“Pochi fondi per i centri antiviolenza”
È l'appello della Casa delle donne di Bologna


Uomini che odiano le donne.
Anche nella nostra città.
A parte l'ultimo caso di cronaca nera, che ha visto il ritrovo del corpo di una commercialista nel congelatore di casa, a luglio di quest'anno sono già 360 le donne che sotto le Due Torri hanno contattato il Centro per non subire violenza di Bologna. Un dato in linea con quello del 2012, quando sono state poco più di 600 le donne che si sono rivolte alla struttura di via dell'Oro. Cifre tristi anche per l'Emilia Romagna, dove l'anno scorso abusi e maltrattamenti (sopratutto ai danni di donne italiane perseguitate da partner italiani) sono cresciuti del 13% arrivando a quota 2.540 donne che hanno contattato un centro antiviolenza, e dove i femminicidi sono stati ben 15 (così che la nostra regione è risultata al terzo posto, preceduta solo da Lombardia, con 19 casi e Campania con 18). Numeri probabilmente sottostimati, perché i dati sono stati raccolti dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna analizzando la stampa nazionale e locale.

Difficile comunque dire se ci sia un'escalation di maltrattamenti: per quello bisognerà aspettare il nuovo rapporto dell'Istat. Di sicuro si tratta dell'emersione di un fenomeno ancora nascosto, perché il numero di denunce è ancora basso così come la percentuale di donne che si rivolge ai centri antiviolenza”, commenta Susanna Bianconi, presidente della Casa delle donne. Strutture d'accoglienza, rifugio e supporto che vivono da sempre “il problema cronico della precarietà dei fondi, spesso insufficienti e variabili di anno in anno, che rende difficile una programmazione a lungo termine delle attività”.

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Pensa che la Convenzione di Istanbul in materia di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne, diventata recentemente legge, sarà di aiuto?
“Spero di sì, vista la sua precisione. La Convenzione stabilisce infatti la necessità di azioni coordinate, di finanziamenti adeguati, di servizi dedicati, di protezione e supporto non solo per le vittime ma anche per i bambini testimoni di violenza domestica. Ora occorre che sia ratificata anche da altri Paesi e che l'Italia vi dia un seguito concreto”.

A parte quelle del partner, esistono altre responsabilità?
“Gli abusi nei confronti delle donne non sono più una questione privata. Esiste una responsabilità della società nel suo insieme, colpevole di veicolare una cultura di sopraffazione verso la donna. E nel caso di più denunce da parte della stessa persona c'è anche una responsabilità di servizi, forze dell'ordine e autorità giudiziaria nel loro complesso”.

È possibile arginare il fenomeno? Come?
“Facendo prevenzione nelle scuole, attività quasi tutta lasciata alla buona volontà delle associazioni quando invece servirebbe un'ora di educazione alla parità di relazione come si faceva per l'educazione civica, e poi intervenendo con opere di informazione e sensibilizzazione dell'opinione pubblica”.

Quali sono gli effetti collaterali dei maltrattamenti?
“La violenza cambia la percezione che una donna ha di sé: decade l'autostima e aumenta il senso di inadeguatezza, isolamento e fragilità. Ma gli abusi tra le mura domestiche sono un trauma anche per i figli che assistono a questi episodi di violenza in famiglia senza esserne i protagonisti. Occorre che le donne non subiscano in silenzio ma che parlino con i parenti e gli amici, chiedano aiuto e non si vergognino. Perché, nonostante quello che arrivano a pensare, la colpa non è certo loro”.

Secondo il rapporto Eures-Ansa sull’omicidio volontario nel nostro Paese, una donna ogni 12 secondi viene colpita da atti di violenza di genere (fisica, verbale o psicologica). L’Italia è comunque tra i Paesi meno esposti in Europa a questa tipologia di delitto. È la Germania a detenere il primato negativo, seguita dalla Francia e dal Regno Unito. Ma i maltrattamenti verso donne sembrano essere un'epidemia mondiale, a partire dall'ennesimo stupro di gruppo in India. La violenza fisica o sessuale colpisce più di un terzo delle donne nel mondo (35%) e quella inflitta dal partner è la forma più comune (30%), ha denunciato l'Organizzazione mondiale della sanità. L'Africa detiene il tasso di prevalenza maggiore (45,6%), seguita da Mediterraneo orientale e Americhe (36%) ed Europa (Russia e Asia centrale incluse) con il 27,2%.


