il placebo funziona perché la persona si aspetta qualcosa, perché il medico che da un placebo lo propone come una sostanza efficace e il paziente ha fiducia, perché la persona può essere più o meno suggestionabile.
C’è un effetto molto interessante che si chiama effetto nocebo per cui la persona pensa di avere anche gli effetti collaterali del farmaco che pensava di aver preso.
I farmaci vengono testati proprio attraverso l’uso di placebo: vengono fatti con due campioni di volontari, ad uno viene dato il farmaco da testare e all’altro un placebo senza essere informati sulla sostanza assunta. Se il risultato di coloro che non hanno assunto il placebo è risultata migliore di quelli che hanno preso il placebo allora il farmaco viene ritenuto efficace.
Ricordiamo però anche che tutti i farmaci psicoattivi hanno comunque un effetto definito placebo che va oltre l’effetto dello stesso principio attivo.


● FARMACI GENERICI O EQUIVALENTI
I farmaci costano molto appena usciti perché le aziende mettono molti soldi per la ricerca e per testarli per cui devono rientrare quando mettono sul mercato il prodotto. I farmaci nascono con un marchio proprio perché l’azienda spende i soldi, ma dopo 20 anni scade il brevetto e l’esclusiva, per cui anche le altre aziende farmaceutiche possono produrre lo stesso farmaco. Nascono quindi i generici o farmaci equivalenti che contengono lo stesso principio attivo, hanno la stessa forma farmaceutica, le stesse indicazioni, gli stessi standard di qualità e sono bioequivalenti. Qualche differenza può esserci nei farmaci a rilascio prolungato ma per problemi legati al meccanismo di rilascio stesso.
Generalmente quando scade un brevetto anche i farmaci di marca abbassano il costo.
Sono rimasti pochi i farmaci ancora sotto esclusiva di brevetto (cipralex, enctact, xeristar, cymbalta, ellbutrin). Per cui se il medico scrive sulla ricetta un farmaco e il farmacista ve ne da un altro equivalente non vi sono problemi. Il medico però può scrivere espressamente “non sostituibile”.


● ALLEANZA TERAPEUTICA
Nell’atto della prescrizione del farmaco, quando il medico concorda con il paziente la terapia farmacologica è fondamentale che nasca un alleanza. La stessa efficacia del farmaco può scemare se viene presentato male e non sono capiti i motivi della prescrizione. L’alleanza è essere insieme nella cura, è condividere, è fare un contratto e, quando è possibile, per il paziente dire in cosa si trova d’accordo e cosa no. Si deve sentire libero di dire cosa pensa e quali effetti ha il farmaco su di lui. Non esistono medicine cattive o buone, esistono cattive prescrizioni e medicine non adatte per tutte le situazioni o tutti i pazienti. All’interno di una buona alleanza si può trovare il farmaco migliore per quel particolare paziente. Il farmaco perde di efficacia se non si colloca all’interno di un rapporto di fiducia e rispetto. Spesso ci sono persone che non vogliono prendere psicofarmaci. E’ fondamentale spiegare tutto del farmaco e cercare un’alleanza terapeutica che fissi obiettivi comuni, soprattutto nelle terapie che richiedono lunghi tempi di somministrazione.
L’interruzione della terapia non concordata non è mai una buona cosa, è ciò che fa saltare i percorsi di cura. Comporta il rischio di avere una ricaduta o una recidiva. All’interno di una buona alleanza, basata su condivisione, scambio, fiducia, un paziente non dovrebbe mai trovarsi ad interrompere la terapia. Può succedere che quando mi sento bene decida di sospendere il farmaco senza concordarlo con il medico e sospendendolo mi senta ancora bene. Posso arrivare a pensare che interrompere il farmaco sia stata una buona idea perché magari per un certo periodo sto bene, mi sento bene. Poi cosa succede?! Che mi arrivano, anche a distanza di molti giorni, sintomi che possono essere da sospensione ma anche, caso più grave, da ricaduta della malattia. Quindi, improvvisamente può succedere che mi torna l’angoscia con tutti gli altri sintomi.
La persona che interrompe il farmaco e non lo dice a nessuno si mette nelle condizioni di stare male di lì a poco.

