L’editoriale
Figli lo siamo tutti. Genitori - per forza o per scelta
- no.
Sotto il profilo biologico il figlio o la figlia sono frutto della
congiunzione dello spermatozoo del padre con l’ovulo della madre, a
seguito del peppereppepè.
Questa specie di danza può dare vita al dono più grande che l’esistenza
ci ha dato, la nascita di un bambino. Purtroppo ci sono situazioni che…
di pargoli o di essere genitori proprio non se ne vuole sapere nulla,
per i motivi più diversi. In prima approssimazione credo si possa
asserire che il contesto sociale sia determinante per la nascita e la
futura prima educazione del piccolo.
Credo che la ‘genitorialità’ sia un’abilità e un’attitudine che abbiamo
dalla nascita e che può migliorare nel tempo con l’esperienza. Mio
padre diceva che di scuole per diventare padre non ne esistono. Però
questo era forse un modo per nascondere le piccole grandi frustrazioni
legate alla mia crescita. A mio parere è più facile essere figlio: si è
più spontanei e impulsivi, mentre ai genitori è richiesto di essere più
contenitivi e mediatori.
L’errore, nel rapporto genitori e figli, è molto più che all’ordine del
giorno. Alle volte è conseguenza del caso, altre della fretta, o della
non conoscenza. Comunque sia, io credo fermamente che anche chi ha
fatto del male deliberatamente al proprio figlio può essere perdonato
da Dio, mentre sotto il profilo civile e penale deve essere punito ma
al tempo stesso rieducato e recuperato, in quanto la società in tutti i
suoi livelli è responsabile di quello che accade al suo interno.
Non vorrei essere retorico e ridondante, ma anche i mass media
propongono modelli spesso diversi da quelli che la maggior parte dei
genitori riescono a dare ai propri figli, creando conflitti molto
dannosi ed inutili. Molto è cambiato nel rapporto genitori e figli in
seguito al passaggio della famiglia patriarcale a quella nucleare. Dire
quale è la via migliore, non so, anche perché la prima non l’ho
vissuta.
Tuttavia quando ascolto gli anziani che parlano dei loro rapporti
all’interno della famiglia patriarcale rimango incantato, perché almeno
in apparenza allora era tutto più semplice, più genuino e naturale.
All’inizio del secolo scorso sono nate correnti psicologiche col tempo
poi rivedute e corrette, che attribuivano al rapporto genitori figli la
causa di sofferenze mentali. Sicuramente i ‘complessi’, come quello di
Edipo o di Elettra, sono importanti; ma credo non si possa sintetizzare
il rapporto genitori e figli in questi due aspetti soltanto. Le
sfaccettature poliedriche interne al gruppo famiglia sono molto, molto,
complesse e per chi le vive sono quasi invisibili. La diversa
prospettiva data da un osservatore esterno, un amico, un parente, un
operatore specializzato, può illuminare gli aspetti oscuri che sono
fonte di grandi dolori. Sono grato a Cristina, la mia futura moglie, la
quale mi ha rimesso in strada, in equilibrio su quel piccolissimo
puntino inarrestabile tra passato e futuro, il presente.
Non è cosa da poco riuscire a vivere il presente in armonia senza dover
sfuggire nel tempo per una circostanza emotivamente insostenibile.
Grazie a ciò, vedo nella mia futura famiglia un faro per crescere dei
figli, anche se sono certo che l’arrivo di un nuovo componente in
famiglia possa essere affettivamente molto destabilizzante.
Il desiderio di paternità non è solo un fine genetico (la conservazione
della specie), ma un forte passaggio di emozioni, una trasmissione di
ciò che sono. O meglio che siamo. Per scaldare il cuore, anche
irretirsi ma finire con il gioire dei piccoli grandi contrasti che il
rapporto genitori e figli comporta. Se volete essere illuminati dal
Faro su esperienze genitoriali e filiali fatte di tuoni, pioggia e
arcobaleni, leggete i prossimi articoli e vedrete come l’amore, il
rispetto, permettono di superare l’ostacolo dell’ira e del risentimento
di un momento.
La vita è fatta di situazioni più o meno belle. Guardiamo sempre al
bicchiere mezzo pieno, perché a riempirlo c’è sempre tempo. Finché ci
siamo tutto è possibile.
Mi manchi papà.
Fabio Tolomelli
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Giorgio De Chirico: ‘Il figliol
prodigo - 1922 (tempera)
Giorgio De Chirico, nato a Volo, in Grecia, nel 1888 da genitori
italiani, fece i suoi primi studi ad Atene, ma si formò a Monaco di
Baviera, dove abitò tra il 1906 e il 1909. Qui rimase profondamente
impressionato da Arnold Böcklin e da Max Klinger. Verso il 1911, giunto
a Parigi, non si orientò verso il Cubismo, ma dal rizzante ambiente
culturale parigino prese la spinta per una trascrizione pittorica delle
sue fantasie. Nacque così la pittura ‘metafisica’, come egli stesso
ebbe a denominarla.
Lo spazio in cui si espongono gli oggetti e i personaggi è dilatato e
sorprendente: egli arriva ad esprimere un senso di vastità, di
solitudine, di immobilità. I singoli elementi dei suoi dipinti vengono
trattati con approccio naturalistico, ma è dal loro accostamento che la
realtà viene ironizzata e resa magica.
L’effetto di irrealtà, o meglio di oltre-realtà, sorge dagli
accostamenti più disparati, senza nesso apparente tra di loro. Nei suoi
quadri migliori si vedono manichini da soli o abbracciati; si tratta di
entità geometrizzanti, che sembrano uomini e si muovono come uomini:
esseri metafisici!
La pittura metafisica ebbe risonanza assai vasta, precorrendo per un
verso il Surrealismo e per un altro verso influenzando, con il suo
classicismo, la pittura parigina tra il 1919 e il 1925.
In Italia l’arte di De Chirico, che amava definirsi ‘pictor optimus’
(egli era tornato nel ’15 a fare il suo dovere di soldato, per poi,
finita la guerra, ripartire alla volta di Parigi) sortì i più positivi
effetti grazie a pittori quali Morandi e Carrà.
Giorgio De Chirico morì a Roma, il 20 settembre 1978.
Piergiorgio Fanti
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Genitori e figli
Ringrazio il Signore per avermi donato un papà ed una
mamma speciali e così unici e preziosi, come l’acqua che dà la
vita, l’acqua pura, l’acqua viva che sgorga dalla roccia. Certo, ad
ogni ciclo generazionale c’è il ‘conflitto generazionale’:
i figli cominciano a odiare le mani che li hanno nutriti e scendono in
piazza contro le politiche dei genitori, costretti a
ricorrere a polizia, blindati e manganelli eccetera. Terminata
l’adolescenza e sistemati tutti col lavoro, i figli si calmano,
mentre i genitori vanno un po’ ‘in ferie’. I genitori ci ‘regalano’ la
vita, il bene più prezioso che esiste.
E poi si parla di ‘complesso di Edipo’, la canzonatura più menzognera
che esista, che hanno inventato gli intellettuali,
‘fissazioni maniacali’ tra utero e pene, mescolati in tutti i mille o
duemila complessi (l’amore tra padre e figlia, tra madre
e figlio eccetera.). Ad un certo punto, poi, il nucleo familiare si
divide in due o tre rami; prima si formano coppie, poi
matrimoni, e quindi famiglie. I livelli ed i piani di visuali diventano
diversi, con altre facce, altri volti, altre nazioni. Ogni
tanto ci si ricorda di un compleanno o del Natale, di Capodanno, di
Pasqua…
Il mondo si allarga sempre più e ad un certo punto solo ti ricordi che
c’erano ‘una volta’ i tuoi genitori. Ma anche i
genitori dopo un po’ si stancano dei figli e… tutto resta nelle ombre
del passato (che non torna più).
A volte genitori e figli litigano e così si fa sera prima. Si ride e si
piange ancora un po’, finché non si diventa vecchi tutti
davvero (padre e figlio con i capelli bianchi). Ormai è notte, si fa
sera, tutti hanno dato, tutti hanno vinto (a sentir loro).
AUGURI! Nessun rimorso di coscienza: chi ha dato ha dato, chi ha avuto
ha avuto.
Mamma! Buonanotte. Babbo, uguale… eccetera.
Sì caro, un altro caffè, prego Dio per te. Prego per non soffrire.
(Torno subito)
Sempre insieme per sempre.
Ave Manservisi
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Un piccolo segnale di vita con
parole sparse
Difficile, davvero, descrivere i rapporti fra genitori
e figli! Ma noi
teniamoli cari, stretti al petto, perché non c’è amicizia che possa
sostituirli. Per fortuna?
Dopo tanti pensieri importanti le parole si schiudono già chiuse,
minime, ma pesanti come una luce lontana.
(Dimenticando che mi sono arrivate tante multe) comunque la sera dà
pace e genitori e figli trovano l’armonia per protendersi verso il
nuovo giorno al di là della parentela. (Anch’io sono genitore di figli
lontani. Spero che cantino).
È uno scritto sconclusionato, perché anche la vita lo è, e credo che
non voglia avere un significato, ma perderlo, come petali di un fiore
che se ne spoglia ad uno ad uno.
Daniela Mariotti
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L’amore infinito
Possiate accogliere alle porte del cielo, genitori
miei, la vostra
bambina. Voi, e il mio amico più caro, spero che non mi abbandonerete
mai del tutto. e avremo abbracci così teneri come mai li abbiamo avuti…
Non posso pensare ad un aldilà senza un infinito angelico amore.
Daniela Mariotti
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Oggi mi sento…
Oggi mi sento come una bimba senza mamma…
Oggi sono grande, quasi vecchia, ma a tratti si risveglia l’impressione
ed il ricordo di essere sola e così lontana da casa…
Oh, il blues…
Daniela Mariotti
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Perdere i genitori
Gentili amici de Il Faro, si possono dire tante cose
sull'argomento di oggi e io ne vorrei dire alcune che mi riguardano in
prima persona. Sono rimasta orfana di mamma e papà nel giro di due anni
e sono certa, a conferma della letteratura
scientifica, che dentro di me si è spezzato qualcosa ed è stato
l'inizio di tutto il mio dolore.
Avevo vent’anni, ero giovane, ma non ho capito subito perlomeno
razionalmente, ciò che significa perdere i genitori. Poi,
nel tempo è venuto fuori il disagio che ancora sto curando. Sono stata
comunque una ragazzina fortunata molto, troppo
fortunata e questo mi ha fatto pesare maggiormente il vuoto che
provavo: ho avuto una mamma e un papà meravigliosi,
presenti, uniti da un amore profondo tra loro e per me e mi dicevano
sempre che "mi avevano cercata tanti anni"!
Ringrazio Dio di averli avuti (tante persone crescono senza mamma o
papà) e ho potuto studiare, viaggiare conoscere e
avere la mia prima parte della vita bellissima. Dico fortunata anche
perché ho ricevuto da loro una educazione per
cercare di comportarmi bene con tutti, il valore dell'onestà, del
coraggio, dello studio e del lavoro: pensate mio papà
aveva due lavori e ha lasciato una casa a mia sorella ed una a me!
Però, purtroppo vivendo un lutto così devastante, ho
fatto fatica a camminare, in certi momenti di vita, ho cercato altre
mamme e le ho trovate in mia zia Lidia, sorella di papà
e in Albertina, mamma di due miei cari amici, donne meravigliose che
purtroppo negli anni mi hanno lasciato. Senza di
loro credo sarei morta.
E se non hai la mamma la desideri tutta la vita perché ti mancano il
suo profumo e le sue parole amorevoli. E anche con
le figure maschili facevo confusione, il papà non lo volevo, ma poi
delle volte lo volevo, ero sempre inquieta, ora invece
qualcosa è cambiato. Questa è la mia storia, forse alcuni di voi si
riconosceranno, ma dico, concludendo, che i miei
genitori mi hanno lasciato tanto, mi proteggono, sono sempre con me e
un giorno, forse, in qualche parte dell'universo
potremo riabbracciarci forte!
M. Cristina Sinibaldi (CSM Vergato)
|
A papà
Caro papà, che oltre al tuo lavoro non conoscevi, non
pensavi di
lasciar la vita ancor gioioso e ridente e così abbandonasti il tuo
vivere. Il biondo ancor giovane corpo che dolore non conosceva, luce
non vedrà più. Il tuo calore in me sempre rimarrà ed il tuo nome ogni
giorno pronuncerà la mia voce.
Roberto Ramosi
|
Mamma
Cara mamma, che di credulità sei riempita, la luce tu
non vedi. Tu,
vera donna semplice, il vero non conosci. Figli crudeli tu hai, ma per
loro merito forse un giorno capirai la verità delle cose.
Roberto Ramosi
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Creata come figlia
come la favola di Cenerentola
Figlia… genitori… ma… parole, frasi che mettono in
discussione il proprio creato. Essere al mondo, creata,
perché? Per fare felici mamma e papà! Ma io non sono
felice di essere stata creata con questo vissuto scelto
da Dio. La mia vita tanto tribolata, schiavizzata, con un
corpo molto fragile anche se si presenta
apparentemente sano, ma con un interiore paralizzato.
Il non potersi realizzare in età adulta e con un vissuto
da Cenerentola ti riporta una vera professionalità di
sconfitta alla vita. La mia vita… Una frase impegnativa
e complessa piena di responsabilità e di valori, nutriti
sulla natura vegetale… non umana.
Sulla mia infanzia non mi voglio per niente pronunciare,
non mi sono mai sentita piccola dolce bambina. Non
voglio accusare nessuno è solo quello che sto citando è
un vissuto qualunque, di ognuno di noi, con
un’elaborazione e compiti dati dal cielo, diversi tra uno
e l’altro secondo il proprio nido che gli viene donato.
Nell’età adulta mi sono finalmente trovata bella
cresciuta, nutrita da bastonate e comandi, ma libera,
libera, finalmente lontana da quel passato tenebroso non voluto e non
amato. Pian pianino sgambetto di qua e di là…
devo darmi da fare, un piatto di minestra mi manca per non farmi girare
la testa come un mulino a vento. Tutti mi
cercano e mi scelgono come dada oppure cameriera. Mi vedo, mi sento
all’asta a chi prima riesce a ottenermi per le
proprie faccende: è la loro sicurezza dei loro figli, che finalmente
Cenerentola potrà curare e amare. Ma a Cenerentola
l’amore non era stato mai offerto, una carezza, un bacino, uno sguardo
d’amore. Però lei lo sapeva ben donare, perché
lo ha talmente cercato che, non avendolo ricevuto, l’ha saputo trovare
e donare, con un dolore interiore che si riversava
con un dolce amore… crescendo e sviluppandosi sempre insieme i suoi
guai. Finalmente Cenerentola si sente richiesta
e riempita di attenzioni, solo tutto per lei, senza affaticarsi senza
paura di non farcela e non dare e non essere precisa e
completa nel compito che le è stato ordinato… “che poi ti pago”.
Finalmente una mamma, un sorriso per Cenerentola, una mamma che le dà,
le dona, ma lei è cieca, non vede, non è
attenta, non riesce a capire cosa le viene donato, è confusa, non crede
e non capisce che questa mamma in quel
momento è presente tutta per lei. Ma lei è confusa e si isola sempre di
più col suo proprio io e continua a farsi
schiavizzare sempre di più. La sua vita… non sapendo… anche se pian
pianino la vede, ma non crede che in quel
momento, con quel sorriso, questa mamma è per lei. C’è, c’è, ma
Cenerentola , presto presto, non crede.