Michela Trigari


La mia infanzia


L'implicanza emotiva ed emozionale di quel periodo era talmente forte che ancora adesso, quando ripenso a questa fase della mia vita, i pensieri improvvisamente si accavallano e si aggrovigliano, si intrecciano e schizzano via, con traiettorie imprevedibili, intermittenti e multidirezionali, sintonicamente con la tempesta ormonale che inevitabilmente caratterizza l'adolescenza degli esseri umani.
Quello che è rimasto nitido ed impresso nella mente, e non solo, è il grande imbarazzo, la vergogna e l'importante rossore che pervadeva improvvisamente e sistematicamente il mio volto in determinate circostanze. All'età di undici anni, nel corso della quinta elementare, completamente digiuna di informazioni e nozioni sul menarca, il giorno del mio ‘battesimo’ per placare la paura e l'ansia prodotte dall'evento sono ricorsa immediatamente alla compagna più scaltra e sveglia della scolaresca, sebbene avessi una sorella di otto anni più grande di me. Il motivo? L'assoluto silenzio in famiglia rispetto a determinati argomenti. La mia compagna raccolta la confidenza, dopo avermi abbondantemente rassicurata si è messa a ridere fragorosamente urlando: "Finalmente anche tu sei dei nostri, sei diventata signorina". Il corpo d'improvviso si era modificato, ero fisicamente di gran lunga la più alta e la più dotata della classe (praticamente da questo punto di vista tutto è rimasto invariato).
La metamorfosi, per molto tempo, è stata per me motivo di imbarazzo, inadeguatezza e grande vergogna.
Così se per sbrigare qualche faccenda dovevo raggiungere luoghi che prevedevano nel tragitto il passaggio in prossimità di bar, locali pubblici e luoghi di ritrovo, mi sentivo così in imbarazzo e così inadeguata che pur di evitare battute, apprezzamenti e gli occhi puntati su di me, intraprendevo percorsi alternativi che vedevano raddoppiati i tempi di percorrenza. La cosa che in quel periodo desideravo fortemente era di essere invisibile, trasparente, anonima.
Un altro escamotage per passare inosservata era l'abbigliamento. Indossavo quasi sempre capi ampi ed accollati e come se questo non bastasse, incrociavo sistematicamente le braccia sul petto a mo’ di barriera protettiva.
Le considerazioni che a quei tempi, paradossalmente, facevano le persone della mia attuale età nei nostri confronti erano: “I tempi sono veramente cambiati, quando avevamo la vostra età si potevano contare sulle dita di una mano le coetanee che hanno avuto la possibilità di continuare gli studi dopo l'istruzione elementare. La priorità e lo scopo fondamentale di allora era il lavoro e soltanto il lavoro (braccianti, pastori e guardiani di mucche, poi c'erano i lavori prettamente femminili: ricamatrici, sarte e fare le serve ai signori). I divertimenti e i rapporti con i ragazzi? Neanche a parlarne. Si poteva stare vicini a loro soltanto se un compare con la sua famiglia aiutava l'amico, che a sua volta restituiva l'aiuto (la famosa ‘aiutarella’). Le uscite domenicali poi erano possibili soltanto se noi giovani eravamo piantonate da un familiare adulto, zie, comari, nonne, fratelli o sorelle maggiori”.
Ora tocca a me, è arrivato il mio turno… Dall'osservazione dei comportamenti e dei fatti relativi agli adolescenti di oggi, ho rilevato cambiamenti generazionali significativi, sia nel bene che nel male, ad esempio la maggiore comunicazione e scambio di informazioni tra genitori e figli su tematiche importanti quale l'educazione sessuale, addirittura entrata a far parte dei programmi scolastici.
I mass-media, la Comunità Europea e il suo governo, la moneta unica e il processo di globalizzazione, unitamente all'avvento del computer hanno accorciato le distanze, rendendo sempre più possibili esperienze di studenti all'estero, a partire dalle scuole medie inferiori fino ai progetti Erasmus degli studenti universitari. Potersi spostare e viaggiare, oltre all'acquisizione delle diverse lingue e la conoscenza di nuove culture ha consentito anche l'acquisizione da parte delle donne di pari diritti e opportunità, grazie soprattutto alle lotte del movimento femminista. Ciò ha reso naturale, come è giusto che sia, avere amicizie e rapporti senza differenza di genere.
Un aspetto che trovo invece negativo è il fatto che oggigiorno le giovani donne non vivono il periodo adolescenziale nei tempi necessari, hanno una sorta di frenesia di bruciare le tappe senza riuscire a viversi, assaporare e gustarsi talune importanti esperienze di questa turbolenta ma, al tempo stesso, delicata e bella fase della vita.
Rispetto alla fatidica ‘prima volta’, è stato statisticamente provato che viene esperita sempre più precocemente (tra gli undici e i tredici anni). A mio modesto parere l'apparente pseudo-adultità delle giovani va a cozzare con l'ingenuità anagrafica e l'obiettiva immaturità, producendo serie contraddizioni e contrasti interiori dannosissimi. La società moderna impone, sempre più, ritmi impressionanti rispetto alla fruibilità e al consumo di ogni genere di prodotti, che si traducono praticamente nella fagocitazione di cibo, sesso, musica, film, strumenti tecnologici eccetera. L'avvento del computer ha sicuramente, rappresentato una svolta epocale, tuttavia se da un lato è uno strumento di grande utilità, dall'altro può essere un mezzo infernale e dannosissimo, se si pensa all'utilizzo che ne viene fatto da persone adulte con disturbi e perversioni nella sfera sessuale, che ne fanno il proprio specchietto per le allodole per adescare minori (siti pedopornografici, siti porno eccetera). Il computer è anche diventato lo strumento per fare conoscenze, iniziare e stringere legami di ‘amicizia’ o addirittura relazioni amorose, ovviamente, tutto ciò disincentiva ed uccide la socializzazione, i contatti umani, producendo solitudine, individualismo e quindi disagio mentale. Così la bellezza, la poesia, il significato dei vissuti, delle emozioni, ansie e gioie che un incontro vis-à-vis produce, vengono surrogati da facebook, twitter e altre diavolerie del genere. Mi piacerebbe sapere il parere dei lettori: "Adolescenza ieri ed oggi opinioni a confronto".


