Gaetano Previati: ‘Le fumatrici
di hashish’ - 1887 (olio)
Gaetano Previati nacque a Ferrara il 31 agosto 1852. A diciotto anni si
iscrisse ai corsi dell’Accademia di Belle Arti della sua città. Dopo la
vita militare, frequentò l’Accademia di Firenze con il Cassioli; in
seguito quella di Brera a Milano, con il Bertini.
Fu nel capoluogo lombardo che Previati iniziò la sua vera attività
artistica, brillando subito per modernità e abilità tecnica. Attratto
dal Romanticismo, si ispirò in un primo tempo al Cremona e al Ranzoni,
poi si accostò alla pittura di storia.
Il dipinto qui sopra è del 1887 e si inserisce in quel filone di arte
orientalista che, in Italia, ebbe il suo maggior rappresentante nel
Pasini e, a Bologna, in Fabio Fabbi. L’opera è permeata da un senso di
‘malsano’, di ‘colpa’ che ben rappresenta l’idea che a quei tempi si
aveva dell’Oriente. Il quadro raffigura alcune giovani donne che
fumano, abbandonate voluttuosamente su dei tappeti ammucchiati sul
pavimento.
In seguito, una delle ricorrenti crisi spirituali che contraddistinsero
la carriera di Previati, lo portò ad avvicinarsi al cromo-luminarismo.
Fu così che quando nel 1891 i divisionisti nostrani fecero la loro
“prima uscita pubblica” all’Esposizione Triennale di Brera, egli poté
esporre, accanto alle “Due madri” del Segantini e al “Parlatorio del
Pio Luogo Trivulzio” di Angelo Morbelli, una sua gigantesca “Maternità”
condotta secondo la nuova tecnica.
Da allora le composizioni del Previati si infarciscono sempre più di
letteratura e misticismo, d’altro canto piacevolmente ricche di
flessuosità Liberty.
Si deve rimarcare, comunque, che il maestro riportava in numerosi
scritti le sue convinzioni estetiche e le sue teorie pittoriche.
Morì a Lavagna (Genova) il 21 giugno 1920.
Piergiorgio Fanti
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L’editoriale
Si dice che tutto deve cambiare perché nulla cambi. Ed
è quello che è
successo a questo giornalino, che in realtà assomiglia molto di più a
una rivista. Di nuovo, infatti, Il Faro ha solo la veste grafica. Per
il resto stessa spiaggia stesso mare, che significa che il contenuto
non ha modificato la propria identità.
L'unica cosa diversa è il contenitore. Ciò nonostante, qualcosa in
questi mesi è cambiato: Il nuovo Faro, infatti, è frutto di un progetto
ad hoc pensato per valorizzare sia la redazione sia le persone che vi
scrivono, che sono soprattutto utenti in carico ai Centri di Salute
Mentale (Csm) di Bologna e provincia ma anche familiari, operatori,
associazioni, volontari e chiunque voglia esprimere il proprio pensiero
in merito all'argomento che di volta in volta viene proposto.
Il progetto in questione si chiama “Nuova luce per Il Faro”, è stato
finanziato dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e promosso
da un trio di associazioni: Il Ventaglio di ORAV (capofila), I Diavoli
Rossi e Spazio e Amicizia. Obiettivo? Consolidare e allo stesso tempo
far crescere, anche con nuovi innesti, una realtà che è nata nel 2006
per dar voce a chi soffre di disagio psichico.
Ecco allora alcune lezioni sulla legge sulla stampa, sulla composizione
editoriale e sull'analisi comparata di alcune riviste – rivolte a tutta
la redazione – e un corso di grafica editoriale frequentato solo da
alcuni membri che, dopo aver imparato a usare Adobe InDesign e
Photoshop, hanno poi impaginato il giornalino che state leggendo:
questo numero sotto la guida di un tutor, i prossimi in progressiva
autonomia. Inoltre la redazione – che nel frattempo è raddoppiata
passando da 8 a 16 componenti – è stata dotata di un pc portatile, di
due licenze software Adobe e di un mini modem (portatile pure quello)
con traffico Internet incluso.
Dall'impulso del progetto “Nuova luce per Il Faro” e grazie soprattutto
alla volontà del Dipartimento di Salute Mentale – Dipendenze
Patologiche dell'Ausl di Bologna, sono poi nati alcuni ISRA (Interventi
sociali riabilitavi attivi): ovvero delle specie di mini riconoscimenti
economici all'attività e all'impegno dei redattori che proseguiranno
nel tempo e che si adegueranno anche se in futuro dovesse cambiare la
normativa regionale in materia (le borse lavoro sono infatti oggetto di
un grande ripensamento). Il Centro stampa dell'Ausl, invece, continuerà
ancora a ‘regalarci’ la stampa di mille copie del giornalino che, come
sempre, saranno distribuite gratuitamente non solo nei Centri di Salute
Mentale di città e provincia.
Per dare un riconoscimento ufficiale (e legale) a tutto questo gran
lavoro abbiamo poi provveduto a registrare la testata in Tribunale e
stiamo dando nuovo smalto anche al sito web. Per ora ci trovate ancora
su http://ilfaroinsieme.blogspot.it.
Michela Trigari
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La colpa è come una brutta bestia
Quando sento pronunciare la parola colpa, penso subito
a qualcuno
che commette un delitto. Per questo triste significato nessuno vuole
macchiarsi della colpa, anche se è responsabile, perché ammettere di
essere colpevole vuol dire dover subire una punizione. Per questo
motivo chi commette un delitto o una grave infrazione deve rivolgersi
ad un avvocato affinché, se viene processato, non sia ritenuto
colpevole e quindi non sia tenuto a scontare una pena.
La colpa è come una brutta bestia, non la vuole nessuno, quando invece
si sta sempre più diffondendo la criminalità.
Ad esempio il delitto di femminicidio sta mietendo molte vittime e le
vittime sono donne indifese. Non c'è ancora una legge adeguata che
punisca i violenti, ultimamente tuttavia si stanno prendendo dei
provvedimenti legislativi, perché questo delitto è in netto aumento. La
violenza alle donne è abominevole, ma ciascuno di noi può fare
qualcosa. Se veniamo a conoscenza di episodi di maltrattamento e
violenza contro qualche donna bisogna segnalare il fatto alle forze
dell'ordine affinché la vittima venga protetta e non rischi di essere
uccisa, come tante altre.
Macchiarsi di questa colpa e di altre simili è molto grave ma, se non
vogliamo cadere nella trappola della colpevolezza, dobbiamo cercare di
non considerare di poca importanza le trasgressioni ed evitare i rischi
che possono portarci a macchiarci di qualsiasi colpa, non solo per
evitare la punizione ma per vivere una vita libera e felice.
Mariangela Soavi
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La colpa
Colpa di non aver dato abbastanza quando fu il tempo di
amare.
Colpa senza futuro per rimediare. Colpa che fa ancora male. Colpa di
non stare sempre
vicino agli angeli. Colpa di non essere guarita dal senso di colpa.
Colpa senza cammino. Colpa senza speranza.
Oh essermi fermata prima… Colpa di non aver guardato abbastanza il
cielo.
Eppure so che il tuo perdono vedrà anche me, poiché Tu solo puoi
sciogliere la mia colpa, se lo vuoi.
Daniela Mariotti
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Io sono un… malato di mente grave
Io sono un malato di mente grave da quando ho
venticinque anni, perché
tutti gli psichiatri mi dicono che devo fare una terapia pesante per
tutto il resto della vita.
Il giorno del reato, mentre il Pubblico Ministero pesa le sue parole
con i guanti, gli agenti mi trattano come un mostro. Invece di essere
portato in un ospedale per curarmi mi portano in carcere, sorvegliato a
vista per una settimana per paura che mi possa fare del male. Alcuni
agenti mi chiedono perché l’ho fatto, se ero cosciente. Dopo due giorni
mi fanno la convalida dell’arresto. La famiglia mi resta vicino ed è
l’unico conforto dato che sono sicuro che per il resto del mondo non ci
sarà più nulla da fare. Le visite dell’avvocato sono un po’ come oasi
nel deserto. Se non verrà riconosciuta la malattia rischio dai
trent’anni in su di carcere. Devo fare un mese di osservazione dove mi
lasciano due giorni senza terapia. Non riesco a dormire e il terzo
giorno faccio casino perché sto male, e finalmente mi danno la terapia.
In trenta giorni vedo la psichiatra una sola volta e vedo i lavoranti e
gli agenti di polizia penitenziaria quando urlo perché mi accendano una
sigaretta. Dopo un mese mi mandano in un ospedale psichiatrico
giudiziario, dove farò la perizia psichiatrica e solo dopo questa potrò
avere un colloquio con la mia famiglia.
Quando arrivo in OPG il dottore mi fa un colloquio, sono spaventato e
rispondo male alle domande. Di conseguenza mi legano ad un letto di
contenzione per quattro giorni. Il perito psichiatrico mi chiede se
sono cosciente di quello che sto rischiando. Io lo so, ma me ne
vergogno. Il giorno dell’udienza un agente di polizia penitenziaria fa
una similitudine con il mostro di Firenze. Vengo riconosciuto incapace
di intendere e di volere, di conseguenza vengo prosciolto e destinato a
dieci anni di OPG ed io mi vergogno di tirare un sospiro di sollievo.
Dopo una settimana di ospedale psichiatrico litigo con un paziente e
urlo, mi cambiano di cella.
Dopo due o tre mesi aprono le celle durante il giorno. Solo dopo
qualche mese comincio ad andare all’aria, mi faccio un anno e mezzo
chiuso in cella con altri due internati. Soffro molto per la mancanza
di privacy, io che prima mi isolavo. Dopo due anni ho incominciato a
frequentare un gruppo che faceva attività teatrale, palestra. Ora
d’aria, mi hanno dato dei permessi ad horas per l’uscita. La prima
volta ho avuto le vertigini appena uscito, una sensazione di spazio
aperto, di felicità.
Tuttora però, nonostante il medico mi abbia detto che sono in continua
progressione, mi rendo conto che alcuni miei pensieri non sono normali
e come tanti altri internati ho paura di parlare al medico curante.
Ho detto sinceramente al medico che sarò dipendente per il resto della
vita dal punto di vista farmacologico e sanitario, però non mi piace
che siano gli altri a farmelo notare. I pazienti ti chiedono se fai il
depot, come se fosse una discriminante. Mi sono dimenticato dei primi
mesi trascorsi in OPG, mi dicono che il cervello rimuove le cose
spiacevoli e traumatiche. Preferisco l’OPG al carcere, anche se
l’ospedale psichiatrico è lo sciacquone della società. C’è gente che
non ha soldi per bersi un caffè o per fumarsi una sigaretta. Qualcuno
si suicida, qualcun altro muore improvvisamente, come il mio ex
compagno di cella.
Bisogna avere forza di volontà. La prospettiva della comunità mi
impensierisce perché sono sempre stato un asociale, ma forse è proprio
questo aspetto che devo curare. Forse l’unica cosa che mi è rimasta è
il diritto di cura. Mia mamma aveva l’Alzheimer, mia sorella sentiva le
voci ed era una persona aggressiva. Io ero malato. In carcere un giorno
sono scoppiato a piangere, pensando alle condizioni di vita che avevamo
fatto e a come era finita.
Certo il gesto di perdono della mia famiglia è stato grande, bellissimo
e necessario al fragile equilibrio psichico che avevo dopo il reato, ed
è stato fondamentale per la mia rinascita. Durante questi lunghi anni
di internamento mi rincuora sapere che c’è qualcuno che ancora mi vuole
bene, su cui posso contare e sarà importante per il mio eventuale
ritorno a casa. Magari questo gesto fosse contagioso verso le altre
persone del mio paese… Io sono dall’altra parte delle barricate, dove
non si può pretendere il perdono, ma solo sperare. Sinceramente non so
se io sarei capace di perdonare qualcuno che tocca i miei cari. Poi c’è
anche quel lato intimo e nascosto del perdono.
Uno non può fermarsi all’ “Oh, mio Dio, che cosa ho fatto!”, ma non può
nemmeno fare finta di niente. Io devo tenere presente la violenza di
cui sono stato capace e lavorare su questo con tenacia e costanza,
senza pensare che basti il tempo per essere dimenticati e dimenticare.
Ora mi chiedo se è finita per me o se c’è un domani. La sofferenza
durante l’adolescenza sino all’esplodere della malattia…
Oggi senza la terapia ho paura di quello che potrei fare. Dieci anni da
trascorrere, con quale obiettivo? Guarigione, autosufficienza,
cronicità o, peggio, i rischi della recidiva. Sicuramente oggi non
riesco a pensare a me guarito, alcuni pensieri me li tengo per me, chi
me li farà cambiare?
Alessandro
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Senso di colpa (per avere scritto
quest’articolo?)
«Allora Giuda […] riportò le
trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti
e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue
innocente».
Ma quelli dissero: «Che ci riguarda? Veditela tu!». Ed egli, gettate le
monete
d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi.»
(Vangelo secondo Matteo, 27, 3-5)
“Che
ci riguarda? Veditela tu!” Credo sia esperienza comune che se c’è un
campo in cui dobbiamo “vedercela da noi”, e in cui l’aiuto di altri sia
del tutto inutile, è proprio quello in cui ci confrontiamo con i nostri
sensi di colpa. E se l’aiuto non ci può certamente giungere, come nel
caso di Giuda, da coloro che sono complici della nostra stessa colpa,
io credo non possa giungerci neppure dalle persone, ammesso che ve ne
siano, che riteniamo di avere offeso, quando esse ci concedono il loro
perdono.
Goethe consigliava di concedere il nostro perdono a chiunque ce lo
avesse chiesto, anche qualora ritenessimo di non aver nulla da
perdonare a quella persona, perché neanche alla più grande modestia è
consentito di ignorare l’altrui bisogno di perdono.
Ma temo che Goethe avesse un’idea troppo idealizzata dell’essere umano:
il fatto che ci sembri di avere bisogno del perdono, non significa
affatto che, una volta ricevutolo, questo lenirà il nostro senso di
colpa.
“Io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una
mala azione
già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La
parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte
e la trova deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso.”
(Italo Svevo - La coscienza di Zeno)
Ethan Brand, nell’omonimo racconto di Nathaniel Hawthorne, spende
l’intera vita alla ricerca del ‘peccato imperdonabile’, così
commettendo - secondo l’autore - l’unico vero peccato imperdonabile,
quello di escludersi, in questa sua folle ricerca, dalla comunanza con
gli altri uomini. Ma a ben vedere, almeno da un certo punto di vista,
ogni peccato (ogni azione e pensiero che ai nostri occhi appare
peccaminoso) risulta imperdonabile.
È vero, più che della colpa, sto parlando del senso di colpa, ma c’è un
ben preciso motivo se faccio ciò. Per quanto possa suonare strano, non
è la colpa a generare il senso di colpa, ma tutt’al più l’opposto.
Secondo gli psicologi dell’età infantile, i bambini sviluppano il senso
di colpa in età pre-verbale, entro il primo anno di vita, molto prima
di avere sviluppato dei concetti etici definiti, che stabiliscano cosa
sia colpa e cosa virtù. Dunque colpa e virtù vanno ad occupare delle
‘nicchie’ che già erano state preparate per loro, molto tempo prima.
La domanda che sorge spontanea è allora: in un diverso sviluppo
culturale della nostra specie, sarebbe stato possibile che quelle
nicchie venissero occupate da qualcosa di diverso dai comuni concetti
etici, come noi siamo abituati a concepirli? Ho il forte sospetto che
ciò sarebbe stato realmente possibile, e forse lo sarà in futuro, ma
interrompo qui questo discorso, che ci porterebbe troppo lontano.
Nella mitologia greca il senso di colpa era descritto come qualcosa di
esterno all’individuo che lo provava, le Erinni, che rappresentavano
appunto il senso di colpa, incalzavano il malcapitato colpevole, fino a
condurlo alla follia, e ad esse l’individuo stesso cercava di sfuggire
con tutte le sue forze, talvolta riuscendovi, come nel caso descritto
nella tragedia Le Eumenidi
di Eschilo. In breve: Oreste, macchiato del sangue della propria madre,
si appella ad Apollo ed Atena, perché lo liberino dalla furia delle
Erinni, e questi dèi convocano un regolare processo, con tanto di
giuria, alla fine del quale, valutate l’accusa e la difesa, Oreste
viene assolto. Le Erinni non accettano di buon grado l’esito del
processo, minacciando sfracelli, ma alla fine Atena riesce a
rabbonirle, trasformandole nelle benevole Eumenidi.
Io penso però che Eschilo si facesse delle illusioni: i ‘nuovi’ dèi
olimpici (Atena, Apollo) non hanno alcuna possibilità di imporre il
proprio potere sugli antichi dèi ctonii, nessun potere di trasformare
le feroci Erinni nelle benevole Eumenidi. Fuor di metafora: nessun
ragionamento etico condotto secondo regole razionali potrà cancellare
il senso di colpa che affonda le radici nel nostro essere.
Non è certo viaggiando sulla superficie della nostra psiche che
possiamo sperare di rabbonire le nostre Erinni, ma, al contrario,
addentrandoci sempre più profondamente nei meandri della nostra mente,
là dove la parola non ha diritto di cittadinanza, là dove nessuna
parola è mai stata pronunciata.
E ci renderemo allora conto che, come non siamo (soltanto) il nostro
corpo, così non siamo (soltanto) la nostra psiche. E che è assurdo
cercare di curare la nostra psiche (ad esempio dai sensi di colpa),
perché è proprio la psiche ad essere la ‘malattia’. O, esprimendoci
meno paradossalmente: è malattia qualunque attaccamento alla
miserevole, cangiante congerie dei contenuti psichici.
Scriveva Ingeborg Bachmann nel suo racconto ’Ondina se ne va’:
“Non sono fatta per dividere le vostre preoccupazioni.
Non queste
preoccupazioni! E come potrei riconoscerne l’esistenza senza tradire la
mia legge? Come potrei credere all’importanza delle vostre intricate
vicende? Come credervi, finché vi credo veramente, finché continuo a
essere profondamente convinta che valete di più delle vostre scialbe e
tronfie dichiarazioni, delle vostre azioni squallide, dei vostri
assurdi sospetti?”.
E, potrei aggiungere io: “dei vostri patetici sensi di colpa”.
Parafrasando qualcosa che avevo scritto in altra occasione potrei dire:
abbandonati al mare, e ciò che comprenderai è che tu stesso sei il
mare. E quando riconoscerai te stesso in questo mare, comprenderai che
la lunga schiera dei contenuti della tua psiche, che sei abituato a
considerare come ciò che ti costituisce - i sensi di colpa, le paure,
le vanità, le rivalse - non sono altro che le lievi increspature sulla
superficie di quel mare che tu sei. Quel mare che tutti
noi siamo. Noi siamo il mare sottostante e ad un tempo siamo il vento,
che giocando con la superficie marina provoca quelle increspature.
Siamo il mare ed il vento, eppure ci ostiniamo ad esiliarci in quelle
increspature, in quella sottile regione di confine, che senza di essi
neppure esisterebbe, ed in essa eleggiamo la nostra unica dimora, e
null'altro se non quelle riusciamo a scorgere. Contempla pure quelle
spume iridescenti senza timore alcuno, ma non scordare mai da chi sono
generate. Sei tu il mare, sei tu il vento.
E allora, per concludere, non sarà che quel senso di inadeguatezza che
molti psicologi collegano strettamente al senso di colpa, quella
sensazione di non essere come dovremmo essere, non sia invece il
disagio profondo di non apparire (a noi stessi) per ciò che realmente
siamo?
Antonio Marco Serra
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La colpa
Presunto innocente o presunto colpevole, questo è il
dilemma. Ma
forse la vera colpa dell’uomo è quella di essere nato. Di aver
respirato, parlato,
maledetto o benedetto Dio, come se non ci fosse differenza.
Ognuno di noi è, dalla nascita, processato, perché è, esiste, cresce,
si sposa (è stato lui o lei?). Ma non siamo colpevoli neppure del
nostro nome.
“Lasciate ogni speranza o voi che entrate” dice Dante alla povera gente
dell’Inferno.
Ed è da Adamo ed Eva che siamo tutti condannati all’Inferno. Siamo
tutti rei (colpevoli).