Nel momento si presenta, in un altro contesto, con ruoli diversi, un
papà! Ma… si chiede Cenerentola, ma è vero? Lui si
dedica a me, mi scarrozza di qua e di là, da un problema all’altro, non
fa che dedicarsi a me! Altro che figlia, in
macchina accanto a lui mi sento una principessina… mi sopporta e mi
ascolta e ci scambiamo le idee… Il mio papà…
Lui non sa, ma Cenerentola nel suo cuore l’ha inciso papà: una figura
nella sua vita molto difficile da incontrare, da
interpretare. Ma finalmente questa figura c’è. Con lo sguardo che si
incrocia quando lo vede e lo nasconde nel suo
cuore con la parola papà… Non amica, come dice lui, ma a Cenerentola…
lui è il suo papà… che la scarrozza di qua e
di là, senza darle in cambio nessuna schiavitù, come le è stato sempre
richiesto.
Un forte caro dolce saluto a braccia aperte alla sua mamma acquisita
mandata dall’alto dei cieli e dal suo idem papà, da
Cenerentola, che voi due non l’avete creata ma l’avete saputa domare,
con un dolce amore e attenzione e cure dedicate
a lei, che non conosceva il sentirsi realmente curata e l’avere chi
dedicava un momento per lei.
Anonima
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Dedicato ai miei genitori
Mio padre era persona intelligente e assai fine:
dimostrava questa sua finezza anche (ma non solo ) nei regali fatti a
chiunque, noi tre fratelli compresi. Mai costosi, ma che rivelavano la
sua grande sensibilità umana (di cui nessuno, che
l’abbia conosciuto bene, ha mai dubitato).
Onestissimo, fino all'inverosimile, era però, talvolta , un po’ padre -
padrone (soprattutto quando era in difficoltà nel
rapportarsi con noi) ed educò i suoi tre figli (me compreso) in modo
probabilmente un po’ troppo tecnico - ingegneristico
(ed era, effettivamente, un ingegnere).
Questo suo aspetto educativo fece un po’ soffrire me e forse anche i
miei fratelli. Ci adorava comunque immensamente
e sinceramente, riuscendo ad apprezzare e stimare i lati positivi e
cercando di correggere, con maggiore o minor tatto,
anche quelli più negativi dei nostri ‘caratterini’. Mia madre era donna
molto più pratica, tuttavia un po’ militaresca (e
sottotenente della Croce Rossa!) . D'altronde doveva farsi in ‘quattro’
, per badare a noi ‘tre’, quando mio padre, durante
la settimana, era assente (lavorava in un luogo ‘lontano’, Genova):
comprensibili quindi i suoi scatti di nervosismo,
quando le incombeva l'onere di farci stare un po’ più quieti.
Personalmente soffrivo molto la solitudine dorata, in mezzo a un bel
bosco
di pini marittimi dei quali, tuttavia, raccoglievamo gustosissimi e
freschissimi
pinoli, in una località ligure veramente stupenda!
E una volta, una sera ... scendendo tranquillo le scale dal primo piano
al
piano terra, li sentii che in cucina parlavano sommessamente e con
calma
sull'annosa questione (per tutti i genitori) dell'educazione dei loro
figli.
Parlava mia madre, con tono pacato, forse anche un po’ accorato,
sottovoce: risalii pian piano le scale... e li lasciai, con dolcezza,
che
parlassero tranquillamente fra loro…
Matteo Bosinelli
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I genitori e i figli
Pensieri sparsi
Sono andata via per troppo tempo e sono ritornata
ancora: e una e una volta, e due e due e due volte, per capire così
con te, mamma, che mi volevi bene, ma non lo capivo che mi volevi con
te, ma non lo capivo e così ritornai per l’ultima
volta, chiedendoti scusa, ma le tue lacrime avevano già da prima
riempito il tuo cuore e nasceva e rinasceva, ancora e
dopo ancora, una nuova storia di bisogni in sé restanti, brevi fra noi
due come un fiume, che prima, che tanto tempo
prima entrò nel cammino della storia nostra, della storia finita da
tanti morsi e baci presi e basta, presi con sé, qualche
volta, così per incanto, così perché ero già da prima solo la tua
bambina.
Poi vidi il babbo infognarsi in un circuito verbale con me, in tua
assenza, ma fu così che ricordai poi di nuovo un’altra
volta dicendogli un “ti voglio bene” solo per amore di una casa fatta
così solo a suo modo.
Quando si chiude un cuore se ne apre un altro. Ed è così che amiamo
l’altra persona, senza chiedere aiuto, né
esistenza, fissa dimora per un pensiero. Io chiedo a te di essere il
mio uomo, di non pensare al chiuso decentemente
ardito di una mamma come volevo, di un mondo in cui non credevo.
Non siamo falsi, non siamo finti, siamo solo figli di chiunque lo
voglia Iddio, non posseggo che altri che me e me ne
vanto, dei truffatori sono stanca. Mi chiama così perché è così che si
è e non per finta, lo faccio con te.
L’essenziale è averti amata ed è stato bellissimo averlo accanto e
pensare a lui per sempre: in me nascono cose che si
chiamano errori, era questo l’indispensabile per dirsi addio. Ti ho
chiamato ed è stato, mi sono pentita ed è successo
che mi sono di voi innamorata.
Paola Scatola
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Genitori e figli
Se io fossi un’insegnante puntualizzerei, di tanto in
tanto, ai
miei scolari ed ai miei allievi che ciascuno di essi diverrà in grado,
domani, di dare nella società in base a ciò che particolarmente nella
famiglia e nelle istituzioni avrà ricevuto.
Oppure cercherei di sensibilizzare gli allievi circa il dato di fatto
che odiernamente ognuno di loro riceve dalla società TUTTO, mentre
domani, nell’avvenire, ciascuno di loro TUTTO QUANTO dovrà dare!
Anonimo
I miei genitori sono i miei migliori amici. Quando ho
bisogno di
loro, ci sono sempre. Soprattutto mia madre. Se le chiedo un favore,
lei è lì per esaudirlo.
Il giorno 31 dicembre, in casa mia a festeggiare il nuovo anno a
mezzanotte, ci siamo sempre io, mia madre e mio padre.
Lorenzo Giovanetti
Allora: ci sono una mamma, un papà e i figli.
I genitori devono dare ai figli affetto incondizionato e amore,
ascoltarli e amarli per quelli che sono. L’infanzia vissuta con
problemi a causa dei genitori si risente per tutta la vita.
Io ho avuto due genitori quasi assenti: mio padre alcolizzato che
picchiava mia madre davanti a me, e mia mamma che scaricava le sue
frustrazioni su di me e mi picchiava spesso, ma nel suo problema mi ha
anche voluto bene.
Con le mie figlie ho un rapporto quasi da amica e le ascolto quando
hanno problemi.
Non abitando con me faccio quello che posso, ma ho sbagliato anche io
però per problemi personali che non sto qui ad elencare e questo mi
dispiace!
Sabrina Soffri
Sarò papà. Un giorno. Almeno si spera.
Il rapporto genitori - figli è un rapporto unico. Non ci si sceglie.
Non scegli quale papà, non scegli quale figlio.
Una
relazione educativa, ma anche una promessa di crescita e cura, forse
non così univoco solamente dai genitori ai figli. Si creerà una sorta
di reciprocità, perché ad una certa età, quando io sarò meno giovane, i
miei figli si prenderanno cura di me, pur essendo divenuti genitori a
loro volta.
Genitori non si nasce. Si diventa. Non ci sono diplomi o titoli da
prendere. Nessuno ti insegna ad essere genitore. Quello che hai appreso
da figlio, lo
insegnerai ai tuoi figli. Mettendoci qualcosa in più di te.
Spero di dare dei buoni consigli a mio figlio, come li ho avuti io da
figlio. Spero di conoscere la vita di mio figlio, a volte potrà
succedere che non conosca qualcosa. Pazienza.
La libertà ed il libero arbitrio sono sfere da definire, in modo tale
che l’amore che avrò per mio figlio non diventi eccessivo o al
contrario non porti a tabù di cui non parlare.
Igor Badin
Gruppo di Rassegna Stampa
Centro Diurno di Casalecchio di Reno
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Riflessione
Io penso che i miei genitori non potevano fare di più
di quello che hanno fatto.
Edoardo Bellanca
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Padre
Ricordo di te
quando al rientro
i tuoi passi silenziosi
scrutavano il mio capezzale.
Padre, a questo capezzale
vorrei tu potessi ancora vegliare
e ritrovarti a cantare.
Ricordo di te le favole,
quando piccina ascoltavo
le tue parole silenziosa,
incantata di sorriso,
mentre mi sorprendevi.
Padre, a questo capezzale
tu possa vegliare
e ritrovarti nei miei sogni.
Ricordo quanto tenevi
all’anima mia, alla mia vita,
sì, lo ricordo quanto tenevi a me,
padre.
Marcella Colaci
|
Maggio 2008
Avrai scolpito in te
il dolore di sentirmi lontana
ogni qualvolta le mie urla
spiegavano la rabbia
di una via senza uscita.
Io che non sono io.
Io che mordo, io sconvolta.
Io che arranco la vita.
Non so e non sai
ma quando la calma riappare
mi duole il tuo animo duro
di rabbia, la mia e poi la tua,
di questo qualcosa,
che appare e scompare.
Inermi viviamo sconfitte,
il maniacale e il depressivo,
distolgo tutto per riamarti,
oh figlia!
L’amore supera,
è forte, va oltre,
perché è ancora vita.
Prendimi e amami
che amore sia ancora,
come io riscopro e rivivo
oltre il mare, le nuvole , le distanze,
oltre l’albero ed il filo d’erba.
Rivivo!
È subito giorno
di una o due o tre o mille
piccole vite distanti in una:
la nostra.
Facciamoci strada,
di me madre a figlia
di te figlia a madre.
Riviviamo l’amore.
Marcella Colaci
|
L’Italia urla
L’Italia urla
piange
per disoccupati
disincantati
per pensionati
disperati
per giovani
che per mancanza di lavoro
si sentono bistrattati.
Abbiamo bisogno
dalla politica
di risposte vere
che siano vincenti
per vivere un po’ contenti.
Giovanna Giusti
|
|
Amarsi
In questo oceano di tristezza
aggallano
relitti della memoria,
memoria di te:
ecco, come un sughero
una venere marmorea
recuperata
da un vecchio manuale;
ecco,
una bivalve perlifera
che dal mio scrittoio, sembra
volermi donare il suo tesoro.
I tuoi grandi occhi
danzano
tra acque e cielo
ed io tra acque e cielo
vorrei gettarmi
a cancellare
il tuo pianto di solitudine.
Prendo coraggio!
Affido ad un’onda sonora
la mia accorata richiesta
di aiuto.
Vuoi amarmi ancora?
L’acqua che dolcemente
ci bagnerà
sarà quella inebriante del peccato.
Non dire no!
Piergiorgio Fanti
|
Malgrado tutto
Parto da un chicco di grano
che timido germoglia
e, malgrado tuoni e fulmini,
cresce.
Piccola,
sentivo porte e tavole tuonare
e vedevo la forza in te, padre.
Pian piano, malgrado tutto,
crescevo.
Con te che non parlavi, tuonavi.
“Padre padrone”
leggevo per capire.
Tu, offeso – Non sono io! –
Piangevi…
Poi d’improvviso, adulta,
sperai di spiccare il volo,
ma intorno a noi
non si poteva volare.
E tu tuonasti. Fuggii, illusa…
A volte rivivi, padre.
Tuono anch’io, sai… delusa.
A volte rivivi, madre.
Muta anch’io, sai… sola.
Lo temo in ogni uomo,
Lo temo ovunque.
Ma non c’è.
La cerco in ogni donna.
la cerco ovunque.
Ma non c’è.
Malgrado tutto lo rifarei,
in ginocchio da voi,
carezzarvi morenti.
Malgrado tutto, lo farei,
accompagnarvi.
Malgrado tutto, mancate
al mio sole e alle mie stelle.
Marcella Colaci
|
Falso movimento
A Bologna! A Bologna!
Studi d’arte
Per parlare del Gotico
(Divano-letto
Autobus e bicicletta)
Vuoi vedermi?
T aspetto al “Piccolo bar”:
Succo d’arancia e
Nel futuro castelli
Nel passato l’America
Ti accompagno per il cambio di camera
(Grassabuona
La padrona di casa)
Vuoi mangiar tortelloni?
Mia madre li prepara domani…
Stasera
Un film di Wim Wenders
Un Porto
Un abbraccio un po’ forte
Attenta!
Sono anche un poeta!
Ricorda bene
Di quel commesso viaggiatore.
Piergiorgio Fanti
|
Amica più cara
Sto cadendo
La fatica ed il vento
Sto cadendo senza riposo…
Lontana, la T-shirt rosso slavato:
-Salta su, ti porto
Questa sera da me.
…
Bellagrande la casa:
Il Padrone è deciso, sicuro
Mi domanda
Di politica un poco
La Signora ama il mondo ed i fiori
E un fratello mangiando mirtilli
Pensa boschi e montagne.
Mi segui
Quando scendo le scale
Amica profumata di buono
(La maglietta
D’un rosso slavato).
Piergiorgio Fanti
|
Con la parola soluzione
Il Creato divino di Cristo
è la soluzione ai miei quesiti
è il sapore delicato d’amore
il mio desiderio irrefrenabile
di una vita lucente.
Roberto Ramosi
|
Gioventù spezzata
Come in trincea
a sbadilare aria
a difendere il poco
e il provvisorio smarriti
sul futuro di domani
negata la speranza
perduta la dignità
questa giovane generazione.
Una catasta d’ombre
s’impila e brucia
l’afa nel cervello
le ossa smarrite e sole
perduti stimoli
e occasioni percorribili
il pensiero si stordisce
gira in circolo
e si domanda su noi:
le bollicine nel bicchiere
la torta non divisa
in spicchi più piccoli
avviso di sfratto
da un tramonto condiviso.
Ermanno Bitelli
|
Una bimba
Nascere, crescere,
ma soprattutto nascerà,
un giorno ci sarà una bimba
frutto dell’amore di voi due.
Che emozione così piccola
così fragile,
un tesserino ci mostrerà il suo volto,
le sue tenere manine,
la sua piccola testolina,
o voi che siete i suoi genitori
abbiatene sempre cura.
Bimba bimba
o dolce creaturina
osserva i tuoi genitori
hanno fatto molto per te,
ti amano con grande amore,
ti hanno desiderato molto.
Che i tuoi desideri si possano avverare
che i tuoi piccoli passi che farai
possano diventare sempre più
grandi e sicuri.
Ascoltali fa quello che ti dicono,
loro hanno esperienza
e vogliono sicuramente il tuo bene.
Bimba bimba
un dì crescerai
e diventerai grande,
ma mancano ancora parecchi anni,
non ti preoccupare
ci sono le persone che ti circondano
che ti vogliono bene,
le decisioni le potrai prendere…
Camminare è il primo passo
verso l’indipendenza.
Camminerai quando sarai più grande,
non ti preoccupare,
parlerai e nessuno ti potrà fermare,
parlerai in continuazione.
Non avere paura di venire al mondo
ci sono una moltitudine di cose
interessanti da fare.
Un bacio bimba bimba.
Loopa Sonivree
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SMS
Immaginiamo un sole dentro all'altro
se ne togliamo uno abbiamo meno caldo
ma il mondo precipiterebbe
nell'abisso dell'universo e ci perderemmo
e forse troveremmo un altro sole e un’ altra luna
con un altro mondo.