Concetta Pietrobattista


Non tutto il male vien per nuocere


Sono stata operata per carcinoma mammario nel gennaio del 2001.
Avevo quarantanove anni.
La diagnosi di cancro segna uno iato nella vita di una persona: ci sarà per sempre l'a.c. (ante cancro) e il p.c. (post cancro).
La vita si spezza. Va in frantumi. Il momento della diagnosi è un momento alieno che ti scaraventa in un universo parallelo dove ti senti divenire diversa. Il tempo si dilata. Sembra fermarsi e poi riprendere a velocità accelerata.
Sei sola: sola come si è nei momenti topici della vita: quando nasci, quando muori, quando affronti le tue paure. Non lo sai ancora ma diventerai una guerriera: tra pianto e disperazione, dolore, ansia , momenti di ottimismo e altri di abbattimento, tra gli affetti di sempre e altri nuovi e importantissimi ti ri-costruirai o ti costruirai per la prima volta. C'è chi decide di affrontare il percorso da sola e chi cerca aiuto.
Io cercai aiuto e arrivai al consultorio di via S. Isaia in un giorno di dicembre del 2000. Ero spaventatissima, dovevo fare un ago aspirato per un nodulo ‘sospetto’. Cercavo la dottoressa de March. L’avevo incontrata una sola volta, due anni prima per un’ecografia, ma la ricordavo benissimo ed era l’unica persona cui pensavo di potermi rivolgere. Aspettai che fosse libera e le raccontai tutto. Più che raccontare la travolsi con la mia ansia, Adelina mi prese con sé, mi fece sfogare e poi pacatamente mi espose il suo parere. Adelina mi accolse; la sua grande umanità fu il primo sostegno di quel faticosissimo periodo. Poi avrei iniziato il percorso medico: dopo la diagnosi positiva dell’ago aspirato, la quadrantectomia, la chemioterapia, la radioterapia, l’ormonoterapia. Ricordo benissimo le sue parole: “Non sarà una passeggiata certo, ma sarà un anno. Tra un anno saremo qui a ricordare questo momento. Ce la farà. Vedrà crescere suo figlio” (Nicolò aveva sette anni). E mi fissò l’appuntamento per iniziare il Percorso per le Donne Operate di Carcinoma Mammario che, creato dall'AUSL, da tempo era presente nel Consultorio Roncati. Conobbi cosi la psicologa del percorso, dottoressa Segala, e iniziai con lei una psicoterapia individuale che sarebbe durata quasi due anni. Adelina e Simonetta sono state per me dottoresse dell'anima e del corpo: sorelle, madri, amiche. Proteggendomi da me stessa in un momento di grandi fragilità hanno permesso che io potessi crescere. Dopo ... cominciai a frequentare il gruppo del Venerdì.
Le caratteristiche dei gruppi AMA sono l'accoglienza, l'ascolto tra pari, la condivisione, la solidarietà, l'assoluta libertà di frequentazione.
Nel gruppo Sempre Insieme sono passate centinaia di donne; c'è uno ‘zoccolo duro’ che ha continuato a frequentarlo: molte sono state il tanto o il poco che era per loro necessario, a volte qualcuna torna, perché è bello rivedersi e riabbracciarsi. Il Gruppo veicola e ‘contiene’ le emozioni, spesso molto forti, che vengono espresse: a volte si piange, molto spesso si ride. Tutte abbiamo condiviso dolori, speranze, gioie di ognuna. Alcune delle nostre compagne sono morte, molte hanno avute nuovi interventi e hanno ricominciato le terapie. Adelina ci ha lasciate per un aneurisma nel Marzo del 2007.
