gennaio 2015 - anno IX  n. 1 – Il diritto


sommario


Piergiorgio Fanti

Gioacchino Toma: “Luisa Sanfelice in carcere”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Antonio Marco Serra

I diritti dell’uomo

Francesca

Diritto al rispetto

Augusto Mocella

Diritto: breve excursus

Mariangela

Il diritto alla vita

Luisa Paolucci delle Roncole

Leggendo il diritto

Paola Scatola

Il diritto di essere liberi

Matteo Bosinelli

Il dovere di soccorso

Marie-Françoise

Tra diritti e pretese

Giovanni Romagnani

Le Note di Notte

Simone Bargiotti

Tre modi per perdere soldi

Roberto Grillini

Diritto di famiglia, prima e dopo il 1975

Lucia

I diritti dei lavoratori

Giovanni Romagnani

Lo sfogatoio

Darietto

Dazzenger

Lucia Luminasi

Ogni rovescio ha la sua medaglia

Lucia Luminasi

Questa o quella? (A Dante)

INSERTO
      Vincenzo Trono     Gli opuscoli informativi sugli inserimenti socioriabilitativi…

Lab. scrittura UmanaMente

Il diritto di abitare

C.D. Caselecchio

Il diritto alla cura

RTP Casa Mantovani

Je suis Charlie

IL TIMONE
      Michele D’Ambrosio     La mia cella
      Ivano Ferrari     E la chiamano casa (vignette)
      S. I.     Riflettendo con consapevolezza

Luigi Zen

Il diritto e lo Zen in breve

Tina Gualandi

La Trottola a Venezia

DEDICATO AD ARIANNA Lo spazio della poesia

 

      Loopa Sonivree     Il diritto
      Daniela Mariotti     Poesie varie
      Marcella Colaci     Poesie varie
      Paola Scatola     Poesie Varie
      Matteo Bosinelli     Rhona / “… nella follia”
      Luigi (Villa Olga)     Poesie varie
      Ermanno Bitelli     Sciopero
      R. G.     Mangiatoia

***

La Posta

Diana Tura

Bologna la “Dotta”

 

                                       

Gioacchino Toma: “Luisa Sanfelice in carcere”, 1874 - olio


pagina 1



Gioacchino Toma (Galatina, Lecce, 1836 – Napoli 1891).
Dopo un’infanzia difficile, nel 1854-55 si trasferì a Napoli. Si interessò alla Causa Nazionale sino ad essere messo al confino nel 1857, e nel 1859-60 partecipò al movimento garibaldino.
Nonostante la ripetuta comparsa delle sue opere (segnatamente nel ’74 e nel ’77), non godette di grande stima, né da parte della critica, né tra il pubblico. La critica del XX secolo ha invece riconosciuto nel Toma uno dei pochi pittori dell’Ottocento italiano in cui l’equilibrio tra il soggetto e la realizzazione espressiva si attua spesso senza fratture.
Il pittore traeva la sua migliore ispirazione da un’intimistica riflessione sugli aspetti dolorosi della condizione umana.
La Sanfelice (qui vediamo la prima versione, del 1874; una seconda ne seguì nel 1877) è ‘composta’ con delicata finezza di accordi cromatici celesti, grigi, verdini, gialli, che contrastano con la desolazione delle pareti nude. In opere come questa si avverte una delicata commozione. La Sanfelice è di un dolore raccolto, rassegnato, di cui l’ambiente è come la proiezione *.


*Nota:
Maria Luisa Fortunada de Molina, figlia di un generale borbonico, aveva sposato a soli diciassette anni Andrea Sanfelice. La donna, giustiziata l’11 settembre del 1800 in piazza del Mercato a Napoli per aver appoggiato la repubblica napoletana (1799), viene raffigurata da Toma all’interno di Castel Sant’Elmo.


