giugno 2014 - anno VIII  n. 2 - La colpa


sommario

Piergiorgio Fanti

Gaetano Previati: ‘Le fumatrici di hashish’

Michela Trigari

Editoriale

Mariangela Soavi

La colpa è come una brutta bestia

Daniela Mariotti

La colpa

Alessandro

Io sono un… malato di mente grave

Antonio Marco Serra

Senso di colpa (per avere scritto questo articolo?)

Ave Manservisi

La colpa

Darietto

L’essere umano è colpevole!!!

Chiara

Il peso del tempo che passa e…

Assoc. UmanaMente

La colpa: parliamone

RTP Casa Mantovani

Mi sento in colpa

C.D. Casalecchio

Il pane quotidiano

Fabio Tolomelli

Lo sfogatoio

Lucia

Quando ti danno la colpa dei tuoi mali

INSERTO

 

      Monica Franzoni     Andare fuori a incontrare la gente
      Monica Franzoni     Volare via col teatro
      Maria Dorini
      Grazia Stella
    ’Pitbull’ all’aperto
      Ass. UmanaMente     La colpa
      Don Nildo Pirani     La colpa da un punto di vista etico religioso

Matteo Bosinelli

Storia dell’inizio di un processo

Paola Scatola

La colpa

Francesca

La colpa secondo me

Don Paolo

Colpa, peccato, perdono

Luigi Zen

La colpa e lo Zen

Dedicato ad Arianna
Lo spazio della poesia

 

      Loopa Sonivree     Non rubare
      Giovanna Giusti     Il mio cielo
      Piergiorgio Fanti     Bellissima
      Marcella Colaci     Fatto
      Ave Manservisi     Per Antonio M. Serra
       Ave Manservisi     Senza titolo
      Daniela Mariotti     La colpa
      Ermanno Bitelli     Giglio 2
      Paola Scatola     La colpa
      Luigi Monaco     Italia; 150 anni – Canti vibranti
      Giovanni Romagnani     Per colpa di Kubrick
      Mariangela Soavi     Poesia
      Ermanno Bitelli     L’ombra
      Paola Scatola     La colpa

Maria Elena Ghezzi

Quando la malattia si trasforma in un senso di colpa

Giovanni Romagnani

Per colpa di chi?

Giovanni Romagnani

Un contesto fattivo

Maria Chiara Reitani

Lutto

Simone Bargiotti

Il cavallo alato

Riccardo La Rocca

vignetta

Darietto

Dazzenger

***

La Posta

Michele Ferri

Girando la ‘Trottola’ si è fermata a Torino

Lucia Luminasi

Un po’ di storia

 

                           

Gaetano Previati: ‘Le fumatrici di hashish’ - 1887 (olio)


pagina 1



Gaetano Previati nacque a Ferrara il 31 agosto 1852. A diciotto anni si iscrisse ai corsi dell’Accademia di Belle Arti della sua città. Dopo la vita militare, frequentò l’Accademia di Firenze con il Cassioli; in seguito quella di Brera a Milano, con il Bertini.
Fu nel capoluogo lombardo che Previati iniziò la sua vera attività artistica, brillando subito per modernità e abilità tecnica. Attratto dal Romanticismo, si ispirò in un primo tempo al Cremona e al Ranzoni, poi si accostò alla pittura di storia.
Il dipinto qui sopra è del 1887 e si inserisce in quel filone di arte orientalista che, in Italia, ebbe il suo maggior rappresentante nel Pasini e, a Bologna, in Fabio Fabbi. L’opera è permeata da un senso di ‘malsano’, di ‘colpa’ che ben rappresenta l’idea che a quei tempi si aveva dell’Oriente. Il quadro raffigura alcune giovani donne che fumano, abbandonate voluttuosamente su dei tappeti ammucchiati sul pavimento.
In seguito, una delle ricorrenti crisi spirituali che contraddistinsero la carriera di Previati, lo portò ad avvicinarsi al cromo-luminarismo. Fu così che quando nel 1891 i divisionisti nostrani fecero la loro “prima uscita pubblica” all’Esposizione Triennale di Brera, egli poté esporre, accanto alle “Due madri” del Segantini e al “Parlatorio del Pio Luogo Trivulzio” di Angelo Morbelli, una sua gigantesca “Maternità” condotta secondo la nuova tecnica.
Da allora le composizioni del Previati si infarciscono sempre più di letteratura e misticismo, d’altro canto piacevolmente ricche di flessuosità Liberty.
Si deve rimarcare, comunque, che il maestro riportava in numerosi scritti le sue convinzioni estetiche e le sue teorie pittoriche.
Morì a Lavagna (Genova) il 21 giugno 1920.


Piergiorgio Fanti


L’editoriale


Si dice che tutto deve cambiare perché nulla cambi. Ed è quello che è successo a questo giornalino, che in realtà assomiglia molto di più a una rivista. Di nuovo, infatti, Il Faro ha solo la veste grafica. Per il resto stessa spiaggia stesso mare, che significa che il contenuto non ha modificato la propria identità.
L'unica cosa diversa è il contenitore. Ciò nonostante, qualcosa in questi mesi è cambiato: Il nuovo Faro, infatti, è frutto di un progetto ad hoc pensato per valorizzare sia la redazione sia le persone che vi scrivono, che sono soprattutto utenti in carico ai Centri di Salute Mentale (Csm) di Bologna e provincia ma anche familiari, operatori, associazioni, volontari e chiunque voglia esprimere il proprio pensiero in merito all'argomento che di volta in volta viene proposto. Il progetto in questione si chiama “Nuova luce per Il Faro”, è stato finanziato dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e promosso da un trio di associazioni: Il Ventaglio di ORAV (capofila), I Diavoli Rossi e Spazio e Amicizia. Obiettivo? Consolidare e allo stesso tempo far crescere, anche con nuovi innesti, una realtà che è nata nel 2006 per dar voce a chi soffre di disagio psichico.
Ecco allora alcune lezioni sulla legge sulla stampa, sulla composizione editoriale e sull'analisi comparata di alcune riviste – rivolte a tutta la redazione – e un corso di grafica editoriale frequentato solo da alcuni membri che, dopo aver imparato a usare Adobe InDesign e Photoshop, hanno poi impaginato il giornalino che state leggendo: questo numero sotto la guida di un tutor, i prossimi in progressiva autonomia. Inoltre la redazione – che nel frattempo è raddoppiata passando da 8 a 16 componenti – è stata dotata di un pc portatile, di due licenze software Adobe e di un mini modem (portatile pure quello) con traffico Internet incluso.
Dall'impulso del progetto “Nuova luce per Il Faro” e grazie soprattutto alla volontà del Dipartimento di Salute Mentale – Dipendenze Patologiche dell'Ausl di Bologna, sono poi nati alcuni ISRA (Interventi sociali riabilitavi attivi): ovvero delle specie di mini riconoscimenti economici all'attività e all'impegno dei redattori che proseguiranno nel tempo e che si adegueranno anche se in futuro dovesse cambiare la normativa regionale in materia (le borse lavoro sono infatti oggetto di un grande ripensamento). Il Centro stampa dell'Ausl, invece, continuerà ancora a ‘regalarci’ la stampa di mille copie del giornalino che, come sempre, saranno distribuite gratuitamente non solo nei Centri di Salute Mentale di città e provincia.
Per dare un riconoscimento ufficiale (e legale) a tutto questo gran lavoro abbiamo poi provveduto a registrare la testata in Tribunale e stiamo dando nuovo smalto anche al sito web. Per ora ci trovate ancora su http://ilfaroinsieme.blogspot.it.


Michela Trigari


La colpa è come una brutta bestia


Quando sento pronunciare la parola colpa, penso subito a qualcuno che commette un delitto. Per questo triste significato nessuno vuole macchiarsi della colpa, anche se è responsabile, perché ammettere di essere colpevole vuol dire dover subire una punizione. Per questo motivo chi commette un delitto o una grave infrazione deve rivolgersi ad un avvocato affinché, se viene processato, non sia ritenuto colpevole e quindi non sia tenuto a scontare una pena. La colpa è come una brutta bestia, non la vuole nessuno, quando invece si sta sempre più diffondendo la criminalità.
Ad esempio il delitto di femminicidio sta mietendo molte vittime e le vittime sono donne indifese. Non c'è ancora una legge adeguata che punisca i violenti, ultimamente tuttavia si stanno prendendo dei provvedimenti legislativi, perché questo delitto è in netto aumento. La violenza alle donne è abominevole, ma ciascuno di noi può fare qualcosa. Se veniamo a conoscenza di episodi di maltrattamento e violenza contro qualche donna bisogna segnalare il fatto alle forze dell'ordine affinché la vittima venga protetta e non rischi di essere uccisa, come tante altre.
Macchiarsi di questa colpa e di altre simili è molto grave ma, se non vogliamo cadere nella trappola della colpevolezza, dobbiamo cercare di non considerare di poca importanza le trasgressioni ed evitare i rischi che possono portarci a macchiarci di qualsiasi colpa, non solo per evitare la punizione ma per vivere una vita libera e felice.


Mariangela Soavi


La colpa


Colpa di non aver dato abbastanza quando fu il tempo di amare. Colpa senza futuro per rimediare. Colpa che fa ancora male. Colpa di non stare sempre vicino agli angeli. Colpa di non essere guarita dal senso di colpa. Colpa senza cammino. Colpa senza speranza.
Oh essermi fermata prima… Colpa di non aver guardato abbastanza il cielo.
Eppure so che il tuo perdono vedrà anche me, poiché Tu solo puoi sciogliere la mia colpa, se lo vuoi.


Daniela Mariotti


Io sono un… malato di mente grave


Io sono un malato di mente grave da quando ho venticinque anni, perché tutti gli psichiatri mi dicono che devo fare una terapia pesante per tutto il resto della vita.
Il giorno del reato, mentre il Pubblico Ministero pesa le sue parole con i guanti, gli agenti mi trattano come un mostro. Invece di essere portato in un ospedale per curarmi mi portano in carcere, sorvegliato a vista per una settimana per paura che mi possa fare del male. Alcuni agenti mi chiedono perché l’ho fatto, se ero cosciente. Dopo due giorni mi fanno la convalida dell’arresto. La famiglia mi resta vicino ed è l’unico conforto dato che sono sicuro che per il resto del mondo non ci sarà più nulla da fare. Le visite dell’avvocato sono un po’ come oasi nel deserto. Se non verrà riconosciuta la malattia rischio dai trent’anni in su di carcere. Devo fare un mese di osservazione dove mi lasciano due giorni senza terapia. Non riesco a dormire e il terzo giorno faccio casino perché sto male, e finalmente mi danno la terapia.
In trenta giorni vedo la psichiatra una sola volta e vedo i lavoranti e gli agenti di polizia penitenziaria quando urlo perché mi accendano una sigaretta. Dopo un mese mi mandano in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove farò la perizia psichiatrica e solo dopo questa potrò avere un colloquio con la mia famiglia.
Quando arrivo in OPG il dottore mi fa un colloquio, sono spaventato e rispondo male alle domande. Di conseguenza mi legano ad un letto di contenzione per quattro giorni. Il perito psichiatrico mi chiede se sono cosciente di quello che sto rischiando. Io lo so, ma me ne vergogno. Il giorno dell’udienza un agente di polizia penitenziaria fa una similitudine con il mostro di Firenze. Vengo riconosciuto incapace di intendere e di volere, di conseguenza vengo prosciolto e destinato a dieci anni di OPG ed io mi vergogno di tirare un sospiro di sollievo. Dopo una settimana di ospedale psichiatrico litigo con un paziente e urlo, mi cambiano di cella.
Dopo due o tre mesi aprono le celle durante il giorno. Solo dopo qualche mese comincio ad andare all’aria, mi faccio un anno e mezzo chiuso in cella con altri due internati. Soffro molto per la mancanza di privacy, io che prima mi isolavo. Dopo due anni ho incominciato a frequentare un gruppo che faceva attività teatrale, palestra. Ora d’aria, mi hanno dato dei permessi ad horas per l’uscita. La prima volta ho avuto le vertigini appena uscito, una sensazione di spazio aperto, di felicità.
Tuttora però, nonostante il medico mi abbia detto che sono in continua progressione, mi rendo conto che alcuni miei pensieri non sono normali e come tanti altri internati ho paura di parlare al medico curante.
Ho detto sinceramente al medico che sarò dipendente per il resto della vita dal punto di vista farmacologico e sanitario, però non mi piace che siano gli altri a farmelo notare. I pazienti ti chiedono se fai il depot, come se fosse una discriminante. Mi sono dimenticato dei primi mesi trascorsi in OPG, mi dicono che il cervello rimuove le cose spiacevoli e traumatiche. Preferisco l’OPG al carcere, anche se l’ospedale psichiatrico è lo sciacquone della società. C’è gente che non ha soldi per bersi un caffè o per fumarsi una sigaretta. Qualcuno si suicida, qualcun altro muore improvvisamente, come il mio ex compagno di cella.
Bisogna avere forza di volontà. La prospettiva della comunità mi impensierisce perché sono sempre stato un asociale, ma forse è proprio questo aspetto che devo curare. Forse l’unica cosa che mi è rimasta è il diritto di cura. Mia mamma aveva l’Alzheimer, mia sorella sentiva le voci ed era una persona aggressiva. Io ero malato. In carcere un giorno sono scoppiato a piangere, pensando alle condizioni di vita che avevamo fatto e a come era finita.
Certo il gesto di perdono della mia famiglia è stato grande, bellissimo e necessario al fragile equilibrio psichico che avevo dopo il reato, ed è stato fondamentale per la mia rinascita. Durante questi lunghi anni di internamento mi rincuora sapere che c’è qualcuno che ancora mi vuole bene, su cui posso contare e sarà importante per il mio eventuale ritorno a casa. Magari questo gesto fosse contagioso verso le altre persone del mio paese… Io sono dall’altra parte delle barricate, dove non si può pretendere il perdono, ma solo sperare. Sinceramente non so se io sarei capace di perdonare qualcuno che tocca i miei cari. Poi c’è anche quel lato intimo e nascosto del perdono.
Uno non può fermarsi all’ “Oh, mio Dio, che cosa ho fatto!”, ma non può nemmeno fare finta di niente. Io devo tenere presente la violenza di cui sono stato capace e lavorare su questo con tenacia e costanza, senza pensare che basti il tempo per essere dimenticati e dimenticare.
Ora mi chiedo se è finita per me o se c’è un domani. La sofferenza durante l’adolescenza sino all’esplodere della malattia…
Oggi senza la terapia ho paura di quello che potrei fare. Dieci anni da trascorrere, con quale obiettivo? Guarigione, autosufficienza, cronicità o, peggio, i rischi della recidiva. Sicuramente oggi non riesco a pensare a me guarito, alcuni pensieri me li tengo per me, chi me li farà cambiare?


Alessandro


Senso di colpa (per avere scritto quest’articolo?)


«Allora Giuda […] riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti
e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente».
Ma quelli dissero: «Che ci riguarda? Veditela tu!». Ed egli, gettate le monete
d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi.»
(Vangelo secondo Matteo, 27, 3-5)

“Che ci riguarda? Veditela tu!” Credo sia esperienza comune che se c’è un campo in cui dobbiamo “vedercela da noi”, e in cui l’aiuto di altri sia del tutto inutile, è proprio quello in cui ci confrontiamo con i nostri sensi di colpa. E se l’aiuto non ci può certamente giungere, come nel caso di Giuda, da coloro che sono complici della nostra stessa colpa, io credo non possa giungerci neppure dalle persone, ammesso che ve ne siano, che riteniamo di avere offeso, quando esse ci concedono il loro perdono.
Goethe consigliava di concedere il nostro perdono a chiunque ce lo avesse chiesto, anche qualora ritenessimo di non aver nulla da perdonare a quella persona, perché neanche alla più grande modestia è consentito di ignorare l’altrui bisogno di perdono.
Ma temo che Goethe avesse un’idea troppo idealizzata dell’essere umano: il fatto che ci sembri di avere bisogno del perdono, non significa affatto che, una volta ricevutolo, questo lenirà il nostro senso di colpa.
“Io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso.” (Italo Svevo - La coscienza di Zeno)
Ethan Brand, nell’omonimo racconto di Nathaniel Hawthorne, spende l’intera vita alla ricerca del ‘peccato imperdonabile’, così commettendo - secondo l’autore - l’unico vero peccato imperdonabile, quello di escludersi, in questa sua folle ricerca, dalla comunanza con gli altri uomini. Ma a ben vedere, almeno da un certo punto di vista, ogni peccato (ogni azione e pensiero che ai nostri occhi appare peccaminoso) risulta imperdonabile.
È vero, più che della colpa, sto parlando del senso di colpa, ma c’è un ben preciso motivo se faccio ciò. Per quanto possa suonare strano, non è la colpa a generare il senso di colpa, ma tutt’al più l’opposto. Secondo gli psicologi dell’età infantile, i bambini sviluppano il senso di colpa in età pre-verbale, entro il primo anno di vita, molto prima di avere sviluppato dei concetti etici definiti, che stabiliscano cosa sia colpa e cosa virtù. Dunque colpa e virtù vanno ad occupare delle ‘nicchie’ che già erano state preparate per loro, molto tempo prima.
La domanda che sorge spontanea è allora: in un diverso sviluppo culturale della nostra specie, sarebbe stato possibile che quelle nicchie venissero occupate da qualcosa di diverso dai comuni concetti etici, come noi siamo abituati a concepirli? Ho il forte sospetto che ciò sarebbe stato realmente possibile, e forse lo sarà in futuro, ma interrompo qui questo discorso, che ci porterebbe troppo lontano.
Nella mitologia greca il senso di colpa era descritto come qualcosa di esterno all’individuo che lo provava, le Erinni, che rappresentavano appunto il senso di colpa, incalzavano il malcapitato colpevole, fino a condurlo alla follia, e ad esse l’individuo stesso cercava di sfuggire con tutte le sue forze, talvolta riuscendovi, come nel caso descritto nella tragedia Le Eumenidi di Eschilo. In breve: Oreste, macchiato del sangue della propria madre, si appella ad Apollo ed Atena, perché lo liberino dalla furia delle Erinni, e questi dèi convocano un regolare processo, con tanto di giuria, alla fine del quale, valutate l’accusa e la difesa, Oreste viene assolto. Le Erinni non accettano di buon grado l’esito del processo, minacciando sfracelli, ma alla fine Atena riesce a rabbonirle, trasformandole nelle benevole Eumenidi.
Io penso però che Eschilo si facesse delle illusioni: i ‘nuovi’ dèi olimpici (Atena, Apollo) non hanno alcuna possibilità di imporre il proprio potere sugli antichi dèi ctonii, nessun potere di trasformare le feroci Erinni nelle benevole Eumenidi. Fuor di metafora: nessun ragionamento etico condotto secondo regole razionali potrà cancellare il senso di colpa che affonda le radici nel nostro essere.
Non è certo viaggiando sulla superficie della nostra psiche che possiamo sperare di rabbonire le nostre Erinni, ma, al contrario, addentrandoci sempre più profondamente nei meandri della nostra mente, là dove la parola non ha diritto di cittadinanza, là dove nessuna parola è mai stata pronunciata.
E ci renderemo allora conto che, come non siamo (soltanto) il nostro corpo, così non siamo (soltanto) la nostra psiche. E che è assurdo cercare di curare la nostra psiche (ad esempio dai sensi di colpa), perché è proprio la psiche ad essere la ‘malattia’. O, esprimendoci meno paradossalmente: è malattia qualunque attaccamento alla miserevole, cangiante congerie dei contenuti psichici.
Scriveva Ingeborg Bachmann nel suo racconto ’Ondina se ne va’:
“Non sono fatta per dividere le vostre preoccupazioni. Non queste preoccupazioni! E come potrei riconoscerne l’esistenza senza tradire la mia legge? Come potrei credere all’importanza delle vostre intricate vicende? Come credervi, finché vi credo veramente, finché continuo a essere profondamente convinta che valete di più delle vostre scialbe e tronfie dichiarazioni, delle vostre azioni squallide, dei vostri assurdi sospetti?”.
E, potrei aggiungere io: “dei vostri patetici sensi di colpa”.
Parafrasando qualcosa che avevo scritto in altra occasione potrei dire: abbandonati al mare, e ciò che comprenderai è che tu stesso sei il mare. E quando riconoscerai te stesso in questo mare, comprenderai che la lunga schiera dei contenuti della tua psiche, che sei abituato a considerare come ciò che ti costituisce - i sensi di colpa, le paure, le vanità, le rivalse - non sono altro che le lievi increspature sulla superficie di quel mare che tu sei. Quel mare che tutti noi siamo. Noi siamo il mare sottostante e ad un tempo siamo il vento, che giocando con la superficie marina provoca quelle increspature.
Siamo il mare ed il vento, eppure ci ostiniamo ad esiliarci in quelle increspature, in quella sottile regione di confine, che senza di essi neppure esisterebbe, ed in essa eleggiamo la nostra unica dimora, e null'altro se non quelle riusciamo a scorgere. Contempla pure quelle spume iridescenti senza timore alcuno, ma non scordare mai da chi sono generate. Sei tu il mare, sei tu il vento.
E allora, per concludere, non sarà che quel senso di inadeguatezza che molti psicologi collegano strettamente al senso di colpa, quella sensazione di non essere come dovremmo essere, non sia invece il disagio profondo di non apparire (a noi stessi) per ciò che realmente siamo?


