“Oooh, oggi è proprio una bella giornata!”


Un giorno un professore, entrando in aula, trovò i propri alunni particolarmente scalmanati. Decise allora di richiamare la loro attenzione in una maniera alquanto insolita, si stiracchiò come se fosse appena uscito da un letto e, sbattendo il palmo delle mani sulla cattedra, esclamò ad alta voce “Oooh, oggi è proprio una bella giornata!”. Gli alunni sorpresi dal rumore delle mani e da questa frase quasi gridata si girarono contemporaneamente verso il professore, ci fu un attimo di silenzio finché uno di loro si decise a chiedere “Prof, perché mai sarebbe una bella giornata?”. Non aspettando altro che quella domanda, lui immediatamente rispose: “ Perché stamattina mi son alzato alle sei, ho infilato tuta e scarpette e ho fatto una bella ora di corsa e adesso sono pronto, carico, con un sacco di energia per affrontare la giornata”. Gli studenti si guardarono tra di loro ridacchiando, come a dire: “Ecco, è impazzito!”. Uno dei più svegli s’azzardò a dire: “Ma scusi, prof, non s’offenda, ma… Alzarsi alle sei per andare a correre e poi avere anche il coraggio di sostenere che sta benissimo e ha un sacco di energie per la giornata? Mah… per me è impossibile!”. L’insegnante si aspettava questo tipo di reazione, anzi sperava che ci fosse, per cui immediatamente iniziò a rispondere: “Certo che lo sostengo! E ora vi dimostro anche il perché!”. Vista come una sorta di sfida gli studenti iniziarono a commentare: “Ecco ci spieghi come, che siamo proprio curiosi!”. “Allora, partiamo da un qualcosa che sicuramente avrete provato tutti: la sensazione di paura, per intenderci tipo mentre scorro il dito sul registro prima di interrogare e voi, come sempre, non sapete nulla” . Nella classe partono risa e urla “Non è verooo”. “È vero, è vero, è inutile che neghiate!
Comunque andiamo avanti: avete presente cosa succede? Il cuore batte a mille, fate respiri profondi e vi sentite iper-attenti a tutto ciò che succede”. Dal fondo uno studente ammise “Eh sì, è proprio così, però è così anche prima di una gara, o se litigo con qualcuno”. “Esattamente!” esclamò il prof. “In quelle situazioni il nostro corpo rilascia grandi quantità di un ormone neurotrasmettitore che si chiama ADRENALINA”. Mentre lo diceva scrisse il nome alla lavagna. “Questa adrenalina viene prodotta dal surrene, più precisamente dalle cellule cromaffini della midollare del surrene…” non fece in tempo a finire la frase che fu subissato di urla “Prof, non ci interessa, vogliamo sapere cosa fa!!!”. “Va bene, ma state calmi adesso vi spiego”. “Visto che il vostro compagno vi ha detto, giustamente, in che tipo di situazioni viene prodotta, possiamo riassumere dicendo che è l’ormone coinvolto nella reazione ‘combatti o fuggi’, che in inglese si dice ‘fight or flight.’ Oramai il prof aveva ottenuto l’attenzione della classe, che sempre più curiosa chiese, quasi in coro: “ Ma quindi? Ci dica cosa c’entra con la sua affermazione!”. “Ora ci arriviamo! Durante un’emozione estrema, che so, tipo delle montagne russe molto veloci, o bungee jumping, oltre all’adrenalina il nostro corpo produce un altro tipo di neurotrasmettitori che si chiamano ENDORFINE. Le endorfine sono un gruppo di sostanze prodotte dal cervello, nel lobo anteriore dell'ipofisi.”… Brusio in classe… “Prof, che fa riparte coi paroloni?” “Ok ok, dicevo: le endorfine sono neurotrasmettitori e ce ne sono di vari tipi, una ventina, divise in quattro gruppi: alfa-endorfine, beta-endorfine, gamma-endorfine, sigma-endorfine. Questi neurotrasmettitori hanno un effetto stupendo sul nostro umore e sullo stato di benessere generale del nostro fisico”. “ Quindi, prof, ci sta dicendo che dobbiamo fare tutti i giorni bungee jumping o andare a Mirabilandia per stare meglio… oh, se mi ci porta lei a me sta bene!”. “Ma no! È qui che viene il bello! L’attività fisica anche non particolarmente intensa, ma di durata abbastanza prolungata, diciamo sopra i trenta minuti, fa produrre al nostro corpo grandi quantità di endorfine, tanto da creare una situazione che viene denominata in inglese runner's high, lo ‘sballo del corridore'.
Questo è ciò che da un punto di vista fisiologico fa sì che tante persone, una volta che iniziano a far maratone, non smettano più, per via di questo benessere che si genera in seguito alla produzione di queste endorfine!” “Alé, tutti a far maratone!!!” Esclamò uno studente. “Suvvia, non far lo sciocco… ovvio che no, ognuno farà attività fisica in base ai propri mezzi. Pensate che conosco un professionista che sono anni che, cascasse il mondo, due mattine a settimana va a farsi un giro di un’oretta su per i colli di Bologna assieme ad un allenatore, alternando corsa e camminata”. Una delle allieve chiese: “Un attimo, ma… mi dica… ora ho capito perché lei prima ha detto quella frase, ma iniziare è dura! Io ho provato ad andare a correre ma queste endorfine mica le ho sentite, ho sentito solo una gran fatica!” “ Beh su questo devo darti ragione: partire è la parte più difficile, però vi posso garantire che già dopo le prime quattro / cinque volte che vi allenate, ovviamente ravvicinate tra loro, diciamo alternando un giorno di lavoro a uno di riposo, inizierete a sentirne gli effetti in maniera evidente. Per ingannare la fatica delle prime volte potete andare in gruppo o con un amico/amica. Intanto, se mi date un po’ di attenzione, vi spiego che cos’è la fatica muscolare”.
A questo punto il prof si portò alla lavagna e cominciò a scrivere. Qualche ragazzo più volonteroso prese il quaderno degli appunti, ma anche gli altri si disposero all’ascolto con attenzione.
“La fatica muscolare insorge a causa di molteplici fattori:
1. La disidratazione
2. Il surriscaldamento
3. La diminuzione delle fonti energetiche
4. La produzione dell’acido lattico