Piergiorgio Fanti

L’Editoriale


Cari lettori, il tema di questo mese è quanto mai complesso ed articolato. Il termine ‘diritto’ o ‘dritto’, nella lingua italiana assume anche significati tra loro contrastanti. Diritta è una linea priva di curve o un palo che si erge verso l'alto e non si piega. ‘Diritto’, ‘retto’ è qualche cosa di onesto e giusto, ma ‘dritto’ oltre che ‘accorto’, significa anche ‘scaltro’, ‘furbetto’… Il termine ‘diritto’ nel solo gergo giuridico ha molti significati. Come scrive il giusprivatista Francesco Galgano nelle sue Istituzioni di Diritto Privato (CEDAM 2013), “il diritto è un sistema di regole per la soluzione dei conflitti tra gli uomini”. La sua ragion d'essere sta nel carattere di perenne contesa che assume la convivenza umana. Conflitti per illeciti amministrativi e finanziari, o per comportamenti violenti, che possono nascere anche all'interno della famiglia. La funzione del diritto è appunto quella di impedire l'uso della violenza nella soluzione dei problemi. ‘Diritto’ significa anche la possibilità di usufruire di trattamenti e comportamenti protetti dalla legge. Come ad esempio il diritto al lavoro o alla salute, così come viene sancito dalla Costituzione. Quest'ultima contiene i principi fondamentali a cui tutte le leggi italiane si devono conformare e venne promulgata nel 1948 dai padri della Repubblica dopo la fine della seconda guerra mondiale e il Fascismo, che avevano ridotto il Bel Paese ad un stato di devastazione generale. Di facile comprensione, contiene principi di ordine morale di grande importanza per la maturazione e il completamento della personalità umana. Un principio di diritto romano asseriva: “Le leggi giovano a chi vigila, non a chi dorme”. Di qui l'importanza di conoscerla. La Costituzione sancisce che la sovranità, ossia il potere più alto, appartiene al popolo, che esprime la sua volontà per mezzo del voto. Il principio fondamentale della nostra Costituzione è che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione o stato sociale. Quindi anche chi si trova in uno stato di malattia non perde i diritti. Ci sono tuttavia situazioni in cui, in caso di grave sofferenza psichica, l'individuo perde la capacità di intendere e di volere. In questi casi il giudice elegge un tutore o un curatore che deve garantire l'interesse della persona o del figlio minorenne. Particolarmente bello e interessante è l'articolo 32 della Costituzione che descrive la salute come bene supremo dell'individuo e interesse della società, che va realizzato garantendo cure gratuite agli indigenti. Di qui l'incontro con il diritto di essere malati e contemporaneamente di essere curati. Finisco facendo riferimento al secondo articolo della carta costituzionale, che sancisce il diritto-dovere al lavoro, fonte di crescita del paese. I cittadini devono contribuire in funzione delle proprie abilità e capacità professionali, e chi si trova in un qualsiasi forma di indigenza ha diritto a un sostegno che gli permetta di vivere. C'è chi dice “fatta la legge trovato l'inganno”. In qualche caso è vero, ma la nostra Costituzione è un modello di rettitudine, solidarietà e moralità. Stiamo attenti nel modificarla, perché i tre poteri (Parlamento, Governo e Magistratura) sono in un perfetto equilibrio che serve a prevenire colpi di Stato. Ora è molto difficile che ciò avvenga, ma che qualcuno si possa approfittare del proprio potere e fare il furbino questo sì. Vi auguro una buona lettura, con l'invito a consultare assistenti sociali e patronati per tutelare i nostri diritti, così come la Costituzione garantisce.


Fabio Tolomelli

I diritti dell’uomo



Confessiamo una buona volta a noi stessi
Che da quando l’umanità ha introdotto
I diritti dell’uomo, si fa una vita da cani
Karl Kraus