Antonio Marco Serra


La colpa


Presunto innocente o presunto colpevole, questo è il dilemma. Ma forse la vera colpa dell’uomo è quella di essere nato. Di aver respirato, parlato, maledetto o benedetto Dio, come se non ci fosse differenza.
Ognuno di noi è, dalla nascita, processato, perché è, esiste, cresce, si sposa (è stato lui o lei?). Ma non siamo colpevoli neppure del nostro nome.
“Lasciate ogni speranza o voi che entrate” dice Dante alla povera gente dell’Inferno.
Ed è da Adamo ed Eva che siamo tutti condannati all’Inferno. Siamo tutti rei (colpevoli).


Ave Manservisi


L’essere umano è colpevole


Capitolo 1 – Il Bene e il Male sono indiscutibili


Noto con mia tristezza e rabbia, che gli esseri umani sono divisi tra loro in varie religioni, perché credo che la vera religione sia una sola: Dio e Gesù, sono i due colossi più importanti che reggono tutto il sistema dell'Universo. Nella mia idea li rappresento con il simbolo dello Yin-Yang.
Nella religione cristiana, il Bene e il Male sono due realtà ben definite alle quali uno non può dire ‘ci credo’ o ‘non ci credo’. L'essere umano, dopo esser nato, quando perde la purezza entrando nella realtà quotidiana (cioè di tutti i giorni) e venendo a scoprire i sentimenti come l'invidia, l'amicizia, l'odio, l'onestà (e tantissimi altri), in quel momento è consapevole del Bene e del Male anche se non conosce né Dio né Gesù.
Quindi Dio è il Bene, e il Diavolo (detto anche Satana o in altri modi) è il Male; questo per dire che chi è buono, è un suddito di Dio e chi è malvagio è un suddito di Satana. È una realtà, punto e basta.



Capitolo 2 – L’amore vero e l’amore maligno


Moltissime persone credono che l'amore abbia un'unica strada: tali persone si sbagliano di grosso. Innanzitutto togliamo dalla parola amore la parte del sesso, perché quello è il ‘gesto d'amore’ per ottenere un figlio.
Qui s'intende, invece, molto di più: l'amore come volersi bene, amicizia, solidarietà, pensare al prossimo, stare uniti insieme. Purtroppo però quando due persone (in genere il maschio e la femmina) vengono in rapporto tra loro e nasce l'amore, qui si possono avere le due biforcazioni di cui vi ho parlato precedentemente: uno è ‘l'amore vero’ (quello che Dio desidererebbe) e l'altro è ‘l'amore maligno’ (quello amato da Satana).
Ora desidero spiegarvi la differenza tra questi due. L'amore vero dentro la coppia o nella singola persona rimane aperto anche a coloro che li circondano, ma non solo. Tali persone si preoccupano anche di persone a loro sconosciute; hanno quindi un gran potere di solidarietà e di bontà rivolta verso tutti.
L'amore maligno, invece, rimane rinchiuso nella coppia o nella singola persona. Queste personalità molto spesso pensano solo per loro stesse, ignorando le altre persone che le circondano, diventando avide, menefreghiste e senza cuore.



Capitolo 3 – Incubi diventati realtà


Molto spesso mi chiedo: "I genitori, in questa epoca, che giocattoli daranno ai loro figli?" e mi rispondo con quest'elenco: "Scarpe? Cravatte? Giubbotti? Camicie? Giacche? Pantaloni? Mutande? Perizoma? Reggiseni? Occhiali (da vista o "a specchio")? Libri? Sigarette? Parrucche? Anelli? Collane?"...
Me lo chiedo perché ormai qua a Bologna, non esistono altro che negozi di scarpe, abbigliamento (soprattutto femminile), ottica, librerie, tabaccherie, parrucchieri, gioiellieri e "compro oro". Quei bei negozietti, invece, di fumetti e giocattoli, ormai si possono praticamente contare sulle dita di una mano. Questo è un incubo, soprattutto per chi ha la passione di certi articoli che solo le ‘fumetterie’ e/o negozi di giocattoli hanno. Oltretutto, ciò che mi inquieta ancora di più è il fatto che per raggiungere i negozi di prima necessità, cioè dove c'è il cibo, bisogna "fare dei chilometri": il centro di Bologna, ad esempio, ne dovrebbe avere almeno a disposizione uno, tipo in via Indipendenza, ma invece è solamente pieno di negozi extra lusso per i ricconi menefreghisti.
Concludo, dicendo che inoltre i giornalisti dovrebbero riportare la verità pura e semplice nei giornali che la gente segue. Ormai sono stufo di seguire i TG e i giornali che riportano solo quel che gli pare o, peggio, distorcono quello che uno ha detto, facendo quindi credere a chi sente che le sue parole siano quelle che ha riportato, magari una frase del contesto che non era così. Secondo me, infatti, Beppe Grillo fa bene a non fidarsi dei giornalisti e continuare il suo metodo via web.
Quando la verità fa male, molta gente invidiosa, pur di calpestare tale verità e insabbiarla, cerca di diffamare, calunniare e far perdere la credibilità di quelle persone che invece vogliono portare a galla verità che sono scomode.
A noi intanto, dicono che ci aiutano, ma in realtà l'IVA è già salita dal 4% al 10% (nei distributori automatici), l'IMU l'hanno tolta e hanno messo un'altra tassa che il cittadino paga molto di più: ci stanno solo prendendo per il c#§o!!! Come quei poveri cristi che si sono suicidati (e questo, per me, è l'incubo maggiore) perché erano strangolati da Equitalia, mentre i governanti andavano dicendo che la crisi non esisteva! E l'essere umano dice di essere intelligente e civile? Ma non fatemi ridere!!! Aaaaahhaa aaaaaaahahha aaaaaaaaaaaaaahahhaha!!!



Capitolo 4 – I dieci comandamenti


Mosè salì sul Monte Sinai e ricevette da Dio i Dieci Comandamenti (le Leggi Supreme del vivere in armonia in pace e tranquillità sulla Terra), scritti su due tavole di pietra da una parte e dall’altra. Queste erano soltanto dieci:
1. Non avrai altro Dio fuori di me.
2. Non nominare il nome di Dio invano.
3. Ricordati di santificare il giorno del riposo.
4. Onora il padre e la madre.
5. Non uccidere.
6. Non commettere adulterio.
7. Non rubare.
8. Non dire falsa testimonianza.
9. Non desiderare la donna d’altri.
10. Non desiderare alcuna cosa del tuo prossimo.
Gesù, poi inserì anche l’undicesimo comandamento. Gesù disse:
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
A tutt’oggi infatti si vede ancora che queste semplici Leggi vengono violate. Persino l’undicesimo.


Darietto


Il peso del tempo che passa
e della mia incapacità a gestirmi

…in silenzio i molti dolori, rubando gli insulti degli uomini…


Erano passati sei mesi dalla morte di mia madre ed io non riuscivo ancora a piangere. Il dolore era tutto dentro di me ed io mi ero inevitabilmente rafforzata. Ora non avevo più l’interlocutrice fissa a cui confidare i miei problemi e le mie angosce e mi sentivo molto sola. Negli ultimi tempi avevo ripreso in mano l’Odissea e il mio sguardo andò a questi versi: “...in silenzio i molti dolori, rubando gli insulti degli uomini...” . Non sapevo a quale libro si riferissero e mi sentii libera di spaziare con la mente e la mia immaginazione.
Avevo cinquantasei anni compiuti e me li sentivo tutti addosso. Che dire? Che fare? Come sostituire la mia interlocutrice? Avevo un fratello, a cui telefonavo spesso per confrontarmi e confidargli i miei dubbi e le mie angosce. Ne ricevevo conforto, lui era molto razionale ma nello stesso tempo molto sensibile e soprattutto mi ascoltava. Mio marito preferiva che io non toccassi certi tasti e per questo mi sentivo molto sola.
Da trent’anni lottavo con la mia malattia, la sindrome bipolare, per cui alternavo momenti di depressione e di ansia e anche di euforia e ne ero molto angosciata. Le terapie che facevo, farmacologica e psicologica, mi consentivano una vita pressoché normale. Ma mi sentivo inadeguata e sbagliata. Ero scontenta di me stessa. Cercavo aiuto a destra e a manca, ma soprattutto dallo psichiatra e dallo psicoterapeuta che mi seguivano. Ne ricevevo conforto ma ero sempre molto insoddisfatta. Avevo anche affrontato due interventi chirurgici al cervello, perché avevo un idrocefalo, avevano drenato il liquido e inserito una valvolina.
Credo di aver delineato abbastanza bene la mia storia. Mi sentivo forte e debole nello stesso tempo. Avevo acquisito anche molta consapevolezza dei miei limiti. Durante le fasi maniacali spendevo soldi a non finire, per questo avevo chiesto l’intervento di un amministratore di sostegno che mi gestiva il mio piccolo patrimonio. Mi ero molto pentita di aver fatto questa scelta, che poteva far supporre che non mi fidassi di mio marito, ma io ero molto angosciata, perché in passato avevo fatto spese in eccesso e non volevo ricaderci. Siamo in aprile avanzato ed io sento il peso del tempo che passa e della mia incapacità a gestirmi.
In passato avevo lavorato, facevo l’insegnante nelle scuole medie e mi piaceva molto, ma la malattia aveva avuto la meglio: i miei comportamenti sbagliati mi avevano portata a chiedere di fare la bibliotecaria, in un primo momento, e poi ad andare in pensione anticipatamente.
Sono a casa di mia suocera e cerco di rendermi utile. Facevamo la spola tra Bologna, dove io avevo casa e Conselice, il paese di mio marito. Mi sentivo in colpa per non aver voluto cambiare residenza e casa. Del resto erano scelte che si potevano sempre fare, ma mio marito non si fidava più di me, diceva che ero attaccata al mio guscio come una cozza e mi faceva sentire in colpa. Io avevo bisogno delle mie piccole certezze, anche se mi rendevo conto che la casa in cui abitavamo era piccola, ma mi rendevo anche conto che non avevamo la liquidità sufficiente per cambiare abitazione…
Sono stanca e lascio qui il racconto delle mie vicissitudini. A voi il verdetto.


Chiara


La colpa: parliamone


pagina 1



Il laboratorio di scrittura dell’associazione UmanaMente ha iniziato ad affrontare il tema della ‘colpa’ attraverso due incontri di brainstorming che hanno prodotto alcune idee, libere associazioni e concetti, elementi che aiutano a familiarizzare, in prima battuta, con il tema:
- Reato - regole - società – sbagliare - sapere cosa è giusto e sbagliato - avere uno schema - schema interno ed esterno - giudizio
- Il sentimento della colpa – sentirsi in colpa - avere rimorsi – la colpa porta all’ansia, il panico, la disperazione
- Coscienza - pentirsi – pentimento - ravvedimento - riparazione - chiedere scusa
- Colpa come volontà di affermazione (Nietzsche) - colpa cosciente o inconscia
- colpa in senso positivo è responsabilità, riparazione
- Riparare per se stessi e/o per il senso dell’altro - dimensione soggettiva
- Colpa come peccato - il peccato originale - immagine di Gesù in croce - il suicidio di Giuda.



Diana


Essendo nata in una piccola cittadina della Moldavia, quando avevo poco più di venti anni cominciai a sentire l’ambiente in cui vivevo privo di belle prospettive per il futuro e per questo progettai di venire in Italia, sperando così di ampliare il mio orizzonte nella vita. Era come una nuova strada per migliorare il mio percorso, a cui non volevo rinunciare nonostante fossi molto legata a mia madre, il papà l’avevo perso alcuni anni prima. In un primo momento mia madre sembrava incerta, forse temeva qualche pericolo per me, essendo io la più piccolina di dieci fratelli. Successivamente, un sacerdote parlò con mia madre rassicurandola, spiegandole meglio quali fossero le mie giuste aspirazioni e quanto di positivo vi fosse nel cercare di mettermi in gioco. Così, anche con l’approvazione della mamma, ho preso da sola l’aereo e mi sono trasferita in Italia, dove già risiedeva mia sorella.
Ormai mi trovo qui da alcuni anni, ho dovuto affrontare le difficoltà di trovare un lavoro sicuro per guadagnare il necessario, cominciare a conoscere degli amici per inserirmi in questa nuova società, imparare la lingua e cercare di trovare opportunità per dare ad essa un senso complessivo. I problemi e le delusioni incontrate, i momenti difficili, col tempo hanno diminuito la mia sicurezza e la serenità con me stessa. Ho commesso alcuni errori o preso decisioni sbagliate, però non ho avuto il coraggio di parlarne direttamente con mia madre per avere da lei un consiglio, un incoraggiamento a far meglio e tutto questo mi ha procurato un forte senso di colpa verso di lei. Ricordando quei momenti mi viene da piangere. Era qualcosa che veniva dalla mia coscienza in quanto mia madre non mi ha mai rimproverato nulla e non mi ha mai fatto pesare gli errori commessi.
Sono pentita, ma non mi riesce di parlarne. Quando mia madre ci ha lasciato, questo sentimento di colpa nei suoi confronti è diventato meno forte perché sono stata da lei perdonata, prima della morte, per quello che avevo fatto. Questo sentimento di colpa era tanto pesante da provocarmi disagio e non riuscivo a fare il passo decisivo, cioè quello di perdonare me stessa. Ritrovare la pace con me stessa per essere più positiva con gli altri.
Ora, imparando qualcosa dalla esperienza di ogni giorno e cercando di trarne insegnamento, mi sono nuovamente guadagnata la stima di me e sento di aver superato, almeno in gran parte, quei brutti momenti. Ormai è ‘acqua passata’, tuttavia, di tanto in tanto, il dolore riaffiora in superficie e mi sento scossa, mi viene da piangere. Ma è un pianto di sfogo e liberazione, non di disperazione. Questa rinnovata fiducia in me e serenità deriva dal fatto che sono sicura che mia madre mi guarda dal cielo e continua a volermi bene.



Gianni


Dire che cosa sia, per me, la colpa è abbastanza facile: è l’aver infranto una ‘regola’ a cui una persona fa riferimento. È ovvio, ma è anche sorprendente, perché molte volte in una comunità libera io stesso decido a quale regola voglio far riferimento. Le regole sono di tipo etico – morale - religioso oppure giuridico o ancora, più semplicemente, si ispirano ad una morale naturale.
Tutte però hanno in comune una certa dose di relatività, dipendente, per esempio, dall’area geografica e dalla cultura e religiosità in essa dominante e talvolta anche da differenti letture più o meno avanzate entro lo stesso contesto. Un poco più difficile è, per me, dire quando mi sia sentito in colpa e perché. In quel momento, credo, sia intervenuta la mia coscienza che ha messo a confronto il mio operato con la ‘la regola’. Cosa ha sviluppato questo confronto? Qualche volta nulla di sensibile, ma altre volte senso di colpa e (oppure) rimorso. I due termini mi sembrano pressoché sinonimi; io preferisco parlare di rimorso perché nelle conversazioni ‘senso di colpa’ è un modo di dire molte volte abusato. In altre parole si usa questa frase per cose futili od addirittura inconsistenti.
Forse il rimorso nasce per un’azione malvagia che sappiamo ‘con certezza’ di aver commesso, mentre il senso di colpa deriva più da un’idea, un personale modo di sentire. Cioè, sarebbe più legato al proprio giudizio e sensibilità, che ad una trasgressione vera e propria. I sensi di colpa possono sorgere spontaneamente oppure esser indotti da altri, qualche volta anche in modo strumentale, non in buona fede. Comunque sia, quando la nostra coscienza non approva le nostre azioni si può produrre sofferenza che paralizza e condiziona la vita. Quando ero ragazzino e poi adolescente, primo di quattro fratelli e di una decina di nipoti, portavo in me l’idea, che derivava da semplici raccomandazioni della mia nonna materna che era un po’ il punto di riferimento e aggregazione della famiglia, di avere un ruolo ed una responsabilità verso i più piccoli di età. Dovevo essere di esempio per loro nel comportamento e nello studio. Nessuno mi aveva esplicitamente assegnato questo ruolo ma io l’avevo fatto mio e quando non mi sentivo all’altezza del compito o mi pareva di aver tradito le aspettative, mi sentivo disturbato da una specie di vergogna. Il ruolo di ‘capo tribù’ corrispondeva però, in una certa misura, ad una mia ricerca di riconoscimento e gratificazione nell’avere un ruolo di ‘capo’ e contemporaneamente faticavo ad accettare di sbagliare. Di qui l’insoddisfazione. Questo mette in evidenza qualcosa di non lineare e contradditorio nel mio carattere. Sul lavoro, in seguito, si è verificato ancora qualcosa di simile. Sentivo di dover esercitare e volere un ruolo importante di responsabilità e, una volta ottenuto questo ruolo, ero spesso assillato dal dubbio di non essere all’altezza delle attese e di non essere completamente apprezzato per quello che producevo.
La spinta a volte strumentale ed aprioristica, che proveniva dalla direzione della azienda, ad ottenere risultati sempre migliori, ed anche qualche critica, veniva da me mal digerita. Anche in questo caso, sentivo disagio, rimuginavo spesso durante la notte e, oggi con molto più distacco, posso dire che quasi senza una vera ragione mi sentivo perseguitato.
Il circolo vizioso: forte desiderio di emergere ed essere al centro dell’attenzione, dubbio, sentimento di portare una colpa, frustrazione ed un’idea blanda di senso di persecuzione, di incomprensione delle mie qualità. Rimorso e senso di colpa (riferendosi a fatti consistenti per gravità) devono, per esser credibili, portare con sé il sincero pentimento e il desiderio di riparazione. Quando la riparazione non è possibile, ci vuole almeno, e non è poca cosa, il proponimento di non reiterare la colpa. In anni più recenti, senza voler annoiare ulteriormente l’eventuale lettore, mia moglie mi ha lasciato (ero al secondo matrimonio fallito e non ero più un ragazzino). Non essendo questo il luogo in cui entrare nel merito di questa vicenda, tuttavia direi che si era creata una situazione in cui si facevano risalire a me tutte le ragioni del fallimento del rapporto. In questo caso, una parte potevo accettarle, ma una grossa fetta di esse derivava da comode etichette che mi erano state appiccicate, anche non in completa buona fede. È abbastanza facile rigirare la frittata e buttare sugli altri i propri difetti, confondere la causa con l’effetto.
Ho sofferto, perché il senso di colpa per aver contribuito consistentemente a por termine a quanto ritenevo di voler invece preservare sopra ogni cosa, è stato terribile per me. Quando sono riuscito, dopo un periodo di acuta depressione, a riacquistare nuova serenità di giudizio, mi sono ritrovato.