LA DISIDRATAZIONE :
Durante il lavoro fisico il corpo perde acqua attraverso la sudorazione e l’evaporazione, e il sudore è l’agente refrigerante del corpo. Le ghiandole sudoripare sprigionano il sudore che evapora, raffreddando la pelle e il sangue immediatamente al di sotto di essa. Il sangue raffreddato a sua volta torna indietro per raffreddare l’interno corpo. La perdita di liquidi da parte del corpo limita la capacità del sangue di trasportare i macronutrienti ai muscoli sotto sforzo e di eliminare i prodotti di scarto del lavoro muscolare.

IL SURRISCALDAMENTO :
Il problema del surriscaldamento corporeo è strettamente collegato a quanto detto sopra a proposito della disidratazione.
Il sistema circolatorio trasporta il calore generato dai muscoli alla pelle perché venga dissipato. L’aumento della richiesta di trasporto di macronutrienti da parte del sistema muscolare al sistema sanguigno durante lo sforzo fisico può sovraccaricare il sistema circolatorio, provocando un’inadeguata dissipazione del calore corporeo e un corrispondente aumento della temperatura corporea dell’atleta.

LA DIMINUZIONE DELLE FONTI ENERGETICHE:
La deplezione delle fonti energetiche durante lo sforzo fisico varia molto a seconda di intensità e durata dello sforzo stesso.

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Nella figura vengono riportate l’importanza delle fonti energetiche durante l’attività fisica e il come varia la loro importanza nell’attività fisica al variare della durata della stessa. Il glicogeno muscolare è la fonte energetica che per prima viene utilizzata durante il lavoro ed è anche quella che prima si esaurisce; entrano in gioco mano a mano gli altri tipi di ‘benzina’. Oltre a fornire l’energia necessaria alla contrazione muscolare, il glucosio è una fonte vitale d’energia per il cervello e per il sistema nervoso. Anche se per il movimento dei muscoli volontari si possono utilizzare acidi grassi e aminoacidi, il glucosio è l’unica fonte che può fornire dosi sufficienti di energia alle funzioni del sistema nervoso. Questo spiega perché il calo di glicogeno nei vari serbatoi disponibili all’interno del corpo (muscoli – fegato) è una delle principali cause dell’affaticamento durante la pratica sportiva.