Nel gruppo si possono formare forti amicizie. Si alleggerisce la solitudine che opprime una malata oncologica, si possono alleggerire paure, si trasmette positività. Ho impiegato anni, molto tempo, per imparare a ‘gettare il cuore oltre l'ostacolo’; ho accettato tutti i suggerimenti, terapeutici e non, che mi venivano proposti dalle due dottoresse. Mi offrivano ‘non il pesce, ma la canna per pescare’: e io sentivo che stavo facendo il percorso giusto con le persone giuste. Ho conosciuto in tutti questi anni molte persone: compagne di strada, dottoresse, dottori. Alcune di loro sono diventate amiche: di un'amicizia particolare e viscerale, perché nata da un'esperienza dolorosa condivisa: un'amicizia tra anime nude, senza maschere e giochi di ruolo. Da tutte ho preso qualcosa: e la cosa più importante è che mi hanno svelato molto di me stessa: cose belle che non conoscevo, e anche cose sgradevoli che non mi piaceva riconoscere, ma che mi hanno permesso di capire alcuni comportamenti. Mentre camminavamo insieme per questo sentiero, piano piano acquistavo/acquistavamo più risolutezza, più fiducia nella vita, per quel tanto o quel poco che ci aspettava. La vita tornava ad essere la nostra, anche se incerta e precaria.
Così ho imparato a vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo e a progettare come se non dovessi morire mai. Gli esperti lo chiamano empowerment; per me era ricostruire la mia progettualità, recuperare le mie risorse, comprendere la mia vita, tornare ad attingere all'oceano della creatività, perché, come dice Winnicot: “Ogni uomo è felice solo quando crea”.
Nel dicembre del 2006 in nove socie fondammo l'associazione Il Seno di Poi onlus.
I principi ispiratori erano e sono gli stessi del Gruppo AMA: i valori del Fare Insieme e la volontà di restituire l'affetto, la disponibilità con cui eravamo state accolte.
Aiutare quindi altre donne, non farle sentire sole, fornire risposte concrete a bisogni concreti e un momento di quiete, di ristoro per se stesse, magari cantando o danzando o recitando o lavorando ai ferri o scrivendo.
Io sono felice di aver partecipato a questo progetto, sono felice di aver portato il mio mattoncino alla sua realizzazione. Sono convinta che in un'altra città sarebbe stato più difficile. Bologna è ancora, in questo periodo di devastanti egoismi e letali superficialità, un organismo capace di grande generosità e condivisione.
E alla fine di tutto, insieme alle mie compagne di strada, alle mie carissime sorelle ed amiche sottoscrivo pienamente le bellissime parole di una grande donna e scienziata, Rita Levi Montalcini: “Bisogna dare vita ai giorni e non giorni alla vita”.