Stefano


Per me la colpa è l’aver fatto qualcosa di male che deve essere riparato. La colpa in senso religioso si chiama peccato. Per chiedere perdono e per alleggerire la nostra coscienza ci si può recare da un sacerdote e, in confessionale, confessare i nostri peccati. Ci aspettiamo così il perdono di Dio. Si potrebbe dire: commetto un omicidio, mi confesso, ottengo il perdono e sono a posto. Le cose non sono proprio così, perché serve il pentimento e la riparazione. Dal punto di vista della legge dello stato, una colpa, anche a chi confessa ed è pentito, non viene perdonata e, di conseguenza, resta la pena.
Mi sono sentito in colpa, per la prima volta, quando ho conosciuto dei gruppi anarchici, delle babygang del quartiere e andavo in giro con loro a far danni. Non dicevo nulla ai miei genitori ed è questo che poi mi ha fatto sentire n colpa. Quando la mia mente si è distorta e ho dovuto frequentare per la prima volta uno psichiatra, durante gli incontri spesso ridevo e lo psichiatra mi chiedeva perché ridessi. Era la mia mente distorta che mi faceva ridere, anche se non c’era niente da ridere. Lo psichiatra ha dovuto farmi ricoverare presso un ospedale psichiatrico dove mi hanno prescritto degli psicofarmaci.
Io mi sento in colpa verso i miei genitori, più che verso me stesso. Fosse stato per me avrei seguito i miei amici e continuerei a fare la strada che facevo prima, ma volendo bene ai miei, non sarei contento di provocare loro dispiacere.
Durante l’infanzia avevo frequentato i Salesiani, persone colte, che mi hanno insegnato a leggere e a scrivere ed a distinguere il bene dal male. In quel periodo non ho sperimentato il senso di colpa, ero piccolo e non ricordo.
Per me il senso di colpa è come un avventuriero, uno che va all’avventura e gira il mondo, fa le sue battaglie, combatte per esistere. La colpa è lo Stato, il governo.
Il pentimento è quando vai dal confessore e gli dici le tue cose. Io non sono pentito di aver fatto il punk. Mi sono pentito di avere sbagliato e di avere fatto una cosa che mi pesa interiormente, mi pesa sulla coscienza.
Il senso di riparazione più grande è stato cambiare frequentazioni, chiudere definitivamente col passato.



Oriano


Quando da piccolo, avevo circa dieci anni, andai a comprare dei soldatini di plastica dicendo al negoziante che avrebbe pagato mia madre, quella volta capii cos’era la colpa, perché venni punito: mia madre mi picchiò. Dentro di me capii che avevo fatto qualcosa di sbagliato, anche se l’ho capito soltanto dopo le botte.
In seconda media sono stato bocciato e mi sono sentito in colpa. Allora ho cercato di riparare iniziando a studiare anche di notte. La bocciatura mi aveva fatto sentire inutile, mi sono sentito come un rifiuto della società, è stato un trauma perché pensavo già alla reazione di mia madre. Mi sono sentito in colpa per avere deluso le aspettative di mia madre, invece non mi sono sentito in colpa nei confronti di mio padre perché lui non si interessava mai a ciò che io facevo.
Vedete, il senso di colpa era, per me, legato alle aspettative di mia madre e la punizione mi dava la misura della gravità della colpa. Aver commesso una colpa ha prodotto sempre anche il desiderio positivo di riparazione, come mettermi a studiare con impegno dopo la bocciatura. La voglia di riparare mi ha spinto ad intensificare lo studio facendomi ottenere buoni risultati scolastici al liceo, anche la passione per la lettura. A quel punto studiavo più per mia scelta e senso di responsabilità, pensando al futuro, e non soltanto e semplicemente per soddisfare le attese di mia madre.
Nel corso del tempo è cambiato il mio rapporto con la colpa. Gli errori e relativo senso di colpa sono diventati più un fatto personale, sempre meno legato al giudizio degli altri. Tuttavia il senso di colpa verso mia madre è passato solo molto tempo dopo. Ovvero, probabilmente non l’ho mai superato completamente.
Ma la rivincita sullo studio me la sono presa ora, iscrivendomi all’Università ‘Primo Levi’.



Roberta


Per me la colpa è quando fai qualcosa di sbagliato, o commetti azioni o dici cose che possono danneggiare qualcun altro, o anche se stessi. In generale secondo me si commette una colpa quando si offende o si maltratta... Ad esempio, anche recentemente mi sono sentita in colpa per avere mancato di rispetto a mia madre: lei mi aveva rimproverata di non avere fatto qualcosa in casa. Allora le ho mancato di rispetto alzando la voce e penso di averla anche un po' ferita, dicendole che stava sbagliando. In quel caso, quindi, mi sono sentita in colpa perché l'ho trattata male e perché credo di avere fatto qualcosa di sbagliato: non ho agito in maniera giusta secondo i miei principi e valori, secondo le regole che conosco e in genere rispetto. Ma in quel momento ero adirata e ho agito così, in uno sfogo di rabbia... non ho sentito subito la colpa... Il senso di colpa è arrivato dopo, nel corso della giornata: quando la rabbia è passata, mi sono sentita cattiva a trattare così mia madre, e me ne sono molto pentita, così sono andata a chiederle scusa.
La prima volta che mi sono sentita in colpa è stata quando ero piccola: mi mangiavo le unghie e i miei genitori mi dicevano di non farlo, perché mi sarei rovinata le mani. Ma io continuavo, nonostante i miei mi mettessero lo smalto amaro sulle unghie per impedirmi di mangiarmele; allora mi sentivo in colpa, disobbediente. Sentivo di stare trasgredendo alle regole che loro mi davano, avrei potuto fare tante cose, invece di rovinare le mie mani mangiandomi le unghie... ad esempio leggere, giocare, mangiarmi un dolcetto... ma era più forte di me. Solo da grande sono riuscita a togliermi questo vizio.
Il senso di colpa può passare, ma dipende probabilmente dal tipo di colpa. Forse mi sento ancora in colpa per non avere studiato abbastanza durante l'ultimo anno di superiori. Ecco, di quella cosa mi sono sentita in colpa.... presi un ottimo voto comunque, ma, poiché sapevo di avere studiato meno degli anni precedenti, mi sentii in colpa, e ci ho sofferto tanto, ancora oggi mi sento in colpa, se ci penso. È come volere essere perfetti e non riuscirci. Invece bisognerebbe provare ad accettarsi per come si è.



Vittorio


Per me, il senso di colpa è quasi sempre derivato più che da una colpa obiettiva, palesemente ben delineata, ad esempio per le conseguenze negative prodotte sugli altri da un mio comportamento, dalla costante paura di sbagliare e di poter trovarmi, successivamente nella condizione di colpa.
Quando la paura diventa troppo forte e ricorrente finisce che ‘te la canti e te la suoni’, è come un avvitamento, perdi il controllo. Se poi come è capitato a me, ‘vieni su’ molto solo, senza un confronto con persone mature - mio padre l’ho perso quando avevo otto anni e successivamente mia madre è andata in crisi - tutto questo, non ti facilita la vita.
Era come un disturbo preventivo. In questo senso, quindi, mi sembra siano state numerose le volte che mi sono sentito in colpa per cose che poi, nella mia vita, non ho fatto. Più che un senso di colpa lo definirei il rammarico di non essere in grado, o temere di non essere in grado, di compiere delle cose così come pensavo fosse nelle aspettative degli altri. Specialmente nella prima parte della mia vita ho dato un’importanza determinante, se non eccessiva, al giudizio degli altri.
Se riguardiamo invece più avanti negli anni, nella maturità, il senso di colpa da semplice rammarico è diventato rimorso per colpe che consideravo precise. Come esempio importante, porto il fatto di non essere stato con mia madre sufficientemente affettuoso e di non essere stato molto tollerante con lei nell’ ultimo periodo della sua malattia. Questo mi è rimasto sullo stomaco.
Una caratteristica di fondo del mio carattere che, sostanzialmente, non è mai cambiata, è la mia insicurezza: ho paura di sbagliare, di non andar bene agli altri col risultato che, a volte, penso di sbagliare anche quando non sbaglio; sento la paura di poter essere ripreso e di provocare un giudizio negativo da parte del prossimo. Questo modo di sentire ti fa stare sempre all’erta ed in ansia. L’ansia mi ha perseguitato fino a circa dieci anni fa ma ora non è più così.
A lungo andare, questa preoccupazione di cadere nell’errore, genera anche risultati positivi perché ti metti spesso in discussione e devi sempre fare i conti col dubbio che vi possa essere una via migliore da percorrere. Ora il rammarico nasce dal bilancio della vita, se avessi fatto altre scelte avrei avuto una vita meno difficile, ho dovuto sempre recuperare, anche se poi me la sono cavata.
Mi ha complicato la vita avere interrotto le superiori, se avessi studiato di più ora farei meno fatica a trovare lavoro; sono colpevole perché ho mollato e non posso riversare la colpa su nessuno. Avevo solo quattordici anni, ma mi sento in colpa ancor oggi per una cosa commessa tanti anni fa: dal momento che ne accuso ancor oggi le conseguenze. A scuola andavo bene, ma nella mia classe i compagni mi avevano preso di mira e ho mollato a causa loro. La colpa che mi attribuisco è di non avere resistito e con questo ho rovinato la mia vita. Mi sento in colpa perché da scuola son scappato senza reagire.
Don Nildo spiegava la differenza tra un’azione deliberata e una azione indotta con la forza, esercitata dai compagni, nel caso mio. All’epoca credo di aver fatto comunque personalmente uno sbaglio che, come un macigno, mi è pesato per tutta la vita.
Questi son fatti su cui lavorano molto gli specialisti che praticano psicoterapia, dinamiche che, come loro dicono, creano complicità tra vittima e carnefice: come dire che un soggetto si senta offeso da una grave malvagità commessa da un’altra persona e però, parallelamente, si identifichi con il comunque propria la responsabilità, che se lo sia meritato. Non credo sia questo il caso, o che il paragone sia sproporzionato. Più semplicemente, se avessi avuto più carattere questo non sarebbe successo.
Mia madre mi aveva consigliato di cambiare scuola e prendere un diploma. Io non ho scelto di cambiare scuola, volevo fare il giornalista e il patto con la mamma era di prendere comunque un diploma e di andare poi a fare la scuola di giornalismo a Urbino. Io non ho seguito questa promessa e sono invece andato a Roma a studiare giornalismo in una scuola privata.
Il senso di colpa, per esser tale, porta con sé anche il desiderio di pentimento e di riparazione. Io ho sempre cercato di riparare, è mia abitudine chiedere scusa se sbaglio ed allo stesso tempo mi irrito se subisco un torto e non mi si chiede scusa.
Sono trasparente e se devo dir qualcosa ad una persona la dico in faccia, non cerco giri di parole. Ho raggiunto un equilibrio non di ferro: mi basta poco per sentirmi in difficoltà ma con altrettanta facilità mi rimetto in carreggiata. Penso sia positivo.
Ho sbagliato nella scelta della moglie, commettendo l’errore che sarei riuscito a cambiare certi lati pericolosi e spregevoli del suo carattere: alla fine l’unica riparazione possibile è stato il divorzio; un paio di volte ho sbagliato nella scelta del lavoro, anche qui l’unica riparazione possibile era cambiare, trovare un altro lavoro. Gli sbagli mi hanno portato tristezza, dolore, disperazione, solitudine e ormai una riparazione è obiettivamente impossibile.
Non mi sento assolto ma devo guardare avanti e fare tesoro delle lezioni della vita, questa sarà la vera riparazione.



Laura


Io col senso di colpa convivo quotidianamente; è purtroppo una sensazione che mi appartiene. Più volte mi sono chiesta se questo possa dipendere, esser legato, ad una carenza di autostima. Laddove disattendo le mie aspettative, mi sento in colpa e provo un forte disagio. Quando mi sento in colpa, per aver fatto o non fatto una data azione, mi prende una forte ansia e anche una sensazione di paralisi. Il giudizio che temo maggiormente è il mio, più che quello degli altri, cioè un mio giudizio interiore nei riguardi di me stessa.
È da qualche anno, direi dal 2011, che ho dei sentimenti di colpa, da quando, cioè, ho preso coscienza del fatto che stavo facendo cose sbagliate per la mia vita. Allora la mia strada si è fermata, per riflettere, per cominciarne una nuova. Prima di allora, pur sapendo di sbagliare, letteralmente, me ne fregavo. Invece, in quel momento, ho capito d’aver toccato il fondo, in più o forse in forza anche di questo, familiari e amici avevano iniziato a far terra bruciata intorno a me. Dunque, questi eventi esterni e questa presa di coscienza, mi hanno portata a fare qualcosa per me, per ricostruire. Però deve innanzitutto scattare un ‘clic’ nella testa, un mettere a fuoco che devi fare qualcosa.
Da allora io convivo col mio senso di colpa, certamente, però mi vedo incamminata in un processo positivo e attivo, perché sto lavorando per cambiare le cose. Per una persona che ha una dipendenza, è un percorso che poi dura sempre, quotidianamente sei sottoposto alle tue fragilità… ed è lì che senti forte il senso di colpa.
Perché ho realizzato che nessuno mi punta il fucile alla tempia costringendomi a coltivare le mie dipendenze, è totalmente o quasi, una mia responsabilità.
Sebbene mi senta a disagio nel provare questo senso di colpa, sento che questo è anche la benzina del motore che si deve rimettere in moto, mi dà la forza di cercar di capire cosa debba fare per rimediare verso me stessa e di conseguenza verso gli altri che mi stanno vicino.
Mi sono fortemente addolorata per le vicende di due mie amiche, persone che hanno condiviso con me l’esperienza della comunità, una come utente, una come operatrice. Il caso ha voluto che, nel giro di poco tempo, entrambe si siano suicidate. Il vuoto che ho sentito da quando queste due persone sono mancate è indescrivibile.
Questi due episodi mi hanno riportata ai miei vissuti personali, perché sono passata anch’io dall’esperienza del tentativo di suicidio. Mi sono detta che di dolore ne avevo già provocato tanto nella vita, a causa dei miei fuori pista, e questi avvenimenti mi hanno indotto a pensare a quanto dolore avrei potuto ancora dare, se i miei tentativi di suicidio fossero riusciti. Il senso di colpa può passare, ma bisogna cercare, giorno dopo giorno, di inventarsi qualcosa di nuovo, qualcosa che dia un senso positivo e più ottimista alla vita. Non si deve e non si può rinunciare, alzare bandiera bianca.


Mi sento in colpa


Laboratorio di Narrativa RTP Casa Mantovani



Eppure l'avevo cancellato
ma lo ritrovo qui
in un desiderio insoddisfatto.
Appare ogni volta che mi sento vinta
a solcare indelebile il mio rimorso.
Retrocedo una volta ancora
e a piccoli passi
ritorno nel grembo del mio destino.

Anonimo



“Mi sento in colpa …” non è solo un modo di dire piuttosto ricorrente. Il senso di colpa è qualcosa di molto profondo, a volte un sentimento molto doloroso e alla base di gravi problemi e disturbi. Il senso di colpa arriva a determinare le nostre azioni, le nostre scelte, la nostra vita. Abbiamo letto questa poesia di autore anonimo e abbiam pensato che il senso di colpa invece ha a che fare con la nostra storia personale, con le esperienze di vita fatte fin dall’infanzia. Il sentimento di colpevolezza nasce dal nostro ‘giudice interiore’, che ci mette di fronte agli insegnamenti che abbiamo ricevuto dai nostri genitori, dalla religione e dalla regole sociali, come se si dovesse pagare un prezzo in termini di sofferenza interiore per avere osato desiderare qualcosa di vietato. Infatti basta solo aver pensato di violare una ‘regola’ per vivere una sensazione di disagio, per non sentirsi più la coscienza pulita. Abbiamo fatto una ricerca sui sensi di colpa perché è uno stato d’animo familiare a tutti noi, ma è complicato parlarne. Abbiamo scelto alcune citazioni sulla colpa di personaggi storici famosi che sentiamo vicine e le abbiamo commentate come segue:



Bisogna badare che la pena non sia maggiore della colpa.

(Cicerone)



La punizione non può essere superiore alla colpa, bisogna che sia equilibrata così da essere accettata come tale e riconosciuta. Altrimenti rischia di essere più un castigo senza motivo e che quindi non insegni.

Anonimo



Colui che incolpa gli altri delle proprie disgrazie è un ignorante; colui che incolpa sé stesso comincia a migliorare; il galantuomo non incolpa né sé né gli altri, ma pensa a rimediarvi.

(C. Cantù)



È una frase che si commenta quasi da sola. Il primo passo è quello di riconoscere le proprie responsabilità e non incolpare altri delle nostre azioni. Infine sarebbe ancora meglio poter non preoccuparsi del tutto delle colpe, ma pensare a come rimediare alle situazioni create.

Anonima



È grandemente utile per noi, e ci dà sicurezza di spirito, non ricevere molte gioie in questa vita; particolarmente gioie materiali. Comunque, è colpa nostra se non riceviamo consolazioni divine o ne proviamo raramente; perché non cerchiamo la compunzione del cuore e non respingiamo del tutto le vane consolazioni che vengono dal di fuori.

(T. da Kempis)



Secondo me quello che ci vuole dire questa frase è che un po’ di senso di colpa bisogna averlo, anzi è sano averlo. Alle volte invece ci facciamo prendere dalle cose materiali senza lasciare lo spazio a null’altro.

Anonimo



Errare è umano, dare la colpa a un altro ancora di più.

(Max Jacob)



Errare humanum est, ma è fondamentale imparare a prendersi le proprie responsabilità. Trovo che sia molto difficile imparare a stare dentro degli schemi e delle regole (che tendo a vivere come imposti), ma se si sbaglia e si superano i limiti, riconoscerlo è un primo passo importante.

A.P.

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Commettere errori è umano, ma perseverare nell’errore è invece diabolico. Errare è nella natura dell’uomo, nessuno può essere esente dalla colpa, però l’uomo ha tra le sue possibilità quella di imparare dall’esperienza. Imparando dal passato può evitare di commettere più volte lo stesso danno, la colpa è attenuata per un errore non ripetuto.

Anonimo



Finiscila con queste vane apprensioni. Ricordati che non è il sentimento che costituisce la colpa ma il consenso a siffatti sentimenti. La sola volontà libera è capace di bene o di male. Ma quando la volontà geme sotto la prova del tentatore e non vuole ciò che le viene presentato, non solo non vi è colpa, ma vi è la virtù.

(S. Pio da Pietralcina)



Questa frase di S. Pio mi ha molto colpito perché in un certo senso mi rassicura. La colpa mi pervade come una minaccia, ma qui c’è di mezzo sempre anche questa grande forza di volontà che S. Pio da Pietrelcina tira fuori. Parlare di virtù mi sembra invece un po’ inappropriato, esagerato.

Anonimo



Il fallir di alcuni sciocchi non fa colpa universale.

(Pozzi)



È una verità condivisa da tutti credo, il fatto che alcuni uomini commettano più colpe, più errori di altri uomini. Questo secondo me ci mostra come il numero di colpe possiamo diminuirlo oppure peggiorarlo, in una sorta di equilibrio, di bilanciamento.

Anonimo



Le tentazioni contro la fede e la purità è merce offerta dal nemico, ma non temerlo se non con il disprezzo. Finché egli strepita è segno che non ancora si è impossessato della volontà. Tu non ti disturbare per ciò che vai sperimentando da parte di questo angiolo ribelle; la volontà sia sempre contraria alle sue suggestioni, e vivi tranquilla, ché non vi è colpa, ma sebbene vi è il compiacimento di Dio ed il guadagno per l’anima tua.