Il primo tema che voglio affrontare è quello dei ‘Diritti dell’uomo’ nel senso moderno del termine, quello sancito, per intenderci, dalla “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo”, emanata dalle Nazioni Unite nel 1948. È innegabile che a partire dalla metà del Novecento il tema dei ‘diritti umani’ sia divenuto centrale nella discussione culturale, ed abbia influenzato molte delle decisioni politiche ed anche militari, adottate in questo lasso di tempo. Se pure, come in ogni caso sia possibile individuare degli antecedenti storici, antichi quanto si voglia, io penso che la vera radice degli attuali discorsi sui diritti dell’uomo, vada individuata nel giusnaturalismo dei pensatori europei seisettecenteschi. Tale dottrina supponeva che esistessero una serie di princìpi eterni ed immutabili, inscritti nella natura umana (il diritto naturale), di cui le norme effettivamente vigenti in una data società (il diritto positivo) non sarebbero state altro che la traduzione in norme valide per quella data società. A me pare che tale posizione sia francamente indifendibile: possibile che 200.000 anni (tanti ne conta - suppergiù - la nostra specie, corrispondenti a qualcosa come 10.000 generazioni) non siano stati sufficienti a fornire una completa e definitiva attuazione di quei princìpi? Se, ad esempio, l’uguaglianza tra gli esseri umani fosse uno di questi principi, perché mai in un tempo così lungo non si è mai prodotta neanche una sola società che rispetti questo principio “eterno ed immutabile”?
Qualunque specie vivente che non attuasse al più presto tutte le potenzialità contenute nei suoi geni, frutto di un lungo processo di selezione naturale, si estinguerebbe in brevissimo tempo, e noi non saremmo qui a discuterne, perché l’homo sapiens non sarebbe stato altro che uno dei tanti esperimenti malriusciti del processo evolutivo.
Probabilmente la prima volta in cui i diritti umani hanno fatto la loro comparsa in ambito giuridico è stato il Processo di Norimberga condotto unitamente dagli Alleati e dai Sovietici contro i principali gerarchi del regime nazista (almeno quelli ancora vivi) nel 1945-’46. Si fece in quell’occasione ricorso per la prima volta al concetto di “crimini contro l’umanità”, che significava proprio l’aver infranto i diritti universali dell’uomo. E solo ricorrendo alla supposta evidenza e perennità di tali diritti si poté procedere giuridicamente contro gli imputati, passando sopra al divieto di retroattività di un reato, presente in tutti gli ordinamenti giuridici (di fatto gli imputati venivano processati per un reato che, come tale, non esisteva nel momento in cui veniva commesso). E di lì a poco, le Nazioni Unite, emanarono la già citata “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo”.
Ma già da allora c’era chi, come l’American Anthropological Society, asseriva, la pluralità e varietà irriducibile delle culture e, dunque, l’assoluta impossibilità di enunciare diritti riconducibili all’essere umano “come tale”.
Quello che voglio dire è che l’attuale discorso sui Diritti umani, non è sicuramente il punto di arrivo del pensiero umano, mitico coronamento de “le magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria, ma, tutt’al più, il punto a cui è giunto attualmente il pensiero occidentale.
Non a caso ci sono stati e ci sono molti pensatori di diversa provenienza culturale che sospettano che il tema dei diritti umani non sia altro che il cavallo di Troia con cui, subdolamente, gli occidentali intendono procedere a un’assimilazione forzosa delle altre culture. Ed è difficile non pensare che in questo caso a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende, guardando alle tante guerre recenti, dichiarate in nome dei Diritti umani, ma che hanno anche importantissimi risvolti economici e geopolitici, guarda caso tutti vantaggiosi per il mondo occidentale.
Ma, ad essere sincero, più che dal conflitto interculturale, sono preoccupato dalle conseguenze culturali che un simile modo di pensare può portare all’interno della nostra stessa società. Se mi si consente di concludere questa prima parte - al mio solito - con un’uscita paradossale: penso che qualunque rispetto per ‘l’uomo’ in astratto, porti inevitabilmente ad una mancanza di rispetto per i singoli uomini, nella loro univoca specificità. E questo mi consente di abbandonare il tema dei diritti eterni e inalienabili, e di passare ai diritti che vengono garantiti ad ogni individuo che fa parte della nostra società: il diritto di non essere ammazzato, malmenato, derubato, maltrattato e sputacchiato. Ma visto che ho scritto anche troppo, mi limiterò al problema relativo a ciò che succede quando qualcuno non rispetta questi diritti, vale a dire al problema Dei delitti e delle pene.
Personalmente non credo nel valore punitivo di una pena, e ancor meno nel suo valore rieducativo; non credo affatto che la società abbia il ‘diritto’ di privare qualcuno della libertà personale (o addirittura della vita), ne ha la ‘necessità’, per auto-conservarsi, che è ben diverso. Se qualche individuo, col suo comportamento, contravviene alle regole che una società si è data per garantire un certo tipo di ordinata convivenza (regole che ovviamente variano moltissimo da società a società) è inevitabile che la società stessa metta questo individuo nella condizione di non nuocere. Ma ciò, per me, dovrebbe avvenire senza alcun moralismo o paternalismo: chiunque è libero di pensarla in maniera antitetica alla nostra e di agire di conseguenza, la sua morale non è né migliore né peggiore della nostra, è solo diversa; ma quando questi comportamenti mettono a rischio il modo di vita che ci siamo scelti, abbiamo la necessità, che sarebbe auspicabile ci risulti comunque sgradita, di renderlo inoffensivo.
Ne consegue che per me l’unico motivo che può giustificare una pena detentiva, è il rischio della reiterazione del reato. Ma da ciò deriva una conseguenza che, per mia esperienza, poche persone sono disposte ad accettare: se un individuo ha commesso un reato lieve, ma c’è il concreto rischio che reiteri il reato (mettiamo un borseggiatore che come scelta di vita, abbia deciso di svolgere quest’onorata professione) è legittimo incarcerarlo; ma se un individuo ha commesso quello che ai nostri occhi appare come il più barbaro e ripugnante dei crimini, ma - per qualche motivo - abbiamo la certezza che non lo potrà più commettere, non abbiamo alcun diritto di privarlo della libertà personale.
Però devo confessare una cosa: credo che questa mia visione che riguarda il diritto come qualcosa di storico (e dunque convenzionale) e non qualcosa di essenziale, derivi non solo da un’analisi storica, ma soprattutto dalla mia incapacità di annettere una reale validità etica a delle norme che valgano indistintamente per tutti. Non mi riesce di non pensare che ciò che ha realmente importanza per l’uomo, per ciascun uomo, debba essere qualcosa che vale per lui e per lui solo. Le regole che hanno valore per tutti, fossero pure le Tavole della Legge, anche se indubitabilmente comode ed utili per gestire una società, non possono riguardare la nostra più vera essenza. Quel qualcosa di unico che ciascuno di noi porta in dono agli altri.
E se non saremo in grado di apprezzare la nostra unicità, appiattendoci su schemi generali di comportamento, comodi ma sterili, non saremo neanche in grado di apprezzare l’unicità di coloro che ci stanno intorno, che è l’autentico dono che la vita ci fa, e che in fondo è l’unico diritto a cui davvero non sono disposto a rinunciare.
Dobbiamo consentire alla vita che è in noi, e solo in noi, di fluire liberamente, senza essere troppo preoccupati di rispettare delle norme, che lasciano il tempo che trovano. Perché c’è qualcosa di più grande in noi, non solo di quanto gli altri siano spesso disposti a riconoscerci, ma anche e soprattutto di quanto noi stessi siamo disposti ad ammettere.
E concludo con una citazione di Martin Buber tratta dal suo Il cammino dell’uomo: “Rabbi Sussja in punto di morte, esclamò: "Nel mondo futuro non mi si chiederà: 'Perché non sei stato Mosè?'; mi si chiederà invece: 'Perché non sei stato Sussja?"'.”