Maria Paola Falleroni (Il Seno di poi - Onlus)


“Crescere una donna”


Le caratteristiche ‘innate’ delle donne esistono, sono ad esempio innegabili le influenze dei fattori biologici sul comportamento di ciascuna. Altrettanto importanti sono gli orientamenti socioculturali, che ci circondano e che indirizzano le donne sin da piccole ed è su questi che voglio porre evidenza. Tutte le volte che acquisto degli oggetti per neonati e bimbe, mi sento chiedere dai negozianti: "È per maschio o femmina?". Danno per scontato che in base al sesso ci sono esigenze e gusti diversi sin da piccolissimi... e che le risposte commerciali preconfezionate siano perfette a soddisfarli! Ad esempio l'abbigliamento e i giochi per le bimbe offrono moltissimi prodotti che fanno riferimento al piacere per lo shopping e per l'essere alla moda, quindi se cresciamo le bambine con oggetti che le orientano in una certa direzione, dobbiamo essere consapevoli che le stiamo spingendo ad aderire ad un modello sociale.
Diversamente, osservando ogni bambina e sostenendola nelle sue curiosità, potremo favorire la scoperta della sua "spontaneità" e la conoscenza delle sue caratteristiche di persona e di donna. Quando frequentavo l'università un professore ci raccontò a lezione che una donna si era rivolta a lui perché non riusciva più ad occuparsi della sua famiglia. Dopo averle dato dei farmaci e iniziato una psicoterapia la signora iniziò a dire che stava meglio, finché raccontò, tutta orgogliosa, che era riuscita a lavare i piatti anche con la febbre. Il dottore allora capi che dovevano approfondire meglio cosa stavano facendo: lavoravano per rinforzare il ruolo sociale o perché la signora potesse trovare la sua modalità di stare in famiglia senza dare per scontati i suoi compiti in quanto donna?


Grazia Stella


La donna (dissertazione)


Tacchi alti, brava in cucina, brava mamma, moglie fedele: sono questi i requisiti per accedere alla promozione?
No, mancano: essere un’amante disponibile, un’amica tollerante, sorridente in ogni occasione, attenta alla dieta ma non ossessionante, sportiva ma non troppo, con una buona posizione al lavoro ma non in carriera, una madre permissiva eppure severa, una figlia rispettosa e sempre disponibile verso i genitori, una collega disponibile al cambio turno, che non annaffia i fiori con l’acqua pubblica ma raccoglie quella piovana, intelligente senza far pesare la conoscenza di questo o quello. Credo di non essere nemmeno a metà e sono già stanca. Etichette.
Targhe.
Come numeri civici dinnanzi alle porte dei palazzi. Daiiiiiiiiiiiiii !!! Sciocca !!!!
Le donne sono libere oggidì, sentiti evoluta, basta stereotipi !!!
La donna fa quello che le pare, a tutte le ore.
Libere nei rapporti con l’altro sesso, con il capo-ufficio, con il postino.
Libere !!!!!!!!!!!!!!!!! O no ?
Ma stai parlando di tutto il mondo in generale o in occidente? No, perché poi, tra l’altro, c’è occidente e occidente. Nell’est-Europa le donne sono libere di ubriacarsi, ma lavorano al posto dei mariti, dei padri. Per esse è quasi un onore migrare a ovest, divenire badanti, andare a ballare nelle balere la domenica con gli uomini mariti di altre e poi mandare a casa peluche imbottiti di carta moneta per i figli, lasciati in custodia a mariti e padri beoni. Poi c’è un altro occidente, che è l’America, dove le donne semi-nude riempiono gli stadi cantando rock e pop; pilotano aerei e uffici in cui si gioca al rialzo o al ribasso della Borsa: mibtel, report, vwd. E donne occidentali italiane, per dire, che se vivono al nord hanno retaggi culturali differenti da quelle che vivono in Sicilia, o in Calabria. A quale occidente ti riferivi?
Uùùù, quanto la fai lunga! Cerchiamo di trovare un accordo universale che possa racchiudere il mondo ‘donna’.
Eh?! Non è mica semplice.
Donna
Sinceramente, tu che tenti di convincermi che è meglio, preferiresti, da uomo, essere nato donna? Ma assolutamente no, non ho il fisico!
Perché tu, al contrario, ci stai invidiando, avresti preferito essere un uomo?
Neanche per idea! Per nulla al mondo potrei rinunciare a sentirmi feconda, a sentirmi piena di una vita che nasce, ebbra di dondolii in cui liquidi sacri plasmano energia carnale. Giammai potrei rinunciare al seguire delle maree quella luna rossa che ogni mese mi rende ferace.
Donna.
Quale mistero più celato in un corpo dove il colore della pelle, il retaggio culturale, il mestiere, la famiglia in cui cresci, ogni cosa ci rende diseguali eppur simili: poter accogliere la scintilla che genera…
Solo questo allora? La fate tanto lunga perché noi non possiamo dare la luce?
Ma cosa credi, il seme siamo noi a interrarlo, nella terra magica di cui parli; noi scegliamo il sesso del nascituro, non potete fare nulla da sole..
È vero, solo insieme la vita continua, l’alito vitale soffia alimentando il creato.
Ma io sono una donna, e per me rimane l’Universo più misterioso per eccellenza, sconosciuta anche a me stessa talvolta: Donna. Che fortuna esserlo!
Donna.
Come la follia, la pazzia, l’arte, la guarigione, la bugia, la partenza…
Donna come la nascita.