Il mondo magari migliorerà
andando con una navicella a confrontarsi
coll'altro mondo,
che si è scoperto più bello e più giusto.
I corvi volano sono felici ma noi pensiamo che siano tristi
perché sono neri. Ogni tanto si fermano per prendere il respiro,
incontrano un'aquila di mare dalla testa bianca e si incuneano verso
il mare. Forse quella nave con quel filo di fumo li salverà.
Cioè nell'amore e nella gioia dell'esistenza più pura.
Sei come un diamante puro e scintillante, non ti rimane
niente della tristezza e del dolore che io e il Signore
ti abbiamo portato via per darti amore, tanto amore
che ti rassicuri e non ti voglia più veder soffrire,
perché la sofferenza è ingiustizia e l'ingiustizia
un giorno perirà , cioè morirà nel cuore degli impuri.
Sei rimasto indenne, ma tutto ti è successo.
Rimani con me e più forti saremo,
non sai che il Signore ti vede e ti cura
nei secondi di vita che seguono le tue mosse,
i tuoi istanti.
Cresci con lui e con me.
Rimani giovane nel tuo cuore
e nutrendoti di Lui e di me,
vivi ogni istante più intenso.
Cresci ma non nel cuore,
il cuore giovane vive di speranza e rimane
felice nell'amore, che lo porta dove vuole.
Sei un segno che mi ha portato Dio
perché sei un Angelo, sopra la mia spalla
leggera voli via per poi ritornare.
Luisa Paolucci delle Roncole
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Il mestiere di genitore
Tu hai voluto un figlio
e adesso?
Non si mette al mondo un bimbo
solo per avere un giocattolo nuovo!
Il ruolo di genitore è molto importante,
devi riuscire ad educare un’altra
persona.
All’inizio devi accudirlo per i suoi
bisogni primari,
successivamente devi dargli dei valori,
il fattore più importante per crescere
un bambino
è avere qualcosa da poter dare;
bisogna sicuramente
essere realizzati nella vita,
aver raggiunto la sicurezza
sia emotiva che fisica.
Non bisogna passare le proprie
frustrazioni,
gli inevitabili problemi,
il bambino non deve essere trattato
tramite comandi,
ma ci vogliono soprattutto spiegazioni.
È necessario fargli conoscere la vita
sotto un aspetto positivo
rimarcando le cose belle che ci
accadono...
Troppi genitori sono impreparati
invece sarebbe meglio
cercare di capire che ruolo
bisognerebbe avere,
ci vuole la giusta dose di gratificazioni,
di divieti,
dando quindi una strada da seguire.
Un figlio è da amare,
è la cosa più bella
che riesce a realizzare una coppia.
A un certo punto il figlio prenderà
la sua strada,
questo è un percorso naturale
dell’esistenza.
In quel momento si saprà
cosa gli avete dato,
se siete riusciti a creare
un adulto capace di districarsi
fra i vari problemi,
solo allora capirete
se siete stati dei bravi educatori…
Loopa Sonivree
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I genitori e i figli
Anch’io vorrei tornare
tra le sue braccia
come chi ti amava,
come colui che ti amava.
Ma non è prosa,
ma non è poesia
è solo l’amata mia:
che non era di te,
che non era di me,
era solo nei gemiti,
nei sentimenti miei.
Colui che ho amato
colui che non ho salvato.
Anch’io ti ho amato
ma a modo mio.
Paola Scatola
1novembre 2013
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Lo sfogatoio
Genitore sì, genitore no
Certo ora mi piacerebbe essere genitore, ma la salute
mentale… forse no, penso di no, credo di no. La mia è solo
paura, forse, o forse solo un dubbio legato alla mia maturità. Ho
quarantacinque anni e quando sono solo o con Cristina
mi sento come un trentenne. In effetti i miei amici che hanno avuto
figli sono mediamente più maturi di quelli che figli
non ne hanno. Chissà, se io e Cristina avessimo dei figli forse
potremmo fare quel saltino di sapienza ed equilibrio che
ci farebbe crescere e divenire buoni genitori. Purtroppo però è vero
anche il contrario: se io trasmettessi l’ansia e
l’insicurezza a mio figlio, rischierei di fare un nuovo paziente per la
Salute Mentale (se però non ci fossero pazienti, di
che cosa vivrebbero psicologi, psichiatri, infermieri, educatori,
assistenti sociali eccetera?).
Io soffro di un disagio psichico, però ora vivo bene, conosco meglio me
stesso e quello che voglio. Forse sono un peso
economico per la società, per questo cerco di fare volontariato e di
limitare al massimo il costo della mia condizione.
Sì, ora mi sentirei pronto a diventare padre. Tuttavia i soldi per
crescere un figlio in questo momento non ci sono.
L’ideale sarebbe, o meglio, mi piacerebbe avere una figlia femmina, già
matura, di ventiquattro anni, con cui parlare,
ridere, scherzare, piangere. Vedere in lei quello che è il futuro,
oltre e dopo me stesso…
Approfitto per ringraziare la più brava di tutte le mamme, la mia.
Fabio Tolomelli
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Il famoso gap
A tre anni: papà sa tutto.
A sei anni: papà sa quasi tutto.
A nove anni: vi sono molte cose che papà non sa.
A diciotto anni: papà non capisce niente.
A trent'anni: mi consiglierò con papà.
A quarant'anni: ah, se ci fosse ancora papà!
Basterebbe questa logora gag per schematizzare il
rapporto genitori-figli. In realtà la cosa è oltremodo più
complessa. I genitori hanno sempre educato i figli secondo
le loro convinzioni (cosa giustissima) secondo le loro idee
(cosa un po' meno giusta) e soprattutto ESSENDO
FERMAMENTE CONVINTI CHE LE LORO IDEE E
CONVINZIONI FOSSERO GIUSTE, cosa, questa, errata a
tutti i livelli. Prima di tutto, mai e poi mai un giovane si può
educare con idee e regole di cinquant'anni prima: il mondo
è in continua evoluzione. Forse in passato molte cose
erano meglio di oggi, ma chi si sognerebbe, per esempio,
di portare il cappello stile anni '40 o i baffi anni '10 o le
barbe anni '60, oggi quasi totalmente in disuso?
E qui è necessario che torni a parlare del '68. Prima di quello che
noi chiamiamo '68, che in America c'era già da almeno 6/7
anni e si chiamava beat generation, le idee basilari
passavano lisce come l'olio da genitori a figli: in chiesa
tutte le domeniche, studiare perché papà (e SOLO lui) si
spaccava la schiena a lavorare, prendere una laurea
perché papà non c'era riuscito causa la guerra, sposarsi
presto e fare più figli possibile, ovviamente tenere la moglie in casa
sennò ti faceva le corna (quanta manna
per idraulici, tappezzieri, garzoni del fornaio e più avanti
DJ!!!), insomma NESSUNA ALTERNATIVA.
Spesso erano i genitori che sceglievano il lavoro ai figli e i mariti
alle figlie, facendo così nascere generazioni di frustrati,
che dovevano abdicare ai propri sogni, che venivano
definiti ‘grilli per la testa’.
Mia madre per fare la cantante dovette praticamente fuggire di casa e
suo padre non
l'andò MAI a vedere, anche quando arrivavano fior di
milioni dall'estero... Non parliamo poi dei ‘diversi’, che
dovevano nascondersi per tutta la vita o rinchiudersi in
conventi, dove potevano ‘praticare’ senza problemi, ma
con sensi di colpa grossi come case a dodici piani.
Poi arrivò il '68. Io ci sono passato, sebbene non del tutto,
ma... Solo quelli della generazione nata dal 1948 al 1965
osò mettere in discussione i dogmi paterni (il termine
‘matusa’ era quanto mai espressivo)... Il lavoro e gli
studi? Me li scelgo io! Il marito, la moglie? Me li scelgo io,
SE vorrò sceglierli... E mia moglie ANDRÀ A LAVORARE
esattamente come me... Mi vesto come piace a me, non
come vuole la gente, non esiste che non possa entrare in
un posto se non ho uno stupido pezzo di stoffaal collo…
Le vostre idee sono vecchie, superate, obsolete... Tutto questo senza
inficiare il bene che volevamo ai nostri
genitori.
I militari non erano più eroi, ma gente che veniva
addestrata ad uccidere altre persone, quasi sempre a
torto, e che doveva rispondere "sissignore" a un idiota che
aveva un grado in più sulla spalla... Fare l'amore con chi si
amava PRIMA di dire sì davanti a un tipo vestito come
Scaramacai... Ecco, il famoso gap, il muro che spingeva
milioni di ragazzi a passare ore ed ore in camera senza il
benché minimo rapporto dialogativo coi genitori. Ora siamo
noi i genitori (alcuni già anche nonni) e siamo noi a dover
capire che forse i nostri figli non seguiranno le nostre idee,
ma ne avranno di loro. Migliori? Peggiori? NON SI SA...
Ma loro devono seguire le loro... Noi non possiamo fare
altro che dar loro consigli dall'alto della nostra
esperienza...
Mia
figlia ha ventisei anni ed è già alla seconda convivenza: come sarebbe
stata chiamata quarant'anni fa? Ma io e sua madre le abbiamo insegnato
ad essere libera e a seguire la propria testa e il proprio cuore, non
libelli scritti duemila anni fa. Buona vita e tanto lavoro.
Max Trentini
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Ma intanto… io li avevo persi
È un rapporto che per me è stato molto complesso e
particolare perché mio padre e mia madre erano completamente
diversi tra di loro ed io con il babbo mi sentivo in un modo, con la
mamma in un altro. Sono rimasta senza mamma a
ventotto anni e cinque anni dopo ho perso il babbo. Quando li ho persi
mi sono resa conto che io … ‘non me li ero
goduti’ e loro non mi avevano conosciuta nei momenti migliori. Con mia
madre ero spesso nervosa e con mio padre ero
in soggezione, quindi non sono mai stata serena e a mio agio con
nessuno dei due, soprattutto negli ultimi anni della
loro vita. Mia madre era affettuosa e generosa, ma anche ansiosa e
quindi cercavo di non dirle cose che potevano darle
ansia. Mio padre era spesso volentieri taciturno, quindi parlare con
lui o con un muro era più o meno la stessa cosa.
Soprattutto dopo il matrimonio di mia sorella maggiore mi tenevo tutto
dentro e se avevo bisogno di sfogarmi lo facevo
fuori casa con amici, cugini o conoscenti. Per mio padre (che quando
era fuori di casa parlava benissimo di noi) andare
a scuola era un dovere, prendere bei voti era un dovere, fare bene era
un dovere… Che palle !!! Diamine! Come si fa ad
andare d’accordo e a comunicare con un essere così? E infatti a un
certo punto della mia vita io mi ero staccata da lui e
mi comportavo come se lui non ci fosse. Anche quando mi sono laureata
con lode, mi sono sentita come se avessi fatto
una cosa come tante altre, mentre per i miei amici il momento della
laurea era stato una continua festa.
Quando
facevo la baby sitter e vivevo con le famiglie dei bambini che seguivo
o accudivo, mi sembrava che tutti i loro papà e le loro
mamme fossero sempre affettuosi con loro e tenessero in considerazione
ogni loro successo; se andavano bene erano
premiati, se prendevano bei voti ricevevano complimenti, se erano bravi
o si comportavano bene ricevevano carezze ed
abbracci. E io? Li invidiavo, perché secondo me avevano una vera
famiglia, dei veri papà e delle vere mamme. Più tardi
ho capito che anche una mamma ansiosa può essere un’eccellente madre e
un padre ‘orso’ un buon padre.
Ma intanto… io li avevo persi, senza conoscerli a fondo e senza essermi
fatta conoscere fino in fondo per quella che
realmente ero.
Tina Gualandi
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Contrasti e sintonie
Il rapporto con i miei genitori necessita di un netto
distinguo,
nel senso che mentre col mio papà raramente ho avuto
contrasti, malcontenti, risentimenti - essendo lui una
persona che, sia dal punto affettivo che per le
caratteristiche proprie, ha da sempre rappresentato la parte
tenera e permissiva, ricoprendo chiaramente nella coppia il
ruolo femminile - con mia mamma le cose sono andate
molto diversamente, essendo lei per natura una donna
autoritaria, forte, normativa, avara di gesti e atteggiamenti
affettuosi e muta, in generale, sui sentimenti.
Trattandosi di un conflitto impari, per ovvi motivi, ho nutrito nel mio
intimo
sentimenti negativi, divenendo nei suoi confronti
spietatamente critica, arrabbiata, insoddisfatta e rancorosa.
Fortunatamente, circa cinque anni fa, prima che venisse a
mancare, c’è stato il miracolo, e di questo ringrazio Dio,
perché ho avuto l’opportunità di ricucire questo rapporto,
scoprendo la vera natura di mia madre: la sua immensa
tenerezza. In questo periodo, dopo un attento e duro esame
della realtà, è riuscita ad avere un buon livello di
consapevolezza, riconoscendo e accettando quei limiti
sopraggiunti con l’avanzare dell’età e l’aumentare degli
acciacchi. Quello che mi ha stupito è che, contrariamente
alle mie attese, mia madre ha iniziato ad essere dolce,
disponibile ed affettuosa, riuscendo addirittura ad accettare
e ricambiare le mie manifestazioni d’affetto. Fino ad allora,
per lei, i baci, gli abbracci, le carezze, le coccole ecc. erano
semplicemente delle stupidaggini, e io ne avevo molto
sofferto e l’avevo pesantemente criticata. Ho ritirato tout
court ogni genere di critica e contrarietà, perché finalmente
avevo realizzato che il suo atteggiamento e il modo di
relazionarsi con noi figli non avrebbero potuto essere
diversi, lei non faceva altro che riproporre il modello delle
proprie relazioni familiari, fortemente condizionate dalle sue
origini contadine e il fatto di avere avuto, in casa, un padre
padrone, condizione piuttosto frequente all’epoca. Questo,
come è comprensibile che fosse, ha causato in me
grandissimi sensi di colpa e di vergogna per la superficialità
e gratuità delle mie critiche e cattiverie, fino ad allora pensate
ed agite nei confronti di mia madre.
Mi piacerebbe che da questi scritti passasse ai lettori il
seguente messaggio: restare arroccati sulle proprie posizioni
non è assolutamente produttivo né per i genitori né per i figli,
quello che invece paga, è la costruzione e l’apertura di un
buon canale di comunicazione che agevoli la reciproca
conoscenza, per meglio capire e capirsi.
I genitori ogni volta che vengono a conoscenza dei bisogni,
delle esigenze e dei desideri dei propri figli, dovrebbero
limitarsi a dare suggerimenti e consigli evitando qualsiasi
genere di imposizioni ed ingerenze, per mettere i loro ragazzi
nelle condizioni di fare esperienze, anche negative, perché è
proprio dagli errori che i giovani imparano a crescere e a
maturare, ed è proprio cadendo che imparano a rialzarsi.
Sulla base della mia esperienza, ai figli di genitori anziani mi
sento di dire di avere più elasticità e comprensione, di non
emettere critiche e giudizi fermandosi alla ‘superficie’, ma di
avvicinarsi ai propri cari per meglio capire cosa c’è dietro ai
loro convincimenti, alla loro rigidità; in questi casi dobbiamo
essere noi ad adeguarci ai genitori e non il contrario.