(S. Pio da Pietralcina)



In questo caso invece mi pare che S. Pio spieghi meglio il suo concetto di volontà. Mi sembra molto ottimista e questo di nuovo mi aiuta e attenua le mie ansie e il senso di colpa che personalmente mi contraddistingue molto.

Anonimo



L’odio suscita litigi, l’amore ricopre ogni colpa.

(Salomone)



L’odio è un peccato, provoca disordini, litigi, agitazione. L’amore no, L’amore è un sentimento che aiuta, anche nel perdono.

A.P.



Moriamo peggiori di quando siamo nati. La colpa è nostra, non della natura.

(Seneca)



Quando nasciamo abbiamo già una colpa, nasciamo già caratterizzati da questo sentimento. Ma quando moriamo siamo peggiori di quando siamo nati, perché le nostre azioni ci caratterizzano. Se stiamo male (per la colpa) prima di morire ci se ne accorge, la colpa allora non è della natura.

Anonimo



Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le labbra è prudente.

(Salomone)



Il saggio parla poco. Frenando le labbra evita di pronunciare parole che potrebbero essere piene di colpe. Meglio parlare poco e consapevolmente, essere prudenti con le parole aiuta ad evitare danni.

Anonimo



Non c’è male all’infuori della colpa.

(Marco Tullio Cicerone)



Non mi trovo molto d’accordo su questa frase. Il male e la colpa sono cose gravissime, ma non possiamo ridurre il male alla colpa. Ci sono cose peggiori e secondo me più gravi, la colpa sottintende già un inizio di una consapevolezza importante.

Anonimo



Quando sei caduto una volta, è colpa tua se cadi di nuovo.

(Publilio Siro)



È molto vera questa frase, se cado di nuovo questa volta me lo merito. Personalmente a volte mi capita di fare gli stessi errori, è fondamentale invece che io impari dai miei sbagli.

A.P.



Umiliati amorosamente avanti a Dio ed agli uomini, perché Iddio parla a chi tiene le orecchie basse. Sii amante del silenzio, perché il molto parlare non è mai senza colpa. Tieniti in ritiro per quanto ti sarà possibile, perché nel ritiro il Signore parla liberamente all’anima e l’anima è più in grado di ascoltare la sua voce. Diminuisci le tue visite e sopportale cristianamente quando ti vengono fatte.

(S. Pio da Pietralcina)



Ho scelto tutte le frasi di S. Pio perché mi rincuorano molto. C’è molta speranza in queste parole, anche se dentro di me rimango così agitata. Queste frasi mi sembrano rispecchiare il flusso dell’anima. O almeno, della mia anima.

Anonimo



Un uomo saggio è circospetto in ogni cosa; nei giorni del peccato si astiene dalla colpa.

(Siracide)



Trovo che sia affatto vero. L’uomo saggio parla poco e calibra le parole, ma l’essere circospetto in ogni cosa non protegge dalla colpa.



Alla fine di questo lavoro ci siamo anche resi conto che spesso ci sentiamo colpevoli eccessivamente per piccole cose accadute o anche per eventi non imputabili a noi.
Ci siamo salutati con questa convinzione: crescere vuol dire anche liberarsi dai condizionamenti e dalla paura di infrangere imposizioni e regole, adottando un comportamento rispettoso verso il gruppo, ma senza rinunciare a sé.


R.T.P. Casa Mantovani


Il pane quotidiano


Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu


Viviamo di colpe indefinite.
Siamo predestinati a vari tipi di colpe:
● colpe spirituali
● colpe fisiche.
La colpa proviene da una mancata osservazione delle regole della società.
Ci saranno sempre più colpe fintanto che non saremo in grado di ‘educare’ adeguatamente le nuove generazioni.
La colpa, a seconda della sua concretizzazione, diventa:

● responsabilità
● errore in buona fede
● danno causato volontariamente
● reato
● delitto
● torto

Se abbiamo la capacità di essere autocritici, capiamo da noi stessi quando commettiamo peccati o colpe.
Se risaliamo alle origini, arriviamo al peccato originale che ha distinto la qualità della vita del mondo e dell’umanità in un prima e in un poi. Si è trattato di un peccato di disubbidienza e di superbia di Lucifero ai danni del Dio Yahweh. Tuttavia qualcuno potrebbe pensare che Lucifero non fosse un dio malvagio, e che avesse donato l’intelligenza agli uomini dicendo ad Eva e Adamo di mangiare i pomi dell’Albero della Conoscenza del bene e del male, permettendo così di capire che il Dio Yahweh li manteneva in stato di subordinazione. Lucifero, che significa, letteralmente, portatore di luce, ha donato la luce dell’intelletto agli esseri umani.
Se poi volessimo dare una vita alla colpa, potremmo pensarla così:

Nascita
La colpa nasce quando qualcuno compie un danno/torto verso qualcun altro o qualcosa.

Durata
La colpa dura fino a quando non viene espiata.

Morte
Quindi la colpa muore.

La vita della colpa finisce grazie all’espiazione della pena, tuttavia la risoluzione definitiva si ha con il perdono,



Gruppo rassegna stampa
Centro Diurno di Casalecchio di Reno



Lo sfogatoio


Colpa mia, colpa mia, tutta colpa mia. In ogni evento c'è una causa. Ed è causa mia.
Ho avuto un incidente stradale, tanti anni fa, anzi più di uno. Sempre per colpa mia.
È inutile girarci attorno. Sono stato bocciato in prima superiore. È stata una scelta mia. Non sapevo risolvere le operazioni con le frazioni matematiche e non sapevo a chi chiedere aiuto. Per questo motivo non riuscivo né in matematica né in fisica né in elettrotecnica. Così mi sono fatto bocciare per ripartire dalla base. Tutto daccapo. "Tutto sbagliato. Tutto da rifare", direbbe il grande Gino Bartali.
Ma come si fa a guarire da una colpa? Difficile, molto difficile. Nella mia esperienza bisogna individuare la causa per capire se è colpa o senso di colpa.
C'è chi nega una propria grave colpa benché sia manifesta e vive benissimo, e magari se ne vanta. Ci sono persone, al contrario, che hanno un forte senso di colpa pur avendone una responsabilità minima e stanno malissimo, al punto che per liberarsi da questo immane malessere preferiscono togliersi la vita. Sì, la sofferenza da senso di colpa è nella mia esperienza una delle più dilanianti.
In passato, agli inizi della mia malattia, tale malessere era violentissimo, poi ho imparato a farlo scivolare via. Ma quando diceva sul serio, il dolore era così forte che dovevo farmi del male fisico per attenuarlo.


Fabio Tolomelli


Quando ti danno la colpa dei tuoi mali


Una cosa che trovo insopportabile è quando ti danno la colpa dei tuoi mali. Della serie: “Hai preso il raffreddore? Colpa tua, perché sei voluto uscire che pioveva” … E di solito queste simpatiche osservazioni si concludono con un: “ Te l’avevo detto, io!” che sprizza maligna soddisfazione da tutti i pori. Pazienza pure: non c’è che da starnutirgli in faccia e sperare che gli si attacchino un po’ di bacilli. Del resto finché il guaio è solo un’ipotesi nessuno ascolta i grilli parlanti.
Guardate quelle lugubri frasi minatorie sui pacchetti di sigarette: uno fa gli scongiuri e le compra lo stesso… (Però, guarda caso, gli astuti estensori non ci scrivono sopra frasi tipo: “Con 5 € compreresti cappuccio e brioche per due!” oppure “Salta un pacchetto al giorno per un mese e ti godi un weekend al mare!”… Magari uno ci farebbe mente locale e addio guadagni per il tabaccaio e per lo stato).
Purtroppo, però, i mali che affliggono gli umani non sono solo i banali raffreddori. Spesso sono grandi lutti, grandi dolori, grandi malanni.
Quando alla base ci sono reali coinvolgimenti della volontà dell’interessato, come ad esempio imprudenze gravi, comportamenti a rischio, errori ripetuti, trasgressioni … apriti cielo! “Te la sei cercata, come potrai mai perdonarti?” … Se pure non te lo dicono direttamente, te lo fanno capire coi messaggi subliminali. Ma a che serve rincarare la dose, quando uno è stato già gravemente penalizzato? Una buona parola, invece, è un balsamo sulle ferite e aiuta a rialzarsi. Perché rialzarsi, comunque, si deve e si può.
A volte non si tratta nemmeno di ‘vita spericolata’, ma semplicemente di vita sfortunata, eppure nella mente può scattare una specie di determinismo paranoico: tuo figlio è morto in un incidente stradale perché gli hai comprato il motorino, tuo marito è scappato con una bionda perché tu lavori fuori casa, ti sei ammalato di cancro perché usavi mangiare o non mangiare questo o quel cibo… Le colpevolizzazioni o auto colpevolizzazioni di questo tipo si nutrono di luoghi comuni, non tengono conto dell’esistenza di incognite e concause, mettono a fuoco in modo spropositato una scelta soltanto, quella, appunto, che poteva in qualche misura dipendere da te. Il presupposto del ragionamento è che se uno è ‘bravo’ gli andrà certo tutto bene, sarà artefice della propria fortuna, chi è in difetto, commette errori, non sta attento… la pagherà e la colpa sarà tutta sua.
Alla base di questo modo di pensare mi par di intravedere un ‘delirio di onnipotenza’, una volta si sarebbe detto un ‘peccato di superbia’, l’idea cioè che si possa (e quindi si debba) trovare rimedio a ogni problema, evitare qualsiasi guaio…
Come se gli esseri umani potessero contare su illimitate risorse, totale dominio sulla natura, salute garantita, concordia universale, felicità assoluta, vita eterna, insomma… il paradiso terrestre. E invece no, siamo ancora nella ‘valle di lacrime’.
Dopo gli ottimismi dello storicismo e del positivismo, e soprattutto dopo il boom economico e il luna park del consumismo e dell’utilitarismo, non riusciamo a riconoscerci deboli, vulnerabili, fallibili, inadeguati, impotenti… senza sentirci in colpa. La frustrazione, la delusione, il disagio ci lavorano dentro, nel profondo. Viviamo in quella che è stata definita l’epoca delle passioni tristi. La realtà ci mette di continuo di fronte all’imperfezione. E intanto avanza, verso il nostro giardinetto privilegiato ed egoista, una massa incontenibile di diseredati e profughi dal mondo ‘altro’, che non possiamo più ignorare e non sappiamo soccorrere né arginare. Ingiustizia, violenza, miseria, morte.
Nell’ambito della malattia mentale c’è molto spazio per il catastrofismo, e la situazione attuale del pianeta Terra certamente non aiuta.
Ansia, panico, sono il pane quotidiano di molti. Succede spesso, poi, che per non aver saputo raggiungere certi traguardi, soddisfatto certe aspettative, risolto certi problemi, si interiorizzino sensi di colpa tanto pesanti da sfociare in disturbi gravi.
Le persone si abbattono, schiacciate da rimpianti e rancori, perdono l’autostima, si chiudono a riccio, si bloccano per non rischiare un nuovo insuccesso.
Da ultimo voglio ricordare la lunga tradizione di colpevolizzazione delle famiglie e in particolare delle madri, che per fortuna sembra tenda a diminuire e – speriamo – verrà sostituita da un supporto scevro da pregiudizi e da una ben più utile alleanza nel percorso di recovery del paziente. Qualcosa però ancora serpeggia, tanto è vero che molte madri testimoniano di aver avvertito da parte di terapeuti un atteggiamento giudicante, di averli sentiti se non proprio ostili, comunque freddi e scostanti. A me capitò anni fa di confidare a uno psicologo il disagio psichico di un figlio e di sentirmi dire: “E tu, come la metti con il senso di colpa?”. Lì per lì mi venne una risposta un po’ sarcastica, che poi, ripensandoci, ho trovato piuttosto arguta: “Senso di colpa? Non ce l’ho, perché… non ho colpa! Anch’io sono figlia, sai, quindi la colpa è di mia madre, anzi, di mia nonna, anzi, della bisnonna, anzi, di Eva!”. Si sono versati fiumi d’inchiostro su come si dovrebbero crescere figli sani e sereni, ma ahimè le scuole di pensiero sono tante e discordi e i genitori fanno del loro meglio, cioè come sanno e possono, coi loro limiti di esseri umani e le loro buone intenzioni.
Può andar bene o meno bene, nessuno lo può prevedere. Quello che conta, nella vita, è l’amore con cui ci si è provato e con cui si continua a lottare per superare le difficoltà.


Lucia


Andare fuori a incontrare la gente


Anche oggi sono riuscita a lavorare coi ragazzi, abbiamo provato lo spettacolo. Siamo in chiesa, il nostro laboratorio non ha mai avuto uno spazio suo. Passano avanti e indietro coi carrelli i lavoranti, gli agenti urlano tra di loro, poi passano anche i detenuti della circondariale che vengono a scuola nel reparto che prima era solo dell’OPG e ora è dell’istituto unico. Noi dobbiamo chiudere. Noi non esistiamo. Eppure tutto attorno a noi esiste, esistono i ricoverati, esiste la malattia, esiste la gente che urla e che sbatte la testa contro le sbarre ed esistono le persone chiuse e nascoste sotto le lenzuola da cui non vogliono e non riescono a uscire. Esistono i dolori e i ricordi, il dentro e il fuori, il passato e forse un futuro. La precarietà in cui stiamo vivendo è sempre più evidente e forte. Ospiti nella nostra casa con le valigie pronte per non si sa dove e come.
Dentro sei isolato dal mondo vieni informato dalla tv e cerchi di captare dai discorsi degli operatori ciò che potrà avvenire: in parlamento hanno detto che… E noi che fine faremo, dove andremo? I servizi si occuperanno del nostro futuro, costruiranno dei progetti… Noi eravamo in carico ai servizi eppure siamo qui.
Io non sono in grado di dare loro delle risposte, di tranquillizzare chi dovrà tornare in carcere, di dire loro che verranno curati e come, posso solo continuare a lavorare, a cercare posti per gli spettacoli, per andare fuori, ad incontrare la gente, a far vedere che non facciamo paura, a coltivare la speranza. Fuori, tra la gente comune, si parla troppo poco di psichiatria, per poter essere capiti e accettati. Il fuori ha ancora tante paure sui matti, noi abbiamo tanta paura del fuori.