Ave Manservisi
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L’essere umano è colpevole
Capitolo 1 – Il Bene e il Male sono indiscutibili
Noto con mia tristezza e rabbia, che gli esseri umani sono divisi tra
loro in varie religioni, perché credo che la vera religione sia una
sola: Dio e Gesù, sono i due colossi più importanti che reggono tutto
il sistema dell'Universo. Nella mia idea li rappresento con il simbolo
dello Yin-Yang.
Nella religione cristiana, il Bene e il Male sono due realtà ben
definite alle quali uno non può dire ‘ci credo’ o ‘non ci credo’.
L'essere umano, dopo esser nato, quando perde la purezza entrando nella
realtà quotidiana (cioè di tutti i giorni) e venendo a scoprire i
sentimenti come l'invidia, l'amicizia, l'odio, l'onestà (e tantissimi
altri), in quel momento è consapevole del Bene e del Male anche se non
conosce né Dio né Gesù.
Quindi Dio è il Bene, e il Diavolo (detto anche Satana o in altri modi)
è il Male; questo per dire che chi è buono, è un suddito di Dio e chi è
malvagio è un suddito di Satana. È una realtà, punto e basta.
Capitolo 2 – L’amore vero e l’amore maligno
Moltissime persone credono che l'amore abbia un'unica strada: tali
persone si sbagliano di grosso. Innanzitutto togliamo dalla parola
amore la parte del sesso, perché quello è il ‘gesto d'amore’ per
ottenere un figlio.
Qui s'intende, invece, molto di più: l'amore come volersi bene,
amicizia, solidarietà, pensare al prossimo, stare uniti insieme.
Purtroppo però quando due persone (in genere il maschio e la femmina)
vengono in rapporto tra loro e nasce l'amore, qui si possono avere le
due biforcazioni di cui vi ho parlato precedentemente: uno è ‘l'amore
vero’ (quello che Dio desidererebbe) e l'altro è ‘l'amore maligno’
(quello amato da Satana).
Ora desidero spiegarvi la differenza tra questi due. L'amore vero
dentro la coppia o nella singola persona rimane aperto anche a coloro
che li circondano, ma non solo. Tali persone si preoccupano anche di
persone a loro sconosciute; hanno quindi un gran potere di solidarietà
e di bontà rivolta verso tutti.
L'amore maligno, invece, rimane rinchiuso nella coppia o nella singola
persona. Queste personalità molto spesso pensano solo per loro stesse,
ignorando le altre persone che le circondano, diventando avide,
menefreghiste e senza cuore.
Capitolo 3 – Incubi diventati realtà
Molto spesso mi chiedo: "I genitori, in questa epoca,
che
giocattoli daranno ai loro figli?" e mi rispondo con quest'elenco:
"Scarpe? Cravatte? Giubbotti? Camicie? Giacche? Pantaloni? Mutande?
Perizoma? Reggiseni? Occhiali (da vista o "a specchio")? Libri?
Sigarette? Parrucche? Anelli? Collane?"...
Me lo chiedo perché ormai qua a Bologna, non esistono altro che negozi
di scarpe, abbigliamento (soprattutto femminile), ottica, librerie,
tabaccherie,
parrucchieri, gioiellieri e "compro oro". Quei bei negozietti, invece,
di fumetti e giocattoli, ormai si possono praticamente contare sulle
dita di una mano. Questo è un incubo, soprattutto per chi ha la
passione di certi articoli che solo le ‘fumetterie’ e/o negozi di
giocattoli hanno. Oltretutto, ciò che mi inquieta ancora di più è il
fatto che per raggiungere i negozi di prima necessità, cioè dove c'è il
cibo, bisogna "fare dei chilometri": il centro di Bologna, ad esempio,
ne dovrebbe avere almeno a disposizione uno, tipo in via Indipendenza,
ma invece è solamente pieno di negozi extra lusso per i ricconi
menefreghisti.
Concludo, dicendo che inoltre i giornalisti dovrebbero riportare la
verità pura e semplice nei giornali che la gente segue. Ormai sono
stufo di seguire i TG e i giornali che riportano solo quel che gli pare
o, peggio, distorcono quello che uno ha detto, facendo quindi credere a
chi sente che le sue parole siano quelle che ha riportato, magari una
frase del contesto che non era così. Secondo me, infatti, Beppe Grillo
fa bene a non fidarsi dei giornalisti e continuare il suo metodo via
web.
Quando la verità fa male, molta gente invidiosa, pur di calpestare tale
verità e insabbiarla, cerca di diffamare, calunniare e far perdere la
credibilità di quelle persone che invece vogliono portare a galla
verità che sono scomode.
A noi intanto, dicono che ci aiutano, ma in realtà l'IVA è già salita
dal 4% al 10% (nei distributori automatici), l'IMU l'hanno tolta e
hanno messo un'altra tassa che il cittadino paga molto di più: ci
stanno solo prendendo per il c#§o!!! Come quei poveri cristi che si
sono suicidati (e questo, per me, è l'incubo maggiore) perché erano
strangolati da Equitalia, mentre i governanti andavano dicendo che la
crisi non esisteva! E l'essere umano dice di essere intelligente e
civile? Ma non fatemi ridere!!! Aaaaahhaa aaaaaaahahha
aaaaaaaaaaaaaahahhaha!!!
Capitolo 4 – I dieci comandamenti
Mosè salì sul Monte Sinai e ricevette da Dio i Dieci
Comandamenti
(le Leggi Supreme del vivere in armonia in pace e tranquillità sulla
Terra), scritti su due tavole di pietra da una parte e dall’altra.
Queste erano soltanto dieci:
1. Non avrai altro Dio fuori di me.
2. Non nominare il nome di Dio invano.
3. Ricordati di santificare il giorno del riposo.
4. Onora il padre e la madre.
5. Non uccidere.
6. Non commettere adulterio.
7. Non rubare.
8. Non dire falsa testimonianza.
9. Non desiderare la donna d’altri.
10. Non desiderare alcuna cosa del tuo prossimo.
Gesù, poi inserì anche l’undicesimo comandamento. Gesù disse:
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io
vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
A tutt’oggi infatti si vede ancora che queste semplici Leggi vengono
violate. Persino l’undicesimo.
Darietto
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Il peso del tempo che passa
e della mia incapacità a gestirmi
…in silenzio i molti dolori, rubando gli insulti degli
uomini…
Erano passati sei mesi dalla morte di mia madre ed io non riuscivo
ancora a piangere. Il dolore era tutto dentro di me ed io mi ero
inevitabilmente rafforzata. Ora non avevo più l’interlocutrice fissa a
cui confidare i miei problemi e le mie angosce e mi sentivo molto sola.
Negli ultimi tempi avevo ripreso in mano l’Odissea e il mio sguardo
andò a questi versi: “...in silenzio i molti dolori, rubando
gli insulti degli uomini...” . Non sapevo a quale libro si
riferissero e mi sentii libera di spaziare con la mente e la mia
immaginazione.
Avevo cinquantasei anni compiuti e me li sentivo tutti addosso. Che
dire? Che fare? Come sostituire la mia interlocutrice? Avevo un
fratello, a cui telefonavo spesso per confrontarmi e confidargli i miei
dubbi e le mie angosce. Ne ricevevo conforto, lui era molto razionale
ma nello stesso tempo molto sensibile e soprattutto mi ascoltava. Mio
marito preferiva che io non toccassi certi tasti e per questo mi
sentivo molto sola.
Da trent’anni lottavo con la mia malattia, la sindrome bipolare, per
cui alternavo momenti di depressione e di ansia e anche di euforia e ne
ero molto angosciata. Le terapie che facevo, farmacologica e
psicologica, mi consentivano una vita pressoché normale. Ma mi sentivo
inadeguata e sbagliata. Ero scontenta di me stessa. Cercavo aiuto a
destra e a manca, ma soprattutto dallo psichiatra e dallo
psicoterapeuta che mi seguivano. Ne ricevevo conforto ma ero sempre
molto insoddisfatta. Avevo anche affrontato due interventi chirurgici
al cervello, perché avevo un idrocefalo, avevano drenato il liquido e
inserito una valvolina.
Credo di aver delineato abbastanza bene la mia storia. Mi sentivo forte
e debole nello stesso tempo. Avevo acquisito anche molta consapevolezza
dei miei limiti. Durante le fasi maniacali spendevo soldi a non finire,
per questo avevo chiesto l’intervento di un amministratore di sostegno
che mi gestiva il mio piccolo patrimonio. Mi ero molto pentita di aver
fatto questa scelta, che poteva far supporre che non mi fidassi di mio
marito, ma io ero molto angosciata, perché in passato avevo fatto spese
in eccesso e non volevo ricaderci. Siamo in aprile avanzato ed io sento
il peso del tempo che passa e della mia incapacità a gestirmi.
In passato avevo lavorato, facevo l’insegnante nelle scuole medie e mi
piaceva molto, ma la malattia aveva avuto la meglio: i miei
comportamenti sbagliati mi avevano portata a chiedere di fare la
bibliotecaria, in un primo momento, e poi ad andare in pensione
anticipatamente.
Sono a casa di mia suocera e cerco di rendermi utile. Facevamo la spola
tra Bologna, dove io avevo casa e Conselice, il paese di mio marito. Mi
sentivo in colpa per non aver voluto cambiare residenza e casa. Del
resto erano scelte che si potevano sempre fare, ma mio marito non si
fidava più di me, diceva che ero attaccata al mio guscio come una cozza
e mi faceva sentire in colpa. Io avevo bisogno delle mie piccole
certezze, anche se mi rendevo conto che la casa in cui abitavamo era
piccola, ma mi rendevo anche conto che non avevamo la liquidità
sufficiente per cambiare abitazione…
Sono stanca e lascio qui il racconto delle mie vicissitudini. A voi il
verdetto.
Chiara
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La colpa: parliamone
Il laboratorio di scrittura dell’associazione UmanaMente
ha iniziato
ad affrontare il tema della ‘colpa’ attraverso due incontri di
brainstorming che hanno prodotto alcune idee, libere associazioni e
concetti, elementi che aiutano a familiarizzare, in prima battuta, con
il tema:
- Reato - regole - società – sbagliare - sapere cosa è giusto e
sbagliato - avere uno schema - schema interno ed esterno - giudizio
- Il sentimento della colpa – sentirsi in colpa - avere rimorsi – la
colpa porta all’ansia, il panico, la disperazione
- Coscienza - pentirsi – pentimento - ravvedimento - riparazione -
chiedere scusa
- Colpa come volontà di affermazione (Nietzsche) - colpa cosciente o
inconscia
- colpa in senso positivo è responsabilità, riparazione
- Riparare per se stessi e/o per il senso dell’altro - dimensione
soggettiva
- Colpa come peccato - il peccato originale - immagine di Gesù in croce
- il suicidio di Giuda.
Diana
Essendo nata in una piccola cittadina della Moldavia, quando avevo poco
più di venti anni cominciai a sentire l’ambiente in cui vivevo privo di
belle prospettive per il futuro e per questo progettai di venire in
Italia, sperando così di ampliare il mio orizzonte nella vita. Era come
una nuova strada per migliorare il mio percorso, a cui non volevo
rinunciare nonostante fossi molto legata a mia madre, il papà l’avevo
perso alcuni anni prima. In un primo momento mia madre sembrava
incerta, forse temeva qualche pericolo per me, essendo io la più
piccolina di dieci fratelli. Successivamente, un sacerdote parlò con
mia madre rassicurandola, spiegandole meglio quali fossero le mie
giuste aspirazioni e quanto di positivo vi fosse nel cercare di
mettermi in gioco. Così, anche con l’approvazione della mamma, ho preso
da sola l’aereo e mi sono trasferita in Italia, dove già risiedeva mia
sorella.
Ormai mi trovo qui da alcuni anni, ho dovuto affrontare le difficoltà
di trovare un lavoro sicuro per guadagnare il necessario, cominciare a
conoscere degli amici per inserirmi in questa nuova società, imparare
la lingua e cercare di trovare opportunità per dare ad essa un senso
complessivo. I problemi e le delusioni incontrate, i momenti difficili,
col tempo hanno diminuito la mia sicurezza e la serenità con me stessa.
Ho commesso alcuni errori o preso decisioni sbagliate, però non ho
avuto il coraggio di parlarne direttamente con mia madre per avere da
lei un consiglio, un incoraggiamento a far meglio e tutto questo mi ha
procurato un forte senso di colpa verso di lei. Ricordando quei momenti
mi viene da piangere. Era qualcosa che veniva dalla mia coscienza in
quanto mia madre non mi ha mai rimproverato nulla e non mi ha mai fatto
pesare gli errori commessi.
Sono pentita, ma non mi riesce di parlarne. Quando mia madre ci ha
lasciato, questo sentimento di colpa nei suoi confronti è diventato
meno forte perché sono stata da lei perdonata, prima della morte, per
quello che avevo fatto. Questo sentimento di colpa era tanto pesante da
provocarmi disagio e non riuscivo a fare il passo decisivo, cioè quello
di perdonare me stessa. Ritrovare la pace con me stessa per essere più
positiva con gli altri.
Ora, imparando qualcosa dalla esperienza di ogni giorno e cercando di
trarne insegnamento, mi sono nuovamente guadagnata la stima di me e
sento di aver superato, almeno in gran parte, quei brutti momenti.
Ormai è ‘acqua passata’, tuttavia, di tanto in tanto, il dolore
riaffiora in superficie e mi sento scossa, mi viene da piangere. Ma è
un pianto di sfogo e liberazione, non di disperazione. Questa rinnovata
fiducia in me e serenità deriva dal fatto che sono sicura che mia madre
mi guarda dal cielo e continua a volermi bene.
Gianni
Dire che cosa sia, per me, la colpa è abbastanza
facile: è l’aver
infranto una ‘regola’ a cui una persona fa riferimento. È ovvio, ma è
anche sorprendente, perché molte volte in una comunità libera io stesso
decido a quale regola voglio far riferimento. Le regole sono di tipo
etico – morale - religioso oppure giuridico o ancora, più
semplicemente, si ispirano ad una morale naturale.
Tutte però hanno in comune una certa dose di relatività, dipendente,
per esempio, dall’area geografica e dalla cultura e religiosità in essa
dominante e talvolta anche da differenti letture più o meno avanzate
entro lo stesso contesto. Un poco più difficile è, per me, dire quando
mi sia sentito in colpa e perché. In quel momento, credo, sia
intervenuta la mia coscienza che ha messo a confronto il mio operato
con la ‘la regola’. Cosa ha sviluppato questo confronto? Qualche volta
nulla di sensibile, ma altre volte senso di colpa e (oppure) rimorso. I
due termini mi sembrano pressoché sinonimi; io preferisco parlare di
rimorso perché nelle conversazioni ‘senso di colpa’ è un modo di dire
molte volte abusato. In altre parole si usa questa frase per cose
futili od addirittura inconsistenti.
Forse il rimorso nasce per un’azione malvagia che sappiamo ‘con
certezza’ di aver commesso, mentre il senso di colpa deriva più da
un’idea, un personale modo di sentire. Cioè, sarebbe più legato al
proprio giudizio e sensibilità, che ad una trasgressione vera e
propria. I sensi di colpa possono sorgere spontaneamente oppure esser
indotti da altri, qualche volta anche in modo strumentale, non in buona
fede. Comunque sia, quando la nostra coscienza non approva le nostre
azioni si può produrre sofferenza che paralizza e condiziona la vita.
Quando ero ragazzino e poi adolescente, primo di quattro fratelli e di
una decina di nipoti, portavo in me l’idea, che derivava da semplici
raccomandazioni della mia nonna materna che era un po’ il punto di
riferimento e aggregazione della famiglia, di avere un ruolo ed una
responsabilità verso i più piccoli di età. Dovevo essere di esempio per
loro nel comportamento e nello studio. Nessuno mi aveva esplicitamente
assegnato questo ruolo ma io l’avevo fatto mio e quando non mi sentivo
all’altezza del compito o mi pareva di aver tradito le aspettative, mi
sentivo disturbato da una specie di vergogna. Il ruolo di ‘capo tribù’
corrispondeva però, in una certa misura, ad una mia ricerca di
riconoscimento e gratificazione nell’avere un ruolo di ‘capo’ e
contemporaneamente faticavo ad accettare di sbagliare. Di qui
l’insoddisfazione. Questo mette in evidenza qualcosa di non lineare e
contradditorio nel mio carattere. Sul lavoro, in seguito, si è
verificato ancora qualcosa di simile. Sentivo di dover esercitare e
volere un ruolo importante di responsabilità e, una volta ottenuto
questo ruolo, ero spesso assillato dal dubbio di non essere all’altezza
delle attese e di non essere completamente apprezzato per quello che
producevo.
La spinta a volte strumentale ed aprioristica, che proveniva dalla
direzione della azienda, ad ottenere risultati sempre migliori, ed
anche qualche critica, veniva da me mal digerita. Anche in questo caso,
sentivo disagio, rimuginavo spesso durante la notte e, oggi con molto
più distacco, posso dire che quasi senza una vera ragione mi sentivo
perseguitato.
Il circolo vizioso: forte desiderio di emergere ed essere al centro
dell’attenzione, dubbio, sentimento di portare una colpa, frustrazione
ed un’idea blanda di senso di persecuzione, di incomprensione delle mie
qualità. Rimorso e senso di colpa (riferendosi a fatti consistenti per
gravità) devono, per esser credibili, portare con sé il sincero
pentimento e il desiderio di riparazione. Quando la riparazione non è
possibile, ci vuole almeno, e non è poca cosa, il proponimento di non
reiterare la colpa. In anni più recenti, senza voler annoiare
ulteriormente l’eventuale lettore, mia moglie mi ha lasciato (ero al
secondo matrimonio fallito e non ero più un ragazzino). Non essendo
questo il luogo in cui entrare nel merito di questa vicenda, tuttavia
direi che si era creata una situazione in cui si facevano risalire a me
tutte le ragioni del fallimento del rapporto. In questo caso, una parte
potevo accettarle, ma una grossa fetta di esse derivava da comode
etichette che mi erano state appiccicate, anche non in completa buona
fede. È abbastanza facile rigirare la frittata e buttare sugli altri i
propri difetti, confondere la causa con l’effetto.
Ho sofferto, perché il senso di colpa per aver contribuito
consistentemente a por termine a quanto ritenevo di voler invece
preservare sopra ogni cosa, è stato terribile per me. Quando sono
riuscito, dopo un periodo di acuta depressione, a riacquistare nuova
serenità di giudizio, mi sono ritrovato.
Stefano
Per me la colpa è l’aver fatto qualcosa di male che
deve essere
riparato. La colpa in senso religioso si chiama peccato. Per chiedere
perdono e per alleggerire la nostra coscienza ci si può recare da un
sacerdote e, in confessionale, confessare i nostri peccati. Ci
aspettiamo così il perdono di Dio. Si potrebbe dire: commetto un
omicidio, mi confesso, ottengo il perdono e sono a posto. Le cose non
sono proprio così, perché serve il pentimento e la riparazione. Dal
punto di vista della legge dello stato, una colpa, anche a chi confessa
ed è pentito, non viene perdonata e, di conseguenza, resta la pena.
Mi sono sentito in colpa, per la prima volta, quando ho conosciuto dei
gruppi anarchici, delle babygang del quartiere e andavo in giro con
loro a far danni. Non dicevo nulla ai miei genitori ed è questo che poi
mi ha fatto sentire n colpa. Quando la mia mente si è distorta e ho
dovuto frequentare per la prima volta uno psichiatra, durante gli
incontri spesso ridevo e lo psichiatra mi chiedeva perché ridessi. Era
la mia mente distorta che mi faceva ridere, anche se non c’era niente
da ridere. Lo psichiatra ha dovuto farmi ricoverare presso un ospedale
psichiatrico dove mi hanno prescritto degli psicofarmaci.
Io mi sento in colpa verso i miei genitori, più che verso me stesso.
Fosse stato per me avrei seguito i miei amici e continuerei a fare la
strada che facevo prima, ma volendo bene ai miei, non sarei contento di
provocare loro dispiacere.
Durante l’infanzia avevo frequentato i Salesiani, persone colte, che mi
hanno insegnato a leggere e a scrivere ed a distinguere il bene dal
male. In quel periodo non ho sperimentato il senso di colpa, ero
piccolo e non ricordo.