Concetta
|
Grazie mamma
Non so da che parte cominciare, mi sento spezzata,
affranta, addolorata. Mi avevano regalato un’immagine in
cui un sole spiccava in tutto il suo splendore. Al centro
aveva simbolicamente l’immagine di un uomo rannicchiato
di cui si distinguevano facilmente le braccia, un occhio e
due piedi. C’erano ai margini delle parole incomprensibili.
Non sapevo spiegarmelo, ma traevo molta forza da quella
figura.
Era passata circa una settimana dalla morte di mia
madre ed io non riuscivo ancora a farmene una ragione. Le
ero stata molto vicina, soprattutto nel momento in cui si è
spenta e a un tratto ha sbarrato gli occhi, ha fatto una smorfia
di dolore e si è spenta.
Le ero stata accanto negli ultimi tempi. Il rapporto con lei non era
stato semplice. Avevamo
discusso a lungo, litigato, minacciato di non sentirci più.
D’altro canto io non mi sentivo molto grata a mia madre per
avermi dato la possibilità di studiare in una città lontana da
casa, di avermi lasciato fare esperienze anche sbagliate, di
essermi stata vicina nei momenti più critici della mia malattia.
Erano circa trent’anni che lottavo con la sindrome bipolare,
una patologia che alternava momenti di forte depressione,
di ansia, ma anche di euforia. Avevo imparato a conviverci
nel tempo ed ora mi ero abbastanza stabilizzata, ma avevo
dei forti limiti. Ero legata a filo stretto alle medicine.
Dipendevo in certo senso dai farmaci a cui mi sentivo
riconoscente. Avrei voluto piangere, disperarmi, urlare, ma
non avevo versato neanche una lacrima. Per questo mi
sentivo in colpa. Avevo affrontato con forza momenti difficile
come il funerale di mia madre e la sua tumulazione. Ora lei
viveva dentro di me, la sentivo interiormente e questo mi
dava coraggio, una spinta a non mollare, ma ad andare
avanti con coraggio e determinazione.
Maria Chiara Reitani
|
“E allora fu incerto nella mente
e nell’anima”
Stavo attraversando un momento difficile, la morte di
mia
madre mi pesava, non riuscivo a superarla. Non avevo
versato una lacrima e il dolore era tutto dentro di me. Avevo
delle risorse, ma mi sembrava che non servissero a nulla.
Mi piaceva moltissimo scrivere, era liberatorio, e ci avrei
provato anche questa volta. Frequentavo un gruppo di
scrittura, aprivano un libro a caso, ne isolavano una frase
per poi scrivere un racconto. Quella volta la frase era: “E
allora fu incerto nella mente e nell’anima”. Chi più di me era
incerta nella mente e nell’anima? Non riuscivo ad andare a
parare da nessuna parte. A fatica ripercorrevo gli scritti
passati e ne isolavo delle parti. Quella volta recuperai la
protagonista di alcuni racconti. Si chiamava Ersilia ed era
una donna forte e temprata dalle avversità. Come avrebbe
reagito Ersilia alla morte di sua madre? Certo Duilio, suo
marito, le sarebbe stato accanto, ma da lei doveva partire la
forza per superare quel momento. La donna avrebbe voluto
piangere e disperarsi come era capitato in occasione della
morte di suo padre. Allora era una ragazzina di appena
quindici anni e non aveva strumenti per superare il dolore.
L’aveva interiorizzato, ma nel corso degli anni era andata
incontro a episodi di depressione e di euforia allo stesso
tempo. Le avevano diagnosticato una sindrome bipolare che
stava curando con farmaci appropriati. Era ormai una donna
di cinquantasei anni. Mi rendo conto che ho fatto un po’ di
confusione. Ora sto parlando in prima persona e non riesco a
dar voce ad Ersilia. Ero in tanti momenti disperata, avevo
avuto un rapporto intenso, ma nello stesso tempo
ambivalente con mia madre ed ora mi sentivo in colpa per
non aver pianto per la sua morte. Mi avevano detto che i
farmaci rendevano più difficile il piangere, ma io mi sentivo,
forse l’ho già detto, in tanti momenti disperata. Avevo
riallacciato il rapporto con mio fratello di due anni più giovane
di me e con lui mi confidavo, ci sentivamo tutti i giorni e
questo mi dava forza. Avevo ripreso i contatti con un mio
cugino che ha parecchi anni più di me, gli telefonavo e
questo era importante e consolatorio. Il tempo certo avrebbe
sanato quella ferita, ci voleva solo pazienza, che ad esser
sincera mi mancava. Ma avevo fiducia nei medici che mi
seguivano. Ce l’avrei fatta?
Maria Chiara Reitani
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Lettera di un padre al figlio
" Figlio mio ,
ora sono molto, molto vecchio,
non so più cosa dirti, cosa insegnarti:
va' per la tua strada,
addio”
Matteo Bosinelli
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Riposa in pace, Mandiba
Il suo nome, Rolihlahla, in lingua Xhosa significa
‘attaccabrighe’.
Glielo affibbiò la madre, dopo averlo partorito in riva a un fiume.
Poi, alle elementari, furono i missionari inglesi a scegliere per lui
il nome di un celebre avversario di Napoleone, il prode e implacabile
ammiraglio Nelson.
Sia il primo che il secondo nome non sembrerebbero i più indicati per
uno destinato a ricevere il Nobel per la pace… Ma la sua vita è stata
la dimostrazione che amare la pace non vuol dire rassegnarsi
all’ingiustizia.
Così Nelson Mandela, un padre per la sua patria, il tormentato
Sudafrica, e un faro per l’umanità, è passato alla storia col nome di
‘Madiba’, titolo onorifico usato dai membri anziani della sua
nobilissima famiglia, qualcosa come ‘grande, eminente, venerabile’.
Madiba è morto il 5 dicembre 2013 all’età di novantacinque anni e la
notizia è stata accolta con grande cordoglio in tutto il mondo.
L .L.
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Dal numero 60 (dicembre 2013) della rivista Liberalamente
il giornale del fareassieme della Salute Mentale di Trento
Tenerezza riscoperta
Nei momenti più tristi della mia vita, per trovare un
po’ di serenità, cerco di ricordare giorni sereni.
E uno dei pensieri che mi dà più tranquillità è il pensiero di una
bambina a cui i genitori davano il bacio della buonanotte prima di
andare a dormire. Oggi lo ricordo con tanto affetto, ma in realtà
questi
primi momenti di tenerezza a me facevano ribrezzo. Non c’ero
abituata. Prima di andare ad abitare con i miei genitori adottivi,
vivevo
con una mamma che non era avara di coccole, non sapeva proprio
cos’erano. Non conoscevo baci e abbracci. Scappellotti sì. Quando
finalmente sono arrivata a casa dei miei genitori adottivi gli abbracci
erano all’ordine del giorno ma io li vivevo come un soffocamento. E mi
sembrava di dover andare sulla ghigliottina quando, finito Carosello,
andando a dormire, sapevo che dovevo affrontare il bacio della
buonanotte. Mi sentivo a disagio, mi dava fastidio; ricordo che dopo il
bacio mi pulivo la guancia. C’è voluto molto tempo prima di abituarmi a
questa consuetudine e molto di più per capire che questo era affetto.
Però oggi, quando sono triste, ricordo quel momento di tenerezza e
sto meglio.
Cristina Bonaita
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Troppo tardi
Il racconto che segue fa parte del bel libro
“Terremoto Dentro” a cura di Alessandra Pederzoli, presentato per
iniziativa
de ‘I Diavoli Rossi’ alla Casa della Conoscenza di Casalecchio di Reno
il 15 febbraio scorso. Si tratta di una raccolta di
racconti brevi, immagini e suggestioni grafiche nata all’interno di un
laboratorio di scrittura creativa che ha dato seguito
al progetto promosso da AUSL di Imola, Istituto Nazionale di Geofisica
e Vulcanologia di Bologna, liceo socio
pedagogico di Imola e dalla rete di Associazioni e Polisportive legate
ai Centri di Salute Mentale della Regione Emilia
Romagna. Dopo uno stage a L'Aquila nel febbraio 2011, a due anni dal
terremoto, nel quale i partecipanti hanno
conosciuto la città, incontrato i cittadini e ascoltato le loro storie,
alcuni hanno sentito il bisogno di elaborare
l’esperienza, riviverla e trasmetterla attraverso il racconto. Racconto
che, dopo il terremoto vissuto in prima persona a
maggio 2012 in Emilia, è diventato autobiografia e storia personale.
Michele, milanese di vent’anni, studente in agraria, aveva
tutte le qualità per diventare un ciclista professionista.
Tuttavia, come ogni giovane della sua età, aveva come
primo pensiero quello di divertirsi il più possibile, anche in
bicicletta. Questo però cozzava con tutti i sacrifici che
debbono essere fatti per poter avere dei risultati sportivi.
Tutto questo si conciliava male con la possibilità di vincere
in gara. Per lui la bicicletta era un divertimento, sentiva l’aria
nei polmoni e lo gratificava quella fatica nelle gambe che
toglie quasi il fiato; lo divertivano le trasferte con i compagni
di squadra, stava bene all’idea di faticare insieme agli amici
e poi godersi i risultati in feste che erano solo loro. Era un
modo quello per stare in compagnia, avere un interesse
sportivo che lo facesse stare bene anche con altri, oltre che
con se stesso.
Il padre e l’allenatore non riuscivano a capire questa duplice
passione di Michele e volevano vedere in lui solo l’aspetto
agonistico e sportivo, dimenticando tutto il resto, per
Michele così importante. Così, in buona fede, riprendevano
il giovane, sottolineando tutte le mancanze del ragazzo,
incapaci di vedere tutto quel lato sociale dello sport che per
lui era vitale e fondamentale, anche per il raggiungimento
dei buoni risultati. Ogni aspetto del suo carattere veniva
costantemente messo in discussione. Volevano vederlo
vincere. Il giovane, di un carattere naturalmente allegro e
socievole, finiva con l’essere frustrato in ogni sua iniziativa
e in ogni suo fermento. Incompreso da chi avrebbe dovuto
accompagnarlo in questo viaggio. Il malessere che ne
seguiva si trasformava in una chiusura brusca e violenta,
circondata da un alone di aggressività, che infastidiva lo
stesso Michele. Aggressività che Michele manifestava
prevalentemente verso il padre e l’allenatore. Con la madre,
invece, aveva un ottimo rapporto; lei lo tutelava e a volte lo
appoggiava in questa sua esuberanza. Aveva solo paura
che si potesse far male in bicicletta, in preda alla troppa
energia e incoscienza dei vent’anni. Quella domenica
all’Aquila il giovane aveva vinto infischiandosene delle
direttive dei due adulti e delle preoccupazioni della madre.
Per reazione, dopo aver alzato le mani in segno di vittoria,
fece un gestaccio all’allenatore e al padre, ancora incredulo
dell’impresa del figlio. Lui aspettava solo di festeggiare quella
vittoria sua e della squadra che lo aveva accompagnato alla
vittoria, infischiandosene di tutti i consigli e rimproveri che
sarebbero arrivati dai due complici che, ormai, sembravano
coalizzati contro di lui. E lui proprio continuava a non capire
tutta quella ostinata ostilità dei due adulti.
La sera, Renzo, lo sponsor, offrì la cena e l’alloggio per la
vittoria di Michele e della squadra. Quella sera ci pensò
Renzo a tenere alto il morale della festa. Ma i volti lividi e il
silenzio tra Michele, il padre e l’allenatore erano tombali e
insopportabili. Incomprensibili. Un alone di severità capace di
rovinare la festa a tutti. A Michele, a sua madre, ai compagni
di squadra e anche a Renzo, ignaro dei veri motivi del
malessere diffuso. Fecero tardi quella sera. Riuscirono a
divertirsi nonostante tutto e abbandonarono il ristorante con
un bel calore addosso. La squadra andò verso le camere per
andare a dormire. Una forte scossa di terremoto. Impossibile
a credersi. Erano stati avvertiti di quella situazione di
precarietà che andava avanti da mesi, ma non credevano
fosse possibile proprio quella notte. Il terremoto no. Ci
mancava solo quello. Renzo andò subito a parlare con il
gestore dell’albergo il quale lo rassicurò, dicendogli che le
autorità avevano detto di stare tranquilli e che non sarebbe
certo arrivato un terremoto abbastanza forte da fare danni a
quella bella città. Eh, sì, era proprio bella L’Aquila, anche
Renzo se ne era accorto nonostante l’entusiasmo per quella
vittoria inaspettata. Così dopo aver tranquillizzato la
squadra, tutti andarono finalmente a dormire, esausti dopo
una giornata fatta di troppa emozione.
Due settimane dopo Michele si risvegliò nel reparto di
rianimazione dell’ospedale di Pescara. Era successo. Il
terremoto. Al suo risveglio la madre era presente. La prima
sensazione fu un forte dolore al capo, poi si accorse di
avere un profonda ferita alla gamba che era tenuta in
trazione.
La madre, felice del risveglio, aveva ancora negli occhi il
dramma di una ferita aperta e viva che quel viaggio aveva
portato nella sua vita. Piangeva. E Michele non capiva se
quelle fossero lacrime di gioia per averlo di nuovo come
figlio o fosse altro. Chiese con il poco fiato che quel
risveglio gli lasciava, dove fosse il padre. Lo immaginava a
fare commissioni o a Milano, nuovamente al lavoro. Forse
sì, aveva lasciato la madre al suo capezzale per tornare alla
sua vita di sempre, in attesa del ritorno dei due alla fredda
città del nord. La madre continuava in un pianto, per
Michele, indecifrabile. Il padre non era a Milano. Non era
tornato al lavoro. Non stava aspettando il loro ritorno. Il
padre non stava facendo commissioni. Il padre non era… Il
padre non era uscito vivo dal crollo di quel piccolo albergo
del centro.
Michele rimase così. Con gli occhi chiusi a mettere ordine ai
pensieri che ordine non potevano trovare. Era confuso,
incredulo, si sentiva debole, privo di protezione. E rimase lì.
Rimase così, in silenzio, davanti a una madre forte e nuda,
di fronte all’incapacità di capire e di dare un senso.
Due settimane dopo, dimesso dall’Ospedale, tornò a
Milano. La casa era vuota e Michele dal giorno del risveglio
non aveva parlato più con nessuno. Solo dopo qualche
settimana trovò l’energia per andare a trovare il padre al
cimitero. Aveva ancora stampato negli occhi, e nella
memoria, il volto cupo del giorno della vittoria.
Pensava a quelle immagini, le teneva strette al momento
presente come se fosse lì, suo padre, di fronte a lui, cupo e in
preda al disappunto per la vivacità del figlio, bizzarro e
testardo. Quando nella bolgia dei pensieri che correvano
senza il suo controllo, si rese conto che, dietro a quella lastra
di marmo e a quel mazzo di fiori sempre freschi e profumati,
c’era il corpo di suo padre, crollò in un pianto incontrollabile e
irrefrenabile. Finalmente crollò. Finalmente. Si concesse di
versare tutte le lacrime, la disperazione e la rabbia. Lì davanti
a una lastra di marmo. Davanti alla foto di un padre
sorridente, come lui non aveva mai saputo vederlo. Lui che
aveva sempre solo preso da quell’uomo generoso solo il lato
oscuro, burbero e , in fondo, troppo simile a lui. Allora toccò
con mano quella ferita. L’unica ferita vera. Non quella che
ancora lo faceva camminare con le stampelle e che aveva
cancellato tutta la sua possibile carriera di ciclista, non quella
ancora ben visibile sul suo cranio rasato per via
dell’intervento. L’unica ferita grande era non aver mai detto al
padre quanto bene gli voleva. Ora lo sapeva. Era l’unica
ferita.