Daniela Montanari


Approfondimento:
“Psicofarmaci in psichiatria” - dalla scelta alla sospensione

Tenuto dal dott. Pierluigi Boldri,
Responsabile del Centro di Salute Mentale ‘Tiarini’
Sala CUFO – 19 aprile 2013


Questo incontro è nato dall’esigenza di approfondimento di altri due incontri precedenti, svolti nel 2012 con il dr. Boldri, sul tema degli psicofarmaci in psichiatria. Il gruppo del laboratorio di scrittura ha inviato al relatore alcune domande perché fungessero da traccia per l’intervento. Le domande partono prevalentemente da esperienze personali poiché la maggior parte dei componenti del gruppo ha esperienza di sofferenza mentale ed utilizza psicofarmaci. Il relatore ha seguito la traccia proposta rispondendo in modo esauriente e puntuale e lasciando ampio spazio ai presenti per il confronto.
Si desidera condividere con i lettori del “Faro” i principali contenuti emersi.
Si ringrazia il dr. Boldri per aver accettato l’invito portando un ricco e prezioso contributo che ha stimolato un interessante dibattito.

La scelta dello psicofarmaco: dal colloquio iniziale alle scelta dello psicofarmaco, come si arriva alla prima somministrazione?
Il primo incontro tra due persone è sempre l’incontro tra due storie, di cui una presumibilmente di sofferenza. Lo specialista attraverso la letteratura, gli studi che ha fatto e la propria esperienza cerca di interpretare il tipo di sofferenza che la persona porta e di dare delle risposte.
Può nascere allora la decisione di trattare quel tipo di sofferenza con psicofarmaci.
Questa decisione può non avvenire sempre poiché ci sono anche molte situazioni in cui la sofferenza è lieve e non richiede un trattamento farmacologico, quelle situazioni possono essere affrontate in un altro ambito, quale per esempio quello del sostegno o della consultazione e dell’auto-aiuto.
Il terapeuta può cogliere dei segnali nella sofferenza della persona che secondo la sua esperienza richiedono un trattamento farmacologico. Facciamo qualche esempio di situazioni in cui è necessario l’uso di farmaci.
Calo dell’umore, calo dell’appetito, insonnia, apatia, desiderio di farsi del male, idee di morte ecc. caratterizzano una sindrome depressiva di una certa gravità che mette a rischio la stessa vita della persona.
Un altro esempio potrebbe essere quello di una persona che sente una grande angoscia perché da qualche tempo la sua vita ha assunto dei significati differenti da quelli normalmente esperiti: può sentire delle voci denigratorie che lo offendono o lo invitano a fare determinate cose oppure può avere l’impressione o la certezza che qualcuno lo perseguiti: “quando cammino per la strada le persone mi guardano”, “mi seguono”, “capiscono quello che penso”. Anche in questo caso il terapeuta può decidere di trattare farmacologicamente. Un altro esempio potrebbe essere quello dell’attacco di panico, un attacco di ansia fortissimo che è un’esperienza drammatica per chi l’ha provata. Va data una risposta farmacologica almeno inizialmente, che non esclude certamente poi la possibilità di intraprendere un percorso psicologico.