Per me il senso di colpa è come un avventuriero, uno che va
all’avventura e gira il mondo, fa le sue battaglie, combatte per
esistere. La colpa è lo Stato, il governo.
Il pentimento è quando vai dal confessore e gli dici le tue cose. Io
non sono pentito di aver fatto il punk. Mi sono pentito di avere
sbagliato e di avere fatto una cosa che mi pesa interiormente, mi pesa
sulla coscienza.
Il senso di riparazione più grande è stato cambiare frequentazioni,
chiudere definitivamente col passato.
Oriano
Quando da piccolo, avevo circa dieci anni, andai a comprare dei
soldatini di plastica dicendo al negoziante che avrebbe pagato mia
madre, quella volta capii cos’era la colpa, perché venni punito: mia
madre mi picchiò. Dentro di me capii che avevo fatto qualcosa di
sbagliato, anche se l’ho capito soltanto dopo le botte.
In seconda media sono stato bocciato e mi sono sentito in colpa. Allora
ho cercato di riparare iniziando a studiare anche di notte. La
bocciatura mi aveva fatto sentire inutile, mi sono sentito come un
rifiuto della società, è stato un trauma perché pensavo già alla
reazione di mia madre. Mi sono sentito in colpa per avere deluso le
aspettative di mia madre, invece non mi sono sentito in colpa nei
confronti di mio padre perché lui non si interessava mai a ciò che io
facevo.
Vedete, il senso di colpa era, per me, legato alle aspettative di mia
madre e la punizione mi dava la misura della gravità della colpa. Aver
commesso una colpa ha prodotto sempre anche il desiderio positivo di
riparazione, come mettermi a studiare con impegno dopo la bocciatura.
La voglia di riparare mi ha spinto ad intensificare lo studio facendomi
ottenere buoni risultati scolastici al liceo, anche la passione per la
lettura. A quel punto studiavo più per mia scelta e senso di
responsabilità, pensando al futuro, e non soltanto e semplicemente per
soddisfare le attese di mia madre.
Nel corso del tempo è cambiato il mio rapporto con la colpa. Gli errori
e relativo senso di colpa sono diventati più un fatto personale, sempre
meno legato al giudizio degli altri. Tuttavia il senso di colpa verso
mia madre è passato solo molto tempo dopo. Ovvero, probabilmente non
l’ho mai superato completamente.
Ma la rivincita sullo studio me la sono presa ora, iscrivendomi
all’Università ‘Primo Levi’.
Roberta
Per me la colpa è quando fai qualcosa di sbagliato, o commetti azioni o
dici cose che possono danneggiare qualcun altro, o anche se stessi. In
generale secondo me si commette una colpa quando si offende o si
maltratta... Ad esempio, anche recentemente mi sono sentita in colpa
per avere mancato di rispetto a mia madre: lei mi aveva rimproverata di
non avere fatto qualcosa in casa. Allora le ho mancato di rispetto
alzando la voce e penso di averla anche un po' ferita, dicendole che
stava sbagliando. In quel caso, quindi, mi sono sentita in colpa perché
l'ho trattata male e perché credo di avere fatto qualcosa di sbagliato:
non ho agito in maniera giusta secondo i miei principi e valori,
secondo le regole che conosco e in genere rispetto. Ma in quel momento
ero
adirata e ho agito così, in uno sfogo di rabbia... non ho sentito
subito la colpa... Il senso di colpa è arrivato dopo, nel corso della
giornata: quando la rabbia è passata, mi sono sentita cattiva a
trattare così mia madre, e me ne sono molto pentita, così sono andata a
chiederle scusa.
La prima volta che mi sono sentita in colpa è stata quando ero piccola:
mi mangiavo le unghie e i miei genitori mi dicevano di non farlo,
perché mi sarei rovinata le mani. Ma io continuavo, nonostante i miei
mi mettessero lo smalto amaro sulle unghie per impedirmi di
mangiarmele; allora mi sentivo in colpa, disobbediente. Sentivo di
stare trasgredendo alle regole che loro mi davano, avrei potuto fare
tante cose, invece di rovinare le mie mani mangiandomi le unghie... ad
esempio leggere, giocare, mangiarmi un dolcetto... ma era più forte di
me. Solo da grande sono riuscita a togliermi questo vizio.
Il senso di colpa può passare, ma dipende probabilmente dal tipo di
colpa. Forse mi sento ancora in colpa per non avere studiato abbastanza
durante l'ultimo anno di superiori. Ecco, di quella cosa mi sono
sentita in colpa.... presi un ottimo voto comunque, ma, poiché sapevo
di avere studiato meno degli anni precedenti, mi sentii in colpa, e ci
ho sofferto tanto, ancora oggi mi sento in colpa, se ci penso. È come
volere essere perfetti e non riuscirci. Invece bisognerebbe provare ad
accettarsi per come si è.
Vittorio
Per me, il senso di colpa è quasi sempre derivato più che da una colpa
obiettiva, palesemente ben delineata, ad esempio per le conseguenze
negative prodotte sugli altri da un mio comportamento, dalla costante
paura di sbagliare e di poter trovarmi, successivamente nella
condizione di colpa.
Quando la paura diventa troppo forte e ricorrente finisce che ‘te la
canti e te la suoni’, è come un avvitamento, perdi il controllo. Se poi
come è capitato a me, ‘vieni su’ molto solo, senza un confronto con
persone mature - mio padre l’ho perso quando avevo otto anni e
successivamente mia madre è andata in crisi - tutto questo, non ti
facilita la vita.
Era come un disturbo preventivo. In questo senso, quindi, mi sembra
siano state numerose le volte che mi sono sentito in colpa per cose che
poi, nella mia vita, non ho fatto. Più che un senso di colpa lo
definirei il rammarico di non essere in grado, o temere di non essere
in grado, di compiere delle cose così come pensavo fosse nelle
aspettative degli altri. Specialmente nella prima parte della mia vita
ho dato un’importanza determinante, se non eccessiva, al giudizio degli
altri.
Se riguardiamo invece più avanti negli anni, nella maturità, il senso
di colpa da semplice rammarico è diventato rimorso per colpe che
consideravo precise. Come esempio importante, porto il fatto di non
essere stato con mia madre sufficientemente affettuoso e di non essere
stato molto tollerante con lei nell’ ultimo periodo della sua malattia.
Questo mi è rimasto sullo stomaco.
Una caratteristica di fondo del mio carattere che, sostanzialmente, non
è mai cambiata, è la mia insicurezza: ho paura di sbagliare, di non
andar bene agli altri col risultato che, a volte, penso di sbagliare
anche quando non sbaglio; sento la paura di poter essere ripreso e di
provocare un giudizio negativo da parte del prossimo. Questo modo di
sentire ti fa stare sempre all’erta ed in ansia. L’ansia mi ha
perseguitato fino a circa dieci anni fa ma ora non è più così.
A lungo andare, questa preoccupazione di cadere nell’errore, genera
anche risultati positivi perché ti metti spesso in discussione e devi
sempre fare i conti col dubbio che vi possa essere una via migliore da
percorrere. Ora il rammarico nasce dal bilancio della vita, se avessi
fatto altre scelte avrei avuto una vita meno difficile, ho dovuto
sempre recuperare, anche se poi me la sono cavata.
Mi ha complicato la vita avere interrotto le superiori, se avessi
studiato di più ora farei meno fatica a trovare lavoro; sono colpevole
perché ho mollato e non posso riversare la colpa su nessuno. Avevo solo
quattordici anni, ma mi sento in colpa ancor oggi per una cosa commessa
tanti anni fa: dal momento che ne accuso ancor oggi le conseguenze. A
scuola andavo bene, ma nella mia classe i compagni mi avevano preso di
mira e ho mollato a causa loro. La colpa che mi attribuisco è di non
avere resistito e con questo ho rovinato la mia vita. Mi sento in colpa
perché da scuola son scappato senza reagire.
Don Nildo spiegava la differenza tra un’azione deliberata e una azione
indotta con la forza, esercitata dai compagni, nel caso mio. All’epoca
credo di aver fatto comunque personalmente uno sbaglio che, come un
macigno, mi è pesato per tutta la vita.
Questi son fatti su cui lavorano molto gli specialisti che praticano
psicoterapia, dinamiche che, come loro dicono, creano complicità tra
vittima e carnefice: come dire che un soggetto si senta offeso da una
grave malvagità commessa da un’altra persona e però, parallelamente, si
identifichi con il comunque propria la responsabilità, che se lo sia
meritato. Non credo sia questo il caso, o che il paragone sia
sproporzionato. Più semplicemente, se avessi avuto più carattere questo
non sarebbe successo.
Mia madre mi aveva consigliato di cambiare scuola e prendere un
diploma. Io non ho scelto di cambiare scuola, volevo fare il
giornalista e il patto con la mamma era di prendere comunque un diploma
e di andare poi a fare la scuola di giornalismo a Urbino. Io non ho
seguito questa promessa e sono invece andato a Roma a studiare
giornalismo in una scuola privata.
Il senso di colpa, per esser tale, porta con sé anche il desiderio di
pentimento e di riparazione. Io ho sempre cercato di riparare, è mia
abitudine chiedere scusa se sbaglio ed allo stesso tempo mi irrito se
subisco un torto e non mi si chiede scusa.
Sono trasparente e se devo dir qualcosa ad una persona la dico in
faccia, non cerco giri di parole. Ho raggiunto un equilibrio non di
ferro: mi basta poco per sentirmi in difficoltà ma con altrettanta
facilità mi rimetto in carreggiata. Penso sia positivo.
Ho sbagliato nella scelta della moglie, commettendo l’errore che sarei
riuscito a cambiare certi lati pericolosi e spregevoli del suo
carattere: alla fine l’unica riparazione possibile è stato il divorzio;
un paio di volte ho sbagliato nella scelta del lavoro, anche qui
l’unica riparazione possibile era cambiare, trovare un altro lavoro.
Gli sbagli mi hanno portato tristezza, dolore, disperazione, solitudine
e ormai una riparazione è obiettivamente impossibile.
Non mi sento assolto ma devo guardare avanti e fare tesoro delle
lezioni della vita, questa sarà la vera riparazione.
Laura
Io col senso di colpa convivo quotidianamente; è purtroppo una
sensazione che mi appartiene. Più volte mi sono chiesta se questo possa
dipendere, esser legato, ad una carenza di autostima. Laddove
disattendo le mie aspettative, mi sento in colpa e provo un forte
disagio. Quando mi sento in colpa, per aver fatto o non fatto una data
azione, mi prende una forte ansia e anche una sensazione di paralisi.
Il giudizio che temo maggiormente è il mio, più che quello degli altri,
cioè un mio giudizio interiore nei riguardi di me stessa.
È da qualche anno, direi dal 2011, che ho dei sentimenti di colpa, da
quando, cioè, ho preso coscienza del fatto che stavo facendo cose
sbagliate per la mia vita. Allora la mia strada si è fermata, per
riflettere, per cominciarne una nuova. Prima di allora, pur sapendo di
sbagliare, letteralmente, me ne fregavo. Invece, in quel momento, ho
capito d’aver toccato il fondo, in più o forse in forza anche di
questo, familiari e amici avevano iniziato a far terra bruciata intorno
a me. Dunque, questi eventi esterni e questa presa di coscienza, mi
hanno portata a fare qualcosa per me, per ricostruire. Però deve
innanzitutto scattare un ‘clic’ nella testa, un mettere a fuoco che
devi fare qualcosa.
Da allora io convivo col mio senso di colpa, certamente, però mi vedo
incamminata in un processo positivo e attivo, perché sto lavorando per
cambiare le cose. Per una persona che ha una dipendenza, è un percorso
che poi dura sempre, quotidianamente sei sottoposto alle tue fragilità…
ed è lì che senti forte il senso di colpa.
Perché ho realizzato che nessuno mi punta il fucile alla tempia
costringendomi a coltivare le mie dipendenze, è totalmente o quasi, una
mia responsabilità.
Sebbene mi senta a disagio nel provare questo senso di colpa, sento che
questo è anche la benzina del motore che si deve rimettere in moto, mi
dà la forza di cercar di capire cosa debba fare per rimediare verso me
stessa e di conseguenza verso gli altri che mi stanno vicino.
Mi sono fortemente addolorata per le vicende di due mie amiche, persone
che hanno condiviso con me l’esperienza della comunità, una come
utente, una come operatrice. Il caso ha voluto che, nel giro di poco
tempo, entrambe si siano suicidate. Il vuoto che ho sentito da quando
queste due persone sono mancate è indescrivibile.
Questi due episodi mi hanno riportata ai miei vissuti personali, perché
sono passata anch’io dall’esperienza del tentativo di suicidio. Mi sono
detta che di dolore ne avevo già provocato tanto nella vita, a causa
dei miei fuori pista, e questi avvenimenti mi hanno indotto a pensare a
quanto dolore avrei potuto ancora dare, se i miei tentativi di suicidio
fossero riusciti. Il senso di colpa può passare, ma bisogna cercare,
giorno dopo giorno, di inventarsi qualcosa di nuovo, qualcosa che dia
un senso positivo e più ottimista alla vita. Non si deve e non si può
rinunciare, alzare bandiera bianca.
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Mi sento in colpa
Laboratorio di Narrativa RTP
Casa Mantovani
Eppure l'avevo cancellato
ma lo ritrovo qui
in un desiderio insoddisfatto.
Appare ogni volta che mi sento vinta
a solcare indelebile il mio rimorso.
Retrocedo una volta ancora
e a piccoli passi
ritorno nel grembo del mio destino.
Anonimo
“Mi
sento in colpa …” non è solo un modo di dire piuttosto ricorrente. Il
senso di colpa è qualcosa di molto profondo, a volte un sentimento
molto doloroso e alla base di gravi problemi e disturbi. Il senso di
colpa arriva a determinare le nostre azioni, le nostre scelte, la
nostra vita. Abbiamo letto questa poesia di autore anonimo e abbiam
pensato che il senso di colpa invece ha a che fare con la nostra storia
personale, con le esperienze di vita fatte fin dall’infanzia. Il
sentimento di colpevolezza nasce dal nostro ‘giudice interiore’, che ci
mette di fronte agli insegnamenti che abbiamo ricevuto dai nostri
genitori, dalla religione e dalla regole sociali, come se si dovesse
pagare un prezzo in termini di sofferenza interiore per avere osato
desiderare qualcosa di vietato. Infatti basta solo aver pensato di
violare una ‘regola’ per vivere una sensazione di disagio, per non
sentirsi più la coscienza pulita. Abbiamo fatto una ricerca sui sensi
di colpa perché è uno stato d’animo familiare a tutti noi, ma è
complicato parlarne. Abbiamo scelto alcune citazioni sulla colpa di
personaggi storici famosi che sentiamo vicine e le abbiamo commentate
come segue:
Bisogna badare che la pena non sia maggiore della
colpa.
(Cicerone)
La punizione non può essere superiore alla colpa,
bisogna che sia equilibrata così da essere accettata come tale e
riconosciuta. Altrimenti rischia di essere più un castigo senza motivo
e che quindi non insegni.
Anonimo
Colui che incolpa gli altri delle proprie disgrazie è
un ignorante; colui che incolpa sé stesso comincia a migliorare; il
galantuomo non incolpa né sé né gli altri, ma pensa a rimediarvi.
(C. Cantù)
È una frase che si commenta quasi da sola. Il primo
passo è quello di riconoscere le proprie responsabilità e non incolpare
altri delle nostre azioni. Infine sarebbe ancora meglio poter non
preoccuparsi del tutto delle colpe, ma pensare a come rimediare alle
situazioni create.
Anonima
È grandemente utile per noi, e ci dà sicurezza di
spirito, non ricevere molte gioie in questa vita; particolarmente gioie
materiali. Comunque, è colpa nostra se non riceviamo consolazioni
divine o ne proviamo raramente; perché non cerchiamo la compunzione del
cuore e non respingiamo del tutto le vane consolazioni che vengono dal
di fuori.
(T. da Kempis)
Secondo me quello che ci vuole dire questa frase è che
un po’ di senso di colpa bisogna averlo, anzi è sano averlo. Alle volte
invece ci facciamo prendere dalle cose materiali senza lasciare lo
spazio a null’altro.
Anonimo
Errare è umano, dare la colpa a un altro ancora di più.
(Max Jacob)
Errare humanum est, ma è
fondamentale imparare a prendersi le
proprie responsabilità. Trovo che sia molto difficile imparare a stare
dentro degli schemi e delle regole (che tendo a vivere come imposti),
ma se si sbaglia e si superano i limiti, riconoscerlo è un primo passo
importante.
A.P.
Errare humanum est,
perseverare autem diabolicum. Commettere
errori è umano, ma perseverare nell’errore è invece diabolico. Errare è
nella natura dell’uomo, nessuno può essere esente dalla colpa, però
l’uomo ha tra le sue possibilità quella di imparare dall’esperienza.
Imparando dal passato può evitare di commettere più volte lo stesso
danno, la colpa è attenuata per un errore non ripetuto.
Anonimo
Finiscila con queste vane apprensioni. Ricordati che
non è il sentimento che costituisce la colpa ma il consenso a siffatti
sentimenti. La sola volontà libera è capace di bene o di male. Ma
quando la volontà geme sotto la prova del tentatore e non vuole ciò che
le viene presentato, non solo non vi è colpa, ma vi è la virtù.
(S. Pio da Pietralcina)
Questa frase di S. Pio mi ha molto colpito perché in
un certo senso mi rassicura. La colpa mi pervade come una minaccia, ma
qui c’è di mezzo sempre anche questa grande forza di volontà che S. Pio
da Pietrelcina tira fuori. Parlare di virtù mi sembra invece un po’
inappropriato, esagerato.
Anonimo
Il fallir di alcuni sciocchi non fa colpa universale.
(Pozzi)
È una verità condivisa da tutti credo, il fatto che
alcuni uomini commettano più colpe, più errori di altri uomini. Questo
secondo me ci mostra come il numero di colpe possiamo diminuirlo oppure
peggiorarlo, in una sorta di equilibrio, di bilanciamento.
Anonimo
Le tentazioni contro la fede e la purità è merce
offerta dal nemico, ma non temerlo se non con il disprezzo. Finché egli
strepita è segno che non ancora si è impossessato della volontà. Tu non
ti disturbare per ciò che vai sperimentando da parte di questo angiolo
ribelle; la volontà sia sempre contraria alle sue suggestioni, e vivi
tranquilla, ché non vi è colpa, ma sebbene vi è il compiacimento di Dio
ed il guadagno per l’anima tua.
(S. Pio da Pietralcina)
In questo caso invece mi pare che S. Pio spieghi
meglio il suo concetto di volontà. Mi sembra molto ottimista e questo
di nuovo mi aiuta e attenua le mie ansie e il senso di colpa che
personalmente mi contraddistingue molto.
Anonimo
L’odio suscita litigi, l’amore ricopre ogni colpa.
(Salomone)
L’odio è un peccato, provoca disordini, litigi,
agitazione. L’amore no, L’amore è un sentimento che aiuta, anche nel
perdono.
A.P.
Moriamo peggiori di quando siamo nati. La colpa è
nostra, non della natura.
(Seneca)
Quando nasciamo abbiamo già una colpa, nasciamo già
caratterizzati da questo sentimento. Ma quando moriamo siamo peggiori
di quando siamo nati, perché le nostre azioni ci caratterizzano. Se
stiamo male (per la colpa) prima di morire ci se ne accorge, la colpa
allora non è della natura.
Anonimo
Nel molto parlare non manca la colpa, chi frena le
labbra è prudente.
(Salomone)
Il saggio parla poco. Frenando le labbra evita di
pronunciare parole che potrebbero essere piene di colpe. Meglio parlare
poco e consapevolmente, essere prudenti con le parole aiuta ad evitare
danni.
Anonimo
Non c’è male all’infuori della colpa.
(Marco Tullio Cicerone)
Non mi trovo molto d’accordo su questa frase. Il male
e la colpa sono cose gravissime, ma non possiamo ridurre il male alla
colpa. Ci sono cose peggiori e secondo me più gravi, la colpa
sottintende già un inizio di una consapevolezza importante.
Anonimo
Quando sei caduto una volta, è colpa tua se cadi di
nuovo.