Antonio Marco Serra


Diritto al rispetto


Oggetto: diritto civile – diritto penale – diritto del lavoro - “vai diritto per la tua strada” - diritto dei cittadini, dei pensionati – diritto dei lavoratori – diritto ad avere un lavoro per i disoccupati nella attuale crisi – diritto alla casa.

Il diritto può avere diverse sfaccettature, ma quella che interessa di più, è quella che riguarda il diritto degli esseri viventi in generale, e cioè i più deboli oltre agli animali, i bambini, gli anziani, i senzatetto, gli ammalati, i portatori di handicap fisici e mentali, che debbono essere maggiormente tutelati dalle violenze fisiche e verbali di molta gente cattiva e arida. Soprattutto penso alle donne, che pur essendo psicologicamente e mentalmente molto più forti e avanti rispetto a tanti uomini, continuano ad essere sottoposte da loro a gravi violenze fisiche e psicologiche.
Gli esseri umani, indipendentemente dal ruolo che ricoprono nella società, sia esso più o meno rilevante - l’uomo di affari o il professionista piuttosto che l’operaio - dovrebbero avere uguali diritti che di fatto poi non hanno. Il ‘diverso’, che non rientra nei canoni della cosiddetta ‘normalità’ per sua indole, ad esempio il gay, o perché di razza diversa, viene emarginato, ma invece ha il diritto di essere rispettato, valutato e apprezzato come persona con una sua specifica personalità, etnia, con le sue esigenze e priorità, e deve essere accettato in quanto tale, mentre spesso è oggetto di vessazioni di ogni genere e insulti.
Questo fenomeno secondo me ha generato il bullismo e nonostante il progresso tecnologico e il raggiungimento di alcuni diritti riconosciuti alle coppie gay, i pregiudizi continuano a imperversare e a rendere questa società, forse ancor più delle precedenti, peggiore dal punto di vista umano, perché priva di valori e vuota. Vi imperversa la discriminazione, la superficialità, l’indifferenza e la mancanza di comunicazione diretta fra la gente, visto che molti preferiscono ‘chattare’ e ‘parlare’ attraverso il web, nascondendosi dietro un computer, spesso fingendo di essere ciò che in realtà non sono, e questa è una società dove manca il rispetto per l’altro, ancor di più se considerato diverso o debole, insomma è una società malata.