LA PRODUZIONE DELL’ACIDO LATTICO :
L’acido lattico è un sottoprodotto del metabolismo anaerobico, che non serve ai muscoli che si stanno esercitando. Al contrario, l’acido lattico si diffonde nel flusso sanguigno che lo trasporta al cuore, al fegato e ai muscoli inattivi, dove viene riconvertito in glucosio. Ma quando l’intensità dell’esercizio aumenta, nei muscoli si accumula sempre di più acido lattico, che il sangue deve riuscire ad eliminare. Il livello di acido lattico nel sangue, quindi, aumenta con l’aumentare dell’intensità dell’esercizio. Se si mantiene alto questo livello di intensità si raggiunge la soglia del lattato, ovvero il punto in cui il livello di acido lattico nel sangue è maggiore di quello che l’organismo è in grado di metabolizzare. L’insieme di questi fattori porta chi svolge attività fisica alla sensazione di fatica e alla necessità di interrompere l’attività. La reintegrazione di liquidi risulta fondamentale per poter protrarre il più a lungo possibile l’attività e ritardare l’insorgere della fatica. I liquidi vanno reintegrati sia durante che dopo l’attività.
Preferibilmente i liquidi usati per reintegrare devono contenere glucosio e sodio, per l’importanza che queste sostanze ricoprono nella funzione muscolare, ma anche perché, contenute all’interno delle bevande assunte aumentano la sensazione di sete e conseguentemente portano l’atleta a continuare a bere e a integrare. Dunque, ragazzi, niente paura, con qualche pausa e qualche buona bibita supererete facilmente la fatica di una bella corsa e vi sentirete più in forma che mai”. Suonò la campanella e, contrariamente al solito fuggi fuggi generale, gli alunni si alzarono dai banchi senza fretta. Uscendo, però, dissero all’insegnante “Prof, ci ha convinto, ma si scordi che ci alziamo alle sei!” . Ho scritto in questa forma per non rendere troppo pesante un articolo riguardante la fatica. Per chi desiderasse approfondire l’argomento in maniera più scientifica o per qualche consiglio sono a disposizione.
La mia mail è a.vitti@libero.it .


Alessandro Viti (preparatore atletico)


Nostalgia della fatica?


Delle gocce di sudore sgorgavano dalla fronte di “Bertin” correndogli oblique in improvvisi rigagnoli fino a soffermarsi in una perla luccicante, in bilico, sulla punta del naso. L’ampio fazzoletto di tela grezza, bianca, lentamente cavato dalla mano dal fondo della tasca in un’attesa di forzato riposo, non faceva in tempo a detergere la goccia, prima che si distaccasse precipitosa nel raggiungere il suolo. Il volto tirato, le guance arrossate, lo sguardo brillante. Era, segnato nel volto e nel corpo di quell’uomo anziano, il ritratto della soddisfazione o quello della fatica, quello della servitù o quello della libertà? Quello della follia o quello della saggezza? È così che riemerge il ricordo, conservato come un reperto sdrucito avvolto in carta fruscia di giornale, di un affetto e un rispetto estremamente profondi; un monumento minimale alla sua persona, umile come il milite ignoto, nell’ambito più luminoso e segreto della mia memoria. Il tempo di un’esistenza, fondata su povere e popolari vicissitudini, si distillava nell’attimo e nel destino di quelle goccioline scintillanti di fatica e nei lampi sorridenti, enigmatici, di quello sguardo. Cadeva ad inumidire a malapena la polvere. “Bertin”, come lo appellava a volte mia nonna, solo lei, in una carezza celata nell’abbassarsi di tono della voce, ben nascosta nel cenno diminutivo del suo cognome, di nome faceva Alfredo. Ma nessun altro in casa, volendogli portare rispetto, si sarebbe permesso di chiamarlo per nome e, nemmeno, oltre a mia nonna, di usargli la tenerezza implicita di un diminutivo. In casa era il factotum, l’uomo di fatica, il re del moccio e del secchio, per pulire con santa pazienza le scale, il giardiniere, il famigliare (un sorriso per tutti ma soprattutto per i bambini) e dunque una consuetudine, una vicinanza, che pur veniva ogni giorno da un luogo estraneo e lontano, da chissà quali suoi trascorsi e, soprattutto, da un posto rinchiuso oltre il grande cancello, i giardini e gli orti, oltre la muraglia e i portoni del manicomio. Di là veniva ogni giorno, ma soprattutto ogni giorno nel nostro giardino di nuovo appariva, a meno che non avesse ecceduto col bicchiere, fermandosi troppo, chissà come, all’osteria “de la Culazona”.