(Publilio Siro)
È molto vera questa frase, se cado di nuovo questa
volta me lo merito. Personalmente a volte mi capita di fare gli stessi
errori, è fondamentale invece che io impari dai miei sbagli.
A.P.
Umiliati amorosamente avanti a Dio ed agli uomini,
perché Iddio parla a chi tiene le orecchie basse. Sii amante del
silenzio, perché il molto parlare non è mai senza colpa. Tieniti in
ritiro per quanto ti sarà possibile, perché nel ritiro il Signore parla
liberamente all’anima e l’anima è più in grado di ascoltare la sua
voce. Diminuisci le tue visite e sopportale cristianamente quando ti
vengono fatte.
(S. Pio da Pietralcina)
Ho scelto tutte le frasi di S. Pio perché mi
rincuorano molto. C’è molta speranza in queste parole, anche se dentro
di me rimango così agitata. Queste frasi mi sembrano rispecchiare il
flusso dell’anima. O almeno, della mia anima.
Anonimo
Un uomo saggio è circospetto in ogni cosa; nei giorni
del peccato si astiene dalla colpa.
(Siracide)
Trovo che sia affatto vero. L’uomo saggio parla poco e
calibra le parole, ma l’essere circospetto in ogni cosa non protegge
dalla colpa.
Alla fine di questo lavoro ci siamo anche resi conto
che spesso ci sentiamo colpevoli eccessivamente per piccole cose
accadute o anche per eventi non imputabili a noi.
Ci siamo salutati con questa convinzione: crescere vuol dire anche
liberarsi dai condizionamenti e dalla paura di infrangere imposizioni e
regole, adottando un comportamento rispettoso verso il gruppo, ma senza
rinunciare a sé.
R.T.P. Casa Mantovani
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Il pane quotidiano
Nessuno mi può giudicare,
nemmeno tu
Viviamo di colpe indefinite.
Siamo predestinati a vari tipi di colpe:
● colpe spirituali
● colpe fisiche.
La colpa proviene da una mancata osservazione delle regole della
società.
Ci saranno sempre più colpe fintanto che non saremo in grado di
‘educare’ adeguatamente le nuove generazioni.
La colpa, a seconda della sua concretizzazione, diventa:
● responsabilità
● errore in buona fede
● danno causato volontariamente
● reato
● delitto
● torto
Se abbiamo la capacità di essere autocritici, capiamo da noi stessi
quando commettiamo peccati o colpe.
Se risaliamo alle origini, arriviamo al peccato originale che ha
distinto la qualità della vita del mondo e dell’umanità in un prima e
in un poi. Si è trattato di un peccato di disubbidienza e di superbia
di Lucifero ai danni del Dio Yahweh. Tuttavia qualcuno potrebbe pensare
che Lucifero non fosse un dio malvagio, e che avesse donato
l’intelligenza agli uomini dicendo ad Eva e Adamo di mangiare i pomi
dell’Albero della Conoscenza del bene e del male, permettendo così di
capire che il Dio Yahweh li manteneva in stato di subordinazione.
Lucifero, che significa, letteralmente, portatore di luce, ha donato la
luce dell’intelletto agli esseri umani.
Se poi volessimo dare una vita alla colpa, potremmo pensarla così:
Nascita
La colpa nasce quando qualcuno compie un danno/torto verso qualcun
altro o qualcosa.
Durata
La colpa dura fino a quando non viene espiata.
Morte
Quindi la colpa muore.
La vita della colpa finisce grazie all’espiazione della pena, tuttavia
la risoluzione definitiva si ha con il perdono,
Gruppo rassegna stampa
Centro Diurno di Casalecchio di Reno
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Lo sfogatoio
Colpa mia, colpa mia, tutta colpa mia. In ogni evento
c'è una causa. Ed è causa mia.
Ho avuto un incidente stradale, tanti anni fa, anzi più di uno. Sempre
per colpa mia.
È inutile girarci attorno. Sono stato bocciato in prima superiore. È
stata una scelta mia. Non sapevo risolvere le operazioni con le
frazioni matematiche e non sapevo a chi chiedere aiuto. Per questo
motivo non riuscivo né in matematica né in fisica né in elettrotecnica.
Così mi sono fatto bocciare per ripartire dalla base. Tutto daccapo.
"Tutto sbagliato. Tutto da rifare", direbbe il grande Gino Bartali.
Ma come si fa a guarire da una colpa? Difficile, molto difficile. Nella
mia esperienza bisogna individuare la causa per capire se è colpa o
senso di colpa.
C'è chi nega una propria grave colpa benché sia manifesta e vive
benissimo, e magari se ne vanta. Ci sono persone, al contrario, che
hanno un forte senso di colpa pur avendone una responsabilità minima e
stanno malissimo, al punto che per liberarsi da questo immane malessere
preferiscono togliersi la vita. Sì, la sofferenza da senso di colpa è
nella mia esperienza una delle più dilanianti.
In passato, agli inizi della mia malattia, tale malessere era
violentissimo, poi ho imparato a farlo scivolare via. Ma quando diceva
sul serio, il dolore era così forte che dovevo farmi del male fisico
per attenuarlo.
Fabio Tolomelli
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Quando ti danno la colpa dei tuoi
mali
Una cosa che trovo insopportabile è quando ti danno la
colpa dei
tuoi mali. Della serie: “Hai preso il raffreddore? Colpa tua, perché
sei voluto uscire che pioveva” … E di solito queste simpatiche
osservazioni si concludono con un: “ Te l’avevo detto, io!” che sprizza
maligna soddisfazione da tutti i pori. Pazienza pure: non c’è che da
starnutirgli in faccia e sperare che gli si attacchino un po’ di
bacilli. Del resto finché il guaio è solo un’ipotesi nessuno ascolta i
grilli parlanti.
Guardate quelle lugubri frasi minatorie sui pacchetti di sigarette: uno
fa gli scongiuri e le compra lo stesso… (Però, guarda caso, gli astuti
estensori non ci scrivono sopra frasi tipo: “Con 5 € compreresti
cappuccio e brioche per due!” oppure “Salta un pacchetto al giorno per
un mese e ti godi un weekend al mare!”… Magari uno ci farebbe mente
locale e addio guadagni per il tabaccaio e per lo stato).
Purtroppo, però, i mali che affliggono gli umani non sono solo i banali
raffreddori. Spesso sono grandi lutti, grandi dolori, grandi malanni.
Quando alla base ci sono reali coinvolgimenti della volontà
dell’interessato, come ad esempio imprudenze gravi, comportamenti a
rischio, errori ripetuti, trasgressioni … apriti cielo! “Te la sei
cercata, come potrai mai perdonarti?” … Se pure non te lo dicono
direttamente, te lo fanno capire coi messaggi subliminali. Ma a che
serve rincarare la dose, quando uno è stato già gravemente penalizzato?
Una buona parola, invece, è un balsamo sulle ferite e aiuta a
rialzarsi. Perché rialzarsi, comunque, si deve e si può.
A volte non si tratta nemmeno di ‘vita spericolata’, ma semplicemente
di vita sfortunata, eppure nella mente può scattare una specie di
determinismo paranoico: tuo figlio è morto in un incidente stradale
perché gli hai comprato il motorino, tuo marito è scappato con una
bionda perché tu lavori fuori casa, ti sei ammalato di cancro perché
usavi mangiare o non mangiare questo o quel cibo… Le colpevolizzazioni
o auto colpevolizzazioni di questo tipo si nutrono di luoghi comuni,
non tengono conto dell’esistenza di incognite e concause, mettono a
fuoco in modo spropositato una scelta soltanto, quella, appunto, che
poteva in qualche misura dipendere da te. Il presupposto del
ragionamento è che se uno è ‘bravo’ gli andrà certo tutto bene, sarà
artefice della propria fortuna, chi è in difetto, commette errori, non
sta attento… la pagherà e la colpa sarà tutta sua.
Alla base di questo modo di pensare mi par di intravedere un ‘delirio
di onnipotenza’, una volta si sarebbe detto un ‘peccato di superbia’,
l’idea cioè che si possa (e quindi si debba) trovare rimedio a ogni
problema, evitare qualsiasi guaio…
Come se gli esseri umani potessero contare su illimitate risorse,
totale dominio sulla natura, salute garantita, concordia universale,
felicità assoluta, vita eterna, insomma… il paradiso terrestre. E
invece no, siamo ancora nella ‘valle di lacrime’.
Dopo gli ottimismi dello storicismo e del positivismo, e soprattutto
dopo il boom economico e il luna park del consumismo e
dell’utilitarismo, non riusciamo a riconoscerci deboli, vulnerabili,
fallibili, inadeguati, impotenti… senza sentirci in colpa. La
frustrazione, la delusione, il disagio ci lavorano dentro, nel
profondo. Viviamo in quella che è stata definita l’epoca delle passioni
tristi. La realtà ci mette di continuo di fronte all’imperfezione. E
intanto avanza, verso il nostro giardinetto privilegiato ed egoista,
una massa incontenibile di diseredati e profughi dal mondo ‘altro’, che
non possiamo più ignorare e non sappiamo soccorrere né arginare.
Ingiustizia, violenza, miseria, morte.
Nell’ambito della malattia mentale c’è molto spazio per il
catastrofismo, e la situazione attuale del pianeta Terra certamente non
aiuta.
Ansia, panico, sono il pane quotidiano di molti. Succede spesso, poi,
che per non aver saputo raggiungere certi traguardi, soddisfatto certe
aspettative, risolto certi problemi, si interiorizzino sensi di colpa
tanto pesanti da sfociare in disturbi gravi.
Le persone si abbattono, schiacciate da rimpianti e rancori, perdono
l’autostima, si chiudono a riccio, si bloccano per non rischiare un
nuovo insuccesso.
Da ultimo voglio ricordare la lunga tradizione di colpevolizzazione
delle famiglie e in particolare delle madri, che per fortuna sembra
tenda a diminuire e – speriamo – verrà sostituita da un supporto scevro
da pregiudizi e da una ben più utile alleanza nel percorso di recovery
del paziente. Qualcosa però ancora serpeggia, tanto è vero che molte
madri testimoniano di aver avvertito da parte di terapeuti un
atteggiamento giudicante, di averli sentiti se non proprio ostili,
comunque freddi e scostanti. A me capitò anni fa di confidare a uno
psicologo il disagio psichico di un figlio e di sentirmi dire: “E tu,
come la metti con il senso di colpa?”. Lì per lì mi venne una risposta
un po’ sarcastica, che poi, ripensandoci, ho trovato piuttosto arguta:
“Senso di colpa? Non ce l’ho, perché… non ho colpa! Anch’io sono
figlia, sai, quindi la colpa è di mia madre, anzi, di mia nonna, anzi,
della bisnonna, anzi, di Eva!”. Si sono versati fiumi d’inchiostro su
come si dovrebbero crescere figli sani e sereni, ma ahimè le scuole di
pensiero sono tante e discordi e i genitori fanno del loro meglio, cioè
come sanno e possono, coi loro limiti di esseri
umani e le loro buone intenzioni.
Può andar bene o meno bene, nessuno lo può prevedere. Quello che conta,
nella vita, è l’amore con cui ci si è provato e con cui si continua a
lottare per superare le difficoltà.
Lucia
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Andare fuori a incontrare la
gente
Anche oggi sono riuscita a lavorare coi ragazzi,
abbiamo provato lo
spettacolo. Siamo in chiesa, il nostro laboratorio non ha mai avuto uno
spazio suo. Passano avanti e indietro coi carrelli i lavoranti, gli
agenti urlano tra di loro, poi passano anche i detenuti della
circondariale che vengono a scuola nel reparto che prima era solo
dell’OPG e ora è dell’istituto unico. Noi dobbiamo chiudere. Noi non
esistiamo. Eppure tutto attorno a noi esiste, esistono i ricoverati,
esiste la malattia, esiste la gente che urla e che sbatte la testa
contro le sbarre ed esistono le persone chiuse e nascoste sotto le
lenzuola da cui non vogliono e non riescono a uscire. Esistono i dolori
e i ricordi, il dentro e il fuori, il passato e forse un futuro. La
precarietà in cui stiamo vivendo è sempre più evidente e forte. Ospiti
nella nostra casa con le valigie pronte per non si sa dove e come.
Dentro sei isolato dal mondo vieni informato dalla tv e cerchi di
captare dai discorsi degli operatori ciò che potrà avvenire: in
parlamento hanno detto che… E noi che fine faremo, dove andremo? I
servizi si occuperanno del nostro futuro, costruiranno dei progetti…
Noi eravamo in carico ai servizi eppure siamo qui.
Io non sono in grado di dare loro delle risposte, di tranquillizzare
chi dovrà tornare in carcere, di dire loro che verranno curati e come,
posso solo continuare a lavorare, a cercare posti per gli spettacoli,
per andare fuori, ad incontrare la gente, a far vedere che non facciamo
paura, a coltivare la speranza. Fuori, tra la gente comune, si parla
troppo poco di psichiatria, per poter essere capiti e accettati. Il
fuori ha ancora tante paure sui matti, noi abbiamo tanta paura del
fuori.
Monica Franzoni
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Volare via col teatro
Volare via col teatro… via dalle
sbarre, dalle ingiustizie, dalla
convivenza forzata con individui
malati, sconosciuti, rabbiosi… Non
si può volare via; si può però volare
lontano, costruendosi ali con piume
sempre più forti e colorate.
In OPG non finisci mai di stupirti.
Quando ti sembra di avere acquisito
strumenti sufficienti per operare
al meglio succede qualcosa
che ti costringe a ripensare tutto,
a rimetterti in gioco completamente
e in modo diverso. Arriva una
licenza, uno va in crisi, un provvedimento
disciplinare e viene chiuso,
non c’è personale e chiudono il
reparto, allora ti devi impegnare a
trovare altre soluzioni e inventarti
nuovi modi di relazionarti coi tuoi
compagni di viaggio, rivedere gli
obiettivi, provare percorsi impervi;
mai nulla è facile e scontato in quel
posto.
Di certo sai che è un carcere, con
tutto quello che significa: sbarre,
porte di ferro che fanno rumori
macabri, lunghi corridoi continuamente
tirati a lucido da ricoverati
con spazzettoni allungati da prolunghe
arrangiate alla bell’e meglio
e circondati da pareti da rinfrescare,
finestre lerce e cortili esterni
colmi di immondizia lanciata dalle
finestre delle celle, unica forma di
ribellione contro un sistema in cui
bisogna sopravvivere. Tutto attorno
a te parla di malattia, i colori
vanno dal bianco al verde, ma la
dominanza è per il grigio cemento,
grigio sporco, grigio delle facce
di chi sta male… Attorno a te
una pioggia continua di carta che
ti avvolge nel quotidiano, ogni cosa che fai, che dici, che chiedi,
viene scritta, fotocopiata,
distribuita… persa e allora devi ricominciare a scrivere
una, due, dieci, diciotto volte, passano così i mesi
nella perversa condizione del postulante alla ricerca di
risposte. Ogni giorno uguale all’altro, scandito dai turni
degli agenti e del personale sanitario, la notte tutti
sono chiusi nelle celle, tutti al loro posto. C’è bisogno
di ordine altrimenti la sicurezza non può essere garantita.
In cella ci vivono in tre, in dieci metri quadri, con il
bagno e il televisore per il quale è necessario contrattare
i tempi e le modalità d’uso coi compagni di cella.
Fumare è quasi obbligatorio, come fai ad impedire ad
un malato che contiene la sua ansia con la sigaretta di
andare a fumare in fondo al corridoio alle tre del mattino
col blindo chiuso.
Oggi, finalmente, dopo più di due mesi sono riuscita
a portare dentro i costumi e gli oggetti per lo spettacolo
nuovo. Ci stiamo lavorando da diversi mesi, ormai
mancano pochi giorni alla prima, mancano ancora
delle cose ma noi abbiamo provato quasi tutti i giorni,
alcuni cominciano ad avere anche un po’ di memoria
pronta, è uno degli obiettivi che ci siamo dati: facciamo
uno spettacolo colorato, divertente e senza leggere il
copione, dobbiamo fare i conti, però, con la malattia e
le terapie, a volte alcuni non riescono a concentrarsi
o vengono invasi da una stanchezza improvvisa che li
costringe a letto.
Mentre apriamo le borse con cui ho portato dentro i
costumi, dopo che tutto è stato controllato dal personale
di polizia penitenziaria, tra i sorrisi e la sorpresa
di ritrovarsi in mano ciò che abbiamo immaginato per
mesi, entra un attore, uno dei più giovani e capaci, si
siede in un angolo. Avrei dovuto immaginarlo, ieri non
è venuto alle prove, mi ha mandato a dire di essere
stanco, a volte succede, il pomeriggio è pesante per
chi prende la terapia. Ma a lui manca poco, a fine mese
lo aspetta la comunità, terapia non ne prende, forse
qualcosa per dormire. Cominciamo a provare lo spettacolo,
ora tocca a lui. Mi chiede di sostituirlo, oggi non
se la sente, non vuole fare più nulla, non trova più il
senso di ciò che sta facendo, più si avvicina la data
di uscita più emergono le paure delle proroghe. Meglio
chiudersi, aspettare fermi e in silenzio, immobili,
statue di cemento, grigie, pesanti come i loro pensieri.
Quando uno va in crisi, non te lo dice, lo devi capire
ed accogliere nel suo desiderio di essere considerato
e ascoltato nei suoi silenzi. Fermo le prove, il gruppo
ha già capito e piano si mette in cerchio, questa è la
modalità che attuiamo soprattutto nelle fasi iniziali del
lavoro per dare circolarità alle idee, per guardarci tutti
negli occhi. Lo guardo, lo chiamo, abbassa la testa, insisto,
abbasso il tono della voce ma non ho intenzione
di mollare, lui è troppo importante, non può andare un
crisi adesso che manca così poco per uscire. Certo è
importante anche per lo spettacolo ma ci siamo organizzati
in modo da sostituire tutti in caso di necessità,
non sai mai chi potrà uscire, se il magistrato o i permessi
arriveranno in tempo, se uno non se la sentirà
di affrontare il fuori. È una condizione di precarietà
costante e continua, in contraddizione con il contesto
statico e lento in cui lavoriamo, ma del resto il laboratorio
di teatro dentro all’OPG è per sua natura anomalo
e contraddittorio: una donna con 15 uomini sola in una
stanza che li deve convincere costantemente a mettersi
in gioco in modo del tutto inusuale e sconosciuto,
che discute con loro di tutto e che spesso rivede le
sue posizioni, che porta concetti politico sociali e che
continuamente chiede loro di uscire dalle celle per occuparsi
anche degli altri ricoverati, mentre l’istituzione
ha tutto l’interesse a far sì che tutto rimanga immobile
e che ogni individuo resti isolato.
In questo posto dove ti viene dato del lei, non viene mai
usato il tuo nome di battesimo, ogni comunicazione
viene data in un luogo appartato e deputato all’uopo,
si è costruita una piazza dove la gente discute anche
animatamente, ci si guarda negli occhi, si ride, ci si
tocca e dove ci si prende cura uno dell’altro. Ci si siede
in cerchio, si cerca di fare esercizio di democrazia, ogni
persona è accolta con piacere, ci si conosce e si impara
a stare insieme. Può essere scontato per chi vive
fuori ma in OPG è difficilissimo: dove la malattia non
ha intaccato gli strumenti relazionali delle persone ci
ha pensato il sistema detentivo. Si ha paura dell’altro
e ci si rinchiude nella specificità degli interessi personali.
Il gruppo chiede invece il rispetto delle regole e
del progetto costruito negli anni, è disposto a crescere
ma non a modificare la sua identità e finalità culturale
e socio educativa. Parole grosse per dei matti che hanno
sulla coscienza reati anche gravi. Ma sono anche e
soprattutto persone, hanno avuto un passato, spesso
sono state anche vittime, vivono l’oggi sopravvivendo
senza intravedere il futuro; molto più facile e comodo
per tutti fare finta che non esistano e dimenticarsi di
loro.
Ma la vita preme contro le sbarre come le voci nelle
loro teste, urlano per farsi sentire e diventano parole
per dare vita ai sogni. Come sarà fuori? Fuori potrò
essere veramente io. Fuori rivedrò i miei figli, fuori mi
rifarò una famiglia, fuori ritornerò come prima. Nulla
potrà più essere come prima, per forza di cose sarà
diverso.