Fabio Tolomelli
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Il fantastico viaggio di Emy
Il fantastico viaggio di Emy è una storia
piena di fascino e di magia: vi porterà dalla foresta incantata al
mondo reale,
che come un’allegoria fa crescere la protagonista, da bambina ad
adulta. La storia è densa di emozioni e fantasia ma
anche ricca di sentimenti profondi. Attraverso la scoperta dell’amore,
Emy crescerà e supererà le difficoltà che la vita
comporta, ma che non vi anticipiamo per non togliervi il piacere della
lettura.
L’avventura di Emy simboleggia una parte della vita di ciascuno di noi
che rappresenta l’amore e la forza di vivere.
Arianna Agrestini
Dopo aver consumato la colazione, Emy indossa il suo
zainetto e a passo lesto infila il vialetto che la conduce a scuola. Ad
un tratto sente vicino a sé una vocina che la chiama: “Emy, Emy!”. Si
guarda attorno ma non vede nulla: “Emy, sono Ory, il
tuo piccolo amico invisibile, tu non puoi vedermi, ma potrai ascoltare
la mia voce”. Emy, un po’ spaventata, esclama: “Cosa
vuoi da me?” e lui risponde: “Voglio soltanto aiutarti”. “Non ho
bisogno del tuo aiuto e non posso parlare agli sconosciuti”, ma
Ory insiste e ribatte: “Se andrai in quella terribile scuola, ti
cresceranno due lunghe orecchie d’asino, il tuo naso diventerà
grosso come un peperone, le tue gambe si riempiranno di peli
lunghissimi e ti crescerà una lunga coda!”. “Davvero!?!?
Questo non lo sapevo! Nemmeno mamma e papà mi avevano avvertito di
questo, non voglio certamente diventare un
terribile mostro”. “Vieni con me se vuoi che tutto questo non accada”
ribatte Ory. “Ok, ok, ho capito, ma dove vuoi portarmi?” .
“Tu ascolta la mia voce ed io ti porterò in un paese lontano, ai
confini della realtà”.
Si mettono in cammino e dopo aver camminato a lungo arrivano nella
foresta incantata. Immensi arbusti, lussureggiante
vegetazione, fiori e animali di ogni specie appaiono agli occhi di Emy.
“Che meraviglia!”, esclama sgranando gli occhi, “Da qui
non me ne andrò più”. “Si sta facendo buio” dice Ory, “Dobbiamo trovare
un riparo per la notte”.
Così, insieme, con paglia e fango costruiscono una casetta, che
collocano fra i rami di un grande albero e con liane
intrecciano una lunga scala per salire e scendere dalla casetta. “Ora
possiamo dormire tranquilli, qui nessuno ci disturberà”.
Dopo aver trascorso una notte tranquilla nella sua casetta, Emy viene
svegliata da un tiepido raggio di sole, si stropiccia gli
occhi e desiderosa di conoscere il suo nuovo habitat scende dalla lunga
scaletta, ma non osa mettere piede a terra, perché
una feroce tigre viene verso di lei mostrando le sue fauci. Spaventata
Emy grida: “Ory dove ti sei cacciato? Vieni subito qui
che ho bisogno del tuo aiuto” . “Che succede ?” risponde Ory. “Non mi
avevi detto che nella foresta incantata ci sono animali
feroci!” ribatte Emy. “Non temere” aggiunge Ory, “Siccome hai ascoltato
la mia voce, ti darò il dono della magia: potrai far
schioccare le tue dita e ogni tuo desiderio diventerà realtà. D’ora in
poi non avrai più bisogno di me, perché anche nelle
difficoltà troverai la giusta soluzione”. Prima di congedarsi da Emy,
Ory le dichiara che prima di schioccare le dita deve
formulare questa formula magica “Colui che tutto puote, poter ti farà
avere, se molto sai donare”, altrimenti la magia non
funzionerà.
Passeggiando fra gli arbusti della foresta incantata, Emy viene
attratta dal forte gracidare di ranocchie che abitano il piccolo
stagno, si avvicina ma si accorge che le acque sono torbide. “Qui ci
vuole un po’ di magia per migliorare le cose, dovrò
recitare la formula magica: “Colui che tutto puote, poter ti farà
avere, se amor tu sai donare”. Fa schioccare le sue dita e
subito le acque dello stagno diventano limpide e sulla superficie
appaiono meravigliose e candide ninfee. Felice del risultato,
Emy continua a passeggiare nella foresta, la gira in lungo e in largo,
arrivata ai confini si accorge che qualcosa manca. Dopo
aver pronunciato di nuovo la formula magica, fa schioccare le dita e ai
suoi occhi appare un meraviglioso spettacolo: onde
azzurre che si infrangono su una scogliera. La luna sta già apparendo
in cielo e compaiono le prime ombre e il rumore delle
acque mette un po’ di malinconia nel cuore di Emy; ripensa a quel
giorno che, uscita di casa, si sarebbe dovuta recare a
scuola e prova ad immaginare come sarebbero stati i volti delle sue
nuove compagne, bambine come lei, con il sorriso sulle
labbra e come lei desiderose di vivere ed imparare cose nuove. “Forse
ho sbagliato ad ascoltare Ory” e con questo pensiero
si addormenta un po’ sconsolata, ma non troppo rattristata, perché dopo
tutto le rimane il dono della magia, che le permette
di rimediare le cose.
Una
tremenda tempesta si scatena sulla foresta incantata e su tutta la
terra abitata, un rombo di tuono sveglia Emy, che
spaventatissima scoppia in un forte pianto. Il cielo è squarciato da
fulmini e saette. Ai piedi del grande albero, dove è situata
la sua casetta, tre lupi in cerca di cibo si aggirano furiosi, ululando
fortemente. Emy impaurita recita la formula magica: “Colui
che tutto puote, poter ti farà avere, se amor tu sai donare”, fa
schioccare le dita e la tempesta si quieta, anche i lupi si
allontanano docilmente. “Devo prendere una grande decisione: tornerò a
casa, mi manca molto la mamma, mi manca il
sapore dei suoi baci, la dolcezza delle sue carezze, il profumo delle
sue parole, è notte, ma è ora che mi metta in viaggio”,
pensa Emy. Fa schioccare le sue dita e subito si alza in volo. Fra le
nuvole incontra la luna, “Luna, dolce luna, fammi luce in
questa notte buia!”. “Come vuoi piccola Emy”. “E voi, belle stelle,
fatemi compagnia”. “Sali sul nostro carro! “ rispondono le
stelle dell’Orsa Maggiore.
Così Emy cavalcando le costellazioni arriva a destinazione, in
lontananza scorge la sua casa, che nonostante la grande
tempesta, è sopravvissuta alla catastrofe.
Mariangela Soavi
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Genitori e figli
Laboratorio di Narrativa RTP
Casa Mantovani
È difficile parlare dei propri genitori. Per aiutarci,
abbiamo così
deciso di prendere due famose poesie. Commentandole, abbiamo parlato
anche un po’ di noi e del rapporto con i nostri genitori.
Padre, se anche tu non fossi il
mio
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
Che la prima viola sull'opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell'altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.
Camillo Sbarbaro
A Mia Madre
Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni
mia madre ha sessant’anni e più la guardo
e più mi sembra bella.
Non ha un accento, un guardo, un riso
che non mi tocchi dolcemente il cuore.
Ah se fossi pittore, farei tutta la vita
il suo ritratto.
Vorrei ritrarla quando inchina il viso
perch’io le baci la sua treccia bianca
e quando inferma e stanca,
nasconde il suo dolor sotto un sorriso.
Ah se fosse un mio prego in cielo accolto
non chiederei al gran pittore d’Urbino
il pennello divino per coronar di gloria
il suo bel volto.
Vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei
Vorrei veder me vecchio e lei…
dal sacrificio mio ringiovanita!
Edmondo De Amicis
Scegli una delle due poesie e
commentale
“Padre se anche non fossi il mio” è un padre amorevole
e dolce,
giusto e comprensivo che coinvolge i figli nella scoperta di ciò che li
circonda.
Erica
L’amore che il figlio prova per la madre è puro
nonostante la
vecchiaia e il tempo non svilisce il loro legame e non cancella la
dolcezza del sorriso nonostante tutto.
Massimiliano
Il poeta ha un affetto forte per il padre descritto
come una
persona buona tanto che dice che lo amerebbe anche se non fosse il suo.
Maja
La poesia “A mia madre” parla di un figlio che vede la
madre
invecchiare e la ama a tal punto che vorrebbe prendere il suo posto.
Franco
Ti ritrovi nella descrizione del poeta? Indica la motivazione
La poesia di Sbarbaro descrive un padre che somiglia
molto al mio.
Se dovessi descrivere mio padre parlerei di un uomo buono, estremamente
comprensivo e portato al dialogo, capace di entrar e in sintonia con i
figli e di coinvolgerli nella conoscenza del mondo.
Erica
La vecchiaia non cancella una persona ma l’arricchisce perché la vita
le ha donato bellezza e saggezza.
Massimiliano
Questo padre è come il mio. Ricordo che una volta mi
prese in
braccio e salì così due piani di scale nonostante fosse malato di
cuore.
Maja
Non ricordo mio padre, non l’ho mai conosciuto, ma mi sarebbe piaciuto.
Mariangela
La descrizione della madre di De Amicis sembra una fotografia.
Franco
Mi ritrovo nella descrizione di mia madre. Forse la descrizione di De
Amicis è esageratamente commovente.
Anonima
Con quale genitore hai un rapporto migliore? Perché?
Probabilmente con mio padre. È una persona tranquilla e comprensiva
perché mi ha sempre sostenuto anche quandoho sbagliato.
Erica
Ho un ottimo rapporto con entrambi i genitori. Ammiro
la dolcezza
di mia madre e la sua capacitò di darmi coraggio nei momenti di
difficoltà. Di mio padre ammiro la capacità di risolvere i problemi
della vita con fermezza di carattere ed ottimismo.
Massimiliano
Ho avuto un rapporto migliore con mia madre perché era
una persona
estremamente buona, dolce e coraggiosa che ha pensato a me ed ai miei
problemi fino all’ultimo giorno della sua vita. Era coraggiosa oltre
ogni limite e mi trasmetteva sempre tanto affetto.
Maja
Credo di avere con mia madre un’affinità elettiva.
Franco
Ho un rapporto migliore con mia madre forse
semplicemente perché
sono una ragazza. Mia madre non è solo mia madre, è anche la mia
migliore amica.
Anonima
Racconta un episodio che ti è rimasto particolarmente impresso nel
rapporto con i tuoi genitori:
Mi è rimasto impresso l’affetto dei miei genitori quando ho avuto una
crisi psicotica.
Maja
Ero scappato a Londra in difficoltà e mi hanno ripreso in casa per
proteggermi e permettermi di studiare informatica.
Franco
Mi viene in mente quando mio padre non mi faceva
guardare un
cartone animato che vedevano tutti i miei compagni perché coincideva
con l’orario del telegiornale. Mia madre prendeva sempre le mie difese
e, qualche volta, sono riuscita a spuntarla.
Anonima
Leggi entrambe le poesie. Secondo
te, gli autori
hanno una visione contrastante dei propri genitori o simile? Prova ad
indicare quale differenza c’è tra le due poesie.
Secondo me è più forte il legame tra madre e figlio che
quello tra
padre e figlio. C’è una dolcezza che non si può non osservare.
Massimiliano
Secondo me non vi è molta differenza tra le due immagini, perché
entrambe dimostrano un affetto per i genitori.
Maja
Entrambi provano affetto per i loro genitori. Sbarbaro
fa una
descrizione del padre più interiore e ne sottolinea gli aspetti
caratteriali. De Amicis si ricorda invece della bellezza immutata della
madre.
Erica
Secondo me hanno una visione piuttosto simile. La prima poesia è più
diretta della seconda, ma entrambe parlano d’affetto.
Anonima
Non ho conosciuto mio padre quindi mi ha colpito molto
l’affetto
del poeta per il suo. Non riesco a fare una differenza, io a volte
litigo con mia madre, ma poi facciamo pace.
Mariangela
R.T.P. Casa Mantovani
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Commento su una poesia di Giosuè
Carducci
Funere mersit acerbo
O tu che dormi là su la fiorita
collina tosca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l'erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?
È il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch'ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.
Ahi no! giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di vision leggiadre
l'ombra l'avvolse, ed a le fredde e sole
vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l'adre
sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.
Giosuè Carducci
Il sonetto qui citato fu ispirato al Carducci dalla
morte improvvisa
del figlioletto Dante, di appena tre anni. È una preghiera accorata e
straziante al fratello Dante, anche lui morto a vent’anni di morte
violenta in circostanze misteriose e tante volte ricordato dal poeta,
perché accolga il piccino accanto a sé nell’aldilà e non lo abbandoni
nelle tenebre.
Giosue Carducci, l’autore del sonetto qui citato, nacque nel 1835 a Val
di Castello in provincia di Lucca, da famiglia medio borghese (il padre
era medico condotto) e trascorse l’infanzia in Maremma tra Bolgheri e
Castagneto. Studiò alla Scuola Normale di Pisa, laureandosi in Lettere
nel 1856 e iniziò la carriera di insegnante nelle scuole secondarie.
Nel 1860 fu chiamato alla cattedra di Eloquenza dell’Università di
Bologna, dove insegnò per circa quarant’anni, fino al 1904. Condusse
una vita dedita all’insegnamento e alla ricerca. Partecipò intensamente
alla vita politica e culturale del tempo, collaborando ai periodici
allora più prestigiosi. Nel 1906, primo italiano, fu insignito del
premio Nobel per la Letteratura, pochi mesi prima della sua morte,
avvenuta a Bologna nel 1907.
Mariangela Soavi
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Medagliette spezzate
Ho visitato qualche giorno fa la mostra
“Dall’assistenza all’arte,
opere scelte dal patrimonio della Provincia di Bologna”, allestita a
palazzo Pepoli Campogrande (aperta fino al 2 marzo prossimo, ingresso
gratuito). Vi sono esposte diverse pitture e sculture di pregio, ma la
mia attenzione è stata attratta da una bacheca contenente tante
medagliette spezzate a metà, come quella (la più bella) che gli
organizzatori hanno scelto come logo della mostra. Sono le medagliette
dei ‘bastardini’, i bimbi abbandonati in fasce e accolti nell’Ospedale
degli Esposti di Bologna, una delle istituzioni assistenziali più
antiche della città. La mamma nell’abbandonare il bambino gli lasciava
addosso quel piccolo segno di riconoscimento, un cordone ombelicale
metaforico, un filo di speranza. L’altra metà della medaglietta forse
un giorno le avrebbe fatto ritrovare suo figlio e se non c’era modo di
riprenderselo, almeno le avrebbe consentito di spiegargli il perché di
una così dolorosa decisione e di conoscere la sua sorte. Da mamma, mi
sono immedesimata in quelle puerpere di secoli fa e ho provato una
punta di dolore al pensiero di quel gesto così emblematico. Mi sono
figurata addirittura il suono del metallo spezzato, il pianto del
neonato rimasto solo nella ‘ruota’, i passi frettolosi di chi si
allontana col cuore in tumulto. E ho pensato che ancora oggi accade che
una donna non riesca o non sappia tenersi stretto il suo bambino, che
lo strappi via da sé, per inadeguatezza, per miseria, per depressione,
per paura, tanto che in diverse città d’Europa, per evitare il peggio,
si è pensato di ripristinare le ‘ruote’ in cui lasciare i neonati. Può
succedere anche che i bambini vengano tolti alle madri per violenza,
per sopruso, oppure d’autorità, per decisione di un tribunale. Di
fronte a dolorosi casi di cronaca (come ad esempio quello terribile del
piccolo Devid Berghi) mi è venuto spesso da pensare che salvaguardare
la vita dei piccoli è importante, ma non basta, bisogna far di tutto
perché genitori e figli ce la facciano insieme. Le mamme, soprattutto,
vanno aiutate, sostenute nel delicato periodo del puerperio e dei primi
anni di vita del bambino. Al giorno d’oggi viene spesso a mancare il
supporto della famiglia allargata. Per qualche mamma poi, specie se
viene da lontano, mancano a volte persino le risorse basilari per
sopravvivere. È necessario perciò prestare grande e affettuosa
attenzione alle mamme e alle famiglie a rischio.