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Disegno di Mario Massarenti



Erano senz’altro altri tempi: “altri”, perché quelli della mia infanzia e della mia gioventù ormai lontane. Ma ancor di più “altri” per l’altro lungo tempo, maturo, che distillava, brillando ora nella fatica, il sudore; che sporcava, bagnava e asciugava, tergendo o evaporando, ora, le mani ruvide nel lavoro; che piegava quelle rughe non tutte espressive; che aveva prodotto quei solchi nella pelle; che aveva reso rigide le ginocchia, i gomiti e le dita nei nodi delle articolazioni, e che affondava sue robuste radici nelle stesse rughe, nelle stesse memorie, coetanee, dei miei nonni e di “Bertin”, memorie che conducevano insieme a testimonianze lontane antecedenti fino al culmine, i silenzi ed i miti, della guerra del 15/18.
È così che penso ancor oggi alla fatica, radicata inevitabilmente in un tempo maturo ed anziano, un tempo per forza di cose perduto, quasi con nostalgia, con riconoscenza ed amore: una schiena irrigidita che si raddrizza; uno sguardo che si rialza e sorride riprendendo un rapporto con l’orizzonte; un uomo che si rispecchia nell’apprezzamento, condiviso e dedicato ad altri, del senso del suo operare; una mano che si sgranchisce e si deterge la fronte. E il lavoro, per un tratto è compiuto, per un altro tratto rimane da compiere. Un passo alla volta per avanzare, una ripetizione necessaria di gesti umani intelligenti e pazienti, per assicurare agli affetti la nuova quotidianità, un ringraziamento a quelli che sono vissuti in altri tempi faticando a loro volta utilmente o inutilmente, prima di noi, e un soffermarsi ogni volta, rialzando la schiena, verso quell’orizzonte che forse promette e riserva, ad altri, ai posteri, il futuro. La fatica come un impegno che prima o poi passerà dai nonni, ai figli, ai nipoti.
Ma perché queste immagini di fatica non si rinnovano più in altre successive, disposte negli anni a venire, e restano per me dei reperti antichi, così colmi di nostalgia? Allora la fatica, quella di vivere, si trasmetteva l’un l’altro: galleggiava nell’atmosfera, vibrava nel microclima in mezzo alle strade, negli angoli, negli orti e nei giardini; si abbarbicava alle radici; saliva e scendeva le scale, senza ascensori; sostava all’ombra nei voltoni dei magazzini, degli opifici. Si dilatava ed esalava i suoi umori perfino dalle cantine. Era fatta di mani ruvide ed era pregna di profumi e di odori, a volte stantii. Trovava modo di depositarsi nei segni e nelle espressioni del corpo, la fatica dell’animo e la fatica della mente era la stessa sollecitazione alle fibre ottiche ed olfattive, o a quelle di un movimento ripetuto, di un muscolo teso, di una schiena piegata sul lavoro quotidiano da svolgere, si soffermava nella presa delle dita, e si raddrizzava e si sgranchiva a tratti, per assaporare un momento di breve riposo. Ma oggi la fatica fisica sembra essere sfuggita ed averci abbandonato per prima, quella dell’uomo e quella dell’animale: non ci sono più buoi sotto sforzo, attaccati al giogo e dietro ad essi uomini chini a condurre l’aratro nella linea del solco, non cavalli a tirare carretti ricolmi di derrate, non muli e somari a portare la soma, non uomini a tirare carrucole dai secchi colmi, a spostare sacchi piegando la schiena o a sollevare le pale. Le macchine col loro frastuono, cigolante e monotono, avanti ed indietro, fanno in breve, senza sforzo apparente, il lavoro: basta mantenerle ben nutrite, di petrolio e danaro. Per il resto la fatica è esportata oltre confine, ha cambiato di continente ed è appaltata sottocosto e appioppata al migrante. Non ci sono più nei dintorni, visibili, se non emarginati, gocce e rivoli di sudore.
Ma la fatica di vivere, disertata la fisicità dei corpi, la visibilità e l’interesse degli spazi pubblici condivisi, resta quella psichica, ossessiva, privata ed insulsa, a vagare isolata alla ricerca del suo punto di applicazione fisico, materiale e sociale, per dover prima o poi portare comunque quel petrolio e quel danaro che fa muovere ed animare le macchine. Resta quella di dovere scoprire, pressappoco inventare, uno spazio, un modo di relazione, un corpo sociale, un senso comune, un rapporto, una valorizzazione che renda di nuovo utile la fatica applicata di ogni individuo, per il proprio esistere e per il proprio contributo, magari umile e dignitoso, nel lavoro umano di sempre. Dammi un punto d’appoggio e ti solleverò il mondo, disse in modo geniale Archimede; ma se non si individua più un punto d’appoggio, il mondo potrà fare anche senza di noi?