“Io aspetto di uscire, adesso nulla ha senso”. Mi avvicino
a lui, ma si chiude ancora di più. Un compagno cerca
di farlo ragionare parlandogli della fatica e dell’impegno
che io metto nello spettacolo. No non è questo
che serve, lo stoppo.
“Quando sarò fuori ricomincerò a vivere. Qui sono un
cane morto”.
Sento che le risposte le sta cercando da me, non ha bisogno
dello psichiatra a cui comunque riferirò in altro
momento, sta mettendo in discussione il progetto, la
sua finalità sociale, mi vuole dire: cosa andiamo a fare
fuori, mettendoci in mostra e a discutere con il pubblico
se poi non cambia mai nulla, si continuano a subire
ingiustizie e violenze. Ho forse sbagliato a proporre un
testo come Pinocchio? Ma dopo l’esperienza passata
e le tensioni che “Aspettando Godot, l’ergastolo bianco”,
spettacolo che invitava a riflettere sulle dinamiche
carcerarie e sull’attesa, aveva causato, volevamo
seguire i consigli di chi ci incitava a fare un testo che
non parlasse sempre di OPG, soprattutto in questa fase
critica di passaggio. Ho pensato che portare un testo
per coinvolgere i tanti giovani che sono dentro perché
hanno fatto uso di sostanze potesse convogliare il gap
generazionale del gruppo su un terreno comune di tipo
educativo verso le nuove generazioni, essendo ben
consolidato e pronto ad accogliere nuove persone. Ho
sottovalutato la necessità di discutere insieme di come
vivono, di come attraverso il teatro esorcizzano le paure
del fuori e del dentro?
Mentre lo guardo le mie riflessioni si fanno velocissime
e cerco di sintetizzarle con poche parole. Ricordi
cosa dici nello spettacolo? “Ci vuole un punto anche
lontano verso cui guardare”. Ti potrai incamminare nel
tuo viaggio fuori col tuo nuovo bagaglio di esperienze,
con le competenze acquisite anche col teatro sei uno
che sa imparare… Di questo posto non voglio portare
nulla. Voglio tornare come prima. Sarà per forza diverso, tu sei
diverso, non puoi rinunciare anche a ciò
che hai imparato, hai avuto ottimi risultati, non li negare
a te stesso.In effetti è un attore intelligente con
buone potenzialità vocali, senso del ritmo, emerge sul
gruppo anche per la sua presenza scenica. È giovane
con un passato di tossicodipendenza un fallimento in
comunità, o non so cos’altro, ma certamente non un
reato grave, ora si sta facendo quasi due anni di OPG
con la consapevolezza di avere subito una ingiustizia.
Condivide gli spazi vitali con persone deteriorate a tal
punto che a volte pensi di essere in quei terribili film
di manicomi, gente di tutte le età con alle spalle crimini
tremendi. Cosa ci possiamo dire? Cerco di evitare che
il gruppo porti alla discussioni i relativi casi giudiziari,
questo è il suo momento. Ho avuto fiducia in te, nelle
tue capacità sono stata ripagata, non mi hai mai deluso
mi hai insegnato tanto, sei importante per me e
il gruppo.
Suona la campana si deve salire. Il capoposto mi dice
che ci sono stati i tagli del ministero anche per i lavoranti,
lui lavora in cucina. Per molti di loro quei pochi
soldi che prendono per una giornata di lavoro significano
il non dover pesare sulle spalle, in questo caso,
della sorella. È uscito con lei per la prima volta cinque
giorni fa dopo due anni. Chissà cosa si sono detti? Perché
ora vuol mollare tutto? Facciamo un pezzo di corridoio
insieme, mi conoscono tutti e spesso mi lasciano
fare, sembra più sollevato. Oggi non abbiamo provato,
ma questo era più importante, ho insistito io per fargli
fare il nuovo spettacolo ben sapendo che lo dovrò sostituire
subito dopo, lui è Pinocchio.
Il gruppo di quest’anno è composto da 15 persone tra
i 24 e i 70 anni e le difficoltà più grosse le hanno avute
i giovani. Discutere con loro di divertimento, sostanze,
musica, rave è stato come minare alla base ciò in cui
credevano, è stato esplicitato più volte da alcuni di loro
rifiutando per esempio la parte di Lucignolo, però li
sento cambiati, uno mi prende spesso il libro dalla borsa
durante le prove e si assorbe nella lettura del saggio
sui divertimenti dei giovani e sull’uso di sostanze.
Pochi di loro hanno superato la seconda classe delle
scuole superiori poi è storia classica dopo le prime pasticche
e cannoni coca, acidi, anfetamine, rave party,
una spirale verso l’annientamento di sé. Li accomuna
anche l’uso che fanno della musica, colonna sonora
delle loro vite, dove il sentire è il senso che predomina.
Col teatro li porto al senso del vedere e del riflettere
non solo su se stessi ma soprattutto su tutto ciò che
è fuori da loro, si devono decentrare accogliendo l’altro
non più come un compagno di giochi ma come una
risorsa per mettersi in discussione. Avvezzi a considerare
solo se stessi faticano maggiormente a stare alle
regole del gruppo e ad assumersi le responsabilità che
il lavoro richiede, spesso gli anziani tollerano a fatica
i loro entusiasmi, ma poi c’è lo spettacolo che ci permetterà
di stare fuori otto ore e non è poco, poi si vede
gente sana, si ha la possibilità di essere riconosciuti
non solo come i matti dell’OPG, ma come persone che
con coraggio si presentano al pubblico dichiarandosi e
rendendosi disponibili alla discussione.
È un momento importante quello del dibattito dopo
lo spettacolo. A volte loro mi chiedono di fare un intervento
di presentazione iniziale, c’è la paura che il
pubblico non capisca. È necessario che venga capito
tutto, loro si devono spiegare, fare conoscere, è il primo
passo per affrontare con un minimo di fiducia un
loro eventuale futuro tra i “sani”, testare come saranno
accolti dalla comunità, valutare le possibilità di riuscire
e di riuscita e sentirsi importanti perchè si sono fatti
portavoce di tutti i dolori e le angosce di quell’inferno
in cui sono chiusi per far sapere di esistere, per non
essere abbandonati e dimenticati. Il teatro non solo gli
permette di esprimere ciò che sentono e pensano ma
soprattutto gli costruisce un contenitore come la parola
che delinea i confini alle emozioni per far sì che i loro
argini non straripino. La forza della parola sopperisce
alla rigidità di un corpo inespressivo per la reclusione
o le tensioni del contesto di vita. Passi il tempo della
pena a capo chino in atto di sudditanza verso un sistema
spersonalizzante che spesso prende il sopravvento
e ti piega, ci vogliono anni per risollevare la testa e
poter guardare di nuovo negli occhi chi ti sta di fronte.
Quando senti che la parola acquista colore vedi che
anche il corpo si apre per accogliere il mondo, l’altro
diventa un amico ci si tocca, ci si lascia toccare. Sono
corpi che non ricevono mai abbracci, il calore del pubblico
e gli applausi finali riempiono i troppi vuoti creati
in anni di solitudine, perché in OPG sei profondamente
solo, non ti confidi con nessuno, tutto potrebbe essere
frainteso. Quando sei sul palco toccarsi è legittimo,
puoi abbattere i muri che in OPG sono spesso anche
necessari per separarti e difenderti da chi sta troppo
male o può essere pericoloso. Finalmente ci si rilassa
nella relazione, anche con me, osano qualche mano
sulla spalla, io rispondo con un abbraccio caloroso che
per rispetto non ricambiano. Sono sempre una unica
donna con 15 uomini, la maggior parte di loro ha commesso
crimini contro le donne. A volte mi chiedo cosa
pensino di me, in che posto mi mettono nell’universo
femminile. In tanti anni non ho mai ricevuto un gesto
o una parola sconveniente. A volte abbiamo discusso
di questo, soprattutto nei viaggi per raggiungere i luoghi
di spettacolo in cui spesso io guido il pulmino e
loro sono i trasportati, facendogli notare ironicamente
i ruoli ribaltati. Può sembrare strano ma ridiamo molto,
soprattutto di noi stessi, di malattia e delle situazioni
paradossali che a volte si creano.
Sono quasi le 22,30 dobbiamo rientrare al più presto,
potrebbero pensare ad una evasione, c’è una pattuglia
della polizia, siamo evidentemente oltre il limite di velocità,
se ci fermano che gli diciamo, che siamo un pulmino
di matti e che torniamo di corsa in manicomio, o
li spaventiamo dicendo da dove veniamo e che siamo
scappati nella notte. Si cerca di esorcizzare così i rientri
che sono sempre difficili e colmi di tristezza, si passano
otto ore insieme dense di emozioni e di significato
per loro e per me e il lasciarsi con la consapevolezza di
ciò che li aspetta è triste. Anche quello è un momento
nostro dove ci abbracciamo, ci diciamo le ultime cose
prima di tornare ad essere loro ricoverati io un operatore.
Allora è vero, fuori siamo veramente noi e ci
possiamo rivelare all’altro. Sembra che in tutto questo
lo spettacolo sia un elemento superfluo invece è il motore
dell’azione. Solo attraverso il teatro, con le parole
pensate riflettute, scritte, con la magia delle luci e della
musica, con gli spettatori e i loro respiri che diventano
applausi si riesce a trovare la strada per parlare, per
dare voce a delle anime chiuse. Il teatro ha la magia
di farti incontrare l’altro, di guardarlo negli occhi per
essere riconosciuti e amati. Dobbiamo uscire per dichiarare
al fuori la nostra esistenza, testimoni di una
società malata, portatori di dolore provocato e subito,
alla ricerca del perdono. L’OPG ti cambia, ti costringe
a fare i conti con te stesso e il teatro è un grande
compagno di viaggio nella conoscenza di sé. Ti mette
nudo davanti ad un pubblico che guarda e giudica. Ci
vuole un grande coraggio, elemento indispensabile per
affrontare una nuova vita.
Monica Franzoni
Testo pubblicato su
Il teatro illimitato. Progetti di cultura e salute
mentale,
a cura di Cinzia Migani e Maria Francesca Valli
con la collaborazione di Ivonne Donegani, ed.Negretto, 2012
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Pitbull
all’aperto
Alla nostra festa il 24 maggio’14 abbiamo invitato il
laboratorio
di teatro dell’OPG di Reggio Emilia. È ammirevole la loro voglia di
rappresentare la loro condizione, essere sul palco, anche per gli
internati che non comunicano all’esterno. Chi partecipa al laboratorio
‘mette la sua faccia’ e si espone a rappresentare la popolazione degli
internati, con tutto quello che può comportare. Non è da tutti fare
questo e ogni partecipante avrà le sue motivazioni che lo portano a
fare parte del laboratorio. Di sicuro questo spettacolo avvicina le
tematiche dell’OPG a chi ascolta e informa sulle necessità di
miglioramento del trattamento degli internati quindi deve essere
riconosciuto un gran merito agli attori per la loro attività di
sensibilizzazione. Un grandissimo ringraziamento alla responsabile del
laboratorio, la regista Monica Franzoni, a ciascun attore internato e
all’autista del pulmino che li ha portati da noi per la
rappresentazione di Pitbull.
La gente ci chiede come facciamo a lavorare con queste persone…
Nonostante tutto il progresso di cui possiamo beneficiare c’è ancora
molta paura nei confronti della patologia psichiatrica (spesso chi non
è del settore ci chiede come facciamo a lavorare con queste persone).
Pensiamo che ci sia differenza nella storia di quelli che trovano una
cura e una vita adatta a loro grazie a personale adeguato, e quelli che
non hanno queste opportunità di terapia/assistenza (alle volte ci
raccontavano che, nei piccoli centri, avere un familiare con questi
problemi poteva essere visto come fallimento, una colpa e si doveva
quindi provvedere ad allontanarlo, anche a rinchiuderlo). Che colpa
hanno le persone con malattia psichiatrica?
Maria Dorini e Grazia Stella
azzurrosole@codess.com
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La colpa
Da un punto di vista psicologico
La colpa viene definita come un “atto o comportamento che implica
dannose conseguenze verso individui o la comunità”.
In ambito psicoanalitico non si parla di ‘colpa’ ma di ‘senso di
colpa’, cioè dell’emozione che segue la violazione di un precetto
o di una norma.
La colpa è definita come una risposta spiacevole (anche con effetti
fisiologici
percepibili, come un nodo alla gola, una morsa allo stomaco, il
rimorso) alla constatazione di aver ingiustificatamente trasgredito una
norma o causato un danno ad altri con un’azione o con la sua omissione,
assumendosene la responsabilità; la prima funzione del senso di colpa è
quella di comunicare, a sé e agli altri, di essere colpevoli.
La colpa, insieme alla vergogna, l’imbarazzo, il disprezzo, la
timidezza e
l’orgoglio, fa parte delle cosiddette emozioni complesse e della
autoconsapevolezza.
L’emozione della colpa è un’emozione sociale in quanto richiede
qualcuno
verso cui sentirsi in colpa e in quanto attiva comportamenti riparatori
volti ad alleviare il danno arrecato a qualcuno: soccorrere qualcuno,
riparare
il danno arrecato a qualcuno, scusarsi con qualcuno. Si tratta di
un’emozione sociale negativa, ovvero spiacevole, in quanto causa di
sofferenza
per chi la prova. La colpa possiede una valenza negativa anche
perché ci dice che qualcosa che non volevamo che accadesse è accaduto
(cioè il fatto di aver arrecato un danno agli altri). Infine, la colpa,
insieme
alla vergogna, è anche definita emozione morale, in quanto reazione
a una trasgressione delle norme morali. L’emozione della colpa,
infatti,
emerge non prima che il bambino abbia interiorizzato le norme secondo
le quali comportarsi e si riferisce alla cattiva condotta.
L’orientamento psicoanalitico di Freud rappresenta il primo grande
contributo teorico sul senso di colpa, spiegando l’esperienza emotiva
e morale secondo una visione intrapsichica. L’autore ha suggerito che
durante la prima infanzia il comportamento infantile è indirizzato
attraverso
le norme imposte dai genitori; successivamente queste vengono
introiettate dai bambini e costituiscono l’istanza psicologica del
Super-
Io, che agisce come coscienza. In una prima fase l’autore ha suggerito
che il senso di colpa è legato al Complesso di Edipo e ha origine
dall’ansia
infantile di perdere l’amore dei propri genitori e dalla paura di
essere
puniti per le fantasie e i desideri incestuosi provati nei confronti
del genitore
di sesso opposto (Freud, 1915). Successivamente, con lo sviluppo
della teoria strutturale e del concetto di Super-Io, Freud (1923/1959)
propone che questa emozione non è solo legata alla paura della
punizione
di una autorità genitoriale esterna, ma dall’ansia di persecuzione da
parte dell’autorità intrapsichica rappresentata dal Super-Io. Il senso
di
colpa è, quindi, il risultato di un conflitto fra l’Io e il Super-Io e
può avere
una doppia origine, può essere
suscitato dalla paura dell’autorità
esterna, o dalla paura del Super-
Io (o coscienza morale), cioè l'autorità
interiorizzata. In accordo
a questa teoria non si dovrebbe
provare colpa finché non viene
instaurato il conflitto edipico e l’identificazione
con il genitore dello
stesso sesso, verso il sesto anno
di età.
In modo simile, anche Rank
(1929) ha suggerito che i bambini
nel momento in cui mettono in
atto un comportamento che viola
le norme imposte dalle figure di
riferimento provano una sensazione
spiacevole legata alla paura
di perdere l’amore materno, che
opera tramite la punizione per
mantenere integra la relazione.
Tuttavia, Rank (1929) critica il
concetto di Freud (1923/1959),
secondo cui il senso di colpa si
origina nel periodo edipico. L’autore
individua l’origine dell’angoscia
nell’atto della nascita, che
è considerata come un trauma
psicologico dovuto al processo di
separazione dalla madre e al seguente
processo d’individuazione.
In linea con tale teoria suggerisce
che il senso di colpa si sviluppa più
precocemente rispetto a quanto
proposto dalla psicoanalisi classica,
ovvero nel periodo pre-edipico
a causa dell’ansia di separazione
dalla figura materna all’inizio del
processo di individuazione.
Da un punto di vista giuridico
Partendo dalle definizioni sopracitate e quindi dal fatto che nella
colpa e nel senso
di colpa c’è sempre il rapporto con l’altro, entriamo
nell’area del diritto. Il diritto, genericamente, può essere
inteso come ‘autorità’ statale che impone a tutti
di seguire delle regole, pena una sanzione. La sanzione,
prevista dal diritto, presuppone il concetto di imputabilità.
È imputabile chi ha la capacità d’intendere
e di volere.
In diritto penale si definisce imputabilità, o idoneità
al reato, la condizione sufficiente ad attribuire a un
soggetto l’azione penale e a mettere in conto le conseguenze
giuridiche. Pertanto, nessuno può essere
imputabile se al momento del reato non era in grado
di intendere o di volere:
● capacità di intendere, vale a dire attitudine dell’individuo
a comprendere il significato delle proprie
azioni nel contesto in cui agisce.
● capacità di volere, intesa come potere di controllo
dei propri stimoli e impulsi ad agire.
Va precisato che il concetto di capacità di intendere
e di volere va inteso come necessariamente comprensivo
di entrambe le capacità: l’imputabilità viene
dunque meno allorché difetti anche una sola delle
suddette attitudini.
L’incapacità non esclude l’imputabilità quando è
dovuta a colpa del soggetto. L’istituto della colpa è
abitualmente inserito, nell’ambito del diritto penale,
nella trattazione dell’elemento soggettivo del reato,
essendo collegata al problema del disvalore e della
illiceità della cosiddetta volontà colpevole. Il ‘Codice
Rocco’ (articolo 42 del codice penale, comma secondo)
recita: “Nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso
con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale
o colposo espressamente preveduti dalla legge”.
Pertanto la legge punisce anche il delitto commesso
per colpa; tra i vari tipi di colpa previsti dal diritto i
più affini alla riflessione sul senso di colpa possono
essere i seguenti:
- COLPA COSCIENTE. Il reo ha previsto ma non ha
voluto l’evento.
- COLPA INCOSCIENTE. Il reo non ha previsto e non
ha voluto l’evento.
Nel primo caso il soggetto è rimproverabile perché,
prevedendo, avrebbe potuto orientare la propria condotta
in senso inverso rispetto all’azione lesiva o pericolosa.
Nel secondo caso egli è rimproverabile perché
gli si richiedeva di prevedere, in modo da poter
evitare l’evento.
Infine, anche il diritto civile punisce la commissione
di un fatto lesivo commesso per colpa. L’art. 2043
del codice civile sottolinea che la lesione di un interesse
giuridicamente tutelabile implica di regola responsabilità,
sia se è prodotta dolosamente sia se è
cagionata per colpa. In tale settore del diritto la colpa
assume maggiore rilevanza rispetto al dolo perché
per il perfezionamento dell’illecito è di solito ritenuta
sufficiente una condotta colposa.
Approfondimenti a cura della dott. B. De Virgilis,
tirocinante in psicologia
www.associazioneumanamente.org
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La colpa da un punto di vista
etico religioso
Incontro con don Nildo Pirani,
parroco emerito di San Bartolomeo della Beverara
Definizione di Colpa e Peccato, il loro rapporto nel
corso della storia
Questo è uno dei punti oggi più discussi nella riflessione
teologica. Porterò alcuni esempi: all’inizio della
Messa c’è un momento che si chiama ‘Atto penitenziale’,
che si conclude con l’invocazione: “Confesso a
Dio onnipotente che ho molto peccato, per mia colpa,
mia colpa, mia grandissima colpa”. Qui i concetti di
colpa e di peccato vengono messi insieme. La colpa
è un concetto personale e intimo. Prima del Concilio
Ecumenico vi era una sovrapposizione fra peccato e
colpa. Questo creava una situazione di svantaggio,
poiché la colpa fa riferimento alla cultura, al contesto
sociale e religioso, per cui la legge dovrebbe dire
chiaramente cosa è colpa e cosa non lo è. Oggi colpa
e peccato vengono tenuti distinti, e ciò ha messo in
atto una situazione per cui nessuno va più a confessarsi,
perché una volta ci si andava per liberarsi dalla
colpa, per ‘svuotare il sacco’, e il peccato non veniva
preso molto in considerazione. Tutto ciò ha portato
a uno sbilanciamento, perché alcuni peccati sono
azioni che vengono disapprovate anche dal concetto
comune e dalla coscienza personale, ad esempio l’omicidio
è universalmente condannato, altre cose no,
come per esempio il non pagare le tasse, che alcune
persone vedono come una azione da persone furbe.