Lucia
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Recensione del libro di David Herbert Lawrence
Figli e Amanti (Sons and Lovers)
Per preparare il mio matrimonio non ho trovato il tempo
di finire
il libro. Tuttavia l’ho trovato molto psicologico. Nel senso che si
tratta di quello che è il complesso di Edipo, quando questo, nello
stesso periodo, è stato definito da Sigmud Freud.
Pubblicato nel 1913 in Inghilterra, luogo dove si svolge la vicenda
narrata, il romanzo può essere diviso in tre parti. Nella prima si
evidenziano le cause di questo rapporto conflittuale: la madre
picchiata ed offesa dal marito spesso ubriaco finisce con il riversare
il suo amore sui due figli.
Nella seconda si parla di come i fattori ambientali influiscono nella
crescita dei figli, soprattutto del figlio minore dei due, Paul che
entra nel mondo del lavoro in una fabbrica di prodotti ortopedici e
nello stesso tempo s’innamora di una ragazza di nome Miriam.
Nel corso della terza si arriva all’epilogo.
La cosa che più mi ha colpito è la dolcezza della madre verso i propri
figli. In particolare quando il figlio minore deve andare al primo
giorno di lavoro. Questa lo accompagna e cerca di rasserenarlo,
trasmettendogli fiducia. Analogamente mi ha colpito quando la madre
cerca di condizionare il figlio maggiore, che poi morirà di polmonite,
a non sposarsi con la fidanzata, sul retroterra delle frustrazioni
avute col proprio marito.
Consiglio questo testo a tutte le persone che non si fanno influenzare
dalla crudezza delle liti tra i personaggi principali e a coloro che
vogliono scoprire aspetti introspettivi della propria personalità.
Buona lettura!
Cristina Cavicchi
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Il giorno più bello della mia
vita io non c’ero
Parlare di un proprio libro non è mai facile,
soprattutto di un’opera
come questa. Non sono mai stato fan di pubblicità e presentazioni, per
quanto riguarda un libro. Come diceva quel tale, io invito a leggere il
mio romanzo, poi a parlarne. Posso dire che questo libro mi è molto
caro, ed è stato davvero un tentativo catartico riuscito, cioè una
liberazione. Infatti ho avuto una bouffée nel 2002, undici anni fa. Una
bouffée, cioè un episodio che non si è cronicizzato, che non è
diventato cronico. È rimasto un episodio unico, isolato, in un momento
particolare della mia vita, un momento di totale rottura. Non credo di
essere stato trattato molto bene dai medici dell’epoca. Hanno detto:
“Ok, stai male, ecco i farmaci!”. Nessuno ha indagato, nessuno si è
chiesto perché. Cosa che invece ha fatto il mio attuale – e bravissimo
psicoterapeuta. Abbiamo scoperto un motivo, una causa, direi
addirittura un leitmotiv. Perché, se è vero che ci sono i sintomi, ci
sono anche le cause. Cosa che forse troppo spesso molti dimenticano. Il
grande Sigmud Freud diceva: “C’è un motivo per cui loro sono quelli che
sono. Qualcosa nel passato li ha resi tali”.
Insomma, un libro catartico, liberatorio, un modo per liberarsi di un
vissuto opprimente. Vi aspetto tutti in libreria, se vorrete. Vi terrò
informati, attraverso questo giornale, di presentazioni e
manifestazioni pubbliche. Pubblico anche il mio indirizzo mail, e
confesso che ogni opinione è molto gradita. Il sogno di ogni scrittore
è parlare del proprio libro con ognuno dei suoi lettori.
Simone Bargiotti
simone17278@hotmail.it
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Recensione del libro di Simone
Bargiotti
Simone Bargiotti pubblica la sua seconda opera dopo
Voglio sentire
l’urlo del tuo respiro (Zona, 2011) con I libri di Emil, piccola casa
editrice bolognese collegata al marchio Odoya che riserba uno spazio ai
giovani narratori e a interessanti proposte di saggistica. “Il giorno
più bello della mia vita io non c’ero” è un racconto psicologico più
che un romanzo, non tanto per la lunghezza (110 pagine), quanto per il
respiro narrativo e per la modesta complessità della struttura.
Tutto ruota attorno al protagonista, in una sorta di psicoterapia
individuale resa esplicita da una rapida introduzione, una confessione
in piena regola. L’autore parla di un ragazzo che ha la sua stessa età,
immedesimandosi nel ruolo del protagonista, facendo vivere in prima
persona dubbi e angosce esistenziali. Ambientazione bolognese, luoghi
che Bargiotti conosce bene, quindi la regola base della scrittura è
rispettata: parla solo di cose che conosci. La materia narrata è
vecchia come il mondo: amori, primi baci, timidi rapporti sessuali,
conflitti adolescenziali, ragazze che si succedono ad altre ragazze. La
scoperta dell’amore è il fulcro dell’esistenza, il motivo per cui si
vive e si affrontano le prove, ma ci sono anche il difficile rapporto
con la madre, la scuola, il lavoro, gli amici. Bargiotti cita Nietsche
e racconta il suo passato, come lezione per vivere il presente, prende
per mano il lettore e comunica la voglia del protagonista di
emanciparsi dalla cultura scolastica. La vera formazione intellettuale
non sono le nozioni da mandare a memoria per andare a lavorare in un
ufficio in giacca e cravatta, ma le scoperte musicali e letterarie
compiute in prima persona.
Possono essere i Queen, può essere Nietsche, ma anche un quotidiano,
una rivista, l’incontro con una donna o con una grande idea. Bargiotti
racconta attacchi di panico, paure immotivate, momenti di pura
dissociazione dalla realtà come istanti di vita vissuta. Il libro si
legge volentieri, lo stile è nitido, il tono colloquiale, le
digressioni ridotte al minimo. Si tratta di un romanzo – confessione,
con tutti i limiti di tale genere narrativo. Avremmo preferito una
storia, congegnata in modo tale da comunicare le stesse idee ma
inserite in un contesto narrativo. Bargiotti ha seguito la strada del
flusso dei pensieri e del ricordo del passato. Una lettura consigliata
soprattutto per gli adolescenti che vivono identiche pulsioni.
Abbiamo avvicinato l’autore per raccogliere le sue considerazioni,
interessanti per il possibile lettore: “Ho scritto un romanzo
psicologico perché mi è venuto naturale raccontare una psicoterapia.
Racconto le mie avventure quando ero pierre nelle migliori disco della
riviera romagnola. Non so nemmeno io se sia finzione o realtà. Sai
meglio di me che la verità non esiste in letteratura, lo scrittore è un
tramite fra se stesso e la pagina, e anche il racconto più vero è
comunque falso. Diciamo che è la mia verità, la mia soggettività. La
letteratura per me è questo, dovessi definirla in tre parole direi Io
secondo me. I miei riferimenti letterari… Ho amato moltissimo Kafka, ho
letto tutta la sua opera e anche molta critica su di lui (Citati,
Cantoni). Poi (forse all’altro estremo) amo leggere Bukowski e Kerouac.
Infine, non ho ancora iniziato nulla, visto che mi chiedi il prossimo
lavoro. Ma ho appena finito questo”.
Gordiano Lupi
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Lettera aperta all’autore del
libro
Caro Simone,
ho seguito il tuo invito, prima ho letto (e
riletto lentamente) e ora mi azzardo a scrivere. Più che una
recensione, scriverò una lettera aperta, perché per quanto ci abbia
provato, non sono riuscita ad affrontare il tuo scritto con distacco
‘professionale’. Del resto non sono propriamente un critico letterario
e, nel campo della psichiatria e dintorni, non sono un ‘addetto ai
lavori’… Sono solo una mamma e, volendo, una prof di lettere. Non posso
che complimentarmi con te, per la maestria con cui maneggi la scrittura
e per le impegnative letture filosofiche, che citi a proposito e non
per far sfoggio di erudizione. Ma più ancora per la lucida volontà di
esaminare la tua vicenda umana negli anfratti più profondi. Sei
giovane, ma hai sofferto e riflettuto molto. Il tuo romanzo
autobiografico non è soltanto uno sfogo liberatorio: pone sul tappeto
molte questioni importanti, i valori della società, l’affettività,
l’educazione, il male mentale e le sue terapie… e le risposte che ti
dai sono magari un po’ giovanilmente perentorie, ma mai superficiali.
Il tuo, insomma, è un libro che costringe a pensare. Un solo aspetto, a
mio parere, attende di essere ‘sviluppato’ (ho scelto questa parola a
ragion veduta, per le sfumature di senso che secondo me saprai
identificare): nel romanzo una persona, o forse è meglio dire una
‘figura’ , svolge il ruolo di ‘imputata’, ma il suo punto di vista
(dall’interno, intendo), il suo travaglio, il suo dolore, non c’è.
Anche al tribunale di Norimberga l’imputato aveva diritto all’ascolto e
alla difesa… Magari, nel prossimo romanzo?
Con molta simpatia.
Lucia
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Recensione del film “Tutti
insieme appassionatamente”
diretto da Robert Wise, 1965
con Julie Andrews e Christopher Plummer
Questo film lo consiglio a tutti: è molto dolce. Sono
rimasto colpito,
all'inizio, quando il Capitano era duro con i propri sette figli (di
cui 5 ragazze e 2 ragazzi), richiamandoli persino con un fischietto e
tutti si mettevano in riga dal più ‘anziano’ al più piccolino. Il
Capitano, essendo vedovo, aveva bisogno di una maestra per educare i
figli alla disciplina. Ma i suoi figli, dopo ben undici istitutrici,
erano veramente ostili nei loro confronti; finché arrivò Maria, la
dodicesima maestra, una giovane che uscita dal convento di suore
provava a lavorare presso il Capitano. Un bel giorno, però, durante un
temporale, uno dei figli del Capitano andò a rifugiarsi da Maria e pian
piano anche gli altri la raggiunsero: quella serata cambiò
drasticamente, in positivo, i loro sentimenti. Addirittura, i ragazzi,
durante una gita per Salisburgo, scoprirono i talenti di Maria, cioè il
ballo e il canto e ne furono estremamente affascinati. Al loro ritorno
in casa, però, il Capitano era di tutt'altro avviso: rimase sconcertato
dal modo con cui Maria aveva vestito i suoi figli prendendo le stoffe
da vecchie tende della casa. Durante uno spettacolo di marionette con
una bellissima canzone, i sentimenti del Capitano nei confronti di
Maria cominciarono a prendere finalmente una piega positiva. La
Baronessa, promessa sposa del Capitano, capì che loro si stavano
innamorando e quindi stuzzicò Maria affinché tornasse da dove era
venuta, cioè nel suo convento: Maria così abbandonò tutti. Mi ha
colpito il modo di fare della Baronessa, che cerca di spezzare il dolce
legame che si stava creando tra Maria e i ragazzi e tra Maria e il
Capitano; la gelosia, a mio parere, è sempre una brutta bestia.
Oltretutto, la vanitosa e orgogliosa Baronessa aveva sempre dei
comportamenti che ai ragazzi non piacevano e infatti si vede, in un
bellissimo passaggio, che i ragazzi tornano in convento a chiedere di
Maria, perché non ne possono più della Baronessa. Al successivo ritorno
di Maria, la Baronessa capisce che lei non è all'altezza dell'amore del
Capitano, finalmente sboccia l'amore e i ragazzi sono felicissimi di
avere come mamma Maria e se ne stanno quindi “Tutti insieme
appassionatamente” !!!
Darietto
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Sterilità e maternità
da: “L’ingrata vita dei contadini”
La sterilità coniugale era sempre attribuita alla donna
e ai
presunti ‘malefici’ da lei subiti. Per questo esistevano, per le
giovani spose, dei veri e propri riti propiziatori della fertilità che,
se non avessero funzionato, potevano creare sconcertanti turbamenti
della serenità coniugale e mettere in crisi la stabilità del lavoro e
l’economia poderale. La riproduzione era, per una società patriarcale
come quella mezzadrile, una cosa essenziale per la continuità della
vita aziendale. Salvo i rituali pagani o precristiani, rivolti a
divinità priapiche, per l'uomo non risulta, invece, che vi fossero
pratiche di tipo magico tendenti a propiziare la fertilità maschile. Le
povere donne sterili, spesso derise e disprezzate dai mariti, dalla
suocera e dai parenti, erano a volte considerate dal volgo capaci di
covare ed esternare malignità ed invidia verso coloro che avevano avuto
il dono della maternità e venivano pertanto a perdere l'amicizia, la
stima e la fiducia. Spesso, seppure senza saperlo o senza farlo sapere
neppure all’ingenua sposa, i veri responsabili della mancata
fecondazione erano proprio i mariti. La sterilità maschile, infatti, è
stata individuata soltanto in seguito grazie al progresso della scienza
medica e all'abbattimento dei tabù sessuali. Anche l’omosessualità
veniva tenuta segreta e il matrimonio poteva servire a mascherare
questa che allora era ritenuta una grave anomalia mentre nella nostra
epoca non viene più considerata tale dalla società civile. Se per gli
estranei alla famiglia la donna sterile, in certi contadi, era
considerata capace di attuare perfidie e cattiverie, per la famiglia
contadina bisognosa di braccia poteva anche rappresentare una sciagura.
Come innanzi precisato, la mancanza di figli maschi, riducendo la forza
lavoro, si rifletteva negativamente sull’economia poderale. D’altro
canto, nei poderi poco produttivi dell’alta valle appenninica
l’eccessivo numero dei figli creava altri problemi. Così, oltre i primi
due o tre figli, il mezzadro doveva pensare a limitare le nascite e,
come è stato già ricordato e come anche lo scrittore fabrianese
Marcoaldi ce lo conferma, a volte erano i proprietari del terreno che
lo caldeggiavano, ovviamente nel loro interesse. Difatti, un fondo poco
redditizio, sufficiente a sfamare un limitato numero di bocche, oltre a
costringere la famiglia contadina prolifica ad abbandonarlo per un
altro migliore, trovava sempre difficile la sostituzione. Per le
ragioni già esposte, una situazione altrettanto preoccupante si poteva
verificare negli ambiti poderi ad alto reddito. Ricollegandomi a quanto
già precisato nei capitoli precedenti, l'indebolimento del nucleo per
scarsa filiazione poteva provocare il licenziamento del mezzadro e il
conseguente triste trasferimento della famiglia in terreni più scomodi
ed avari che nessuno avrebbe mai voluto lavorare.