Monica Franzoni


Volare via col teatro


Volare via col teatro… via dalle sbarre, dalle ingiustizie, dalla convivenza forzata con individui malati, sconosciuti, rabbiosi… Non si può volare via; si può però volare lontano, costruendosi ali con piume sempre più forti e colorate. In OPG non finisci mai di stupirti.
Quando ti sembra di avere acquisito strumenti sufficienti per operare al meglio succede qualcosa che ti costringe a ripensare tutto, a rimetterti in gioco completamente e in modo diverso. Arriva una licenza, uno va in crisi, un provvedimento disciplinare e viene chiuso, non c’è personale e chiudono il reparto, allora ti devi impegnare a trovare altre soluzioni e inventarti nuovi modi di relazionarti coi tuoi compagni di viaggio, rivedere gli obiettivi, provare percorsi impervi; mai nulla è facile e scontato in quel posto.
Di certo sai che è un carcere, con tutto quello che significa: sbarre, porte di ferro che fanno rumori macabri, lunghi corridoi continuamente tirati a lucido da ricoverati con spazzettoni allungati da prolunghe arrangiate alla bell’e meglio e circondati da pareti da rinfrescare, finestre lerce e cortili esterni colmi di immondizia lanciata dalle finestre delle celle, unica forma di ribellione contro un sistema in cui bisogna sopravvivere. Tutto attorno a te parla di malattia, i colori vanno dal bianco al verde, ma la dominanza è per il grigio cemento, grigio sporco, grigio delle facce di chi sta male… Attorno a te una pioggia continua di carta che ti avvolge nel quotidiano, ogni cosa che fai, che dici, che chiedi, viene scritta, fotocopiata, distribuita… persa e allora devi ricominciare a scrivere una, due, dieci, diciotto volte, passano così i mesi nella perversa condizione del postulante alla ricerca di risposte. Ogni giorno uguale all’altro, scandito dai turni degli agenti e del personale sanitario, la notte tutti sono chiusi nelle celle, tutti al loro posto. C’è bisogno di ordine altrimenti la sicurezza non può essere garantita. In cella ci vivono in tre, in dieci metri quadri, con il bagno e il televisore per il quale è necessario contrattare i tempi e le modalità d’uso coi compagni di cella. Fumare è quasi obbligatorio, come fai ad impedire ad un malato che contiene la sua ansia con la sigaretta di andare a fumare in fondo al corridoio alle tre del mattino col blindo chiuso.
Oggi, finalmente, dopo più di due mesi sono riuscita a portare dentro i costumi e gli oggetti per lo spettacolo nuovo. Ci stiamo lavorando da diversi mesi, ormai mancano pochi giorni alla prima, mancano ancora delle cose ma noi abbiamo provato quasi tutti i giorni, alcuni cominciano ad avere anche un po’ di memoria pronta, è uno degli obiettivi che ci siamo dati: facciamo uno spettacolo colorato, divertente e senza leggere il copione, dobbiamo fare i conti, però, con la malattia e le terapie, a volte alcuni non riescono a concentrarsi o vengono invasi da una stanchezza improvvisa che li costringe a letto.
Mentre apriamo le borse con cui ho portato dentro i costumi, dopo che tutto è stato controllato dal personale di polizia penitenziaria, tra i sorrisi e la sorpresa di ritrovarsi in mano ciò che abbiamo immaginato per mesi, entra un attore, uno dei più giovani e capaci, si siede in un angolo. Avrei dovuto immaginarlo, ieri non è venuto alle prove, mi ha mandato a dire di essere stanco, a volte succede, il pomeriggio è pesante per chi prende la terapia. Ma a lui manca poco, a fine mese lo aspetta la comunità, terapia non ne prende, forse qualcosa per dormire. Cominciamo a provare lo spettacolo, ora tocca a lui. Mi chiede di sostituirlo, oggi non se la sente, non vuole fare più nulla, non trova più il senso di ciò che sta facendo, più si avvicina la data di uscita più emergono le paure delle proroghe. Meglio chiudersi, aspettare fermi e in silenzio, immobili, statue di cemento, grigie, pesanti come i loro pensieri.
Quando uno va in crisi, non te lo dice, lo devi capire ed accogliere nel suo desiderio di essere considerato e ascoltato nei suoi silenzi. Fermo le prove, il gruppo ha già capito e piano si mette in cerchio, questa è la modalità che attuiamo soprattutto nelle fasi iniziali del lavoro per dare circolarità alle idee, per guardarci tutti negli occhi. Lo guardo, lo chiamo, abbassa la testa, insisto, abbasso il tono della voce ma non ho intenzione di mollare, lui è troppo importante, non può andare un crisi adesso che manca così poco per uscire. Certo è importante anche per lo spettacolo ma ci siamo organizzati in modo da sostituire tutti in caso di necessità, non sai mai chi potrà uscire, se il magistrato o i permessi arriveranno in tempo, se uno non se la sentirà di affrontare il fuori. È una condizione di precarietà costante e continua, in contraddizione con il contesto statico e lento in cui lavoriamo, ma del resto il laboratorio di teatro dentro all’OPG è per sua natura anomalo e contraddittorio: una donna con 15 uomini sola in una stanza che li deve convincere costantemente a mettersi in gioco in modo del tutto inusuale e sconosciuto, che discute con loro di tutto e che spesso rivede le sue posizioni, che porta concetti politico sociali e che continuamente chiede loro di uscire dalle celle per occuparsi anche degli altri ricoverati, mentre l’istituzione ha tutto l’interesse a far sì che tutto rimanga immobile e che ogni individuo resti isolato.
In questo posto dove ti viene dato del lei, non viene mai usato il tuo nome di battesimo, ogni comunicazione viene data in un luogo appartato e deputato all’uopo, si è costruita una piazza dove la gente discute anche animatamente, ci si guarda negli occhi, si ride, ci si tocca e dove ci si prende cura uno dell’altro. Ci si siede in cerchio, si cerca di fare esercizio di democrazia, ogni persona è accolta con piacere, ci si conosce e si impara a stare insieme. Può essere scontato per chi vive fuori ma in OPG è difficilissimo: dove la malattia non ha intaccato gli strumenti relazionali delle persone ci ha pensato il sistema detentivo. Si ha paura dell’altro e ci si rinchiude nella specificità degli interessi personali.
Il gruppo chiede invece il rispetto delle regole e del progetto costruito negli anni, è disposto a crescere ma non a modificare la sua identità e finalità culturale e socio educativa. Parole grosse per dei matti che hanno sulla coscienza reati anche gravi. Ma sono anche e soprattutto persone, hanno avuto un passato, spesso sono state anche vittime, vivono l’oggi sopravvivendo senza intravedere il futuro; molto più facile e comodo per tutti fare finta che non esistano e dimenticarsi di loro.
Ma la vita preme contro le sbarre come le voci nelle loro teste, urlano per farsi sentire e diventano parole per dare vita ai sogni. Come sarà fuori? Fuori potrò essere veramente io. Fuori rivedrò i miei figli, fuori mi rifarò una famiglia, fuori ritornerò come prima. Nulla potrà più essere come prima, per forza di cose sarà diverso.
“Io aspetto di uscire, adesso nulla ha senso”. Mi avvicino a lui, ma si chiude ancora di più. Un compagno cerca di farlo ragionare parlandogli della fatica e dell’impegno che io metto nello spettacolo. No non è questo che serve, lo stoppo.
“Quando sarò fuori ricomincerò a vivere. Qui sono un cane morto”.
Sento che le risposte le sta cercando da me, non ha bisogno dello psichiatra a cui comunque riferirò in altro momento, sta mettendo in discussione il progetto, la sua finalità sociale, mi vuole dire: cosa andiamo a fare fuori, mettendoci in mostra e a discutere con il pubblico se poi non cambia mai nulla, si continuano a subire ingiustizie e violenze. Ho forse sbagliato a proporre un testo come Pinocchio? Ma dopo l’esperienza passata e le tensioni che “Aspettando Godot, l’ergastolo bianco”, spettacolo che invitava a riflettere sulle dinamiche carcerarie e sull’attesa, aveva causato, volevamo seguire i consigli di chi ci incitava a fare un testo che non parlasse sempre di OPG, soprattutto in questa fase critica di passaggio. Ho pensato che portare un testo per coinvolgere i tanti giovani che sono dentro perché hanno fatto uso di sostanze potesse convogliare il gap generazionale del gruppo su un terreno comune di tipo educativo verso le nuove generazioni, essendo ben consolidato e pronto ad accogliere nuove persone. Ho sottovalutato la necessità di discutere insieme di come vivono, di come attraverso il teatro esorcizzano le paure del fuori e del dentro?
Mentre lo guardo le mie riflessioni si fanno velocissime e cerco di sintetizzarle con poche parole. Ricordi cosa dici nello spettacolo? “Ci vuole un punto anche lontano verso cui guardare”. Ti potrai incamminare nel tuo viaggio fuori col tuo nuovo bagaglio di esperienze, con le competenze acquisite anche col teatro sei uno che sa imparare… Di questo posto non voglio portare nulla. Voglio tornare come prima. Sarà per forza diverso, tu sei diverso, non puoi rinunciare anche a ciò che hai imparato, hai avuto ottimi risultati, non li negare a te stesso.In effetti è un attore intelligente con buone potenzialità vocali, senso del ritmo, emerge sul gruppo anche per la sua presenza scenica. È giovane con un passato di tossicodipendenza un fallimento in comunità, o non so cos’altro, ma certamente non un reato grave, ora si sta facendo quasi due anni di OPG con la consapevolezza di avere subito una ingiustizia. Condivide gli spazi vitali con persone deteriorate a tal punto che a volte pensi di essere in quei terribili film di manicomi, gente di tutte le età con alle spalle crimini tremendi. Cosa ci possiamo dire? Cerco di evitare che il gruppo porti alla discussioni i relativi casi giudiziari, questo è il suo momento. Ho avuto fiducia in te, nelle tue capacità sono stata ripagata, non mi hai mai deluso mi hai insegnato tanto, sei importante per me e il gruppo.
Suona la campana si deve salire. Il capoposto mi dice che ci sono stati i tagli del ministero anche per i lavoranti, lui lavora in cucina. Per molti di loro quei pochi soldi che prendono per una giornata di lavoro significano il non dover pesare sulle spalle, in questo caso, della sorella. È uscito con lei per la prima volta cinque giorni fa dopo due anni. Chissà cosa si sono detti? Perché ora vuol mollare tutto? Facciamo un pezzo di corridoio insieme, mi conoscono tutti e spesso mi lasciano fare, sembra più sollevato. Oggi non abbiamo provato, ma questo era più importante, ho insistito io per fargli fare il nuovo spettacolo ben sapendo che lo dovrò sostituire subito dopo, lui è Pinocchio.
Il gruppo di quest’anno è composto da 15 persone tra i 24 e i 70 anni e le difficoltà più grosse le hanno avute i giovani. Discutere con loro di divertimento, sostanze, musica, rave è stato come minare alla base ciò in cui credevano, è stato esplicitato più volte da alcuni di loro rifiutando per esempio la parte di Lucignolo, però li sento cambiati, uno mi prende spesso il libro dalla borsa durante le prove e si assorbe nella lettura del saggio sui divertimenti dei giovani e sull’uso di sostanze.
Pochi di loro hanno superato la seconda classe delle scuole superiori poi è storia classica dopo le prime pasticche e cannoni coca, acidi, anfetamine, rave party, una spirale verso l’annientamento di sé. Li accomuna anche l’uso che fanno della musica, colonna sonora delle loro vite, dove il sentire è il senso che predomina.
Col teatro li porto al senso del vedere e del riflettere non solo su se stessi ma soprattutto su tutto ciò che è fuori da loro, si devono decentrare accogliendo l’altro non più come un compagno di giochi ma come una risorsa per mettersi in discussione. Avvezzi a considerare solo se stessi faticano maggiormente a stare alle regole del gruppo e ad assumersi le responsabilità che il lavoro richiede, spesso gli anziani tollerano a fatica i loro entusiasmi, ma poi c’è lo spettacolo che ci permetterà di stare fuori otto ore e non è poco, poi si vede gente sana, si ha la possibilità di essere riconosciuti non solo come i matti dell’OPG, ma come persone che con coraggio si presentano al pubblico dichiarandosi e rendendosi disponibili alla discussione.
È un momento importante quello del dibattito dopo lo spettacolo. A volte loro mi chiedono di fare un intervento di presentazione iniziale, c’è la paura che il pubblico non capisca. È necessario che venga capito tutto, loro si devono spiegare, fare conoscere, è il primo passo per affrontare con un minimo di fiducia un loro eventuale futuro tra i “sani”, testare come saranno accolti dalla comunità, valutare le possibilità di riuscire e di riuscita e sentirsi importanti perchè si sono fatti portavoce di tutti i dolori e le angosce di quell’inferno in cui sono chiusi per far sapere di esistere, per non essere abbandonati e dimenticati. Il teatro non solo gli permette di esprimere ciò che sentono e pensano ma soprattutto gli costruisce un contenitore come la parola che delinea i confini alle emozioni per far sì che i loro argini non straripino. La forza della parola sopperisce alla rigidità di un corpo inespressivo per la reclusione o le tensioni del contesto di vita. Passi il tempo della pena a capo chino in atto di sudditanza verso un sistema spersonalizzante che spesso prende il sopravvento e ti piega, ci vogliono anni per risollevare la testa e poter guardare di nuovo negli occhi chi ti sta di fronte.
Quando senti che la parola acquista colore vedi che anche il corpo si apre per accogliere il mondo, l’altro diventa un amico ci si tocca, ci si lascia toccare. Sono corpi che non ricevono mai abbracci, il calore del pubblico e gli applausi finali riempiono i troppi vuoti creati in anni di solitudine, perché in OPG sei profondamente solo, non ti confidi con nessuno, tutto potrebbe essere frainteso. Quando sei sul palco toccarsi è legittimo, puoi abbattere i muri che in OPG sono spesso anche necessari per separarti e difenderti da chi sta troppo male o può essere pericoloso. Finalmente ci si rilassa nella relazione, anche con me, osano qualche mano sulla spalla, io rispondo con un abbraccio caloroso che per rispetto non ricambiano. Sono sempre una unica donna con 15 uomini, la maggior parte di loro ha commesso crimini contro le donne. A volte mi chiedo cosa pensino di me, in che posto mi mettono nell’universo femminile. In tanti anni non ho mai ricevuto un gesto o una parola sconveniente. A volte abbiamo discusso di questo, soprattutto nei viaggi per raggiungere i luoghi di spettacolo in cui spesso io guido il pulmino e loro sono i trasportati, facendogli notare ironicamente i ruoli ribaltati. Può sembrare strano ma ridiamo molto, soprattutto di noi stessi, di malattia e delle situazioni paradossali che a volte si creano.
Sono quasi le 22,30 dobbiamo rientrare al più presto, potrebbero pensare ad una evasione, c’è una pattuglia della polizia, siamo evidentemente oltre il limite di velocità, se ci fermano che gli diciamo, che siamo un pulmino di matti e che torniamo di corsa in manicomio, o li spaventiamo dicendo da dove veniamo e che siamo scappati nella notte. Si cerca di esorcizzare così i rientri che sono sempre difficili e colmi di tristezza, si passano otto ore insieme dense di emozioni e di significato per loro e per me e il lasciarsi con la consapevolezza di ciò che li aspetta è triste. Anche quello è un momento nostro dove ci abbracciamo, ci diciamo le ultime cose prima di tornare ad essere loro ricoverati io un operatore.
Allora è vero, fuori siamo veramente noi e ci possiamo rivelare all’altro. Sembra che in tutto questo lo spettacolo sia un elemento superfluo invece è il motore dell’azione. Solo attraverso il teatro, con le parole pensate riflettute, scritte, con la magia delle luci e della musica, con gli spettatori e i loro respiri che diventano applausi si riesce a trovare la strada per parlare, per dare voce a delle anime chiuse. Il teatro ha la magia di farti incontrare l’altro, di guardarlo negli occhi per essere riconosciuti e amati. Dobbiamo uscire per dichiarare al fuori la nostra esistenza, testimoni di una società malata, portatori di dolore provocato e subito, alla ricerca del perdono. L’OPG ti cambia, ti costringe a fare i conti con te stesso e il teatro è un grande compagno di viaggio nella conoscenza di sé. Ti mette nudo davanti ad un pubblico che guarda e giudica. Ci vuole un grande coraggio, elemento indispensabile per affrontare una nuova vita.


Monica Franzoni
Testo pubblicato su
Il teatro illimitato. Progetti di cultura e salute mentale,
a cura di Cinzia Migani e Maria Francesca Valli
con la collaborazione di Ivonne Donegani, ed.Negretto, 2012


Pitbull all’aperto


Alla nostra festa il 24 maggio’14 abbiamo invitato il laboratorio di teatro dell’OPG di Reggio Emilia. È ammirevole la loro voglia di rappresentare la loro condizione, essere sul palco, anche per gli internati che non comunicano all’esterno. Chi partecipa al laboratorio ‘mette la sua faccia’ e si espone a rappresentare la popolazione degli internati, con tutto quello che può comportare. Non è da tutti fare questo e ogni partecipante avrà le sue motivazioni che lo portano a fare parte del laboratorio. Di sicuro questo spettacolo avvicina le tematiche dell’OPG a chi ascolta e informa sulle necessità di miglioramento del trattamento degli internati quindi deve essere riconosciuto un gran merito agli attori per la loro attività di sensibilizzazione. Un grandissimo ringraziamento alla responsabile del laboratorio, la regista Monica Franzoni, a ciascun attore internato e all’autista del pulmino che li ha portati da noi per la rappresentazione di Pitbull.




La gente ci chiede come facciamo a lavorare con queste persone…



Nonostante tutto il progresso di cui possiamo beneficiare c’è ancora molta paura nei confronti della patologia psichiatrica (spesso chi non è del settore ci chiede come facciamo a lavorare con queste persone).
Pensiamo che ci sia differenza nella storia di quelli che trovano una cura e una vita adatta a loro grazie a personale adeguato, e quelli che non hanno queste opportunità di terapia/assistenza (alle volte ci raccontavano che, nei piccoli centri, avere un familiare con questi problemi poteva essere visto come fallimento, una colpa e si doveva quindi provvedere ad allontanarlo, anche a rinchiuderlo). Che colpa hanno le persone con malattia psichiatrica?


Maria Dorini e Grazia Stella
azzurrosole@codess.com


La colpa


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Da un punto di vista psicologico


La colpa viene definita come un “atto o comportamento che implica dannose conseguenze verso individui o la comunità”. In ambito psicoanalitico non si parla di ‘colpa’ ma di ‘senso di colpa’, cioè dell’emozione che segue la violazione di un precetto o di una norma. La colpa è definita come una risposta spiacevole (anche con effetti fisiologici percepibili, come un nodo alla gola, una morsa allo stomaco, il rimorso) alla constatazione di aver ingiustificatamente trasgredito una norma o causato un danno ad altri con un’azione o con la sua omissione, assumendosene la responsabilità; la prima funzione del senso di colpa è quella di comunicare, a sé e agli altri, di essere colpevoli. La colpa, insieme alla vergogna, l’imbarazzo, il disprezzo, la timidezza e l’orgoglio, fa parte delle cosiddette emozioni complesse e della autoconsapevolezza. L’emozione della colpa è un’emozione sociale in quanto richiede qualcuno verso cui sentirsi in colpa e in quanto attiva comportamenti riparatori volti ad alleviare il danno arrecato a qualcuno: soccorrere qualcuno, riparare il danno arrecato a qualcuno, scusarsi con qualcuno. Si tratta di un’emozione sociale negativa, ovvero spiacevole, in quanto causa di sofferenza per chi la prova. La colpa possiede una valenza negativa anche perché ci dice che qualcosa che non volevamo che accadesse è accaduto (cioè il fatto di aver arrecato un danno agli altri). Infine, la colpa, insieme alla vergogna, è anche definita emozione morale, in quanto reazione a una trasgressione delle norme morali. L’emozione della colpa, infatti, emerge non prima che il bambino abbia interiorizzato le norme secondo le quali comportarsi e si riferisce alla cattiva condotta. L’orientamento psicoanalitico di Freud rappresenta il primo grande contributo teorico sul senso di colpa, spiegando l’esperienza emotiva e morale secondo una visione intrapsichica. L’autore ha suggerito che durante la prima infanzia il comportamento infantile è indirizzato attraverso le norme imposte dai genitori; successivamente queste vengono introiettate dai bambini e costituiscono l’istanza psicologica del Super- Io, che agisce come coscienza. In una prima fase l’autore ha suggerito che il senso di colpa è legato al Complesso di Edipo e ha origine dall’ansia infantile di perdere l’amore dei propri genitori e dalla paura di essere puniti per le fantasie e i desideri incestuosi provati nei confronti del genitore di sesso opposto (Freud, 1915). Successivamente, con lo sviluppo della teoria strutturale e del concetto di Super-Io, Freud (1923/1959) propone che questa emozione non è solo legata alla paura della punizione di una autorità genitoriale esterna, ma dall’ansia di persecuzione da parte dell’autorità intrapsichica rappresentata dal Super-Io. Il senso di colpa è, quindi, il risultato di un conflitto fra l’Io e il Super-Io e può avere una doppia origine, può essere suscitato dalla paura dell’autorità esterna, o dalla paura del Super- Io (o coscienza morale), cioè l'autorità interiorizzata. In accordo a questa teoria non si dovrebbe provare colpa finché non viene instaurato il conflitto edipico e l’identificazione con il genitore dello stesso sesso, verso il sesto anno di età. In modo simile, anche Rank (1929) ha suggerito che i bambini nel momento in cui mettono in atto un comportamento che viola le norme imposte dalle figure di riferimento provano una sensazione spiacevole legata alla paura di perdere l’amore materno, che opera tramite la punizione per mantenere integra la relazione. Tuttavia, Rank (1929) critica il concetto di Freud (1923/1959), secondo cui il senso di colpa si origina nel periodo edipico. L’autore individua l’origine dell’angoscia nell’atto della nascita, che è considerata come un trauma psicologico dovuto al processo di separazione dalla madre e al seguente processo d’individuazione. In linea con tale teoria suggerisce che il senso di colpa si sviluppa più precocemente rispetto a quanto proposto dalla psicoanalisi classica, ovvero nel periodo pre-edipico a causa dell’ansia di separazione dalla figura materna all’inizio del processo di individuazione.



Da un punto di vista giuridico


Partendo dalle definizioni sopracitate e quindi dal fatto che nella colpa e nel senso di colpa c’è sempre il rapporto con l’altro, entriamo nell’area del diritto. Il diritto, genericamente, può essere inteso come ‘autorità’ statale che impone a tutti di seguire delle regole, pena una sanzione. La sanzione, prevista dal diritto, presuppone il concetto di imputabilità. È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere. In diritto penale si definisce imputabilità, o idoneità al reato, la condizione sufficiente ad attribuire a un soggetto l’azione penale e a mettere in conto le conseguenze giuridiche. Pertanto, nessuno può essere imputabile se al momento del reato non era in grado di intendere o di volere: ● capacità di intendere, vale a dire attitudine dell’individuo a comprendere il significato delle proprie azioni nel contesto in cui agisce. ● capacità di volere, intesa come potere di controllo dei propri stimoli e impulsi ad agire. Va precisato che il concetto di capacità di intendere e di volere va inteso come necessariamente comprensivo di entrambe le capacità: l’imputabilità viene dunque meno allorché difetti anche una sola delle suddette attitudini. L’incapacità non esclude l’imputabilità quando è dovuta a colpa del soggetto. L’istituto della colpa è abitualmente inserito, nell’ambito del diritto penale, nella trattazione dell’elemento soggettivo del reato, essendo collegata al problema del disvalore e della illiceità della cosiddetta volontà colpevole. Il ‘Codice Rocco’ (articolo 42 del codice penale, comma secondo) recita: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”. Pertanto la legge punisce anche il delitto commesso per colpa; tra i vari tipi di colpa previsti dal diritto i più affini alla riflessione sul senso di colpa possono essere i seguenti: - COLPA COSCIENTE. Il reo ha previsto ma non ha voluto l’evento. - COLPA INCOSCIENTE. Il reo non ha previsto e non ha voluto l’evento. Nel primo caso il soggetto è rimproverabile perché, prevedendo, avrebbe potuto orientare la propria condotta in senso inverso rispetto all’azione lesiva o pericolosa. Nel secondo caso egli è rimproverabile perché gli si richiedeva di prevedere, in modo da poter evitare l’evento. Infine, anche il diritto civile punisce la commissione di un fatto lesivo commesso per colpa. L’art. 2043 del codice civile sottolinea che la lesione di un interesse giuridicamente tutelabile implica di regola responsabilità, sia se è prodotta dolosamente sia se è cagionata per colpa. In tale settore del diritto la colpa assume maggiore rilevanza rispetto al dolo perché per il perfezionamento dell’illecito è di solito ritenuta sufficiente una condotta colposa.