All'interno di una relazione di fiducia e di buona alleanza terapeutica, come viene informato il paziente sulla terapia farmacologica prescrittagli?
La scelta di un trattamento farmacologico viene presa in accordo tra il terapeuta e il paziente e il tipo di farmaco è deciso in base alla sintomatologia riportata dal paziente, all’efficacia di un farmaco preso eventualmente in precedenza per lo stesso tipo di problematica, sulle preferenze rispetto a possibili effetti collaterali o interazioni con l’attività quotidiana. Entra in gioco anche la questione della interazione tra più terapie assunte contemporaneamente per esempio nelle persone anziane che possono assumere terapie anche per problemi cardiaci o per il diabete o altro.
È bene che ci sia una informazione ed una prevenzione e monitoraggio. Il tema del consenso informato è oggi fondamentale, cioè è fondamentale ottenere una partecipazione al trattamento. Occorre informare il paziente su tutti gli aspetti della terapia. Ciò viene fornito in maniera scritta e ogni tanto anche rinnovato. Siamo in un’ottica di collaborazione e non più di paternalismo. Il consenso deve essere fornito su informazioni chiare ed esaustive che riguardano la finalità, i mezzi e la durata delle terapie. Non viene dato il consenso scritto su ogni modificazione di dosaggio o cambio di farmaco. Il titolare del consenso è il paziente e non i familiari, e potrebbe, il paziente, non voler informare i familiari sulla propria situazione di salute. Essendo dati sensibili i servizi non possono dare informazioni qualora vengano richieste da altri, anche se familiari, cosi come non è detto si debba intervenire con un TSO qualora il paziente smetta di prendere la terapia.
Se la persona non è in grado di intendere e volere deve avere una certificazione che lo attesti ed il tribunale può decidere di sottoporlo a tutela. Nel caso invece il paziente sia in amministrazione di sostegno, deve esserci una delega all’amministratore anche per le cure sanitarie, ma è molto raro. La legge dopo il ’78 tutela la persona nella sua scelta di curarsi o meno e non consente di curare le persone contro la loro volontà. Il trattamento sanitario obbligatorio classico prevede un ricovero ospedaliero. Sono rari e straordinari i casi di cure terapeutiche extraospedaliere in regime di TSO e il terapeuta non può avvalersi di queste misure come routine.
La cosa migliore è sempre avere il consenso del paziente per ogni trattamento.

Come definire l'assuefazione da psicofarmaci. Quali gli effetti?
Il concetto di assuefazione o tolleranza rimanda ai concetti di dipendenza e di astinenza, è una modificazione fisiologica che avviene nell’organismo a seguito dell’assunzione di sostanze farmacologiche.
La dipendenza, come dicevamo l’altra volta avviene quando si assumono farmaci in dosi alte e per lunghi periodi, in particolare per farmaci quali le benzodiazepine. Quando si va ad interrompere possono accadere quindi fenomeni di astinenza come cefalee, capogiri, ansia, nervosismo, insonnia, agitazione. La dipendenza può essere fisica e psicologica.
Ci sono persone che non vorrebbero mai sospendere un farmaco, un esempio classico è quello di coloro che usano farmaci per dormire. Va valutato caso per caso, poiché in alcuni casi lasciare un farmaco anche se crea dipendenza può essere la scelta migliore. Sono scelte che vanno condivise, quello di lasciare un farmaco anche se non strettamente necessario può a volte essere meglio per la persona che sospenderlo.