Francesca

Diritto: breve excursus


Il tema del Diritto è molto importante. Fin dai primordi dell’umanità, si è sentito il bisogno per l’uomo che viveva in comunità, di avere delle regole per i rapporti con gli altri esseri umani. Quindi inizialmente dovevano esserci delle regole orali, tramandate di generazione in generazione.
Successivamente si arrivò a leggi scritte: tra le più antiche vi sono quelle del codice di Hammurabi, re dei Babilonesi,1750 anni avanti Cristo, poi segue il decalogo di Mosè, circa 1200 a.C., per giungere alle dodici tavole, prime leggi scritte di Roma, circa 700 a.C.
A Roma il diritto si chiamava ius, radice di ‘giustizia’, tale termine ci porta a pensare ad un equilibrio, da cui ‘equità’. Per questo la giustizia è rappresentata dalla bilancia, che soppesa dall’una e dall’altra parte.
Ancora la legge di Hammurabi era legata alla cosiddetta ‘legge del taglione’, come pure la Bibbia (dente per dente, occhio per occhio), poi gradualmente sostituita dal risarcimento del danno con denaro.
Le regole sociali espresse nel decalogo, hanno già il divieto: non uccidere, non rubare, specificati dal non desiderare la donna e la roba d’altri. Tali sono ancora delle prescrizioni morali.
Questi comandamenti sono poi riversati nei codici moderni, nelle formule: “Chiunque… rubi, uccida ecc. è assoggettato alla pena di anni…”. Queste formulazioni nei codici moderni spezzettano la norma in sotto-divieti, che tengono conto delle circostanze attenuanti e aggravanti dell’azione delittuosa. Tuttavia la selva intricata di prescrizioni, che tiene la nostra vita quotidiana chiusa come da una gabbia, potrebbe essere ridotta a quelle dieci regole date da Dio a Mosè sul monte Sinai.
Anche Benigni recentemente ce le ha illustrate. Pur se quelle regole paiono all’uomo moderno impastate di moralismo, è da esse che dobbiamo partire, per costruire le altre, perché è nella morale che affonda il diritto. Ogni settore elabora le regole che si debbono seguire partendo dalle proprie esperienze.
Questo per quanto riguarda i divieti e i doveri.
Per quelli che chiamiamo diritti bisogna fare riferimento, dopo la seconda guerra mondiale, per l’Italia alla Costituzione e per tutto il mondo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’ONU il 10-XII-1948. In tale Dichiarazione solenne l’art.1 afferma la libertà naturale di tutti gli esseri umani e la loro eguaglianza “in dignità e diritti”, senza discriminazioni per razza, sesso, lingua, religione, opinione politica e altra condizione.
L’art.2 inizia una lunga elencazione di diritti fino all’art.28: diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale oltre ai diritti alle giurisdizioni, diritto alla famiglia, matrimonio, casa, corrispondenza; diritto alla cittadinanza, alla proprietà privata e collettiva, diritto alla libertà di pensiero, diritti politici di associazione.
Tali enunciazioni richiamano le coeve affermazioni contenute anche nella nostra Costituzione. Questa Dichiarazione è stata successivamente ampliata a singoli settori: diritti del fanciullo, della donna, ed altri. Tuttavia l’ambito del Diritto si amplia sempre più con l’evolversi del progresso tecnologico (es.: internet: diritto dell’informazione telematica) o addirittura il diritto spaziale dopo il lancio dei satelliti nello spazio.
Come si vede il diritto abbraccia tutti gli ambiti del nostro vivere. Tra i più importanti ci sono il diritto alla vita e alla salute. Per questi diritti lo Stato e la società si impegnano alla cura delle persone ammalate o bisognose.
Tuttavia anche in questi importanti diritti c’è un contrasto di interessi: il diritto alla salute e quello alla libertà, autonomia personale. Le cure devono essere accettate dal malato fin quando è capace di intendere e volere, altrimenti sono gli altri a preoccuparsi per lui.
Il soggetto principale del Diritto è la persona umana purché si tenga conto della sua condizione di creatura e sia subordinata alla legge morale, per cui quello che essa fissa viene reso obbligatorio attraverso la forza. Fra le persone infine vale sempre il: “non fare agli altri, ciò che non vuoi sia fatto a te” e considerarle “sempre come fine e mai come mezzo” in definitiva: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.