Approfondimenti a cura della dott. B. De Virgilis, tirocinante in psicologia www.associazioneumanamente.org


La colpa da un punto di vista etico religioso


Incontro con don Nildo Pirani,
parroco emerito di San Bartolomeo della Beverara



Definizione di Colpa e Peccato, il loro rapporto nel corso della storia

Questo è uno dei punti oggi più discussi nella riflessione teologica. Porterò alcuni esempi: all’inizio della Messa c’è un momento che si chiama ‘Atto penitenziale’, che si conclude con l’invocazione: “Confesso a Dio onnipotente che ho molto peccato, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Qui i concetti di colpa e di peccato vengono messi insieme. La colpa è un concetto personale e intimo. Prima del Concilio Ecumenico vi era una sovrapposizione fra peccato e colpa. Questo creava una situazione di svantaggio, poiché la colpa fa riferimento alla cultura, al contesto sociale e religioso, per cui la legge dovrebbe dire chiaramente cosa è colpa e cosa non lo è. Oggi colpa e peccato vengono tenuti distinti, e ciò ha messo in atto una situazione per cui nessuno va più a confessarsi, perché una volta ci si andava per liberarsi dalla colpa, per ‘svuotare il sacco’, e il peccato non veniva preso molto in considerazione. Tutto ciò ha portato a uno sbilanciamento, perché alcuni peccati sono azioni che vengono disapprovate anche dal concetto comune e dalla coscienza personale, ad esempio l’omicidio è universalmente condannato, altre cose no, come per esempio il non pagare le tasse, che alcune persone vedono come una azione da persone furbe.
Una volta non pagare le tasse non era nemmeno un reato. Svincolare i due concetti può avere vantaggi e svantaggi: le persone che non sono religiose, potrebbero dovere affrontare solo la colpa e non il peccato. Nel Medio Evo le persone andavano a chiedere al sacerdote come dovevano comportarsi se venivano in mente pensieri cattivi verso i fratelli, e quindi raccontavano quali azioni e pensieri avevano commesso. Così è nata la pratica della confessione ‘auricolare’, venne istituito il confessionale, con la grata per non indurre il prete in tentazione quando si presentavano le donne. Aggiungo che, un tempo, la confessione era riservata a casi che avessero disturbato la comunità.
Ad esempio, chi aveva ucciso o dichiarato di rinunciare al Cristianesimo, prima di essere riammesso nella comunità doveva fare la quaresima, cioè doveva stare per quaranta giorni davanti alla chiesa e spargersi il capo di cenere, questo fin dal Medio Evo. Chi si confessa, oggi, va da una persona di cui ha fiducia, infatti le persone dicono: “Mi confesso da lei, ma non vado da un’altra persona…”. Ecco, allora questa non è una vera confessione, è più una specie di terapia.
Oggi, per definire una azione come ‘peccato’ ci devono essere alcuni elementi: la materia grave, la piena avvertenza, la piena coscienza e il deliberato volere (così, ad esempio, chi è sotto tortura non commette alcun reato, poiché è stato indotto a parlare). Uno dei punti in cui si avverte la distinzione tra peccato e colpa è il campo della sessualità, perché è stato creato un senso di colpevolezza così grande che il peccato è quasi stato soppiantato dal senso di colpa. Oggi la società si è liberata anche troppo e ognuno fa ciò che ritiene opportuno… è difficilissimo che oggi una persona venga a confessarsi per peccati sessuali e non ha torto, perché la Chiesa non ha il diritto di entrare nell’intimità.


Immagini e racconti delle Scritture che possano aiutare a comprendere la colpa.

Nelle Scritture c’è un punto in cui, secondo me, c’è una distinzione precisa tra peccato e colpa, dove si racconta dei peccati commessi dal Re Davide. Nonostante Davide sia una figura di re santo e buono, in un momento di onnipotenza commette adulterio e assassinio, quando si invaghisce di una donna e la mette incinta. Allora Davide manda a chiamare il marito della donna per chiederla in sposa, ma il marito rifiuta. Davide allora, organizza una trappola per fare raggiungere all’uomo un punto pericoloso, dove egli viene ucciso, e così Davide può prendere in moglie la vedova. Successivamente a questi eventi, un profeta va a trovare Davide e gli racconta una storia che narra di un uomo ricco, il quale, per fare festa, prese l’unica pecorella di un suo vicino che non aveva altro e che l’amava moltissimo. Davide insorge al racconto, esclamando che quel ricco uomo è colpevole e merita la morte. Al che il profeta gli fa notare che, quanto narrato nella storia, è simile a ciò che ha fatto Davide, ai peccati da lui commessi. Il profeta mostra a Davide come appare la cosa all’occhio di Dio: è vero lui ha sposato la donna che aveva messa incinta e non ha materialmente commesso un omicidio, ma di fatto ha commesso adulterio e provocato la morte del marito della donna. Questa narrazione illustra il fatto che davanti al popolo Davide non ha colpa, ma davanti agli occhi di Dio sì. Quindi il peccato si colloca in una dimensione religiosa, nel rapporto dell’uomo con Dio. La coscienza può avere a che fare sia con la colpa che col peccato. Ad esempio, se un bambino si mette le dita nel naso, nonostante sappia che ‘non si fa’, può sentirsi in colpa. Potrebbe esserci un peccato che non prevede nessun senso di colpa e una colpa che non prevede il peccato.


Come avviene il perdono? Come il pentimento? Come mi aiuta Dio, se mi sento in colpa?

Bisogna vedere il motivo per il quale ci si pente, perché se il motivo è l’angoscia, allora siamo caduti nel senso di colpa e Dio non c’entra: praticamente uso il mezzo della confessione solo per sentirmi meglio. Invece, se viene da dentro, allora significa che ho accettato il giudizio di Dio su quello che ho fatto, a prescindere dall'opinione personale. In tal caso possiamo dire che è pentimento; allora si può dire che, mentre il peccato distrugge il rapporto fra essere umano e Dio, il pentimento è invece un atto creativo, cioè porta al perdono di Dio nei confronti della persona, alla ricostruzione del legame. Vi è sicuramente una forte influenza del ‘peccato originale’: oggi è preferibile riferirsi alla ‘origine del peccato’, per cui il racconto su Adamo ed Eva non è il racconto del ‘peccato originale’, ma della ‘origine del peccato’, che consiste nel mettere in dubbio la parola di Dio, nel mettere sotto processo Dio. Così, il peccato, vale a dire il rapporto sbagliato con Dio, crea delle conseguenze: se uno stacca la corrente, non si vede più nulla. Adamo, invece di lasciarsi trovare da Dio, si nasconde. Il pentimento, invece, consiste nel ritornare a Dio con un atteggiamento diverso da quello che ha causato l’allontanamento. Il rivolgersi a Dio, però, non è necessariamente indice di pentimento, quando diventa solo un mezzo per ottenere ciò che desideriamo, cioè l'attenuazione della nostra angoscia personale... a volte è l'unica cosa che le persone però sono in grado di fare. Circa il chiedere scusa, ho imparato una cosa interessante da una mia amica musulmana: mi diceva che, quando si commettono peccati nei confronti di altre persone, è nostro dovere chiedere perdono a loro, non solo a Dio. Nel chiedere perdono a Dio, bisognerebbe chiederlo anche ai fratelli, poiché il perdono concessoci da Dio, non elimina i danni fatti. A questo tema è collegato il grande capitolo delle indulgenze. Le indulgenze sono stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso tra Cattolici e Protestanti. Il perdono è un atto creativo, di Dio, però rimangono le conseguenze di ciò che hai fatto, sei perdonato da Dio e quindi sei una nuova creatura, ma devi anche pensare e avere a che fare con le conseguenze delle tue azioni. Nel caso delle indulgenze, l'intervento della Chiesa, attraverso i suoi protagonisti, poteva alleviare la pena. Ad esempio, se fosse intervenuto un martire, allora c'era una azione grandiosa che poteva alleviare la pena: tu sconti la pena, io intercedo per te, ‘lavoriamo’ insieme all'alleviamento delle pene del peccatore... Abbiamo l'esempio di Padre Pio, che diceva che metà pena la faceva lui per il peccatore.


L'esperienza personale di un parroco nei confronti delle persone che si sentono in colpa?

Nella mia esperienza ricordo di persone che si confessavano in continuazione perché nonostante questo il senso di colpa rimaneva, e allora questo non è positivo. Se io continuo a sentire il senso di colpa, debbo andare dallo psicologo o parlare con persone amiche. Dio perdona sempre se la richiesta è autentica, è il cuore che, spesso, continua a condannarci.


Storia dell'inizio di un processo


Palermo - 1986 - Aula Bunker
Il Presidente della Corte d'Assise fece entrare Tommaso Buscetta, che si sedette (cinquanta carabinieri intorno a lui, che era in una ‘scatola’ di vetro antiproiettile) e gli chiese semplicemente: “Lei è il partito Tommaso Buscetta?".
Il Boss raccontò poi a Enzo Biagi (ne ‘Il Boss è solo’, lunghissima intervista negli U.S.A., non priva di sonore menzogne, tradotta poi in libro) che era molto agitato, ma che quel lapsus del Presidente lo mise subito a suo agio. E iniziò : " Non sono un pentito”...

Pino Arlacchi, Addio Cosa Nostra


La colpa, il tormento e ‘il nuovo’



Mi è sempre riuscito ostico (anche nella saletta psicoanalitica) parlare sinceramente delle mie colpe passate. A volte anche nettamente realistiche, ma velatamente e sottilmente disconosciute o proiettate.
Bimbetto difficile e rompiballe prima, seminai, ad esempio, nel mio ricordo assolutamente inconsapevole del rischio, un paio di piantine di cicuta in mezzo al prezzemolo dell'orto casalingo, con gran spavento di mio padre che mi chiese solo, accorato e dolente, di sradicarle, come feci puntualmente e diligentemente. Adolescente poi, inquieto ed irrequieto, sempre rompiballe ma soprattutto tremendamente ribelle, volli tentare con un amico una scalata in montagna, ‘mascherata’ ai genitori come una gita innocente, arrivando però in vetta al tramonto del sole e pernottando lì all' addiaccio e al buio, con rischio di infarto dei miei genitori, quando videro che mancavano le corde di nylon, cotone e gomma, e di quelli del mio compagno di sventura (non c'erano infatti, in quella epoca, i cellulari).
E così via... ma per i miei familiari tutti, quanti rospi e pensieri, che andavano a sommarsi a quelli, già cospicui, loro personali! Comunque sempre compattamente, ostinatamente ma benevolmente, protettivi. Adulto infine e finalmente, ma ancora molto bizzarro e ribelle soprattutto alle regole imposte. Eh sì, come già molti adolescenti maturi si rendono conto, esistono anche delle responsabilità del figlio verso i genitori e del fratello verso i fratelli (o perlomeno, il dovere della sincera riconoscenza).
Per non averli compresi, nelle loro difficoltà o nei loro bisogni, o nelle loro richieste anche esplicite o quasi, di aiuto. È dirompente, spaventosamente apparentemente incontrollabile la commozione, nel momento della scoperta (se emotivamente autentica) e del ridimensionamento delle naturali e più o meno marcate, ma consuete, e probabilmente normali incomprensioni familiari. La mia rabbia e dolore svaniscono e subentra un sentimento dolce e malinconico, liberatorio e sincero...
E il nuovo. Il Matteo un po' zingaresco e curiosamente esplorativo. Una poesia o uno scritto. Nuove amicizie, nuove ‘aperture di campo’, o un piccolo (o grande) amore. Ma comunque, sempre, un pizzico di saggezza e molta rinnovata ricchezza interiore in più.


Lettera di un figlio al padre



Credo che la tua prova più difficile, nella tua già durissima vita, sia stata la ‘paternità’: non avevi un modello al quale richiamarti (nel bene o nel male) essendo morto tuo padre (mio nonno) quando ancora eri in fasce...
Ci sei riuscito. Con tre figli, ognuno diversissimo dagli altri, col quale rapportarti, hai chiesto talvolta aiuto (saggiamente) a persone sagge: ma non ve ne era bisogno. Tre figli: per parte mia ti ho fatto inutilmente penare, ma ero così, e tu comprendevi.
Nel momento dell'ultimo distacco, ti dissi inconsapevolmente (volontà divina?) un bellissimo "grazie!" e non lo scorderò mai: tu eri triste, presagivi qualcosa... Vedevi nel futuro, non solo quello famigliare e filiale, ma anche politico e sociale: cercavi di spiegarci... A più di trenta anni dalla tua morte, ti ricordo così: un po' giustamente scanzonato, un po' (troppo!) preoccupato.


Lettera di un figlio alla madre



Cara mamma, negli ultimi anni della tua vita, e prima che ti ammalassi gravemente, siamo riusciti a donarci sprazzi di confidenza reciproca.
Se accennavo velocemente a ‘dettagli’ passati e per me importanti, mi dimostravi di ricordare tutto e di aver compreso - da sempre - circostanze e particolari che credevo miei ed intimi. Che sorpresa per me, ma era difficile anche per te: per la nostra - comune - naturale ritrosia a svelare le proprie emozioni e pudori, andavamo per il tempo di veloci battute: sembravamo due schermidori che - improvvisamente - incrociavano le armi e si abbracciavano, per poi riprendere la mai sopita battaglia. Eh sì, il nostro rapporto non era facile: ti ho sempre accusata, nel mio intimo, di esser troppo riservata, sospettando però presto - e col tempo - che tu non volessi privarmi della mia (quanto reclamata!) libertà interiore o, peggio, ferirmi nell'animo. Consapevole, probabilmente più di me, delle mie fragilità. Quante paure e chissà quali mai colpe ci allontanavano: tu hai portato con te, dal babbo, cose che non saprò mai, ed è giusto così: sii serena, ora, con lui.


L’orgoglio e la colpa



Non sono modesto, e ne soffro sinceramente. Combina - guai, rompiscatole bambino nevrotico, misi a dura prova mio padre nel suo (già per lui difficile) mestiere di genitore e feci talvolta soffrire mia madre, che ricorreva però spesso ad un dono speciale: il sano buon senso. Chi mi vuole bene e soprattutto conosce me e la mia vita ‘anteatta’ - come direbbe un giurista un po' fanatico usando una espressione sovente incollata ai rei, nel commisurar loro la pena - mi osserva e ci sorride su. Abitualmente mi ritrovo però in difficoltà: scatta la fuga e l'amara solitudine ormai già più volte sperimentata.
"Che fare ?", diceva Lenin, una volta fatta la rivoluzione… Già, che fare?
Personalmente sono sempre stato convinto che il cerchio è tondo: sebbene il cammino sia ancora lungo e la strada ancora tortuosa, ricca di finte ramificazioni che sembrano andare di qua e di là, giungerò comunque infine all'unica mèta possibile: un benevolo sorriso al prossimo, qualunque ne sia l' occasione.


L’assoluzione



Riflettere. La luce, o con sé pensare? Perché qui sta l'errore: parlare con sé...
Meglio davvero rifletter la luce e a qualcuno poi farla vedere, scegliendo da sé chi non possa tradire... Il pensiero rimane, è dentro di te, mentre la luce comunica.
Lo vedi negli altri che stanno con te: il confessionale, il dottore... Al primo tu dici: “Che male ho mai fatto, o mio Signore, per meritare questo, senza rancore?”. Il primo ti dice: “Il cerchio è rotondo”. Il secondo ti dice: “Sempre così è andato il mondo”. Non sono discordi le due voci amiche: all'una ti affidi, all'altra dici. Dici: “Dottore ... non so più cosa fare. Mi sento un po' vecchio ma saggio da dire: Dottore mi aiuti, non voglio morire”. “Di colpa, ma quale?” lo dicono entrambi, sorpresi nel dire: “Vivi la festa! Non ti ferire di colpe non vere”. La festa c'è, ed è la vita. “La piaga è benigna: non ristagna, viene a galla e si cura”, dice il dottore. E il dottore lo sa… che hai anche un altro amore.


Matteo Bosinelli


La colpa


Sono capitata - è lunedì - nella stanza, senza un poco di più di me, senza niente e per te era una colpa, del niente cose, di niente vestiti, né niente dei ricordi di me.
Ma era per me un gaudio felice e un dolore magnifico, il sospetto che dietro alla porta, mamma, ci fosse qualcosa anche per me, ma non trovai nulla, solo robe vecchie che censii, per una bambola regalata da un'amica che era dal nulla vista, dal nulla riconosciuta, un po' anche per il bello di una colpa d'amore.


Paola Scatola


La colpa secondo me



La colpa, il senso di colpa verso sé stessi, si sente quando si capisce che non si è fatto quello che si poteva e doveva fare, magari per pigrizia, o si è fatto qualcosa che ci ha danneggiato magari per leggerezza, tipo una grande mangiata per scontentezza, per riempire un vuoto e il giorno dopo ci si sente in colpa perché non si è in pace con sé stessi, perché questo nasconde qualcosa che va affrontato.
Senso di colpa perché non si ha avuto voglia di impegnarsi in un compito difficile o noioso, ma necessario per colmare delle carenze, il che ha impedito di raggiungere un obiettivo importante che ci si era prefissi e ci si sente in colpa, ci si vede come in realtà non si è, perché non abbiamo stima in noi stessi. Non è poi così difficile riparare, si cerca di affrontare la situazione disagevole dandosi da fare immediatamente prima che il tutto abbia il sopravvento su di noi, anche se il compito costa fatica, è difficile o noioso, ma quello che conta è che alla fine ci si senta appagati, perché si è superata questa sensazione sgradevole di impotenza e di colpa, direi perché ci si è gratificati facendosi del bene, dimostrando cioè a noi stessi di avere avuto la forza di volontà di superare tutto ciò, cercando di raggiungere l’obiettivo che ci eravamo prefissi. Un po’ tortuoso ma è facile da capire. La colpa e cioè il senso di colpa, quello peggiore, è un qualcosa che tutti più o meno sentiamo, sempre se abbiamo la coscienza e un senso di giustizia per capirlo, relativamente alle nostre azioni verso il prossimo. Purtroppo, o per fortuna, ogni volta che questo sentimento mi pervade, vedo di allontanarlo da me immediatamente, facendo un esame di coscienza, ammettendo i miei limiti e in secondo luogo chiedo scusa se ho fatto o detto qualcosa che ha potuto ferire qualcuno. È un fatto di umiltà e rispetto di sé e quindi degli altri, è una riparazione a un proprio errore, e non è poi così semplice ammettere di avere sbagliato e chiedere scusa, perché ciò comporta un esame spesso doloroso e una buona dose di umiltà. E non è vero che, in generale, tutti sappiano chiedere scusa, anzi molto spesso le persone (alcune almeno) non lo fanno proprio, perché è difficile assumere le proprie responsabilità e ammettere i propri limiti e difetti, mentre è molto più semplice scaricare le proprie colpe sugli altri facendo finta di niente, perché fare un esame di coscienza è spesso difficile e doloroso e anche una buona conoscenza e consapevolezza di sé non è poi così scontata. In verità a chi non sa chiedere scusa succede che deve difendersi con un atteggiamento aggressivo, addebitando e proiettando le sue colpe su chi effettivamente ha subito un torto, e si crea così un circolo vizioso in cui non si arriva mai a un rapporto aperto e leale, si distorce la relazione e chi è vittima di una ingiustizia diventa quasi l’artefice di un comportamento sbagliato (a volte inconsciamente ci si sente in colpa senza avere fatto proprio niente di male), perché chi ha colpito preferisce fare sentire in colpa l’altro, per paura di soccombere affrontando il giudizio della propria coscienza, ovviamente negativo. E quello che più fa paura è che il colpevole fa proprio finta di niente e la vittima subisce una velata, ma sottile e strisciante… una vera e propria violenza, e il finale di tutto questo è che si crea un rapporto malato, per la vigliaccheria, spesso per la grettezza e superficialità e anche una buona dose di ignoranza e tutto quello che ne consegue: cattiveria, egoismo, mancanza di umiltà e sensibilità di persone che non vogliono o non riescono ad affrontare sé stesse per paura del loro io più profondo e del giudizio di questo. Dovrebbero completamente cambiare il loro modo di fare ed essere; ecco quello che più fa paura: cambiare.
Chi subisce è considerato un debole, mentre il vero artefice delle azioni sbagliate è persona bassa, piccina, violenta, crudele e arida, che non sa affrontare sé stessa e non si assume le sue responsabilità, per cui preferisce far soffrire gli altri che soffrire personalmente per ciò che ha fatto e chiedere scusa, come se chiedere scusa fosse un sintomo di debolezza, senza capire che sarebbe solo un punto a suo favore per dimostrare invece la sua forza. Chiedere scusa… Basta poco in fondo e chi non riesce a farlo con le parole lo può dimostrare semplicemente con il comportamento o le azioni, il che gli fa ancora più onore. Ma non tutti quelli che non riescono a chiedere scusa sono poi così cattivi, forse gli manca il coraggio di farlo, ma non facendolo penso che si sentano molto peggio e che ne soffrano pure. Il senso di colpa deve essere analizzato affrontato e distrutto subito e ciò significa ammettere i propri errori, affrontare sé stessi, i propri limiti, ed elevarsi di livello chiedendo scusa con umiltà.
Per questo le mie colpe le ammetto anche per egoismo, non le voglio sentire addosso, ma cerco di allontanarle subito comportandomi di conseguenza, e con questo sto meglio io e anche gli altri, e il mio rapporto col mondo migliora. Il senso di colpa è come una malattia che può distruggere te stesso e gli altri se non viene ammessa e affrontata.