Una volta non pagare le tasse non era nemmeno un
reato. Svincolare i due concetti può avere vantaggi e
svantaggi: le persone che non sono religiose, potrebbero
dovere affrontare solo la colpa e non il peccato.
Nel Medio Evo le persone andavano a chiedere al
sacerdote come dovevano comportarsi se venivano
in mente pensieri cattivi verso i fratelli, e quindi raccontavano
quali azioni e pensieri avevano commesso.
Così è nata la pratica della confessione ‘auricolare’,
venne istituito il confessionale, con la grata per non
indurre il prete in tentazione quando si presentavano
le donne. Aggiungo che, un tempo, la confessione era riservata a casi
che avessero disturbato la comunità.
Ad esempio, chi aveva ucciso o dichiarato di rinunciare
al Cristianesimo, prima di essere riammesso nella
comunità doveva fare la quaresima, cioè doveva stare
per quaranta giorni davanti alla chiesa e spargersi
il capo di cenere, questo fin dal Medio Evo. Chi si
confessa, oggi, va da una persona di cui ha fiducia,
infatti le persone dicono: “Mi confesso da lei, ma non
vado da un’altra persona…”. Ecco, allora questa non
è una vera confessione, è più una specie di terapia.
Oggi, per definire una azione come ‘peccato’ ci devono
essere alcuni elementi: la materia grave, la piena
avvertenza, la piena coscienza e il deliberato volere
(così, ad esempio, chi è sotto tortura non commette
alcun reato, poiché è stato indotto a parlare). Uno dei
punti in cui si avverte la distinzione tra peccato e colpa
è il campo della sessualità, perché è stato creato
un senso di colpevolezza così grande che il peccato
è quasi stato soppiantato dal senso di colpa. Oggi la
società si è liberata anche troppo e ognuno fa ciò che
ritiene opportuno… è difficilissimo che oggi una persona
venga a confessarsi per peccati sessuali e non
ha torto, perché la Chiesa non ha il diritto di entrare
nell’intimità.
Immagini e racconti delle Scritture che possano aiutare
a comprendere la colpa.
Nelle Scritture c’è un punto in cui, secondo me, c’è
una distinzione precisa tra peccato e colpa, dove si
racconta dei peccati commessi dal Re Davide. Nonostante
Davide sia una figura di re santo e buono, in
un momento di onnipotenza commette adulterio e
assassinio, quando si invaghisce di una donna e la
mette incinta. Allora Davide manda a chiamare il marito
della donna per chiederla in sposa, ma il marito
rifiuta. Davide allora, organizza una trappola per fare
raggiungere all’uomo un punto pericoloso, dove egli
viene ucciso, e così Davide può prendere in moglie la
vedova. Successivamente a questi eventi, un profeta
va a trovare Davide e gli racconta una storia che
narra di un uomo ricco, il quale, per fare festa, prese
l’unica pecorella di un suo vicino che non aveva altro
e che l’amava moltissimo. Davide insorge al racconto,
esclamando che quel ricco uomo è colpevole e merita
la morte. Al che il profeta gli fa notare che, quanto
narrato nella storia, è simile a ciò che ha fatto Davide,
ai peccati da lui commessi. Il profeta mostra a
Davide come appare la cosa all’occhio di Dio: è vero
lui ha sposato la donna che aveva messa incinta e
non ha materialmente commesso un omicidio, ma di
fatto ha commesso adulterio e provocato la morte del
marito della donna. Questa narrazione illustra il fatto
che davanti al popolo Davide non ha colpa, ma davanti
agli occhi di Dio sì. Quindi il peccato si colloca
in una dimensione religiosa, nel rapporto dell’uomo
con Dio. La coscienza può avere a che fare sia con la
colpa che col peccato. Ad esempio, se un bambino si
mette le dita nel naso, nonostante sappia che ‘non si
fa’, può sentirsi in colpa. Potrebbe esserci un peccato
che non prevede nessun senso di colpa e una colpa
che non prevede il peccato.
Come avviene il perdono? Come il pentimento? Come mi
aiuta Dio, se mi sento in colpa?
Bisogna vedere il motivo per il quale ci si pente, perché
se il motivo è l’angoscia, allora siamo caduti nel senso
di colpa e Dio non c’entra: praticamente uso il mezzo
della confessione solo per sentirmi meglio. Invece,
se viene da dentro, allora significa che ho accettato
il giudizio di Dio su quello che ho fatto, a prescindere
dall'opinione personale. In tal caso possiamo dire che
è pentimento; allora si può dire che, mentre il peccato
distrugge il rapporto fra essere umano e Dio, il pentimento
è invece un atto creativo, cioè porta al perdono
di Dio nei confronti della persona, alla ricostruzione
del legame. Vi è sicuramente una forte influenza del
‘peccato originale’: oggi è preferibile riferirsi alla ‘origine
del peccato’, per cui il racconto su Adamo ed Eva
non è il racconto del ‘peccato originale’, ma della ‘origine
del peccato’, che consiste nel mettere in dubbio
la parola di Dio, nel mettere sotto processo Dio. Così, il
peccato, vale a dire il rapporto sbagliato con Dio, crea
delle conseguenze: se uno stacca la corrente, non si
vede più nulla. Adamo, invece di lasciarsi trovare da
Dio, si nasconde. Il pentimento, invece, consiste nel
ritornare a Dio con un atteggiamento diverso da quello
che ha causato l’allontanamento. Il rivolgersi a Dio,
però, non è necessariamente indice di pentimento,
quando diventa solo un mezzo per ottenere ciò che
desideriamo, cioè l'attenuazione della nostra angoscia
personale... a volte è l'unica cosa che le persone
però sono in grado di fare. Circa il chiedere scusa,
ho imparato una cosa interessante da una mia amica
musulmana: mi diceva che, quando si commettono
peccati nei confronti di altre persone, è nostro dovere
chiedere perdono a loro, non solo a Dio. Nel chiedere
perdono a Dio, bisognerebbe chiederlo anche ai fratelli,
poiché il perdono concessoci da Dio, non elimina
i danni fatti. A questo tema è collegato il grande
capitolo delle indulgenze. Le indulgenze sono stata la
goccia che ha fatto traboccare il vaso tra Cattolici e
Protestanti. Il perdono è un atto creativo, di Dio, però
rimangono le conseguenze di ciò che hai fatto, sei
perdonato da Dio e quindi sei una nuova creatura, ma
devi anche pensare e avere a che fare con le conseguenze
delle tue azioni. Nel caso delle indulgenze, l'intervento
della Chiesa, attraverso i suoi protagonisti,
poteva alleviare la pena. Ad esempio, se fosse intervenuto
un martire, allora c'era una azione grandiosa che
poteva alleviare la pena: tu sconti la pena, io intercedo
per te, ‘lavoriamo’ insieme all'alleviamento delle pene
del peccatore... Abbiamo l'esempio di Padre Pio, che
diceva che metà pena la faceva lui per il peccatore.
L'esperienza personale di un parroco nei confronti delle
persone che si sentono in colpa?
Nella mia esperienza ricordo di persone che si confessavano
in continuazione perché nonostante questo il
senso di colpa rimaneva, e allora questo non è positivo.
Se io continuo a sentire il senso di colpa, debbo
andare dallo psicologo o parlare con persone amiche.
Dio perdona sempre se la richiesta è autentica, è il
cuore che, spesso, continua a condannarci.
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Storia dell'inizio di un processo
Palermo - 1986 - Aula Bunker
Il Presidente della Corte d'Assise
fece entrare Tommaso Buscetta, che si sedette (cinquanta carabinieri
intorno a lui, che era in una ‘scatola’ di vetro antiproiettile) e gli
chiese semplicemente: “Lei è il partito Tommaso Buscetta?".
Il Boss raccontò poi a Enzo Biagi (ne ‘Il Boss è solo’, lunghissima
intervista negli U.S.A., non priva di sonore menzogne, tradotta poi in
libro) che era molto agitato, ma che quel lapsus del Presidente lo mise
subito a suo agio. E iniziò : " Non sono un pentito”...
Pino Arlacchi, Addio Cosa Nostra
La colpa, il tormento e ‘il nuovo’
Mi è sempre riuscito ostico (anche nella saletta
psicoanalitica) parlare sinceramente delle mie
colpe passate. A volte anche nettamente realistiche,
ma velatamente e sottilmente disconosciute o proiettate.
Bimbetto difficile e rompiballe prima, seminai, ad
esempio, nel mio ricordo assolutamente inconsapevole
del rischio, un paio di piantine di cicuta in mezzo
al prezzemolo dell'orto casalingo, con gran spavento
di mio padre che mi chiese solo, accorato e dolente, di
sradicarle, come feci puntualmente e diligentemente.
Adolescente poi, inquieto ed irrequieto, sempre rompiballe
ma soprattutto tremendamente ribelle, volli
tentare con un amico una scalata in montagna, ‘mascherata’
ai genitori come una gita innocente, arrivando
però in vetta al tramonto del sole e pernottando
lì all' addiaccio e al buio, con rischio di infarto dei
miei genitori, quando videro che mancavano le corde
di nylon, cotone e gomma, e di quelli del mio compagno
di sventura (non c'erano infatti, in quella epoca,
i cellulari).
E così via... ma per i miei familiari tutti, quanti rospi
e pensieri, che andavano a sommarsi a quelli, già cospicui,
loro personali! Comunque sempre compattamente,
ostinatamente ma benevolmente, protettivi.
Adulto infine e finalmente, ma ancora molto bizzarro
e ribelle soprattutto alle regole imposte. Eh sì, come
già molti adolescenti maturi si rendono conto, esistono
anche delle responsabilità del figlio verso i
genitori e del fratello verso i fratelli (o perlomeno, il
dovere della sincera riconoscenza).
Per non averli compresi, nelle loro difficoltà o nei loro
bisogni, o nelle loro richieste anche esplicite o quasi,
di aiuto. È dirompente, spaventosamente apparentemente
incontrollabile la commozione, nel momento
della scoperta (se emotivamente autentica) e del ridimensionamento
delle naturali e più o meno marcate,
ma consuete,
e probabilmente
normali incomprensioni
familiari.
La mia rabbia e dolore svaniscono e subentra un sentimento dolce e
malinconico, liberatorio e sincero...
E il nuovo. Il
Matteo un po'
zingaresco e
curiosamente
esplorativo. Una
poesia o uno
scritto. Nuove amicizie, nuove ‘aperture di campo’, o
un piccolo (o grande) amore. Ma comunque, sempre,
un pizzico di saggezza e molta rinnovata ricchezza
interiore in più.
Lettera di un figlio al padre
Credo che la tua prova più difficile, nella tua già
durissima vita, sia stata la ‘paternità’: non avevi
un modello al quale richiamarti (nel bene o nel male)
essendo morto tuo padre (mio nonno) quando ancora
eri in fasce...
Ci sei riuscito. Con tre figli, ognuno diversissimo dagli
altri, col quale rapportarti, hai chiesto talvolta aiuto
(saggiamente) a persone sagge: ma non ve ne era
bisogno. Tre figli: per parte mia ti ho fatto inutilmente
penare, ma ero così, e tu comprendevi.
Nel momento dell'ultimo distacco, ti dissi inconsapevolmente
(volontà divina?) un bellissimo "grazie!" e
non lo scorderò mai: tu eri triste, presagivi qualcosa...
Vedevi nel futuro, non solo quello famigliare e
filiale, ma anche politico e sociale: cercavi di spiegarci...
A più di trenta anni dalla tua morte, ti ricordo
così: un po' giustamente scanzonato, un po' (troppo!)
preoccupato.
Lettera di un figlio alla madre
Cara mamma, negli ultimi anni della tua vita, e prima
che ti ammalassi gravemente, siamo riusciti a
donarci sprazzi di confidenza reciproca.
Se accennavo velocemente a ‘dettagli’ passati e per
me importanti, mi dimostravi di ricordare tutto e di
aver compreso - da sempre - circostanze e particolari
che credevo miei ed intimi. Che sorpresa per me, ma era difficile anche
per te: per la nostra - comune - naturale
ritrosia a svelare le proprie emozioni e pudori,
andavamo per il tempo di veloci battute: sembravamo
due schermidori che - improvvisamente - incrociavano
le armi e si abbracciavano, per poi riprendere la
mai sopita battaglia. Eh sì, il nostro rapporto non era
facile: ti ho sempre accusata, nel mio intimo, di esser
troppo riservata, sospettando però presto - e col
tempo - che tu non volessi privarmi della mia (quanto
reclamata!) libertà interiore o, peggio, ferirmi nell'animo.
Consapevole, probabilmente più di me, delle
mie fragilità. Quante paure e chissà quali mai colpe ci
allontanavano: tu hai portato con te, dal babbo, cose
che non saprò mai, ed è giusto così: sii serena, ora,
con lui.
L’orgoglio e la colpa
Non sono modesto, e ne soffro sinceramente.
Combina - guai, rompiscatole bambino nevrotico,
misi a dura prova mio padre nel suo (già per lui difficile)
mestiere di genitore e feci talvolta soffrire mia madre,
che ricorreva però spesso ad un dono speciale:
il sano buon senso. Chi mi vuole bene e soprattutto
conosce me e la mia vita ‘anteatta’ - come direbbe un
giurista un po' fanatico usando una espressione sovente
incollata ai rei, nel commisurar loro la pena - mi
osserva e ci sorride su. Abitualmente mi ritrovo però
in difficoltà: scatta la fuga e l'amara solitudine ormai
già più volte sperimentata.
"Che fare ?", diceva Lenin, una volta fatta la rivoluzione…
Già, che fare?
Personalmente sono sempre stato convinto che il
cerchio è tondo: sebbene il cammino sia ancora lungo
e la strada ancora tortuosa, ricca di finte ramificazioni
che sembrano andare di qua e di là, giungerò comunque
infine all'unica mèta possibile: un benevolo
sorriso al prossimo, qualunque ne sia l' occasione.
L’assoluzione
Riflettere. La luce, o con sé pensare? Perché qui sta
l'errore: parlare con sé...
Meglio davvero rifletter la luce e a qualcuno poi farla
vedere, scegliendo da sé chi non possa tradire... Il
pensiero rimane, è dentro di te, mentre la luce comunica.
Lo vedi negli altri che stanno con te: il confessionale,
il dottore... Al primo tu dici: “Che male ho mai fatto,
o mio Signore, per meritare questo, senza rancore?”.
Il primo ti dice: “Il cerchio è rotondo”. Il secondo ti
dice: “Sempre così è andato il mondo”. Non sono discordi
le due voci amiche: all'una ti affidi, all'altra dici.
Dici: “Dottore ... non so più cosa fare. Mi sento un
po' vecchio ma saggio da dire: Dottore mi aiuti, non
voglio morire”. “Di colpa, ma quale?” lo dicono entrambi,
sorpresi nel dire: “Vivi la festa! Non ti ferire di
colpe non vere”. La festa c'è, ed è la vita. “La piaga
è benigna: non ristagna, viene a galla e si cura”, dice
il dottore. E il dottore lo sa… che hai anche un altro
amore.
Matteo Bosinelli
|
La colpa
Sono capitata - è lunedì - nella stanza, senza un poco
di più di me,
senza niente e per te era una colpa, del niente cose, di niente
vestiti, né niente dei ricordi di me.
Ma era per me un gaudio felice e un dolore magnifico, il sospetto che
dietro alla porta, mamma, ci fosse qualcosa anche per me, ma non trovai
nulla, solo robe vecchie che censii, per una bambola regalata da
un'amica che era dal nulla vista, dal nulla riconosciuta, un po' anche
per il bello di una colpa d'amore.
Paola Scatola
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La colpa secondo me
La colpa, il senso di colpa
verso sé stessi, si sente
quando si capisce che
non si è fatto quello che si
poteva e doveva fare, magari
per pigrizia, o si è fatto qualcosa
che ci ha danneggiato magari
per leggerezza, tipo una grande
mangiata per scontentezza, per riempire
un vuoto e il giorno dopo ci
si sente in colpa perché non si è in
pace con sé stessi, perché questo
nasconde qualcosa che va affrontato.
Senso di colpa perché non si
ha avuto voglia di impegnarsi in un
compito difficile o noioso, ma necessario
per colmare delle carenze,
il che ha impedito di raggiungere
un obiettivo importante che ci si
era prefissi e ci si sente in colpa, ci
si vede come in realtà non si è, perché
non abbiamo stima in noi stessi.
Non è poi così difficile riparare,
si cerca di affrontare la situazione
disagevole dandosi da fare immediatamente
prima che il tutto abbia
il sopravvento su di noi, anche se
il compito costa fatica, è difficile
o noioso, ma quello che conta è
che alla fine ci si senta appagati,
perché si è superata questa sensazione
sgradevole di impotenza e di
colpa, direi perché ci si è gratificati
facendosi del bene, dimostrando
cioè a noi stessi di avere avuto la
forza di volontà di superare tutto
ciò, cercando di raggiungere l’obiettivo
che ci eravamo prefissi. Un
po’ tortuoso ma è facile da capire.
La colpa e cioè il senso di colpa,
quello peggiore, è un qualcosa
che tutti più o meno sentiamo,
sempre se abbiamo la coscienza
e un senso di giustizia per capirlo,
relativamente alle nostre azioni
verso il prossimo. Purtroppo, o
per fortuna, ogni volta che questo
sentimento mi pervade, vedo
di allontanarlo da me immediatamente,
facendo un esame di coscienza,
ammettendo i miei limiti e
in secondo luogo chiedo scusa se
ho fatto o detto qualcosa che ha
potuto ferire qualcuno. È un fatto
di umiltà e rispetto di sé e quindi
degli altri, è una riparazione a un
proprio errore, e non è poi così
semplice ammettere di avere sbagliato
e chiedere scusa, perché ciò
comporta un esame spesso doloroso
e una buona dose di umiltà.
E non è vero che, in generale, tutti
sappiano chiedere scusa, anzi
molto spesso le persone (alcune
almeno) non lo fanno proprio, perché
è difficile assumere le proprie
responsabilità e ammettere i propri
limiti e difetti, mentre è molto
più semplice scaricare le proprie
colpe sugli altri facendo finta di
niente, perché fare un esame di
coscienza è spesso difficile e doloroso
e anche una buona conoscenza
e consapevolezza di sé non
è poi così scontata. In verità a chi
non sa chiedere scusa succede
che deve difendersi con un atteggiamento
aggressivo, addebitando
e proiettando le sue colpe su chi
effettivamente ha subito un torto,
e si crea così un circolo vizioso in
cui non si arriva mai a un rapporto
aperto e leale, si distorce la relazione
e chi è vittima di una ingiustizia
diventa quasi l’artefice di un
comportamento sbagliato (a volte
inconsciamente ci si sente in colpa
senza avere fatto proprio niente
di male), perché chi ha colpito
preferisce fare sentire in colpa l’altro,
per paura di soccombere affrontando
il giudizio della propria
coscienza, ovviamente negativo.
E quello che più fa paura è che il
colpevole fa proprio finta di niente
e la vittima subisce una velata, ma
sottile e strisciante… una vera e
propria violenza, e il finale di tutto
questo è che si crea un rapporto
malato, per la vigliaccheria, spesso
per la grettezza e superficialità
e anche una buona dose di ignoranza
e tutto quello che ne consegue:
cattiveria, egoismo, mancanza
di umiltà e sensibilità di persone
che non vogliono o non riescono
ad affrontare sé stesse per paura
del loro io più profondo e del giudizio
di questo. Dovrebbero completamente
cambiare il loro modo di fare ed essere; ecco quello che più
fa paura: cambiare.