Augusto Mocella

Il diritto alla vita


Non ho studiato giurisprudenza ma penso che il principale diritto dell’uomo sia il diritto alla vita. Già nel grembo materno il feto reclama questo diritto. L’uomo nasce, cresce per mezzo del nutrimento, diversamente questo processo evolutivo non sarebbe possibile. È vero che possiamo nutrirci e morire per altre cause, ma il mancato nutrimento ci porta a morte certa, esaurendo così il nostro diritto alla vita. Considerando il fatto che nessun uomo ha chiesto di nascere, è ragionevole pensare che tutti hanno il diritto di vivere. Nella maggioranza dei paesi del mondo anche agli ergastolani è riconosciuto il diritto alla vita, anche se molti meriterebbero la morte.
Purtroppo questo diritto a molti è stato ed è negato. Le due guerre mondiali, lo sterminio degli Ebrei, le bombe su Nagasaki ed Hiroshima sono il ricordo della più grande violazione del diritto alla vita. Anche oggi nel Medio Oriente la guerra semina distruzione e morte, per motivi egoistici e politici, si combatte anche solo per il diritto di professare la propria religione! Questo dovrebbe farci riflettere!!! Un vecchio proverbio dice: "Vivi e lascia vivere”. Sono semplici parole ma ricche di significato.
Abbiamo il diritto alla vita, ma anche l’obbligo di estendere questo beneficio a tutti i nostri simili. Pace e diritto di vivere non si mantengono con le armi, ma con la fratellanza tra i popoli. La vita è un bene inestimabile, abbiamo il diritto di viverla, facciamo il possibile per conservarla.


Mariangela

Leggendo il Diritto


Se vogliamo sapere di diritto, quanti codici dobbiamo leggere? Basta chiamare l’avvocato e lui subito trova il codice giusto per risolvere il tuo problema, però c’è un inconveniente: l’avvocato lo devi pagare.
Esiste un paradosso: sia che tu abbia ragione, sia che tu abbia torto, se l’avvocato è OK tu vinci la causa e allora il tuo avversario deve pagare anche le tue spese.
Certo che il gentile avvocato, se è veramente efficiente, gira la legge come vuole. Questo a volte porta all’ingiustizia, perché anche se difende un assassino a volte gli può evitare la galera colle sue micidiali arringhe.
Il diritto e le assicurazioni sono di origini antichissime. Persino all’epoca dei Romani: prima delle fognature, le persone urinavano in vasi grandi e pesanti, dopo svuotavano il vaso fuori dalla finestra. Però a volte cadevano i vasi e se qualcuno passava lì sotto, poteva anche farsi molto male, per cui l’assicurazione pagava il danno alla persona e in questo modo risolvevano il problema.
Non sempre era soddisfacente la soluzione. Il diritto si modificava in base alle nuove situazioni sociali appunto.
Persone sagge legiferavano secondo le situazioni che si venivano a creare. A tutt’oggi dal diritto romano prendono spunto gli avvocati e i giudici.


Luisa Paolucci delle Roncole

Il diritto di essere liberi


Anch’io ho bisogno d’amarti, quindi vienimi incontro e chiedimi scusa, per ciò che ti ho dato e per ciò che non mi hai mai dato tu.
Così io penso di avere un diritto, almeno un diritto, quello di poterti amare ancora, anche se tu non mi ami più.

Questa sera vengo con te perché ti amo tanto. Questa mattina vedo te e ti do due baci, perché ti amavo tanto. Ma quale dovere c’è, ma quale diritto ho?

Di capirti ne ho abbastanza, di amarti ne ho la necessità compiuta molto, ma ci diciamo addio per il diritto di essere liberi.


Paola Scatola

Il dovere di soccorso


Riflessioni sparse


I principi di solidarietà e cooperazione sociale sono sanciti - primariamente, ma non solo - negli artt. 2 e 3 della nostra Costituzione. Tra questi due articoli vi è una stretta correlazione: l'art. 2 richiede “..l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” e in ciò è rafforzato dall'art. 3, 2° comma, che stabilisce, fra l'altro, che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che rendono difficile l'adempimento di questi doveri.