Tengo a ripetere che avere figli, possibilmente maschi, nel mondo
mezzadrile era una necessità assolutamente inderogabile. Il figlio
maschio rappresentava il continuatore della figura del padre, il
perpetuatore del culto famigliare, la garanzia della stabilità e della
rinascita paterna. Le femmine, benché fosse in voga il detto, che
ritengo consolatorio: “La sposa di buon razzo - prima la femmina poi il
maschio”, non erano desiderate o almeno accette quanto i maschi e ciò
perché proprio nel momento di maturazione delle capacità lavorative
(uscita dall’infanzia e dall’adolescenza) sarebbero entrate a far parte
della famiglia del futuro marito. Anche il detto romagnolo “Quando
nasce una donna, piangono anche le formiche” racchiude molta ironia.
Per i contadini la nascita delle femmine non rappresentava una gioia.
Le femmine erano spesso considerate futuri discapiti non soltanto per
la perdita delle braccia per l’azienda ma anche a causa della dote che
incideva sull’economia famigliare (seppure le poverette, non mi
stancherò di ripeterlo, si davano da fare in mille modi per andare
incontro alle spese). Ce ne dà la prova il fatto che, quando nasceva il
primogenito maschio, in segno di giubilo veniva innalzato sull'aia
o in prossimità della casa un altissimo albero di pioppo privato dei
rami e della corteccia, eccetto all'apice dove venivano fissati: la
bandiera tricolore, la corona di alloro, lo schioppo e una bottiglia di
vino, simboleggianti rispettivamente l'orgoglio, la gloria, il coraggio
e la virilità del neonato, e si festeggiava l'evento coi parenti e con
gli amici fino a tarda notte. Motivo di festa era anche la nascita dei
secondogeniti ma non altrettanto delle femmine. L’usanza
dell’innalzamento del sostegno pioppo con all’apice i vari simboli si è
trascinata, in qualche aia prossima alla casa colonica, anche ai nostri
giorni, come più di una volta ho avuto modo di constatare. Le donne
dovevano quindi fare molta attenzione, richiamata dalle tradizioni, in
quanto sulla loro gravidanza ricadeva molta responsabilità. Una
tradizione che si
ricorda nell’Appennino bolognese era quella di non portare il
‘lievito’, ovvero il pane lievitato, al forno perché sarebbero nate
delle bambine. Nel Montefeltro, nella Valtiberina e in Romagna in
genere, era credenza che per avere figli maschi il marito doveva
effettuare l’atto sessuale a luna crescente e nei giorni con la ‘r’, in
piedi con il cappello in testa e con gli zoccoli o gli stivali.
Immaginiamoci lo spettacolo!...In alcune regioni, per propiziare la
nascita di un figlio maschio si metteva in camera da letto un mazzo di
foglie di sambuco. Per la donna sterile, privata della gioia e
dell'interesse di dare allo sposo un figlio, cominciava una vita spesa
tra le visite alle sfascia-fatture o maghe (dette dagli emiliani
stròlgh o stròlga e dai marchigiani “strolliche”, termine derivante dal
latino “astrologus”) e i pellegrinaggi, molto spesso scalza e tra mille
difficoltà e pericoli, ai Santuari. Le preghiere di aiuto e di grazia
rivolte a S. Anna, protettrice delle partorienti, si sprecavano, cosi
pure le pratiche magico-religiose. Il Libro di S. Pantaleone
consigliava di rivolgere preghiere e giaculatorie a S. Francesco da
Paola perché intercedesse presso la Vergine. In altre regioni, come ad
esempio in Sardegna, c'era l'uso di ricorrere all'ultimo espediente:
quello di indossare per tre giorni la camicia d'una donna feconda, come
per un trasferimento di virtù. Ultima speranza prima della definitiva
resa che la poteva portare all'isolamento e, purtroppo,
all'incomprensione dei familiari e della comunità. Per i romagnoli il
fatto che la sposa non rimanesse incinta era dovuta alla sua
sbadataggine nel dipanare il filo ripassandolo più volte tra le dita.
La tradizione indicava anche di mandare il marito in viaggio al di là
del mare perché al ritorno si sarebbe senz’altro verificato il miracolo
della gravidanza. Quando una donna rimaneva incinta, si scatenava la
curiosità dei parenti e delle amiche che pronosticavano il sesso del
nascituro. Il metodo più in voga era l'osservazione mediante l'osso
sternale dei volatili; in tutto il territorio marchigiano, ma anche in
altre regioni, era usanza che un uomo e una donna afferrassero le due
biforcazioni di tale osso e tirassero, ognuno nel senso contrario, in
modo da spezzarlo. Se la frazione più grande rimaneva all'uomo sarebbe
nato un maschio, altrimenti una femmina. A volte l'osso sternale si
lasciava cadere a terra e si osservava la posizione assunta sul
pavimento: se la parte convessa era in basso sarebbe nato un maschio.
Superfluo dire che indovinare le previsioni era soltanto una pura e
semplice casualità. In Romagna si pronosticava il sesso del futuro
primo figlio della coppia il giorno del matrimonio. Lo sposo versava a
terra del vino e se questo si dirigeva a sud si pronosticava la nascita
d’una femmina, se a nord quella d’un maschio. Quando la donna rimaneva
incinta, per conoscere il sesso del nascituro si faceva uso della
caveja del carro agricolo. La donna più anziana della famiglia, tenendo
in mano l’attrezzo, faceva tre giri intorno alla pancia della
partoriente e, con un rito complicato, pronosticava il sesso.
Nell'ultimo mese di gravidanza si esaminava, invece, con attenzione la
pancia della gestante. La configurazione rotondeggiante
o a punta indicava rispettivamente che sarebbe nata una femmina oppure
un maschio. Si riteneva, inoltre, che sarebbe nata una femmina od un
maschio se il viso della donna fosse apparso pallido oppure roseo.
Anche l’osservazione del seno non sfuggiva alla superstizione popolare:
se il seno destro diventava più grosso del sinistro sarebbe nato un
maschio. Non c'era gestante che non si sottoponesse ai consigli delle
‘mammane’, ovvero di coloro che assistevano al parto. Gli scrittori
delle tradizioni popolari marchigiane, più volte citati, raccontano che
durante la fervida attesa e fino al giorno del parto l'unica attività
delle gestanti era quella di preparare il corredo per il nascituro
oltre a quella di pregare. Dopo il lieto evento, le partorienti
dovevano rimanere a letto per almeno otto giorni e non uscire da casa
almeno per quaranta giorni, che per il contado fabrianese erano state
ridotte a ventuno, probabilmente per la necessità di manodopera
agricola. In questo periodo era loro rigorosamente vietato di toccare
l'acqua. Ricordo però che ai miei tempi, specialmente coloro che non
avevano in casa un valido aiuto, lavoravano nei campi e portavano
avanti le faccende domestiche fino agli ultimi giorni di attesa e
riprendevano il lavoro, seppure limitato a quelli leggeri, appena due
giorni dopo il parto. La quarantena della puerpera dal parto, ovvero
l’isolamento dalla vita della famiglia e della società, rappresentava
la sua purificazione, come il battesimo la rappresentava per il
neonato. A questa concorrevano anche tutti i mezzi per cancellare la
contaminazione causata dall’evento (eliminazione della placenta,
rigoroso lavaggio in acqua corrente delle lenzuola e dei panni
insanguinati o macchiati, cancellazione d’ogni traccia del parto).
Durante tutto il periodo della gravidanza non c'era donna che non
osservasse alcune ataviche regole come quella di non farsi il bagno, di
non assistere i moribondi, di non visitare i morti e di non ascoltare
fatti impressionanti, di non guardare immagini mostruose o brutte, di
non ascoltare brutti racconti, se non volevano che il nascituro si
presentasse brutto o addirittura deforme. Secondo lo scrittore
marchigiano Crocioni, la credenza aveva origine fin dal '600. Rammento
che le gestanti erano convinte che, guardando insistentemente e
ripetutamente un bimbo bello, avrebbero partorito un bimbo con le
stesse piacevoli sembianze. La magia e le superstizioni, sempre in
primo piano nell'epoca contadina, esigevano l'osservanza di certe
regole. Tra di esse figuravano il divieto di digiunare per il rischio
di avere un figlio rachitico, di portare al collo fili annodati oppure
matasse perché altrimenti si sarebbe potuto dare alla luce un bimbo col
cordone ombelicale attorcigliato al collo, di rimuovere dall’arcolaio o
dal naspo le matasse tese quando la sera terminavano i lavori e, norma
‘canonica’, era quella di soddisfare sempre le ‘voglie’ di cibo
affinché il nascituro risultasse esente da macchie indesiderate sul
corpo. Usanza ancora largamente diffusa. Quando mancava la possibilità
di soddisfare le ‘voglie’, e questo succedeva molto spesso a causa
delle difficoltà economiche, veniva consigliato alla donna gravida di
toccarsi il sedere per far si che il nascituro non presentasse le
eventuali macchie scure o rosse sul viso o sulle altre parti visibili
del corpo. Se un figlio fosse nato con una ‘voglia’ ne era ritenuta
responsabile la madre che in gravidanza non aveva voluto o potuto
soddisfarla e non si era ‘toccata’ come la tradizione suggeriva.
Secondo la credenza, ancora attuale, la voglia, che costituiva sempre
un segno deturpante, poteva essere di vino rosso, di fragola, di caffè,
di lenticchie, ecc., mentre il labbro leporino era attribuito alla
voglia di lepre. Per evitarle la gestante non doveva passare sotto la
corda tesa per il bucato o sotto la cavezza delle bestie da tiro o
scavalcare il timone del carro. Per cancellarle si ricorreva pertanto a
pratiche magiche o alla medicina popolare. Secondo il Baldini , in
Romagna per cancellare le voglie si usava l’essudazione dell’uovo
dell’Ascensione, l’olio santo, la ‘lagrima’ delle viti a primavera, il
siero di latte, la fuliggine della padella. Sempre in Romagna si
proibiva alle donne incinte di portare sulla testa il secchio o la
brocca dell’acqua altrimenti il sesso del nascituro si sarebbe cambiato
(le donne, invece, che allattavano potevano perdere il latte). Nel
lontano passato e in molte regioni, nell'illusione di proteggere il
feto, i contadini ricorrevano anche ad una pratica barbara: quella di
togliere la pelle ad un vitellino non ancora nato per metterla sul
ventre della gestante. In epoche ancora più remote esistevano altre
pratiche magiche che ora fanno sorridere. Gli aborti e i bimbi nati
morti rappresentavano figure provenienti dal mondo dei morti e dei non
nati ovvero esseri che non entravano nella vita e quindi, come avveniva
in Romagna e altrove, venivano sepolti nel terreno sottostante la
sporgenza del tetto considerata né interno né esterno della casa. Si
potrebbe considerare una specie di limbo materiale. Oltre ad affidarsi
alla protezione di S. Anna, le gestanti erano sempre attente a
ricorrere alle prevenzioni contro l'invidia e il malocchio. Non
trascuravano, pertanto, di appendere al collo o di appuntare alla
sottoveste amuleti od oggetti ritenuti apotropaici, regalati loro dalle
madri o dalle suocere, oppure acquistati presso gli ‘sfasciafatture’.
Naturalmente abbinavano anche scapolari, ‘devozioni’ (erano così
chiamate le medagliette o le spillette della Madonna o dei Santi
protettori) e talismani vari. Di norma entro un minuscolo cuscinetto di
stoffa rossa, che portavano sempre appeso al collo o appuntato alle
vesti, riponevano una reliquia o delle speciali erbe o pietre alle
quali la tradizione popolare attribuiva poteri magici. Solitamente
faceva la sua comparsa ‘l'erba invidia’ (Stachys palustris o/e
silvatica) o una misteriosa e quanto mai segreta pietruzza nera, della
quale non si conoscono con chiarezza le origini, che veniva tramandata
di madre in figlia. Fino ad un secolo fa per facilitare il parto veniva
consigliato alle donne, finché avessero retto, di tenersi dritte
appoggiate su una robusta canna a sette nodi, ritenuta di possedere
poteri magici, oppure tenere sulla pancia i pantaloni e il cappello del
marito. Era pure in uso sgravarsi appoggiate alle ginocchia del marito
il quale cingeva saldamente il loro busto con le braccia. Anche in
questo caso le donne stringevano con una mano la canna, chiamata
comunemente ‘la canna di S.Anna’ (in quanto compare nell'effigie della
Santa). Il neonato solitamente veniva lavato con il vino spruzzato
dalla bocca della madre, in particolare sulle gambe, in quanto si
credeva che avesse il potere di rafforzare i muscoli. Avvolto con
apposite fasce veniva lasciato crescere con infrequenti interventi di
ricambio della biancheria. A giustificazione della mancanza di cure a
causa degli inderogabili impegni delle madri, si diffondeva la
convinzione che l’orina imbiancasse la pelle e rafforzasse l’anima,
mentre le feci ingrassavano. A nulla servivano gli insistenti vagiti
dei piccoli immobilizzati e torturati dai pruriti e dalle
infiammazioni. Era molto diffusa la credenza che la placenta, espulsa
subito dopo il parto (comunemente chiamata ‘la seconda’), non dovesse
essere toccata dai gatti, che simboleggiavano le streghe. Anzi, i gatti
non dovevano stare neppure vicino alle culle e si aveva pertanto la
prudenza di allontanarli dall'abitazione. La placenta veniva gettata in
un fiume, possibilmente con l'acqua profonda. Viene riferito da
Mariolina Cegna, in Abbazie e Castelli della Comunità montana Alta
valle dell'Esino, che in alcuni luoghi, e riteniamo nelle campagne e
nei paesi, si faceva bollire di nascosto nel brodo un pezzo di placenta
che poi si faceva bere alla puerpera per facilitare la discesa del
latte. Tuttavia, rammento che per stimolare ed aumentare la produzione
del latte si alimentavano le neo mamme con brodo di gallina, e le
galline erano i principali doni fatti dai parenti in visita alle
puerpere. Il Marcoaldi, appunto, ci ricorda l'usanza campagnola
fabrianese
di portare alle partorienti 21 galline, 4 pani e 21 uova (il 21
rappresentava i giorni che la donna non doveva uscire da casa) da tutti
coloro che avevano partecipato alle nozze. Dai primi del '900 però
questa usanza è stata sostituita con ‘l'infatata’ ovvero un piatto
tipico a due conche simboleggiante una doppia alimentazione, e con doni
costituiti da uova, zucchero, miele, dolciumi, biscotti od altri
alimenti energetici. Ogni Regione aveva le sue usanze. In Romagna,
almeno nel lontano passato, c’erano rituali familiari contadini così
descritti da Michele Placucci in Usi e pregiudizi de’ contadini della
Romagna: «...alzandosi la puerpera dal letto, il marito, ed altri di
casa invitano gli attinenti, ed il compare in un giorno di festa ad un
pranzo, che ad essi vien dato in allegrezza del neonato. I parenti
accettano l’invito, e portando seco non pochi regali consistenti in
uova, grassi capponi, ed altro, contribuendo in tal modo alla spesa del
pranzo. Anco il compare viene al pranzo, portando seco una paniera di
pagnotte. Per rito villico, essendo esclusa la madre dall’intervenire
al pranzo, non manca però dessa di mandare alla figlia in quel giorno
un paniere di ciambelle fatte con lo zucchero, uova e ben lavorate...