Chi subisce è considerato un debole,
mentre il vero artefice delle
azioni sbagliate è persona bassa,
piccina, violenta, crudele e arida,
che non sa affrontare sé stessa e
non si assume le sue responsabilità,
per cui preferisce far soffrire
gli altri che soffrire personalmente
per ciò che ha fatto e chiedere scusa,
come se chiedere scusa fosse
un sintomo di debolezza, senza
capire che sarebbe solo un punto
a suo favore per dimostrare invece
la sua forza. Chiedere scusa… Basta
poco in fondo e chi non riesce
a farlo con le parole lo può dimostrare
semplicemente con il comportamento
o le azioni, il che gli
fa ancora più onore. Ma non tutti
quelli che non riescono a chiedere
scusa sono poi così cattivi, forse
gli manca il coraggio di farlo, ma
non facendolo penso che si sentano
molto peggio e che ne soffrano
pure. Il senso di colpa deve essere
analizzato affrontato e distrutto
subito e ciò significa ammettere i
propri errori, affrontare sé stessi,
i propri limiti, ed elevarsi di livello
chiedendo scusa con umiltà.
Per questo le mie colpe le ammetto
anche per egoismo, non le voglio
sentire addosso, ma cerco di allontanarle
subito comportandomi
di conseguenza, e con questo sto
meglio io e anche gli altri, e il mio
rapporto col mondo migliora. Il
senso di colpa è come una malattia
che può distruggere te stesso
e gli altri se non viene ammessa e
affrontata.
Francesca
|
Colpa, peccato, perdono
Non c'è dubbio che
quando sento, chiacchierando
con qualcuno,
la parola ‘colpa’
la prima cosa che mi
viene in mente è il senso di colpa:
pensare che la proposta cristiana
quando parla di ‘peccato’ stia pensando
al senso di colpa è uno dei
principali e più dannosi malintesi.
Io il senso di colpa lo descrivo così:
quel forte disagio che provo quando
non sono come dovrei essere.
Naturalmente a questo punto la
questione si complica: come dovrei
essere, la mia immagine ideale, chi
lo stabilisce?
Certo l'educazione ricevuta, la
cultura che si vive, le convinzioni
personali, l'adesione ad una fede
o ad una ideologia... E il come io
sono, chi lo può dire? A volte siamo
troppo severi con noi, altre troppo
indulgenti, ci fermiamo su caratteristiche
del nostro carattere forse
non decisive e magari non ci accorgiamo
di grandi pregi o grandi
difetti... Ed infine si complica anche
il modo di reagire al senso di colpa,
perché nel disagio nessuno sta
bene: c'è chi non fa niente sperando
che il disagio si affievolisca col tempo,
chi rifiuta tutti i valori assimilati
per non sentire più alcun senso di
colpa, chi rimane schiacciato sotto
i suoi sensi di colpa, il suo sentirsi
inadeguato...
I sensi di colpa ci appartengono:
in alcuni casi ci possono momentaneamente
aiutare a capire un errore
commesso, in tanti casi non ci
aiutano a vivere meglio le relazioni,
comunque non possiamo toglierceli,
tutt'al più possiamo cercare di
maturare rispetto ad essi. Ma non
sono loro il punto di partenza di un
cammino nella fede cristiana, che
è fondamentalmente un messaggio
di liberazione e di gioia. È vero
che questa gioia è quella di chi si
sa perdonato, ma allora quando
faccio due chiacchiere ‘spirituali’
con qualcuno a questo punto devo
cercare di spiegare che il senso
del peccato non è il senso di colpa.
Il senso di colpa si gioca tutto
a livello individuale: mi dà fastidio
non essere come dovrei. Il senso
del peccato è invece: mi dà fastidio
perché avevo da fare qualcosa
di bello con te e mi sono tirato
fuori. Un esempio tratto dalla vita
di coppia. Se ti ho in qualche modo
tradito posso sentirmi male perché
sono deluso di me, non pensavo di
essere una persona che fa soffrire; ma comunque il senso di colpa mi
fa ripiegare su di me: in fin dei conti
mi dispiace per me, per come mi
sono comportato. Invece se dopo
quel che ho fatto, certo, ammetto
di aver sbagliato, però mi dispiace
soprattutto per noi, per la relazione
che è stata ferita, per il progetto
bello che avevamo, allora quello
assomiglia più al senso del peccato.
Nel primo caso il perdono dell'altro
sarà comunque un ribadire che non
sono stato adeguato, e mi farà sentire
inferiore, umiliato. Nel secondo
caso il perdono dell'altro è il poter
ricominciare insieme il progetto comune
di vita, e sarà un momento di
gioia. Ecco, penso che senza questa
spiegazione rimanga difficile
capire come il cristianesimo sia la
gioia dell'essere perdonati. Non riesco
ad immaginarmi Dio come uno
che agitando il dito indice alzato mi
dice “Eh, eh, così non va per niente
bene, ma che razza di figlio sei, ma
non ti vedi? Sono deluso di te”. Me
lo immagino piuttosto come un padre
che mi affianca e mi dice “Senti,
non hai più voglia di aiutarmi a
cambiare il mondo? Guarda che se
vuoi io ti riprendo volentieri a far
parte del mio sogno che sto realizzando”.
Questo è per me il perdono,
quello che libera e dà gioia.
Don Paolo
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La colpa e lo Zen
Se l’uomo produce e attiva in sé il suo io e il suo
ego, che
associa o mette in competizione con quello degli altri, produce in sé e
negli altri sofferenza, colpa e peccato. Se però riesce lentamente ad
escluderli da sé... E se poi anche gli altri lo faranno... Potrà avere
accesso alla comprensione de:
Il giusto o nobile ottuplice sentiero
1) giusta fede,
2) giusto pensiero,
3) giusto parlare,
4) giusta azione,
5) giusto modo di vivere,
6) giusto sforzo,
7) giusta memoria,
8) giusta meditazione.
Il nostro corpo è un segmento x-y nel quale graficamente si possono
disegnare arrivi e partenze. Si avrà:
Dopo di che, se si riesce ad avere consapevolezza di queste otto
coscienze, in noi diminuisce, fino a sparire, la sofferenza.
Luigi Zen
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Non Rubare
Sembra una cosa banale,
ma ti devo chiedere
di non rubare!
La tua è un arte?
Un grande lavoro?
Perché lo stai facendo?
Fai male agli altri…
Prova a pensare
solo per un attimo
come fai sentire i derubati,
li rendi scontenti,
ma soprattutto sfiduciati
verso le persone…
Se non sai come fare
a campare
vai a lavorare!
Rubare è l’antilavoro,
serve per avere i soldi facili,
con poca fatica.
Vuoi essere odiato da tutti?
Non preferiresti avere degli amici
invece d’incutere paura?
Che cosa fai?
Lascia stare quella borsa,
non entrare nella villa,
perché stai sfilando quel portafoglio?
Non lo sai,
ma anche se stai sottraendo
solo una caramella a un bambino,
non è bello quello che stai facendo!
Si inizia con le piccole cose,
poi ti troverai a rapinare le banche…
Tu hai una coscienza
che ti rode dentro
e che ti fa capire
che quello che fai è ingiusto
per una volta
prova a seguirla.
Gli onesti non sono stupidi,
al contrario
amano la loro quieta serenità,
non sbagliano…
Loopa Sonivree
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Il mio cielo
Mi illumino nell’incanto
di un’argentata luna.
Nella notte dai suoni ovattati
mi dirigo verso il ‘mio cielo’.
Cielo di speranza, gioia e serenità,
ove le nubi dell’odio si dissolvono
con un soffio di vento.
Così mi illudo di vivere
in un mondo di pace e fratellanza
che all’unisono svelano
melodie soavi.
Giovanna Giusti
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Bellissima
La tua bellezza
sta alle farfalle
come Dio a chi pecca
Sei l'unica
che possa sciogliere
questo groviglio di pensieri
e di tenebrosa tristezza
Accoglimi
col velluto delle tue labbra
(amami appassionatamente!)
E come in un passaggio onirico:
dopo di te
cielo splendente!!
Piergiorgio Fanti
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Fatto
Smarrito e piegato,
bucato,
bucato steso.
Fatto.
Sanguina dentro e fuori.
Sceglie il pene morto
per evitare
tutto.
Fatto.
Di madre assente,
di padre assente.
bucato al sole,
bagnato, steso,
asciugato.
Fatto.
Ne ho visti vagabondare,
elemosinare fra i rifiuti,
ai bordi delle strade,
ai bordi delle case,
laccio al braccio e via…
Morto e distrutto.
Fatto.
E i signori non sanno.
Fatti loro.
Fatti e fatto.
Zero centesimi, buco.
La verità è storta,
di contrabbando,
disfatta. Fatto.
Marcella Colaci
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Per Antonio M. Serra
Sarò la tomba,
silenziosa e muta,
in cui giacerai,
la sigaretta che fumerai.
Vorrei essere il tuo costato
quando respira.
Vorrei avere sempre con me
i tuoi occhi neri,
di diamante luce.
Grazie perché…
Tanto mi hai dato,
grazie perché…
tanto mi dai.
Un gatto nero guarda
distratto
tra la siepe del giardino e l’albero.
Sei albero tu, o stella mia, cuore mio,
anima gemella, trasparenza leggera.
Sei acqua pura, viva.
Acqua che toglie la sete per sempre.
(Ho scordato le chiavi di casa.
Un topo è morto.
La luna è piena, grassa, bianca.)
Lupo solitario sei. Ed io lupa.
Ti amo.
Ave Manservisi
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Senza titolo
Le ali dell’aquila in volo sono grandi.
Maritozzi al purè vedo su di me
e mi lavo i piedi e le mani
cercando di volare alto anch’io
ma non ho più fiducia in te,
cara ciabatta rotta.
I tuoi fiori sono secchi
e non parlano d’amore
a chi ancora piange un defunto.
Gli innamorati si baciano tenendosi la mano,
gli uccellini cantano sempre,
fanno concerti di armonie stellari.
Io e lui ci vogliamo così bene
come stretti da catene e ghirlande di rose,
avvinghiati all’unisono per sempre
fino alle ossa del sepolcro insieme.
Tra gigli ed aquiloni sul mare blu
senza nubi, senza indugio.
Acqua trasparente,
angeli cherubini, allegri bambini.
Aquile noi, nel cielo lontano.
Ave Manservisi
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La colpa
La colpa è un lungo treno
senza fine
e senza biglietto,
un treno di cui
non si vede la fine.
Ma non sono sicura
che la fine ci sia
e lei stessa non sa
da dove è venuta
e qual è il punto
in cui si può scegliere
di mandarla via.
Vorrei la pace
vorrei il silenzio
vorrei che un giorno
finisse quest’ospite non invitato
che oscura tutto il mio cielo.
Daniela Mariotti
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Giglio 2
Si sfila verso terra il nuovo nato
gli occhi dischiusi a un blu di piombo.
Non lo sa ma ha già peccato
e non sarà mai puro
come un fiore.
Ermanno Bitelli
|
La colpa
Sì, mi duole il cuore
se, eccone il ricordo,
tanto tempo fa,
quando mi presi il treno
e me ne andai da te.
Eri tutto
eri mio
ma poi tutto si ruppe,
e perdio!
Quando mi hai chiamato
ero tutta io
poi scomparve l’essere
e rimase l’io: alla volta,
alle volte te conservai,
ma divenne un lampo
ciò che nell’andare
anche tu conoscerai.
È amore non è un addio
proprio a te che sei l’uomo mio.
Proprio te ho chiamato
non un addio,
ma un arrivederci, addio.
Ti ho lasciato andare via
quelle mani dal cuore
le posai sull’asfalto
in calore.
Ti ho guardato, tanto e poi
tanto andare ogni volta
via uomo mio
che ti ho ripreso le mani
sul cuore mio.
Paola Scatola
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Italia: 150 anni – Canti vibranti
Sono Canti vibranti nell'aria
Narran tutti la nostra Storia.
Il Piave mormorava
Passavano i Soldati per l'Unità d'Italia.
Monte Grappa tu sei la mia Patria
Nacque il Canto per un Capitano
Va pensiero sull'ali dorate
Tà pum! tà pum!
Sul cappello c'è una lunga Penna Nera
E le Giberne che noi portiamo
Sole che sorgi
Sui Colli nostri i tuoi cavalli doma.
Partono i sommergibili.
Da lontano un Canto, Giarabub
i nostri Soldati nel deserto.
Sul Ponte di Perati, Bandiera Nera
È per gli Alpini che non son tornati.
La Bandiera dei tre colori
È sempre stata la più bella
Noi vogliam la Libertà.
Un giorno, all'alba "FRATELLI d'ITALIA
L'ITALIA s'è DESTA". Nella musica antica
Ci sia una voce nuova. È disumano pronti alla morte.
"UNITI SIAM FORTI! L'ITALIA SARÀ, SÌ ".
Primavera MMXIV
Luigi Monaco
|
Per colpa di Kubrick
Si parlava della colpa.
Che colpa ne ho.
Mi venga un colpo.
La colpa è femmina, chiedere ad Eva.
Lei dirà che la colpa è del Serpente,
e siamo da capo.
Forse ci vuole Re Lucertola.
Jim diceva che i rettili
rappresentano le forze del male:
approccio titanico,
quello a me più caro.
Quanto al cinema,
vedi Stanley Kubrick…
Che dire, Eyes Wide Shot
tratto dal romanzo Doppio Sogno.
Non è colpa di nessuno
se questa mail è un po’ onirica...
Nel caso, date la colpa a me!
Giovanni Romagnani
|
Poesia
Qual umile donzella
che di colpa si è macchiata
non osa alzar lo sguardo altero,
è un lusinghier pensiero
col principe danzar.
Danza con piè leggiadro
lo sguardo suo è fugace
con la fluente chioma
fa gli uomini incantar.
Lei spera nel perdono
ma per codesto dono
ha i santi da pregar,
perché dall'uom terreno
perdono non ottiene
per la cruenta colpa
la pena ha da espiar.
Mariangela Soavi
|
L’ombra
Rubata che non ho mai avuto
all’ombra del Parkinson
si dilegua e sfa.
Di memoria affranta
di occasioni mancate
di recupero tardivo
del coraggio deposto
sul rivo del quotidiano
s’intridono alba e tramonto
della speranza e della vita.
I solchi restano:
il vivere non è dato
in una dignità deposta
su un marmo levigato.
S’aggroviglia il morso di quali colpe finché
spolpata della sua carne
la virtù scolora nella trasparenza.
Ermanno Bitelli
|
La colpa
Se ho sbagliato c’è un perché,
se ti ho voluto bene c’è
un ennesimo perché:
ma ti ho perso col cuore e con l’anima
prima di averti lasciato andare.
Ed è una colpa non averti più offerto
carezze, ma con gli occhi
ti ho ridato quella stima
che forse è stata di più di una carezza.
Ciao, zio, ciao, a presto.
Ma io non ero più con te cauta
e la colpa sta sempre nel mezzo.
Paola Scatola
|
Dal numero 51 (febbraio 2013) della rivista Liberalamente
il giornale del fareassieme della Salute Mentale di Trento
Quando la malattia si trasforma
in un senso di colpa
Quando penso al senso di colpa mi viene
in mente il racconto “La metamorfosi”
di Franz Kafka. Il protagonista Gregor
Samsa si sveglia un mattino per andare
a lavorare ma non riesce ad alzarsi dal
letto. Si è infatti trasformato in un enorme insetto. Un
insetto che pensa e ragiona come un essere umano,
come Gregor, ma che è imprigionato nella corazza di
un animale orribile. La sua famiglia vive questa situazione
assurda con orrore e rifiuto. Gregor è diventato
per i suoi famigliari solo un peso di cui sbarazzarsi
al più presto. Un giorno il padre gli lancia contro
una mela che lo ferisce e che lo farà morire. Il giorno
stesso della sua morte i famigliari, alleggeriti, festeggiano
facendo una gita in campagna.
Quando ci si ammala spesso ci si sente un peso per la famiglia ma
quando questa malattia si protrae nel tempo, come
nel caso delle malattie della nostra mente, il senso di
colpa si quadruplica. Infatti non sta scritto in nessun
manuale quanto tempo possa durare il processo di
guarigione e talvolta si ha l’impressione che gli unici
responsabili del nostro star male siamo proprio noi.
Non equipariamo la nostra malattia a una polmonite,
a una malattia cardiocircolatoria, al diabete. Il male
di vivere è difficilmente classificabile e la sua cura
non è facile e scontata. Sembra – a noi e a chi ci sta
vicino – che questo malessere sia frutto della nostra
immaginazione, una scelta di comodo per evitare i
problemi, una forma di pigrizia. Ci ammaliamo per
una serie di motivi: l’ambiente, la storia familiare, il
patrimonio genetico, i caratteri ereditari, le situazioni
di stress, il caso. Ma nessuno sceglie di stare male.
Consapevolmente. Colpevolmente. Con dolo. Eppure
il senso di colpa non se ne va.
Vediamo i nostri fratelli,
i nostri amici che pur essendo cresciuti nel nostro
stesso ambiente, pur avendo conosciuto anche loro
degli insuccessi, hanno reagito in modo diverso e non
sono caduti nella malinconia, non si sono lasciati andare.
Il confronto con gli altri spesso ci uccide perché
ci misuriamo sempre con chi è migliore di noi, non
con chi è più infelice e sfortunato. Il senso di colpa
può distruggere, la sensazione che la responsabilità
di una situazione negativa sia solo nostra e non anche
degli altri ci fa vivere male.
Tutti noi sbagliamo. È normale che facciamo errori. Ma macerarsi nel
senso
di colpa è sbagliato, non serve a cancellare gli errori
e a riportare la situazione a come era una volta.
Talvolta facciamo cose stupide: per seguire l’istinto
o il bisogno di trasgressione facciamo scelte di cui
poi ci pentiamo. Paghiamo con la sofferenza, nostra e
altrui. Siamo fatti così. Sbagliamo, soffriamo, ci pentiamo
e poi sbagliamo di nuovo e così via.
È difficile vivere senza sensi di colpa. Ma dopo la colpa arriva la
possibilità di riscatto, di riprenderci, di essere perdonati
e di cominciare da capo. Si tratta di esperienze
di ogni giorno che caratterizzano la nostra umanità.
|
Per colpa di chi?
Per colpa di chi?
Ma deve essere sempre per forza colpa di qualcuno?
Per una volta diciamo di no!
Ci sono già abbastanza angeli della nebbia, vero Luciano?
Perché aumentarli!
Adesso hanno chiuso anche il Roxy Bar! Andremo da Mario!
Colpa d'Alfredo.
E se fosse colpa nostra, tutte le volte che giriamo lo sguardo, quando
non ascoltiamo il respiro della solitudine, per inebriarci del nostro.
Gli angeli della nebbia sono intorno a noi: o con noi o con loro.
In Emilia c'è nebbia!
Nessun pericolo per...te!
Nessun pericolo per te, che non ti senti in colpa.
Che non odi l'indifferenza che avvolge i malati mentali, sommersi da
montagne di pastiglie e da complici “Come va?”.
Adesso basta!
Anzi come direbbe il buon Blasco Rossi, "Basta poco".
Per quello che riguarda me, Giovanni Romagnani, mi si escludeva!
E per colpa di chi, non certo di funky Gallo.
Come Zio Rufus per anni sono andato in giro portando a zonzo la mia
pipì.
Per colpa di chi.
DI CHI HA PIANTO CON GLI OCCHI MIEI E NON CON I SUOI!
Per chi non ha avuto il coraggio di prendersi le proprie
responsabilità.
Gli operatori psichiatrici fanno spallucce e dicono… colpa d'Alfredo.
Ma io ... Vado al massimo.
Giovanni Romagnani
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Un contesto fattivo
Comincio a scrivere per Noi. Per me è un esordio.
Entrare a far parte della Redazione è stata per me un'esperienza
entusiasmante, di cui ringrazio Lucia.
Ho potuto cominciare a dare un volto a tutte quelle firme che
incontravo sul giornale. Ora conosco chi scrive.
La Redazione è una realtà molto composita: al suo interno ci sono molte
specificità. Spero di portare garbatamente anche la mia.
In tandem alla Redazione partecipo anche al Corso di Grafica-Web,
condotto dal pirotecnico Marco. Un'esperienza nell'esperienza.
Per ora chiudo qui, ringraziando tutti di avermi dato una psichedelica
scintilla di entusiasmo, con cui la sera dormo più tranquillo.