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Delicatissimo è il tema del diritto alla salute e di quello, correlato, dei Trattamenti Sanitari Obbligatori.
Sull'argomento, di cui non sono competente, posso solo sottolineare che l'art. 32 della Costituzione tutela “la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività..." e così, implicitamente, lo inserisce fra “i diritti inviolabili dell'uomo” di cui all'articolo 2 sempre della nostra Costituzione.
Ancora, l'art. 32 della Costituzione sancisce, al 2° comma, che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Per disposizione della legge 180 / 1978 (cd. Legge Basaglia) i trattamenti sanitari "sono di norma volontari".
E, infine e soprattutto, ricordiamo che l'articolo 32 della Costituzione è stato giudicato dalla Corte Costituzionale “immediatamente precettivo”, cioè direttamente applicabile al caso concreto, senza che vi sia la necessità di una legge ordinaria che disciplini il caso medesimo.

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Dal reato di “Omissione di soccorso” (art. 593, 1° e 2° comma codice penale) scatta - in un'ottica ‘attiva’ e non più ‘omissiva’ - un consequenziale dovere di soccorso generico in capo a chiunque si imbatta, o si trovi in presenza, di un soggetto (anche solo apparentemente) in pericolo (“...per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa ... ovvero in un corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo”).
All'obbligato è imposto di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'autorità competente; ma questa seconda possibilità non esime dal prestare l'assistenza urgente (quando ciò sia possibile), in attesa dell'intervento di quest'ultima.
Il dovere di soccorso, così profilato, incontra i limiti derivanti dalle possibilità pratiche e dalle capacità individuali: non si richiede, per esempio, che un profano presti assistenza medica, sostituendosi a un medico in quel momento assente, rimuovendo, per esempio, un infortunato alla colonna vertebrale, rischiando così un aggravamento del danno.

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Estremamente complessa è l'ipotesi in cui la stessa attività di soccorso configuri (astrattamente) un reato.
È il caso, ad esempio, dello sfondare una porta per introdursi nella abitazione di un aspirante suicida (astrattamente, reati di "danneggiamento", "violazione di domicilio" e, forse, "violenza privata"), il cercare di riattivare l'attività cardiaca mediante colpi ritmati al torace (astrattamente, reato di "percosse"). O, ancora - caso limite - il rubare una macchina per trasportare un malato gravissimo in un ospedale geograficamente lontano.
Vi è chi ha sostenuto che, in tale ipotesi, l'adempimento del dovere di soccorrere - configurante un fatto di reato - non sia punibile in forza dell' art. 51 1° comma codice penale : “...l' adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica... esclude la punibilità". È stato il caso, riportato dalle cronache, del processo a Vincenzo Muccioli, giudicato - e assolto in 2° grado - per aver ‘sequestrato’ degli ospiti della Comunità di San Patrignano, che avevano manifestato la decisione di fuggire e ri-assumere pericolosi stupefacenti.

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Complessa, ancora, è l'ipotesi di chi si imbatte in un caso di violenza sessuale a una donna.
Ricordo che nella fine degli anni Ottanta, il Movimento dei Verdi propose di inasprire la pena per gli spettatori ‘passivi’ di tale grave reato: tale proposta passò, con successo ma fra mille polemiche, al vaglio della Camera dei Deputati nel marzo del 1989, ma non incontrò poi l'approvazione del Senato nell'aprile dello stesso anno.
Non so se, successivamente, una proposta simile sia stata ripresentata in Parlamento: modestamente la riterrei opportuna, considerati i numerosi casi di ‘omesso soccorso’ riscontrati, purtroppo, nelle cronache.

N.B.: queste mie riflessioni sono aggiornate solo fino a tutto il 1994, anno in cui terminarono i miei studi giuridici.


Matteo Bosinelli

Tra diritti e pretese


Riflessioni di un familiare sui confini tra diritti alla salute dei pazienti e pretese dei familiari nei confronti dei servizi pubblici di cura