Mario Massarenti (psichiatra - mariomassarenti@mac.com)


La fatica di chi assiste


La fatica. Ciò che vedo negli occhi della gente tutti i giorni. La fatica del prendersi cura, del dolore, la fatica di accettare una malattia e le relative complicanze, la fatica di ascoltare e accettare i consigli, la fatica di dare priorità alle esigenze dell'altro, faticosamente... Quella che oggi vado a celebrare è il lavoro di chi assiste, di chi si fa carico del fardello della cura e di quel microcosmo che ne affronta la gestione complessa e problematica coinvolgendo e sconvolgendo tutte le altre figure del nucleo famigliare. Per superare questo stato di cose è necessario riuscire ad esercitare un qualche controllo sulla propria vita e sul proprio ambiente riducendo l'effetto dei fattori stressanti: creare e cercare occasioni di ascolto, comunicazione, sostegno, eventualmente anche una comunità terapeutica di riferimento, partecipare ad un gruppo di mutuo aiuto per aumentare il livello di conoscenza della situazione, ridurre la depressione e mantenere viva la motivazione, organizzare interventi adeguati che tengano conto anche delle esigenze del caregiver e non solo del paziente. Nello specifico, il malato di Alzheimer vive la propria condizione patologica nella propria solitudine e nella solitudine della propria famiglia che è naturalmente impreparata ad affrontare un così gravoso carico di responsabilità e di compiti. Accettare, da parte di un caregiver, un figlio, la perdita del proprio genitore, delle sue qualità sulle quali contava è come elaborare un lutto. Nelle situazioni più complesse, i caregiver hanno la giornata interamente strutturata dal lavoro di cura… una giornata che, salvo qualche breve pausa, si svolge tutta all'interno della casa. Man mano che l'autosufficienza diminuisce, la casa diventa spazio pressoché esclusivo di vita non solo per l'anziano, ma anche per il caregiver che vede ridursi i contatti con l'esterno. Tutte le domeniche sono simili agli altri giorni, i tempi di non lavoro sono limitati e la cura tende ad appiattire il trascorrere del tempo, rendendo tutto statico... non si prevedono cambiamenti... non si vede il termine… la propria libertà di movimento è compromessa e le relazioni sono limitate. Il peso dell’assistenza ai malati (pratica, economica, affettiva e psicologica) ricade quasi esclusivamente sulle spalle della famiglia e del caregiver (chi assiste) e quando la stanchezza e lo stress sono tali da raggiungere pericolosi livelli di guardia, possono determinare reazioni controproducenti: negazione della malattia (da parte del caregiver), rabbia nei confronti del malato, interruzione delle relazioni, aumento degli stati di ansia o depressione, incapacità di portare a termine i propri compiti quotidiani, insonnia o irritabilità, cali importanti di concentrazione ... Il caregiver in questa condizione ha atteggiamenti rigidi, distruttivi e rifiuta il suo lavoro, perdendo la motivazione che gli permetteva di rispondere in modo adeguato alle richieste dell'assistito. Quelli di cui parlo sono segnali da non sottovalutare soprattutto se si vuole evitare che chi assiste sia colpito da una sorta di silenzioso burnout (esaurimento fisico, accompagnato da labilità emozionale). Quando non esiste una chiarezza sui compiti da svolgere, e le richieste sono superiori alla propria disponibilità e alle forze, oppure quando c'è conflitto tra il ruolo di caregiver e i compiti o le attese degli altri membri della famiglia, lo stress aumenta. Bisognerebbe creare una rete che si occupi di chi assiste, affinché il lavoro di cura possa continuare ad essere svolto con la serenità necessaria. È importante che il caregiver mantenga spazi personali, per riflettere o valutare ciò che sta accadendo dentro e fuori di sé. Solitamente i caregiver rinunciano a dedicare tempo a se stessi dilatando il tempo di cura, ma per essere abile e competente è necessario l'aiuto di altri, che siano familiari, assistenti familiari (badanti) o volontari, perché il lavoro di assistenza continuata nel tempo è troppo gravoso per una sola persona. Richiede un forte investimento di emozioni che spazia tra accettazione e rifiuto al cambiamento. Partendo da questa consapevolezza si può costruire una nuova modalità di approccio.
Per concedere pause di sollievo ai familiari ci sono diversi servizi di home care: un ricovero temporaneo o l'erogazione del servizio di assistenza domiciliare, colloqui individuali con uno psicologo, gli interventi di educazione sanitaria, i gruppi di supporto, l'inserimento in struttura semi residenziale (centro diurno)…
Alcuni familiari sono talmente autoreferenziali da rifiutare l'offerta di tali risorse, non gradiscono il coinvolgimento di altri, anche se operatori professionali.

Se volete conoscere la causa da voi creata nel passato, osservate l’effetto sul presente.
Se volete conoscere l’effetto nel futuro, osservate la causa che state creando ora.
Shinjikan-Gyo



Annabella Sandolo - asandolo@ascinsieme.it
(assistente sociale Area Anziani Disagio Adulti, Comune di Monte San Pietro)