Giunti li contadini si va a pranzo, e questo chiamasi “Impajolata” o
“Zuppa”, ovvero “Tardura” (minestra consistente in uova, formaggio e
pane grattugiato). In alcune ville in detto pranzo devono esservi due
minestre, poiché in caso diverso sarebbe un oggetto di malcontento, ed
uno sfregio per gli invitati. In qualche villa ancora si costuma
diversificare la minestra nel pranzo; cioè s’è maschio sarà di gnocchi,
ossia maccheroni, e s’è femmina di lasagne» Prima del battesimo il
neonato non doveva essere baciato da alcuno, neppure dalla madre.
Naturalmente le credenze abbondavano anche sulle nascite. Intanto
veniva data una notevole importanza al giorno quanta se ne dava al
malocchio. Se un bambino nasceva di venerdì si diceva che avrebbe avuto
una vita sfortunata, se nasceva di sabato sarebbe stato sciocco (perché
gli mancava un venerdì), se nasceva il giorno di Natale sarebbe stato,
secondo il sesso, o lupo Mannaro e strega, se nasceva di marzo sarebbe
diventato pazzerello o quanto meno capriccioso e avrebbe dato non poco
da fare. Tutti coloro che toccavano il bambino dovevano dire “Dio te
benedica”, come scongiuro al malocchio e quando le madri lo allattavano
facevano in modo che nessuno le vedesse. Sempre in Romagna era credenza
che se il compare o la comare, avessero sbagliato a recitare la formula
battesimale, anche di una sola parola, il neonato avrebbe visto ed
udito per tutta la vita gli spiriti o le persone dell’aldilà. Un errore
di recitazione rappresentava una imperfezione dell’ingresso del bimbo
nel mondo purificato della società cattolica . In quanto al nome
dell'infante veniva sempre rinnovato quello d'un familiare scomparso:
era radicata l'illusione di farlo ritornare in vita. Inoltre, era
convinzione che mettere il nome a un bimbo d’una persona viva gli si
fosse data una vita corta. Anche i nomi dei Santi, specialmente quelli
protettori o concessionari di grazie, nonché della Madonna e dei suoi
attributi (Assunta, Annunziata, Immacolata, ecc.) o degli arcangeli
Michele, Raffaele e Gabriele, non venivano trascurati. Un contadino,
che si era rifiutato di seguire la tradizione, si ritrovò contro non
soltanto i parenti ma anche il parroco al quale, sdegnato, così disse
in vernacolo marchigiano: “Sienteme sor curá, io t'ho ditto e ansisto
che je voio mette nome 'taliano (Italiano). Quanno nascerà a te un fio
je metterai nome "quer che te pare”. Vinse così, in quell’epoca
rigorosamente tradizionale, la dura opposizione parentale ed
ecclesiastica. In una realtà socioeconomica povera e contrassegnata da
tante necessità insoddisfatte, nascere significava anche dividere
quelle poche cose disponibili, pur tuttavia si doveva proteggere il
nascituro dalle invidie e dai pericoli che la scarsezza dei mezzi
determinava. Pertanto, fin dal primo momento, veniva cautelato
dall'invidia e dal malocchio con le solite pratiche magiche e i soliti
talismani: un ciuffetto di pelo di tasso o di cane, un cornetto di
corallo, una mandibola di riccio sbiancata e lucidata, ‘l'erba
invidia’, lo scapolare, ecc. In certe zone e regioni al neonato veniva
fatto indossare un indumento intimo a rovescio perché così si riteneva
di rimandare al mittente una eventuale fattura. Anche il latte era
ritenuto frutto di furto magico. Se una mastite di origine influenzale
o uno spavento o un’alimentazione impropria (ad esempio, a base di
carciofi) avessero provocato la cessazione del flusso del latte,
sarebbe stata colpevolizzata l'invidia od il malocchio emanato, anche
inconsapevolmente, da individui sospetti. Iniziavano allora i riti
magici, le segnature, gli scongiuri, gli esorcismi e le pratiche d'uso,
come quella antica di andare nell'orto a brucare il prezzemolo senza
toccarlo con le mani, nonché i tridui a S. Lena, protettrice del latte,
ed il ricorso alle ‘sfasciafatture’. Quello di brucare carponi il
prezzemolo trova riferimenti anche nella famosa Inchiesta napoleonica
del 1812. Il prezzemolo in gravidanza veniva invece evitato in quanto
ritenuto abortivo. Nel mondo rurale c’era il divieto per la donna
gravida di scavalcare o passare sopra a qualsiasi cosa, specialmente i
fossi con l’acqua ritenuti impedimenti di crescita . Gli scongiuri per
l'invidia o il malocchio per una nascita o per qualsiasi altro evento,
costituivano sempre, e non solo per i contadini, una precauzione
inderogabile per la difesa del bambino e della puerpera. Come già
innanzi accennato, per i contadini i figli maschi costituivano una
garanzia per il futuro, una specie d'investimento o di ‘capitale’
potenziale i cui risultati si sarebbero ottenuti a lungo termine e per
tutto l'arco della vita. Più maschi nascevano e vivevano più la
famiglia contadina insediata nei grandi poderi acquistava prestigio,
autorità e sicurezza. Come abbiamo visto, la necessità di procreare
richiamava, secondo le tradizioni, le pratiche di tipo magico a
cominciare dal matrimonio fino alla nascita dei figli. Anche in questo
caso neppure la religione è valsa a capovolgere in maniera drastica le
consuetudini pagane.
La religiosità, seppure molto sentita dalla gente di campagna, ha
semmai maturato un sincretismo magico-religioso tenuto vivo fin oltre
alla metà del secolo ventesimo e trasferito, in parte, nei centri
urbani, anzi, molte delle usanze contadine erano già state assimilate
dai cittadini. Ecco perché accanto al cornetto rosso o al pelo del
tasso erano stati uniti scapolari o immagini sacre, e nei magici riti
propiziatori o di scongiuro c'è sempre stato un misto di preghiere e di
raccomandazione ai Santi. Forse tutt’oggi, in alcuni strati sociali,
l’usanza è ancora viva.
Roberto Grillini
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Civiltà contadina in miniatura
C'è chi va al bar e chi, nel tempo libero, riproduce
modellini di
macchine agricole d'epoca. E che funzionano davvero!
Quello di Rino Giovannini, classe 1930, bolognese doc, nato a Budrio e
residente a Ozzano Emilia, è un hobby iniziato circa vent'anni fa. Da
allora, ma soprattutto da quando è andato in pensione, l'artista
miniaturista da sempre appassionato del mondo contadino che gli ricorda
l'infanzia non si è più fermato. La sua collezione conta quasi un
centinaio di oggetti: aratri, vecchi trattori, carri trainati dai buoi,
una macina, gli attrezzi per lavorare la canapa e perfino una
trebbiatrice con l'imballatore alimentato da una macchina a vapore.
Tutti pezzi unici realizzati interamente a mano, perfettamente
funzionanti e fedeli fin nei piccoli dettagli. I motorini d'avviamento
e gli ingranaggi, invece, sono pezzi di recupero riciclati da vecchi
videoregistratori e vecchie stampanti. Ma Giovannini ricostruisce anche
i personaggi e le azioni degli antichi mestieri, dal falegname al
fabbro.
«Sono figlio di una famiglia di contadini e fin da piccolo ho lavorato
nei campi insieme ai miei genitori, agli zii e ai cugini come si usava
fare a quei tempi – racconta –. Mi ricordo che si metteva sempre un
telone sotto il carro che trasportava il grano perché quello che cadeva
andava al mezzadro e non al padrone. Poi ho vissuto la guerra, i
bombardamenti nascosto in cantina, la convivenza con i tedeschi, prima
come alleati poi come nemici. Ma sono stato anche un garzone e un
operaio. Ora corro con la Podistica ozzanese».
Quando arriva la bella stagione Giovannini espone i suoi capolavori
nelle sagre paesane di provincia per cercare di tramandare la memoria
di un mondo che oramai non esiste più. «Ma i giovani purtroppo sono
sempre meno interessati al passato. A mio figlio, ad esempio, questi
modellini piacciono ma non ha ereditato la mia passione». Una delle sue
ultime esposizioni è stata al Baraccano, a corredo di una mostra
fotografica organizzata dall'associazione Il Ventaglio di Orav.
Ma potete trovare Rino Giovannini e le sue opere allo 051 796835 oppure
online sul sito:
http://attrezziagricolinminiatura.freshcreator.com.
Michela Trigari
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Lo Zen
Origine e diffusione.
L’ambiente delle origini.
La trasmissione silenziosa.
I ventotto patriarchi indiani.
L’insegnamento di Bodidharma.
L’influenza del Dao.
I ventotto patriarchi indiani sono coloro che trasportano o veicolano
l’insegnamento in Cina.
“Dhyana” (sanscrito) è la meditazione, che prende in Cina il suono
“Chan”, “Son” in Corea e “Zen” in Giappone.
Lo Zen e le arti Arte dei giardini, poesia Zen, pittura nei monasteri
Zen, pittura a inchiostro, ritratti e caricature, calligrafia,
cerimonia del tè, giardino del tè, stanza del tè, ceramica, tiro con
l’arco eccetera.
Luigi Zen
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Racconto Kōan Zen: Genitori e
figli
Sermoni, salmoni, aringhe.
Appena nato il bambino si sente
come un pesce fuor d’acqua; così i genitori stabiliscono che tipo di
figlio hanno pescato: se sarà un figlio d’acqua dolce o d’acqua salata;
così attiveranno nei loro confronti una sorta di linguaggio educativo,
costituito da sermoni, salmoni e aringhe.
- Sermoni per pesci d’acqua dolce.
- Salmoni per quelli a metà (affumicati).
- Aringhe per quelli di mare.
I conservanti dei primi sono gli zuccheri, dei secondi il fumo, dei
terzi il sale.
Esempi:
chi mangia cioccolata, caramelle, torte, proviene dai sermoni;
chi fuma proviene dai salmoni;
chi mangia patatine e pop-corn proviene dalle aringhe.
Luigi Zen
|
Inverno
Cime e vallate son già ricoperte di un puro candore e
un profondo
silenzio incombe tanto che nemmen puoi udire un solo respiro. Soffia il
vento e fischia la bufera, perché lontana è ancor la primavera. Nella
foresta brulla, branchi di lupi si aggirano in cerca di cibo e alla
luna mandano il loro ululato. Nella città nasi e manine di bimbi sono
incollati ai vetri delle finestre per contemplare la dolce danza dei
fiocchi di neve che nel cielo volteggiano e quando son stanchi si
posano sui tetti, alberi e prati per riposarsi. Tutto intorno è
soltanto freddo e gelo che fa rabbrividire perfino il creato, che anche
per questo deve essere lodato!
Mariangela
|
Guarda e passa e non ti curar di
loro
Bisbigli, pettegolezzi, disprezzi. Inutili parole che
ci
inaridiscono, come un’ondata di siccità. Nel fiato di tanti vi è tutto
questo! Esiste molta banalità, enorme superficialità. Pregiudizi,
discriminazioni che creano malintesi e malumori…
Ciò che è da fare, è andare oltre! Un proverbio cita: “Guarda e passa e
non ti curar di loro”. Sì, perché dopo tante peripezie il motto da
seguire è: “ Vivere nel miglior modo possibile e ricordarsi che l’amore
e l’amicizia sono rari come perle nere nascoste nelle profondità degli
oceani”.
Giovanna Giusti
|
Le note della vita
Note soavi in sogni irreali. al di là della grigia
realtà! Note
decise, per colui che difende con determinazione gli ideali migliori e
il suo grande amore. Note all’udito stonate, per insulti non meritati.
Note acute, stridenti, per violenze e ingiustizie che subiscon tanti,
perché sono amabili, leali e dall’odio distanti. Se si mescolano tutte
queste note si crea un gran frastuono: è quello dell’esistenza di tutti
noi, del mondo intero, che sta cercando un equilibrio vero.
Giovanna Giusti
|
La posta
Gloria, la madre di uno dei ragazzi che frequenta il
vostro centro,
ha letto, non so chi gliele ha mandate, alcune mie poesie che le sono
piaciute molto, bontà sua, e mi chiede di farvene avere qualcuna che
trovate in allegato presumibilmente per la vostra rivista.
Ermanno Bitelli
Grazie, caro Ermanno, le tue
poesie ci sono
piaciute molto. Per questo numero abbiamo scelto quelle che a nostro
avviso sono le più attinenti al tema proposto, le altre le conserviamo
per le prossime volte. Ringrazia da parte nostra anche Gloria, che ha
pensato di metterti in contatto con Il Faro e… continua a scriverci! Un
caro saluto.
Buongiorno, lasciate che mi presenti, sono Davide
Sannoner e lavoro
nei servizi centrali della Sede di Coop Adriatica. Quest'oggi ora di
pranzo ho chiamato il numero (051 6584164), mi ha risposto una vostra
gentilissima addetta. Ho lasciato il mio numero di cellulare, affinché
mi sappiate dire qualora esistesse una forma di abbonamento per la
rivista Il Faro. Intercorrendo rapporti di lavoro con la ditta Virtual
Coop sono venuto a conoscenza del vostro indirizzo sfogliando la
Disagenda 2014. Vi ringrazio fin da ora per l 'attenzione e qualora
riuscissi ad avere più informazioni sulla rivista, essendo mia
intenzione abbonarmi, ve ne sarei davvero grato. L'occasione mi è
gradita per farvi i miei più sinceri auguri di un sereno Natale e
felice nonché prospero 2014.
Davide Sannoner
Gentile signor Sannoner,
poiché il Dipartimento di Salute Mentale di Bologna si accolla le spese
di stampa, non è prevista alcuna forma di abbonamento per "Il Faro",
che viene distribuito gratuitamente presso i Centri di Salute Mentale
di tutta la Provincia di Bologna e presso altre strutture che si
occupano dei problemi legati al disagio psichico. Non sono disponibili
gli arretrati in forma cartacea, ma tutti i numeri sinora usciti sono
reperibili in formato pdf sul sito http://ilfaroinsieme.blogspot.it/ .
Se le fa piacere possiamo inserire il suo nominativo nel nostro
indirizzario, in modo che in futuro possa ricevere via e-mail ogni
nuovo numero del giornale in formato pdf. Abitualmente "Il Faro" esce
con una cadenza trimestrale, anche se le date di uscita possono variare
di volta in volta. Ringraziandola per il suo gradito interessamento,
ricambiamo di cuore gli auguri per un sereno Natale.
Buongiorno, ne sarei davvero entusiasta!! Sempre in Disagenda ho letto
i contributi volontari che possono arrivare a chi, mettendosi la mano
sulla coscienza, è propenso a fare piccola beneficenza (come nel mio
caso essendo un impiegato…) (e … singola persona). A tal proposito
qualora riusciste a girarmi unitamente al pdf trimestrale delle
coordinate, sarei lieto di versare un piccolo contributo ogni tre mesi.
Ringraziandovi fin da ora vi saluto cordialmente.
Davide Sannoner
Gentilissimo e generoso Davide,
la redazione,
non essendo una forma associativa ufficialmente riconosciuta, non può
ricevere donazioni liberali da privati. È possibile invece farne, in
varie forme (versamento diretto, bonifico, 5X 1.000 ecc. ), alle
numerose associazioni non profit che si occupano di Salute Mentale e
fanno parte del CUFO (Comitato Utenti Familiari Operatori) del
Dipartimento di Bologna. Alcune di esse collaborano molto attivamente
con Il Faro, come si può vedere scorrendo i numeri già usciti nel
nostro sito. Ringraziamo e salutiamo con viva cordialità.
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