Sono stato inserito in un contesto fattivo: non è poco. Nella speranza
che il faro illumini anche l'etere, chiudo qua.
Giovanni Romagnani
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Lutto
…abbandonandomi, che io non diventi per te ira
divina…
Ormai ero un donna di cinquantasei anni
temprata dalle avversità. Negli ultimi
tempi stavo cercando di elaborare il lutto
per la morte di mia madre. Come ho
già detto in uno scritto precedente, non
avevo versato una lacrima e il dolore era ancora tutto
dentro di me. Frequentavo un gruppo di scrittura.
Ci incontravamo ogni settimana, aprivamo a caso
l’Odissea, ne isolavamo una frase e poi scrivevamo.
Quella volta la frase suonava così: “abbandonandomi,
che io non diventi per te ira divina” . Come al solito
non sapevo da che parte cominciare, dove andare a
parare. Isolai subito la frase “che io non diventi per te
ira divina”. Non sapevo a chi si riferisse e mi sentii un
po’ persa. Allora recuperai la parola “abbandonandomi”.
Spesso io mi abbandonavo ai miei pensieri, alle
mie farneticazioni e partivo per viaggi imprevedibili.
Mi piaceva molto scrivere e l’immaginazione non mi
mancava. Era un lasciarsi andare, quello che la frase
stava a significare. Io mi abbandonavo frequentemente
alla mia immaginazione. Stavo bene con i miei
pensieri, li cullavo, li accarezzavo, li coccolavo, in tal
modo non si sarebbero trasformati nell’ira divina.
Avevo l’impressione che il tempo mi avrebbe molto
aiutato a superare la morte, la fine di una esistenza,
quella di mia madre per l’appunto. Come mi sembra
di avere già detto, ora mia madre viveva dentro di me,
con lei potevo colloquiare in qualsiasi momento. Mi
tornavano in mente tanti momenti vissuti con lei in
positivo e in negativo. Avevamo tante volte litigato e
giurato di non volerci più vedere. Certo l’esistenza di
mia madre si era protratta per ottantotto anni e lei
aveva avuto modo di esprimersi, anche se non si era
mai realizzata e questo le pesava. Nello stesso tempo
lo faceva pesare sugli altri. Era stata una donna
forte, temprata dalle avversità, aveva affrontato con
coraggio interventi chirurgici che ledevano la sua
femminilità. Io mi ero detta tante volte di non essere
stata una brava figlia, ma nello stesso tempo mi chiedevo
se mia madre era stata una brava madre. Ma
forse queste considerazioni non avevano molto senso.
Mia madre era stata lucida fino agli ultimi istanti
della sua esistenza. Era stata ipercritica, fino alla fine,
mi aveva invitato ad andare a pettinarmi persino negli
ultimi istanti della sua esistenza… “Come stai, cara
Clem?” (così l’avevano battezzata dei parenti romani
che di tanto in tanto andavano a trovarla). Era bella,
la mia mamma, questo mi veniva da dire… “Come stai, cara Clem?
Com’è la vita in cielo? Ci sono davvero gli angeli?
Domani andrò dal parrucchiere e so che questo ti farà felice. Eri
bella, cara Clem, anche quando la tua esistenza si era spezzata,
ispiravi forza, tenacia, bellezza,
eleganza. Eri elegante, cara Clem, avevi fatto diventare elegante anche
me. Come stai cara Clem? Ci sono gli angeli del Beato Angelico in
cielo?”.
Maria Chiara Reitani
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Il cavallo alato
Sette fra gli uomini più intelligenti, giovani e
intraprendenti del
mondo affrontarono il lungo cammino che conduceva alla residenza di
Grande Re e gli
chiesero in dono tutto ciò che desideravano: la conoscenza del mondo,
la felicità dello spirito e la gioia del corpo. A sei di loro Grande Re
donò sei magnifici cavalli alati, che liberi volavano sul mondo, su
tutto ciò che esiste e su tutto ciò che non esiste, donando loro tutto
quello che avevano chiesto.
“Ma attenti, saggi cavalieri, perché ogni cavallo è creato per uno solo
di voi. Se mai un altro uomo provasse a cavalcarlo, egli mai si alzerà
nel cielo, mai condurrà altri alla conoscenza, alla felicità, alla
gioia”.
All’ultimo dei giovani Grande Re donò invece muli. Non un solo mulo, ma
tutti i muli che egli desiderava e che avrebbe desiderato.
“Grande Re, è questa forse giustizia? Io sono intelligente, giovane e
intraprendente come tutti gli altri, e come loro aspiro alla
conoscenza, alla felicità e alla gioia. Perché dunque non dai anche a
me un cavallo alato?”.
Grande Re non rispose e a tutti comandò di andarsene. Mentre l’ultimo
dei giovani si avviava verso la sua infinità di muli, gli altri si
librarono nell’immensità dei cieli. Mai erano stati tanto felici: con
il magico cavallo alato volavano sul mondo, credevano che tutto ciò che
esiste fosse ai loro piedi, nient’altro esisteva, se non il proprio
cavallo alato e il mondo, piccolo, lontano.
Erano felici, avevano tutto ciò che desideravano, il loro cavallo
alato. Erano indescrivibili le emozioni che provavano a cavalcarlo, a
cavalcare lui solo. Tanto che ciascun cavaliere si dimenticò degli
altri, convinto che nessuno avrebbe mai provato sensazioni così
straordinarie, convinto che solo lui provasse emozioni così forti e
profonde.
Il tempo passò, tanto velocemente che nessuno di loro saprebbe dire
quanto. E ora la conoscenza, la gioia e la felicità sparirono, tutte
insieme, nello stesso istante: volare non era più tanto bello, il
cavallo alato volava sempre alla stessa altezza, eppure sembrava che
calasse ogni giorno. Il mondo non era più una piccola macchia sotto i
loro piedi, ma qualcosa d’immenso che mai avrebbero potuto conoscere.
Lo stesso cavallo non era più quel magico dono che sembrava, ma
qualcosa su cui avevano sprecato la loro vita, non cavalcandone nessun
altro e non conoscendo nulla di ciò che davvero esisteva. E ormai non
sarebbero riusciti né a scendere a terra né a cavalcare il più vecchio
dei muli, ormai erano alla fine dei loro giorni.
Quando Grande Re li richiamò a sé, tutti loro gli chiesero: “Grande Re,
perché ci hai presi in giro? Perché ci hai donato un solo cavallo,
perché ci hai illuso di avere tutto, conoscenza, gioia e felicità,
quando invece abbiamo sprecato la nostra vita cavalcando
un’illusione?”.
Quello stesso giorno Grande Re aveva chiamato anche il settimo dei
cavalieri, quello che aveva avuto in dono solo muli. Appena vide il Re
si inginocchiò: “Grande Re, ti ringrazio per il tuo dono. Mai ho volato
sul mondo, mai ho pensato che tutto fosse al di sotto dei miei piedi e
dei miei muli. Mai ho preteso di possedere la assoluta conoscenza,
gioia e felicità. Mai ho posseduto un cavallo alato, ma tanti,
tantissimi splendidi muli: nessuno di loro è stato come un altro, non
ho mai finito di stupirmi conoscendo ognuno di loro, che è stato unico
e bellissimo. Ti ringrazio e benedico il tuo dono, Grande Re”.
Simone Bargiotti
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La vignetta di Riccardo La Rocca
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DAZZENGER
● Una perturbazione rumorosa è un temporale, ma se è
silenziosa? È un temposcritto.
● Su quale autobus non saliresti perché è molto tempestoso? Il venti.
● Se dei pomodori nascono vicino ad una cava d’argento, diventano
pomodargenti?
● Quale insetto ci aiuta a scendere? Cicala.
● Cosa succede ad una sigaretta se la calpestate? Diventa una
sigacurva.
● Cos’è un evaso? Un vaso che scappa.
● Cos’è un canestro? Un cane con dell’estro.
● Cos’è un lampone? Un lampo molto grande.
● Qual è la pietra preferita dai ladri? Il rubino.
● In un gruppo di persone allegre, ce n’è uno serio e dice: “Voi avete
riso, ma io ho spaghetto!”
Darietto
|
La posta
Cari e care lettrici de Il Faro,
davvero bello il vostro giornale e costruito con attenzione e passione
su temi importanti.
Grazie
per l'ospitalità al bellissimo centro culturale, grazie anche per le
torte e il sedano secco! Alla prossima! Come si dice in teatro.
Marinella Manicardi
Cara Marinella,
grazie di aver accolto la proposta di mandarci un messaggio e grazie
per i graditissimi complimenti. Farò mettere il tuo indirizzo e-mail
fra gli amici
del Faro, in modo da fartelo arrivare puntualmente in pdf. Tra
parentesi, ti dirò, Il Faro è fierissimo di averti fra i suoi amici e
se avrai voglia ogni tanto di scriverci o di mandarci un tuo contributo
ci farai un grandissimo piacere.
Girerò la tua e-mail alle signore del Centro Sociale “2 agosto1980”, e
in particolare ad Adriana, la 'creatrice' del sedano secco e di tanti
simpatici preparati per una cucina semplice e anti spreco.
Hai ragione, il Centro è bellissimo e il 'salotto' del venerdì
meravigliosamente caldo e accogliente, grazie alle persone piene dei
entusiasmo che lo animano e un po' anche a noi de 'Il Ventaglio di
ORAV', l’associazione che collaborando nei pomeriggi del venerdì vi ha
aperto uno spazio a libero accesso per le persone con disagio psichico.
Sono stata felice di incontrarti e di apprezzarti, oltre che per la tua
bravura di attrice, per la bella persona che sei.
Un abbraccio.
Lucia per Il Faro
Trovo Il Faro una bellissima e interessante pubblicazione.
Per quanto riguarda le nascite, oggi il mondo non è più quello del
passato. Vi voglio trasmettere una delle mie tante filastrocche che
illustrano bene il concetto.
COSTA CARA LA CREATURA
Ogni coppia prega e sogna
che gli arrivi la cicogna
ma la sera si tormenta
ci fa i conti... e s’addormenta.
Costa cara la creatura
e subentra la paura
che lo Stato, poi, le imposte
anche a lui le fa più toste.
Tocca in fondo ad ogni nato
il cliché “supertassato”.
Costan care le pappine,
le scarpette e le tutine,
i ciuccetti e i pannolini,
le cuffiette e i bavaglini.
Se la mamma è poi occupata
rischia d’esser licenziata
quando è in stato interessante
o alla luce dà l’infante.
Per le visite e le cure
le batoste son sicure
e son pure salassate
per gli asili e per le “tate”.
Troppo costano i marmocchi!
Tra le balie ed i balocchi,
carrozzina e marmellata,
se ne vola la mesata.
Costa cara l’istruzione,
l’onestà e l’educazione...
Torneranno nel futuro
a premiare il nascituro
come un tempo fece il Duce
per chi allor venne alla luce?
Che non sia però un balzello
per comprare un “cicciobello”
o far festa al nascituro.
Si assicuri a lui il futuro
per far sì che i nuovi nati
sian d’aiuto ai pensionati.
Roberto Grillini
Grazie caro Roberto, per la tua amicizia e la sempre gradita
collaborazione.
La Redazione
Cara Concettina,
ti trasmetto il testo della bella poesia del prof. Monaco “Canti
vibranti”… Il prof. Monaco recita la poesia con voce stentorea e a
tratti cantando. Ti assicuro che in questo modo originale le parole
sembrano discendere direttamente nel cuore di chi ascolta.
Mi sono dimenticata di dirti che quanto ho consegnato la copia del Faro
da te datami, il prof. Monaco è rimasto molto colpito e contento. Ho
fatto anche il tuo nome, perché gli ho riferito del tuo bel gesto
spontaneo e generoso nel pubblicare le belle poesie. Ha ringraziato
molto!
Con l'occasione ti preannuncio che mi sto interessando di un giovanotto
abruzzese di quasi 94 anni, mitica classe 1920, nato a Cagnano Amiterno
AQ. Voglio fargli avere tutti i riconoscimenti possibili! La moglie
Silvana già mi ha chiamato per ringraziarmi. Ti dice niente il cognome
Morelli?
Un caro saluto.
Luciana Chirchiarelli
Grazie Luciana, per aver inviato
la poesia del
prof. Monaco. Anche se non abbiamo avuto la fortuna di sentirla dalla
viva voce dell’autore, l’abbiamo apprezzata molto, specialmente per la
sua conclusione, che condividiamo in pieno.
Un caro saluto a te e al professore.
Attendiamo con piacere nuovi contributi.
La Redazione
|
Girando la “Trottola” si è
fermata a Torino
Sabato 5 aprile 2014, sveglia alle 5.45, giornata
uggiosa a Bologna, con Andrea ci mettiamo
in viaggio da Ponte Ronca per andare
all'appuntamento con Franca, Floriano e Marco che
gentilmente ci danno un passaggio fino alla Stazione
Centrale di Bologna, dove insieme al resto della
troupe (il gruppo è formato da diciotto persone che
frequentano abitualmente con tante altre "la Trottola")
partiremo con meta il Museo Egizio, che in ordine
di importanza è soltanto secondo al museo del Cairo.
Il treno parte puntuale alle 7.34. All'altezza di
Modena, Franca passa da tutti noi con qualche bene
di conforto (snack salati e dolci e da bere). A Torino,
dove siamo arrivati dopo circa quattro ore, ci attende
una gran bella giornata, calda ed assolata (la telefonata
ai "Piani Alti " si è rivelata efficace).
Avendo la prenotazione per la visita al Museo intorno alle
15.30, chiediamo e giriamo un po’ per la città, per
trovare un posto per pranzare. Anche se l'avevo visitata
lo scorso anno, camminando ho visto posti nuovi
veramente belli, effettivamente trovo che Torino sia
una città da visitare, anche se un po’ cara.
Poiché non tutti avrebbero visitato il Museo, il gruppo si è
diviso in due sottogruppi, io ero tra coloro che avevano
il desiderio di saperne di più sulla cultura Egiziana.
Ho saputo che la storia dell'antico Egitto va dal
4.300 a.C. fino al 642 d.C. Al periodo del Predinastico
(4.300-3.000 a.C.) risalgono manufatti di argilla e
tavolozze di pietra a forma di pesce, che servivano a
macinare i pigmenti colorati che gli Egiziani usavano
per truccarsi. Le effigi di questo periodo raffigurano
soggetti della natura, ho visto la raffigurazione di una
bellissima testa di ippopotamo, uno degli animali più
pericolosi, che viveva lungo il Nilo. All'Antico Regno
(3.000-2.190) risaliva la statua bellissima, di pietra
e legno, di una principessa che indossava una parrucca. Ho imparato che
Teti era il capo dei sacerdoti
della piramide di Cheope, il grande Faraone. Anche la
statua che lo raffigurava era munita di una parrucca
lunga fino alle spalle, con tanti boccoli.
Mi ha colpito anche il sarcofago di Mereru, che come
altri sarcofagi di questo periodo (1.976-1.640 a.C.)
è di forma rettangolare, con la raffigurazione del defunto
con gli occhi aperti, per consentirgli di guardare
fuori. Inoltre le imbarcazioni raffigurate, secondo gli
antichi Egizi sarebbero servite per trasportare i defunti
nella città di Osiride, divinità dei morti. Il Nuovo
Regno (1.550-1.070 a.C.). A cavallo dell'epoca tarda,
Sekhmet, una divinità dalla testa di leone sovrastata
da un disco infuocato e un cobra chiamato Ures, moglie
di Phah, proteggeva il re vittorioso e sconfiggeva
i nemici con il suo soffio di fuoco. Akenaton (1.351-
1.334 a.C.) adorava soltanto il dio Sole, Aton, così
furono abolite tutte le altre divinità. Ramesse II, che
aveva in moglie Nefertari, è uno dei faraoni più celebri
dell'antico Egitto; viene rappresentato con la corona
blu, l'elmo da guerra e lo scettro. Il suo volto è scolpito
con grande dovizia di particolari, infatti si vedono
i fori sui lobi delle orecchie. Nel periodo intermedio si adoravano
Iside, Osiride e Horus. Kotri era il dio
del sole che sorge al mattino, sede della coscienza.
Dulcis in fundo, era esposta la tomba di Kha.
Faccio i miei ringraziamenti a Giovanni Plaia, presidente del
museo, che ci ha fatto da guida. Il viaggio di ritorno
a Bologna è stato molto più breve in quanto abbiamo
viaggiato con la Freccia Rossa.
Che dire di questa giornata? Per me è stata intensa, interessante e
molto
arricchente, forse mi piacerebbe tornarci ancora
per visitare quei luoghi che non siamo riusciti a vedere.
Adesso concludo perché erano circa quarant’anni
che non scrivevo così tanto.
Michele Ferri
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Un po’ di storia
Nasce nel 2006 un giornalino semplice semplice,
definito ‘il giornale
di tutti’ perché aperto alla collaborazione di chiunque abbia voglia di
scrivere.
“L’idea primigenia – dice Fabio Tolomelli, il fondatore - è nata da un
pensiero metaforico mio e di Cristina Cavicchi: offrire un attracco
sicuro a chi durante la vita si è trovato di fronte a tempeste tali da
perdere il senso dell’orientamento. È un po’ questo il sentimento che
si prova quando ci si ammala. Non si riesce più a metter ordine alle
idee che ti passano per la testa…”.
I contributi per la quasi totalità vengono da persone in cura presso i
servizi di salute mentale e in qualche caso da familiari e operatori.
Sono testimonianze, recensioni, racconti, poesie, in linea di massima
attinenti a un tema che viene proposto di volta in volta. Il Faro offre
al mondo del disagio psichico la possibilità di far sentire la propria
voce. Fra le conseguenze positive, l’effetto ‘terapeutico’ che lo
scrivere in sé e poi il vedere pubblicato il proprio scritto può dare a
chi soffre; la consolazione di leggere che altri sono passati
attraverso esperienze simili alle proprie; l’essere inclusi in un
gruppo, anzi, in una rete di lavoro, in cui tutti sono portati a pari
dignità e contribuiscono a realizzare un prodotto apprezzato; la
diffusione all’interno dei luoghi di cura di un giornalino gradevole e
interessante, da leggere nei tempi di attesa e da portare a casa
gratuitamente; la presentazione all’esterno di una immagine della
malattia mentale ben diversa dallo stereotipo usualmente percepito
attraverso i mass media…
Col tempo il fascicolo diventa sempre più corposo e riceve testi, oltre
che da singoli collaboratori, da gruppi di scrittura che si tengono in
centri diurni, residenze, associazioni. Dal 2009 viene aggiunto un
inserto con contenuti più scientifici elaborati da esperti. Il lavoro
redazionale si svolge in modo ‘artigianale’, portandosi il computer da
casa, dopo avervi salvato testi e immagini. Molti contributi arrivano
scritti a mano, perciò devono essere trascritti. La redazione esamina i
testi uno per uno.
Completato ogni numero si decide insieme il nuovo tema da proporre.
Grazie a un accordo con il Dipartimento di Salute Mentale - Dipendenze
Patologiche di Bologna, a partire dal 2011 un giovane utente in borsa
lavoro presso Il Ventaglio di ORAV si occupa dell’impaginazione.
Con il progetto “Nuova luce per il Faro” (2013/14), finanziato dalla
Fondazione del Monte, oltre al restyling grafico del giornalino è stato
messo in atto un corso di grafica che ha coinvolto cinque utenti.
Nei primi tempi ogni numero veniva fotocopiato da volonterosi un po’
qua un po’ là, assemblato mediante uno strumento costruito da un
ingegnoso redattore e infine distribuito alla spicciolata. Oggi Il Faro
viene stampato in mille copie presso il Centro Stampa dell’AUSL, che ne
assicura anche la distribuzione in tutti i Centri di Salute Mentale di
Bologna e provincia.
La redazione si occupa della diffusione degli stampati all’esterno e
dell’invio in pdf a un vasto indirizzario. Ora stiamo lavorando a
un’organizzazione del lavoro più efficace, in modo da rendere regolare
la cadenza e ampliare l’attività del sito internet.
Il nuovo Faro resta fedele comunque al modello iniziale, molto
apprezzato dai lettori.
Lucia Luminasi
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Soluzione dell’indovinello di
Luigi Zen
Non disturbare il gatto che sta
facendo il bidet!
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