Francesca


Colpa, peccato, perdono


Non c'è dubbio che quando sento, chiacchierando con qualcuno, la parola ‘colpa’ la prima cosa che mi viene in mente è il senso di colpa: pensare che la proposta cristiana quando parla di ‘peccato’ stia pensando al senso di colpa è uno dei principali e più dannosi malintesi. Io il senso di colpa lo descrivo così: quel forte disagio che provo quando non sono come dovrei essere. Naturalmente a questo punto la questione si complica: come dovrei essere, la mia immagine ideale, chi lo stabilisce?
Certo l'educazione ricevuta, la cultura che si vive, le convinzioni personali, l'adesione ad una fede o ad una ideologia... E il come io sono, chi lo può dire? A volte siamo troppo severi con noi, altre troppo indulgenti, ci fermiamo su caratteristiche del nostro carattere forse non decisive e magari non ci accorgiamo di grandi pregi o grandi difetti... Ed infine si complica anche il modo di reagire al senso di colpa, perché nel disagio nessuno sta bene: c'è chi non fa niente sperando che il disagio si affievolisca col tempo, chi rifiuta tutti i valori assimilati per non sentire più alcun senso di colpa, chi rimane schiacciato sotto i suoi sensi di colpa, il suo sentirsi inadeguato...
I sensi di colpa ci appartengono: in alcuni casi ci possono momentaneamente aiutare a capire un errore commesso, in tanti casi non ci aiutano a vivere meglio le relazioni, comunque non possiamo toglierceli, tutt'al più possiamo cercare di maturare rispetto ad essi. Ma non sono loro il punto di partenza di un cammino nella fede cristiana, che è fondamentalmente un messaggio di liberazione e di gioia. È vero che questa gioia è quella di chi si sa perdonato, ma allora quando faccio due chiacchiere ‘spirituali’ con qualcuno a questo punto devo cercare di spiegare che il senso del peccato non è il senso di colpa. Il senso di colpa si gioca tutto a livello individuale: mi dà fastidio non essere come dovrei. Il senso del peccato è invece: mi dà fastidio perché avevo da fare qualcosa di bello con te e mi sono tirato fuori. Un esempio tratto dalla vita di coppia. Se ti ho in qualche modo tradito posso sentirmi male perché sono deluso di me, non pensavo di essere una persona che fa soffrire; ma comunque il senso di colpa mi fa ripiegare su di me: in fin dei conti mi dispiace per me, per come mi sono comportato. Invece se dopo quel che ho fatto, certo, ammetto di aver sbagliato, però mi dispiace soprattutto per noi, per la relazione che è stata ferita, per il progetto bello che avevamo, allora quello assomiglia più al senso del peccato. Nel primo caso il perdono dell'altro sarà comunque un ribadire che non sono stato adeguato, e mi farà sentire inferiore, umiliato. Nel secondo caso il perdono dell'altro è il poter ricominciare insieme il progetto comune di vita, e sarà un momento di gioia. Ecco, penso che senza questa spiegazione rimanga difficile capire come il cristianesimo sia la gioia dell'essere perdonati. Non riesco ad immaginarmi Dio come uno che agitando il dito indice alzato mi dice “Eh, eh, così non va per niente bene, ma che razza di figlio sei, ma non ti vedi? Sono deluso di te”. Me lo immagino piuttosto come un padre che mi affianca e mi dice “Senti, non hai più voglia di aiutarmi a cambiare il mondo? Guarda che se vuoi io ti riprendo volentieri a far parte del mio sogno che sto realizzando”. Questo è per me il perdono, quello che libera e dà gioia.


Don Paolo


La colpa e lo Zen


Se l’uomo produce e attiva in sé il suo io e il suo ego, che associa o mette in competizione con quello degli altri, produce in sé e negli altri sofferenza, colpa e peccato. Se però riesce lentamente ad escluderli da sé... E se poi anche gli altri lo faranno... Potrà avere accesso alla comprensione de:


Il giusto o nobile ottuplice sentiero

1) giusta fede,
2) giusto pensiero,
3) giusto parlare,
4) giusta azione,
5) giusto modo di vivere,
6) giusto sforzo,
7) giusta memoria,
8) giusta meditazione.

Il nostro corpo è un segmento x-y nel quale graficamente si possono disegnare arrivi e partenze. Si avrà:


pagina 1


Dopo di che, se si riesce ad avere consapevolezza di queste otto coscienze, in noi diminuisce, fino a sparire, la sofferenza.


Luigi Zen


Non Rubare


Sembra una cosa banale,
ma ti devo chiedere
di non rubare!
La tua è un arte?
Un grande lavoro?
Perché lo stai facendo?
Fai male agli altri…
Prova a pensare
solo per un attimo
come fai sentire i derubati,
li rendi scontenti,
ma soprattutto sfiduciati
verso le persone…
Se non sai come fare
a campare
vai a lavorare!
Rubare è l’antilavoro,
serve per avere i soldi facili,
con poca fatica.
Vuoi essere odiato da tutti?
Non preferiresti avere degli amici
invece d’incutere paura?
Che cosa fai?
Lascia stare quella borsa,
non entrare nella villa,
perché stai sfilando quel portafoglio?
Non lo sai,
ma anche se stai sottraendo
solo una caramella a un bambino,
non è bello quello che stai facendo!
Si inizia con le piccole cose,
poi ti troverai a rapinare le banche…
Tu hai una coscienza
che ti rode dentro
e che ti fa capire
che quello che fai è ingiusto
per una volta
prova a seguirla.
Gli onesti non sono stupidi,
al contrario
amano la loro quieta serenità,
non sbagliano…


Loopa Sonivree


Il mio cielo


Mi illumino nell’incanto
di un’argentata luna.
Nella notte dai suoni ovattati
mi dirigo verso il ‘mio cielo’.
Cielo di speranza, gioia e serenità,
ove le nubi dell’odio si dissolvono
con un soffio di vento.
Così mi illudo di vivere
in un mondo di pace e fratellanza
che all’unisono svelano
melodie soavi.


Giovanna Giusti


Bellissima


La tua bellezza
sta alle farfalle
come Dio a chi pecca

Sei l'unica
che possa sciogliere
questo groviglio di pensieri
e di tenebrosa tristezza

Accoglimi
col velluto delle tue labbra
(amami appassionatamente!)

E come in un passaggio onirico:
dopo di te
cielo splendente!!


Piergiorgio Fanti


Fatto


Smarrito e piegato,
bucato,
bucato steso.
Fatto.

Sanguina dentro e fuori.
Sceglie il pene morto
per evitare
tutto.
Fatto.

Di madre assente,
di padre assente.
bucato al sole,
bagnato, steso,
asciugato.
Fatto.

Ne ho visti vagabondare,
elemosinare fra i rifiuti,
ai bordi delle strade,
ai bordi delle case,
laccio al braccio e via…
Morto e distrutto.
Fatto.

E i signori non sanno.
Fatti loro.
Fatti e fatto.

Zero centesimi, buco.
La verità è storta,
di contrabbando,
disfatta. Fatto.


Marcella Colaci


Per Antonio M. Serra


Sarò la tomba,
silenziosa e muta,
in cui giacerai,
la sigaretta che fumerai.
Vorrei essere il tuo costato
quando respira.
Vorrei avere sempre con me
i tuoi occhi neri,
di diamante luce.
Grazie perché…
Tanto mi hai dato,
grazie perché…
tanto mi dai.
Un gatto nero guarda
distratto
tra la siepe del giardino e l’albero.
Sei albero tu, o stella mia, cuore mio,
anima gemella, trasparenza leggera.
Sei acqua pura, viva.
Acqua che toglie la sete per sempre.
(Ho scordato le chiavi di casa.
Un topo è morto.
La luna è piena, grassa, bianca.)
Lupo solitario sei. Ed io lupa.
Ti amo.


Ave Manservisi


Senza titolo


Le ali dell’aquila in volo sono grandi.
Maritozzi al purè vedo su di me
e mi lavo i piedi e le mani
cercando di volare alto anch’io
ma non ho più fiducia in te,
cara ciabatta rotta.
I tuoi fiori sono secchi
e non parlano d’amore
a chi ancora piange un defunto.
Gli innamorati si baciano tenendosi la mano,
gli uccellini cantano sempre,
fanno concerti di armonie stellari.
Io e lui ci vogliamo così bene
come stretti da catene e ghirlande di rose,
avvinghiati all’unisono per sempre
fino alle ossa del sepolcro insieme.
Tra gigli ed aquiloni sul mare blu
senza nubi, senza indugio.
Acqua trasparente,
angeli cherubini, allegri bambini.
Aquile noi, nel cielo lontano.


Ave Manservisi


La colpa



La colpa è un lungo treno
senza fine
e senza biglietto,
un treno di cui
non si vede la fine.
Ma non sono sicura
che la fine ci sia
e lei stessa non sa
da dove è venuta
e qual è il punto
in cui si può scegliere
di mandarla via.
Vorrei la pace
vorrei il silenzio
vorrei che un giorno
finisse quest’ospite non invitato
che oscura tutto il mio cielo.

Daniela Mariotti


Giglio 2


Si sfila verso terra il nuovo nato
gli occhi dischiusi a un blu di piombo.
Non lo sa ma ha già peccato
e non sarà mai puro
come un fiore.


Ermanno Bitelli


La colpa


Sì, mi duole il cuore
se, eccone il ricordo,
tanto tempo fa,
quando mi presi il treno
e me ne andai da te.
Eri tutto
eri mio
ma poi tutto si ruppe,
e perdio!
Quando mi hai chiamato
ero tutta io
poi scomparve l’essere
e rimase l’io: alla volta,
alle volte te conservai,
ma divenne un lampo
ciò che nell’andare
anche tu conoscerai.
È amore non è un addio
proprio a te che sei l’uomo mio.
Proprio te ho chiamato
non un addio,
ma un arrivederci, addio.
Ti ho lasciato andare via
quelle mani dal cuore
le posai sull’asfalto
in calore.
Ti ho guardato, tanto e poi
tanto andare ogni volta
via uomo mio
che ti ho ripreso le mani
sul cuore mio.


Paola Scatola


Italia: 150 anni – Canti vibranti


Sono Canti vibranti nell'aria
Narran tutti la nostra Storia.

Il Piave mormorava
Passavano i Soldati per l'Unità d'Italia.
Monte Grappa tu sei la mia Patria
Nacque il Canto per un Capitano
Va pensiero sull'ali dorate
Tà pum! tà pum!
Sul cappello c'è una lunga Penna Nera
E le Giberne che noi portiamo
Sole che sorgi
Sui Colli nostri i tuoi cavalli doma.

Partono i sommergibili.
Da lontano un Canto, Giarabub
i nostri Soldati nel deserto.
Sul Ponte di Perati, Bandiera Nera
È per gli Alpini che non son tornati.

La Bandiera dei tre colori
È sempre stata la più bella
Noi vogliam la Libertà.

Un giorno, all'alba "FRATELLI d'ITALIA
L'ITALIA s'è DESTA". Nella musica antica
Ci sia una voce nuova. È disumano pronti alla morte.
"UNITI SIAM FORTI! L'ITALIA SARÀ, SÌ ".

Primavera MMXIV


Luigi Monaco


Per colpa di Kubrick


Si parlava della colpa.
Che colpa ne ho.
Mi venga un colpo.
La colpa è femmina, chiedere ad Eva.
Lei dirà che la colpa è del Serpente,
e siamo da capo.
Forse ci vuole Re Lucertola.
Jim diceva che i rettili
rappresentano le forze del male:
approccio titanico,
quello a me più caro.
Quanto al cinema,
vedi Stanley Kubrick…
Che dire, Eyes Wide Shot
tratto dal romanzo Doppio Sogno.
Non è colpa di nessuno
se questa mail è un po’ onirica...
Nel caso, date la colpa a me!


Giovanni Romagnani


Poesia


Qual umile donzella
che di colpa si è macchiata
non osa alzar lo sguardo altero,
è un lusinghier pensiero
col principe danzar.

Danza con piè leggiadro
lo sguardo suo è fugace
con la fluente chioma
fa gli uomini incantar.

Lei spera nel perdono
ma per codesto dono
ha i santi da pregar,
perché dall'uom terreno
perdono non ottiene
per la cruenta colpa
la pena ha da espiar.


Mariangela Soavi


L’ombra


Rubata che non ho mai avuto
all’ombra del Parkinson
si dilegua e sfa.
Di memoria affranta
di occasioni mancate
di recupero tardivo
del coraggio deposto
sul rivo del quotidiano
s’intridono alba e tramonto
della speranza e della vita.
I solchi restano:
il vivere non è dato
in una dignità deposta
su un marmo levigato.
S’aggroviglia il morso di quali colpe finché
spolpata della sua carne
la virtù scolora nella trasparenza.


Ermanno Bitelli


La colpa


Se ho sbagliato c’è un perché,
se ti ho voluto bene c’è
un ennesimo perché:
ma ti ho perso col cuore e con l’anima
prima di averti lasciato andare.
Ed è una colpa non averti più offerto
carezze, ma con gli occhi
ti ho ridato quella stima
che forse è stata di più di una carezza.
Ciao, zio, ciao, a presto.
Ma io non ero più con te cauta
e la colpa sta sempre nel mezzo.


Paola Scatola


pagina 1

Dal numero 51 (febbraio 2013) della rivista Liberalamente
il giornale del fareassieme della Salute Mentale di Trento

Quando la malattia si trasforma in un senso di colpa


Quando penso al senso di colpa mi viene in mente il racconto “La metamorfosi” di Franz Kafka. Il protagonista Gregor Samsa si sveglia un mattino per andare a lavorare ma non riesce ad alzarsi dal letto. Si è infatti trasformato in un enorme insetto. Un insetto che pensa e ragiona come un essere umano, come Gregor, ma che è imprigionato nella corazza di un animale orribile. La sua famiglia vive questa situazione assurda con orrore e rifiuto. Gregor è diventato per i suoi famigliari solo un peso di cui sbarazzarsi al più presto. Un giorno il padre gli lancia contro una mela che lo ferisce e che lo farà morire. Il giorno stesso della sua morte i famigliari, alleggeriti, festeggiano facendo una gita in campagna.
Quando ci si ammala spesso ci si sente un peso per la famiglia ma quando questa malattia si protrae nel tempo, come nel caso delle malattie della nostra mente, il senso di colpa si quadruplica. Infatti non sta scritto in nessun manuale quanto tempo possa durare il processo di guarigione e talvolta si ha l’impressione che gli unici responsabili del nostro star male siamo proprio noi.
Non equipariamo la nostra malattia a una polmonite, a una malattia cardiocircolatoria, al diabete. Il male di vivere è difficilmente classificabile e la sua cura non è facile e scontata. Sembra – a noi e a chi ci sta vicino – che questo malessere sia frutto della nostra immaginazione, una scelta di comodo per evitare i problemi, una forma di pigrizia. Ci ammaliamo per una serie di motivi: l’ambiente, la storia familiare, il patrimonio genetico, i caratteri ereditari, le situazioni di stress, il caso. Ma nessuno sceglie di stare male. Consapevolmente. Colpevolmente. Con dolo. Eppure il senso di colpa non se ne va.
Vediamo i nostri fratelli, i nostri amici che pur essendo cresciuti nel nostro stesso ambiente, pur avendo conosciuto anche loro degli insuccessi, hanno reagito in modo diverso e non sono caduti nella malinconia, non si sono lasciati andare. Il confronto con gli altri spesso ci uccide perché ci misuriamo sempre con chi è migliore di noi, non con chi è più infelice e sfortunato. Il senso di colpa può distruggere, la sensazione che la responsabilità di una situazione negativa sia solo nostra e non anche degli altri ci fa vivere male.
Tutti noi sbagliamo. È normale che facciamo errori. Ma macerarsi nel senso di colpa è sbagliato, non serve a cancellare gli errori e a riportare la situazione a come era una volta.
Talvolta facciamo cose stupide: per seguire l’istinto o il bisogno di trasgressione facciamo scelte di cui poi ci pentiamo. Paghiamo con la sofferenza, nostra e altrui. Siamo fatti così. Sbagliamo, soffriamo, ci pentiamo e poi sbagliamo di nuovo e così via.
È difficile vivere senza sensi di colpa. Ma dopo la colpa arriva la possibilità di riscatto, di riprenderci, di essere perdonati e di cominciare da capo. Si tratta di esperienze di ogni giorno che caratterizzano la nostra umanità.



Per colpa di chi?


Per colpa di chi?
Ma deve essere sempre per forza colpa di qualcuno?
Per una volta diciamo di no!
Ci sono già abbastanza angeli della nebbia, vero Luciano?
Perché aumentarli!
Adesso hanno chiuso anche il Roxy Bar! Andremo da Mario!
Colpa d'Alfredo.
E se fosse colpa nostra, tutte le volte che giriamo lo sguardo, quando non ascoltiamo il respiro della solitudine, per inebriarci del nostro.
Gli angeli della nebbia sono intorno a noi: o con noi o con loro.
In Emilia c'è nebbia!
Nessun pericolo per...te!
Nessun pericolo per te, che non ti senti in colpa.
Che non odi l'indifferenza che avvolge i malati mentali, sommersi da montagne di pastiglie e da complici “Come va?”.
Adesso basta!
Anzi come direbbe il buon Blasco Rossi, "Basta poco".
Per quello che riguarda me, Giovanni Romagnani, mi si escludeva!
E per colpa di chi, non certo di funky Gallo.
Come Zio Rufus per anni sono andato in giro portando a zonzo la mia pipì.
Per colpa di chi.
DI CHI HA PIANTO CON GLI OCCHI MIEI E NON CON I SUOI!
Per chi non ha avuto il coraggio di prendersi le proprie responsabilità.
Gli operatori psichiatrici fanno spallucce e dicono… colpa d'Alfredo.
Ma io ... Vado al massimo.


Giovanni Romagnani


Un contesto fattivo


Comincio a scrivere per Noi. Per me è un esordio.
Entrare a far parte della Redazione è stata per me un'esperienza entusiasmante, di cui ringrazio Lucia.
Ho potuto cominciare a dare un volto a tutte quelle firme che incontravo sul giornale. Ora conosco chi scrive.
La Redazione è una realtà molto composita: al suo interno ci sono molte specificità. Spero di portare garbatamente anche la mia.
In tandem alla Redazione partecipo anche al Corso di Grafica-Web, condotto dal pirotecnico Marco. Un'esperienza nell'esperienza.
Per ora chiudo qui, ringraziando tutti di avermi dato una psichedelica scintilla di entusiasmo, con cui la sera dormo più tranquillo.
Sono stato inserito in un contesto fattivo: non è poco. Nella speranza che il faro illumini anche l'etere, chiudo qua.