Emivita. È un parametro per la descrizione farmacocinetica di una molecola poiché indica il tempo necessario a ridurre del 50% la concentrazione plasmatica. I farmaci hanno emivita diversa e questa certamente, anche se non è l’unico concetto che influisce, c’entra negli effetti che seguono ad una loro sospensione. Questo è un problema soprattutto quando si interrompono bruscamente le terapie, come per esempio con gli ansiolitici che hanno un emivita breve. Un farmaco con un’ emivita più lunga che viene sospeso bruscamente ha effetti un po’ meno gravi e improvvisi a livello di sintomi di astinenza.
L’emivita condiziona chiaramente anche la scelta della terapia e la somministrazione. Un farmaco con emivita lunga può venir somministrato meno volte.
Anche il ricovero spesso purtroppo avviene quando si viene a interrompere la fondamentale alleanza che si diceva prima e per questo possiamo sostenere che molti ricoveri sarebbero evitabili. Certo che il ricovero può avvenire quando c’è nella vita del paziente un momento di particolare crisi o difficoltà anche se si stanno assumendo le terapie, oppure quando temporaneamente viene meno la rete sociale e familiare, ma molti volte i ricoveri si potrebbero evitare, mantenendo una buona alleanza con il proprio curante e condividendo i percorsi terapeutici senza interromperli.
Cambiamento di terapie in fase di ricovero.
Le terapie spesso sono varie e composte da più categorie di farmaci. Supponiamo che si arrivi ad un ricovero in seguito ad un momento di crisi che la persona non si sente di superare a casa. L’esperienza comune è che spesso la terapia durante il ricovero viene modificata per tre principali motivi:
1) quel tipo di assortimento di farmaci ha perso di efficacia per cui viene fatta una modifica che sia più in linea con lo stato attuale del paziente. Questa modifica viene fatta in accordo sempre con il medico curante ed inserita all’interno del piano farmacologico di cura.
2) il secondo motivo può essere, se vogliamo, più banale e risiede nella professionalità del medico curante che in ospedale prende in carico il paziente. Quel medico che vede quel particolare paziente potrà utilizzare la propria personale formazione ed impostare il piano terapeutico utilizzando le proprie personali preferenze di farmaci. Generalmente però vengono attuate modifiche sempre in accordo con lo psichiatria del CSM che ha in cura la persona.
3) Il terzo motivo può essere dettato conseguente ad un periodo di non assunzione del farmaco da parte del paziente, per cui si approfitta di questa situazione per ripartire “da zero”, magari con farmaci più recenti.


● FARMACOTERAPIA E PSICOTERAPIA
A volte si contrappongono queste due tecniche terapeutiche: o la terapia della parola o la terapia del farmaco, come se fossero incompatibili. Non lo sono affatto! Sono due tecniche che dovrebbero andare di pari passo e possono iniziare in alcune situazioni anche nella stessa fase.
Altre volte invece, come durante una fase particolarmente acuta, in cui per esempio la persona sta delirando e ha allucinazioni, c’è bisogno subito di utilizzare farmaci, ma in un secondo momento emerge comunque la necessità di capire cosa è successo e la psicoterapia può essere molto utile per aiutare la persona ad elaborare quello che è successo.
In alcuni tipi di disturbo poi, come ad esempio le depressioni sottosoglia o lievi, la psicoterapia o altri interventi come il counseling o l’auto mutuo aiuto, sono addirittura interventi preferibili alla somministrazione dei farmaci.
In generale, gli interventi nell’area psicologia sono molteplici e vanno ad integrarsi con le terapie farmacologiche.