Quale il modo migliore per dismettere e quali reazioni se si sospende bruscamente l'assunzione di psicofarmaci?
Il modo migliore per smettere gli psicofarmaci è quello graduale. In generale tutti i farmaci vanno dismessi in modo graduale. Se si vuole sostituire un farmaco all’altro si può eventualmente aumentarne uno per dismetterne un altro che si è deciso di interrompere. Ci sono situazioni in cui non è possibile però farlo gradualmente. Un esempio in cui potrebbe essere utile una dismissione rapida potrebbe essere quello di una donna in gravidanza.
Le reazioni ad una dismissione brusca sono aumento dell’ansia, nervosismo, irritabilità ed insonnia. Se il farmaco che andiamo a dismettere ha una eliminazione più lenta questi sintomi possono eventualmente sorgere più tardi, se la velocità di eliminazione è invece più rapida ci aspettiamo la sindrome da sospensione più precoce.

Come distinguere una reazione da dismissione da una ricaduta?
Innanzitutto è giusto distinguere il concetto di ricaduta da quello di recidiva.
La ricaduta è una nuova manifestazione dello stesso episodio.
La recidiva è un nuovo episodio di una patologia già guarita.
Distinguere la ricaduta o recidiva da una sindrome da sospensione non è semplice, ma diciamo che la sindrome da sospensione si risolve in pochi giorni o settimane. Occorre aspettare qualche tempo per poter capire se i malesseri lamentati durante la sospensione possano essere riconducibili ad una ricaduta. Generalmente però i sintomi di una ricaduta sono più intensi di quelli dati da un farmaco che si va a dismettere ed alcuni sono del tutto particolari e inconfondibili.

La dismissione da psicofarmaci corrisponde alla guarigione?
Questo argomento è molto complesso perché pone la questione di cosa sia la guarigione ed io non saprei dare una risposta. In medicina, facendo un esempio una persona che ha ipertensione e che prende una pillola per tenere la pressione bassa, può considerarsi guarita? La pressione è sotto controllo, ma prenderò il farmaco tutta la vita. Un altro esempio può essere quello di una persona depressa che prende farmaci e che gli amici gli dicono che sta bene e che lo vedono bene e che è felice ed esce con gli altri. Quella persona è guarita? Per guarigione possiamo intendere una situazione di benessere pur con assunzione di farmaci? Il discorso della guarigione è complicato. La cosa migliore certo sarebbe poter dire: “sono tornato a stare bene, ad uscire con gli amici, ho recuperato una dimensione familiare, sociale e lavorativa, il mio benessere è riconosciuto e magari ho anche smesso di prendere il farmaco”. La realtà però è anche altra e sappiamo che ci sono anche ricadute e che per evitarle occorrono terapie farmacologiche di lunga durata. La letteratura medica ci dice che in alcune situazioni come per esempio nel disturbo bipolare, dove ci sono dei continui cambiamenti di umore, si devono utilizzare farmaci per tutta la vita. Dismettere dipende quindi anche dal tipo di patologia di cui soffre la persona. Esistono terapie profilattiche per le ricadute. Ci sono patologie che sono di per sé ricorrenti e possono essere diminuite le ricadute proprio con terapie a lungo termine.
Per primi episodi soprattutto per patologie lievi credo che sia d’obbligo cercare di arrivare alla dismissione del farmaco dopo un periodo congruo in cui la persona è stata bene. Mai se la persona sta continuando a stare male.
Io credo che la guarigione debba comprendere, pur in presenza di un farmaco, altri concetti come per esempio sentirsi bene con se stessi nel mondo e riprendere una buona vita di relazione.

Quali consigli dare a chi desidera dismettere gli psicofarmaci?
Certamente di non farlo di propria iniziativa e non farlo imprudentemente, concordare sempre con il terapeuta le modalità, i tempi e le ragioni. In tutta la medicina la sospensione dai farmaci non concordata con il terapeuta può portare dei rischi e delle ricadute anche gravi che possono avere delle conseguenze sulla salute. Dismissioni sempre concordate con il medico.


Pierluigi Boldri
a cura dell’Associazione UmanaMente (www.associazioneumanamente.org)


Detti


Sto poco bene… bisogna che vada dal medico… dovrà pur vivere anche il medico.
Mi ha prescritto dei farmaci… bisogna che vada dal farmacista … dovrà pur vivere anche il farmacista…
Vado a casa a prendere i farmaci… non li prendo… dovrò pur vivere anch’io!
Sarà meglio che li prenda… dovrà pur vivere anche il prete…


L’Occidente a volte diventa uccidente…


Luigi Zen