Giovanni Romagnani


Lutto


…abbandonandomi, che io non diventi per te ira divina…


Ormai ero un donna di cinquantasei anni temprata dalle avversità. Negli ultimi tempi stavo cercando di elaborare il lutto per la morte di mia madre. Come ho già detto in uno scritto precedente, non avevo versato una lacrima e il dolore era ancora tutto dentro di me. Frequentavo un gruppo di scrittura. Ci incontravamo ogni settimana, aprivamo a caso l’Odissea, ne isolavamo una frase e poi scrivevamo. Quella volta la frase suonava così: “abbandonandomi, che io non diventi per te ira divina” . Come al solito non sapevo da che parte cominciare, dove andare a parare. Isolai subito la frase “che io non diventi per te ira divina”. Non sapevo a chi si riferisse e mi sentii un po’ persa. Allora recuperai la parola “abbandonandomi”. Spesso io mi abbandonavo ai miei pensieri, alle mie farneticazioni e partivo per viaggi imprevedibili. Mi piaceva molto scrivere e l’immaginazione non mi mancava. Era un lasciarsi andare, quello che la frase stava a significare. Io mi abbandonavo frequentemente alla mia immaginazione. Stavo bene con i miei pensieri, li cullavo, li accarezzavo, li coccolavo, in tal modo non si sarebbero trasformati nell’ira divina.
Avevo l’impressione che il tempo mi avrebbe molto aiutato a superare la morte, la fine di una esistenza, quella di mia madre per l’appunto. Come mi sembra di avere già detto, ora mia madre viveva dentro di me, con lei potevo colloquiare in qualsiasi momento. Mi tornavano in mente tanti momenti vissuti con lei in positivo e in negativo. Avevamo tante volte litigato e giurato di non volerci più vedere. Certo l’esistenza di mia madre si era protratta per ottantotto anni e lei aveva avuto modo di esprimersi, anche se non si era mai realizzata e questo le pesava. Nello stesso tempo lo faceva pesare sugli altri. Era stata una donna forte, temprata dalle avversità, aveva affrontato con coraggio interventi chirurgici che ledevano la sua femminilità. Io mi ero detta tante volte di non essere stata una brava figlia, ma nello stesso tempo mi chiedevo se mia madre era stata una brava madre. Ma forse queste considerazioni non avevano molto senso. Mia madre era stata lucida fino agli ultimi istanti della sua esistenza. Era stata ipercritica, fino alla fine, mi aveva invitato ad andare a pettinarmi persino negli ultimi istanti della sua esistenza… “Come stai, cara Clem?” (così l’avevano battezzata dei parenti romani che di tanto in tanto andavano a trovarla). Era bella, la mia mamma, questo mi veniva da dire… “Come stai, cara Clem? Com’è la vita in cielo? Ci sono davvero gli angeli? Domani andrò dal parrucchiere e so che questo ti farà felice. Eri bella, cara Clem, anche quando la tua esistenza si era spezzata, ispiravi forza, tenacia, bellezza, eleganza. Eri elegante, cara Clem, avevi fatto diventare elegante anche me. Come stai cara Clem? Ci sono gli angeli del Beato Angelico in cielo?”.


Maria Chiara Reitani


Il cavallo alato


Sette fra gli uomini più intelligenti, giovani e intraprendenti del mondo affrontarono il lungo cammino che conduceva alla residenza di Grande Re e gli chiesero in dono tutto ciò che desideravano: la conoscenza del mondo, la felicità dello spirito e la gioia del corpo. A sei di loro Grande Re donò sei magnifici cavalli alati, che liberi volavano sul mondo, su tutto ciò che esiste e su tutto ciò che non esiste, donando loro tutto quello che avevano chiesto.
“Ma attenti, saggi cavalieri, perché ogni cavallo è creato per uno solo di voi. Se mai un altro uomo provasse a cavalcarlo, egli mai si alzerà nel cielo, mai condurrà altri alla conoscenza, alla felicità, alla gioia”.
All’ultimo dei giovani Grande Re donò invece muli. Non un solo mulo, ma tutti i muli che egli desiderava e che avrebbe desiderato.
“Grande Re, è questa forse giustizia? Io sono intelligente, giovane e intraprendente come tutti gli altri, e come loro aspiro alla conoscenza, alla felicità e alla gioia. Perché dunque non dai anche a me un cavallo alato?”.
Grande Re non rispose e a tutti comandò di andarsene. Mentre l’ultimo dei giovani si avviava verso la sua infinità di muli, gli altri si librarono nell’immensità dei cieli. Mai erano stati tanto felici: con il magico cavallo alato volavano sul mondo, credevano che tutto ciò che esiste fosse ai loro piedi, nient’altro esisteva, se non il proprio cavallo alato e il mondo, piccolo, lontano.
Erano felici, avevano tutto ciò che desideravano, il loro cavallo alato. Erano indescrivibili le emozioni che provavano a cavalcarlo, a cavalcare lui solo. Tanto che ciascun cavaliere si dimenticò degli altri, convinto che nessuno avrebbe mai provato sensazioni così straordinarie, convinto che solo lui provasse emozioni così forti e profonde.
Il tempo passò, tanto velocemente che nessuno di loro saprebbe dire quanto. E ora la conoscenza, la gioia e la felicità sparirono, tutte insieme, nello stesso istante: volare non era più tanto bello, il cavallo alato volava sempre alla stessa altezza, eppure sembrava che calasse ogni giorno. Il mondo non era più una piccola macchia sotto i loro piedi, ma qualcosa d’immenso che mai avrebbero potuto conoscere. Lo stesso cavallo non era più quel magico dono che sembrava, ma qualcosa su cui avevano sprecato la loro vita, non cavalcandone nessun altro e non conoscendo nulla di ciò che davvero esisteva. E ormai non sarebbero riusciti né a scendere a terra né a cavalcare il più vecchio dei muli, ormai erano alla fine dei loro giorni.
Quando Grande Re li richiamò a sé, tutti loro gli chiesero: “Grande Re, perché ci hai presi in giro? Perché ci hai donato un solo cavallo, perché ci hai illuso di avere tutto, conoscenza, gioia e felicità, quando invece abbiamo sprecato la nostra vita cavalcando un’illusione?”.
Quello stesso giorno Grande Re aveva chiamato anche il settimo dei cavalieri, quello che aveva avuto in dono solo muli. Appena vide il Re si inginocchiò: “Grande Re, ti ringrazio per il tuo dono. Mai ho volato sul mondo, mai ho pensato che tutto fosse al di sotto dei miei piedi e dei miei muli. Mai ho preteso di possedere la assoluta conoscenza, gioia e felicità. Mai ho posseduto un cavallo alato, ma tanti, tantissimi splendidi muli: nessuno di loro è stato come un altro, non ho mai finito di stupirmi conoscendo ognuno di loro, che è stato unico e bellissimo. Ti ringrazio e benedico il tuo dono, Grande Re”.


Simone Bargiotti


La vignetta di Riccardo La Rocca


pagina 1


DAZZENGER


● Una perturbazione rumorosa è un temporale, ma se è silenziosa? È un temposcritto.
● Su quale autobus non saliresti perché è molto tempestoso? Il venti.
● Se dei pomodori nascono vicino ad una cava d’argento, diventano pomodargenti?
● Quale insetto ci aiuta a scendere? Cicala.
● Cosa succede ad una sigaretta se la calpestate? Diventa una sigacurva.
● Cos’è un evaso? Un vaso che scappa.
● Cos’è un canestro? Un cane con dell’estro.
● Cos’è un lampone? Un lampo molto grande.
● Qual è la pietra preferita dai ladri? Il rubino.
● In un gruppo di persone allegre, ce n’è uno serio e dice: “Voi avete riso, ma io ho spaghetto!”


Darietto


La posta


Cari e care lettrici de Il Faro,
davvero bello il vostro giornale e costruito con attenzione e passione su temi importanti.
Grazie per l'ospitalità al bellissimo centro culturale, grazie anche per le torte e il sedano secco! Alla prossima! Come si dice in teatro.

Marinella Manicardi




Cara Marinella, grazie di aver accolto la proposta di mandarci un messaggio e grazie per i graditissimi complimenti. Farò mettere il tuo indirizzo e-mail fra gli amici del Faro, in modo da fartelo arrivare puntualmente in pdf. Tra parentesi, ti dirò, Il Faro è fierissimo di averti fra i suoi amici e se avrai voglia ogni tanto di scriverci o di mandarci un tuo contributo ci farai un grandissimo piacere.
Girerò la tua e-mail alle signore del Centro Sociale “2 agosto1980”, e in particolare ad Adriana, la 'creatrice' del sedano secco e di tanti simpatici preparati per una cucina semplice e anti spreco.
Hai ragione, il Centro è bellissimo e il 'salotto' del venerdì meravigliosamente caldo e accogliente, grazie alle persone piene dei entusiasmo che lo animano e un po' anche a noi de 'Il Ventaglio di ORAV', l’associazione che collaborando nei pomeriggi del venerdì vi ha aperto uno spazio a libero accesso per le persone con disagio psichico.
Sono stata felice di incontrarti e di apprezzarti, oltre che per la tua bravura di attrice, per la bella persona che sei.
Un abbraccio.

Lucia per Il Faro





Trovo Il Faro una bellissima e interessante pubblicazione.
Per quanto riguarda le nascite, oggi il mondo non è più quello del passato. Vi voglio trasmettere una delle mie tante filastrocche che illustrano bene il concetto.

COSTA CARA LA CREATURA
Ogni coppia prega e sogna
che gli arrivi la cicogna
ma la sera si tormenta
ci fa i conti... e s’addormenta.
Costa cara la creatura
e subentra la paura
che lo Stato, poi, le imposte
anche a lui le fa più toste.
Tocca in fondo ad ogni nato
il cliché “supertassato”.
Costan care le pappine,
le scarpette e le tutine,
i ciuccetti e i pannolini,
le cuffiette e i bavaglini.
Se la mamma è poi occupata
rischia d’esser licenziata
quando è in stato interessante
o alla luce dà l’infante.
Per le visite e le cure
le batoste son sicure
e son pure salassate
per gli asili e per le “tate”.
Troppo costano i marmocchi!
Tra le balie ed i balocchi,
carrozzina e marmellata,
se ne vola la mesata.
Costa cara l’istruzione,
l’onestà e l’educazione...
Torneranno nel futuro
a premiare il nascituro
come un tempo fece il Duce
per chi allor venne alla luce?
Che non sia però un balzello
per comprare un “cicciobello”
o far festa al nascituro.
Si assicuri a lui il futuro
per far sì che i nuovi nati
sian d’aiuto ai pensionati.

Roberto Grillini




Grazie caro Roberto, per la tua amicizia e la sempre gradita collaborazione.

La Redazione





Cara Concettina,
ti trasmetto il testo della bella poesia del prof. Monaco “Canti vibranti”… Il prof. Monaco recita la poesia con voce stentorea e a tratti cantando. Ti assicuro che in questo modo originale le parole sembrano discendere direttamente nel cuore di chi ascolta.
Mi sono dimenticata di dirti che quanto ho consegnato la copia del Faro da te datami, il prof. Monaco è rimasto molto colpito e contento. Ho fatto anche il tuo nome, perché gli ho riferito del tuo bel gesto spontaneo e generoso nel pubblicare le belle poesie. Ha ringraziato molto!
Con l'occasione ti preannuncio che mi sto interessando di un giovanotto abruzzese di quasi 94 anni, mitica classe 1920, nato a Cagnano Amiterno AQ. Voglio fargli avere tutti i riconoscimenti possibili! La moglie Silvana già mi ha chiamato per ringraziarmi. Ti dice niente il cognome Morelli? Un caro saluto.

Luciana Chirchiarelli




Grazie Luciana, per aver inviato la poesia del prof. Monaco. Anche se non abbiamo avuto la fortuna di sentirla dalla viva voce dell’autore, l’abbiamo apprezzata molto, specialmente per la sua conclusione, che condividiamo in pieno.
Un caro saluto a te e al professore.
Attendiamo con piacere nuovi contributi.

La Redazione


Girando la “Trottola” si è fermata a Torino


Sabato 5 aprile 2014, sveglia alle 5.45, giornata uggiosa a Bologna, con Andrea ci mettiamo in viaggio da Ponte Ronca per andare all'appuntamento con Franca, Floriano e Marco che gentilmente ci danno un passaggio fino alla Stazione Centrale di Bologna, dove insieme al resto della troupe (il gruppo è formato da diciotto persone che frequentano abitualmente con tante altre "la Trottola") partiremo con meta il Museo Egizio, che in ordine di importanza è soltanto secondo al museo del Cairo.
Il treno parte puntuale alle 7.34. All'altezza di Modena, Franca passa da tutti noi con qualche bene di conforto (snack salati e dolci e da bere). A Torino, dove siamo arrivati dopo circa quattro ore, ci attende una gran bella giornata, calda ed assolata (la telefonata ai "Piani Alti " si è rivelata efficace).
Avendo la prenotazione per la visita al Museo intorno alle 15.30, chiediamo e giriamo un po’ per la città, per trovare un posto per pranzare. Anche se l'avevo visitata lo scorso anno, camminando ho visto posti nuovi veramente belli, effettivamente trovo che Torino sia una città da visitare, anche se un po’ cara.
Poiché non tutti avrebbero visitato il Museo, il gruppo si è diviso in due sottogruppi, io ero tra coloro che avevano il desiderio di saperne di più sulla cultura Egiziana. Ho saputo che la storia dell'antico Egitto va dal 4.300 a.C. fino al 642 d.C. Al periodo del Predinastico (4.300-3.000 a.C.) risalgono manufatti di argilla e tavolozze di pietra a forma di pesce, che servivano a macinare i pigmenti colorati che gli Egiziani usavano per truccarsi. Le effigi di questo periodo raffigurano soggetti della natura, ho visto la raffigurazione di una bellissima testa di ippopotamo, uno degli animali più pericolosi, che viveva lungo il Nilo. All'Antico Regno (3.000-2.190) risaliva la statua bellissima, di pietra e legno, di una principessa che indossava una parrucca. Ho imparato che Teti era il capo dei sacerdoti della piramide di Cheope, il grande Faraone. Anche la statua che lo raffigurava era munita di una parrucca lunga fino alle spalle, con tanti boccoli.
Mi ha colpito anche il sarcofago di Mereru, che come altri sarcofagi di questo periodo (1.976-1.640 a.C.) è di forma rettangolare, con la raffigurazione del defunto con gli occhi aperti, per consentirgli di guardare fuori. Inoltre le imbarcazioni raffigurate, secondo gli antichi Egizi sarebbero servite per trasportare i defunti nella città di Osiride, divinità dei morti. Il Nuovo Regno (1.550-1.070 a.C.). A cavallo dell'epoca tarda, Sekhmet, una divinità dalla testa di leone sovrastata da un disco infuocato e un cobra chiamato Ures, moglie di Phah, proteggeva il re vittorioso e sconfiggeva i nemici con il suo soffio di fuoco. Akenaton (1.351- 1.334 a.C.) adorava soltanto il dio Sole, Aton, così furono abolite tutte le altre divinità. Ramesse II, che aveva in moglie Nefertari, è uno dei faraoni più celebri dell'antico Egitto; viene rappresentato con la corona blu, l'elmo da guerra e lo scettro. Il suo volto è scolpito con grande dovizia di particolari, infatti si vedono i fori sui lobi delle orecchie. Nel periodo intermedio si adoravano Iside, Osiride e Horus. Kotri era il dio del sole che sorge al mattino, sede della coscienza. Dulcis in fundo, era esposta la tomba di Kha.
Faccio i miei ringraziamenti a Giovanni Plaia, presidente del museo, che ci ha fatto da guida. Il viaggio di ritorno a Bologna è stato molto più breve in quanto abbiamo viaggiato con la Freccia Rossa.
Che dire di questa giornata? Per me è stata intensa, interessante e molto arricchente, forse mi piacerebbe tornarci ancora per visitare quei luoghi che non siamo riusciti a vedere. Adesso concludo perché erano circa quarant’anni che non scrivevo così tanto.


Michele Ferri


Un po’ di storia


Nasce nel 2006 un giornalino semplice semplice, definito ‘il giornale di tutti’ perché aperto alla collaborazione di chiunque abbia voglia di scrivere.
“L’idea primigenia – dice Fabio Tolomelli, il fondatore - è nata da un pensiero metaforico mio e di Cristina Cavicchi: offrire un attracco sicuro a chi durante la vita si è trovato di fronte a tempeste tali da perdere il senso dell’orientamento. È un po’ questo il sentimento che si prova quando ci si ammala. Non si riesce più a metter ordine alle idee che ti passano per la testa…”.
I contributi per la quasi totalità vengono da persone in cura presso i servizi di salute mentale e in qualche caso da familiari e operatori. Sono testimonianze, recensioni, racconti, poesie, in linea di massima attinenti a un tema che viene proposto di volta in volta. Il Faro offre al mondo del disagio psichico la possibilità di far sentire la propria voce. Fra le conseguenze positive, l’effetto ‘terapeutico’ che lo scrivere in sé e poi il vedere pubblicato il proprio scritto può dare a chi soffre; la consolazione di leggere che altri sono passati attraverso esperienze simili alle proprie; l’essere inclusi in un gruppo, anzi, in una rete di lavoro, in cui tutti sono portati a pari dignità e contribuiscono a realizzare un prodotto apprezzato; la diffusione all’interno dei luoghi di cura di un giornalino gradevole e interessante, da leggere nei tempi di attesa e da portare a casa gratuitamente; la presentazione all’esterno di una immagine della malattia mentale ben diversa dallo stereotipo usualmente percepito attraverso i mass media…
Col tempo il fascicolo diventa sempre più corposo e riceve testi, oltre che da singoli collaboratori, da gruppi di scrittura che si tengono in centri diurni, residenze, associazioni. Dal 2009 viene aggiunto un inserto con contenuti più scientifici elaborati da esperti. Il lavoro redazionale si svolge in modo ‘artigianale’, portandosi il computer da casa, dopo avervi salvato testi e immagini. Molti contributi arrivano scritti a mano, perciò devono essere trascritti. La redazione esamina i testi uno per uno.
Completato ogni numero si decide insieme il nuovo tema da proporre. Grazie a un accordo con il Dipartimento di Salute Mentale - Dipendenze Patologiche di Bologna, a partire dal 2011 un giovane utente in borsa lavoro presso Il Ventaglio di ORAV si occupa dell’impaginazione.
Con il progetto “Nuova luce per il Faro” (2013/14), finanziato dalla Fondazione del Monte, oltre al restyling grafico del giornalino è stato messo in atto un corso di grafica che ha coinvolto cinque utenti.
Nei primi tempi ogni numero veniva fotocopiato da volonterosi un po’ qua un po’ là, assemblato mediante uno strumento costruito da un ingegnoso redattore e infine distribuito alla spicciolata. Oggi Il Faro viene stampato in mille copie presso il Centro Stampa dell’AUSL, che ne assicura anche la distribuzione in tutti i Centri di Salute Mentale di Bologna e provincia.
La redazione si occupa della diffusione degli stampati all’esterno e dell’invio in pdf a un vasto indirizzario. Ora stiamo lavorando a un’organizzazione del lavoro più efficace, in modo da rendere regolare la cadenza e ampliare l’attività del sito internet.
Il nuovo Faro resta fedele comunque al modello iniziale, molto apprezzato dai lettori.


Lucia Luminasi


Soluzione dell’indovinello di Luigi Zen


Non disturbare il gatto che sta facendo il bidet!