Un'esperienza personale recente e alcune discussioni accese al CUFO mi hanno portata a scrivere queste righe. Si tratta di riflettere sui confini tra ‘diritti’ delle famiglie e ‘doveri’ dei CSM, con le relative scelte da parte delle Associazioni tra modalità ‘denuncia dei disservizi/protesta’ e la modalità ‘consapevolezza dei problemi/collaborazione’.
Si tratta di un dibattito di fondo, che torna spesso nei nostri discorsi, e che tocca la visione che ciascuno di noi ha dei disturbi mentali, delle loro possibili cause e dei ‘rimedi’ che i Servizi possono o non possono garantire.
Dopo anni di ricerca e di riflessioni sulla nostra esperienza familiare, anche nell’ambito dell’Associazione Cercare Oltre, con il contributo di vari ‘maestri’ interpellati, di letture fatte e di convegni ai quali ho partecipato, sono giunta alla convinzione che il percorso di vita e la salute mentale di ciascuno di noi siano condizionati da una molteplicità di fattori tra i quali:
● La predisposizione personale innata (eredità biologica iscritta nel nostro DNA)
● La storia della nostra vita (con i traumi e le ferite della nostra infanzia e della nostra adolescenza…)
● La nostra eredità familiare (gli eventi e le tragedie vissuti dai nostri antenati)
● La nostra eredità karmica (gli eventi delle nostre vite precedenti)
● Le nostre credenze personali
● Le nostre scelte di stili di vita (alimentazione, movimento, respiro, uso di sostanze…)
● Le condizioni ambientali e sociali in cui viviamo (periodo storico, zona geografica, sistema di relazioni sociali, condizioni di sicurezza ed incertezze ecc… sino alle variazioni del magnetismo terrestre, all’influsso della luna o delle tempeste solari…)
Tutto questo melting pot ed altri fattori ancora influiscono sulla nostra energia, sul nostro entusiasmo, sulla nostra depressione, sul tipo e sui livelli di emozioni che siamo capaci di ‘reggere’, sulle nostre reazioni agli eventi della vita, in altri termini sulla nostra salute mentale. Di fronte a questo quadro, secondo me non è pensabile che da solo, un servizio di tipo sanitario (che incide sulla salute con medicinali, riabilitazione, supporti psicologici, stili di vita…) sia in grado di ‘risolvere’ i problemi di salute mentale dei nostri cari.
Il Servizio Sanitario può dare un contributo importante per migliorare la situazione e gli equilibri biologici, per calmare, evitare guai, ridare fiducia, accompagnare un percorso verso la guarigione. Ma secondo me non ha senso ‘delegare’ loro in toto la cura, ed ancora meno ‘pretendere’ che essi siano in grado di risolvere i problemi di chi soffre di disturbi mentali. I medici e gli operatori non sono i detentori della vita e della morte delle persone. Non sono nemmeno i detentori della loro salute mentale. Possono ‘solo’ dare un contributo, certo importante, ma non esclusivo. Non possono che collaborare assieme ad altri ‘fattori’ di salute, tra i quali i familiari, gli amici, gli ambienti sociali e di lavoro, gli operatori spirituali, il paziente stesso che deve decidere di uscire dalla sua situazione di disagio, perdendo anche magari qualche vantaggio derivante dall’essere considerato come ‘malato’. Nei nuovi orientamenti occidentali sulla salute mentale, il focus viene messo sul paziente, non più sul medico e sui servizi. Secondo me si tratta di un cambiamento epocale, di cui facciamo ancora fatica a misurare le conseguenze, sia per i medici abituati a sentirsi al centro del processo, sia per noi familiari abituati ad avere un ruolo marginale e passivo, addirittura a sentirci colpevoli per quello che succede ai nostri cari. Non è cosi! Anche i familiari possono avere un ruolo attivo ad esempio per sciogliere alcuni nodi (nel loro comportamento, nelle loro credenze errate, nello stile di vita che propongono…). Resta fermo che da parte di ciascuno ci vuole grande rispetto per il paziente che continua a vivere la sua esperienza su questa terra tra mille difficoltà e che più di noi percepisce livelli di sofferenza ‘ad alta soglia’ rispetto a chi si ritiene normale.
Ci vuole anche grande umiltà, in particolare da parte dei medici e degli operatori dei Servizi, che non posseggono da soli gli strumenti per risolvere i problemi di salute mentale di chi si affida loro. Ma in fondo, è anche rassicurante potere ammettere di non essere onnipotenti, potere accettare che alla fin fine ciascuno è responsabile del proprio destino. È con questo spirito di rispetto e di umiltà che secondo me le associazioni dovrebbero scegliere la modalità ‘consapevolezza dei problemi/collaborazione’ con i servizi di cura, non ‘per’ i pazienti ma ‘con’ i pazienti, al loro fianco se lo gradiscono, perché si tratta pur sempre della loro vita, non della nostra. Ciascuno può mettere in campo gli strumenti di cui dispone: competenze scientifiche, farmaci, sostegno psicologico, competenze riabilitative, risorse economiche, tempo di volontariato, calore umano e comprensione, ecc… con sempre tanto tanto rispetto reciproco, tanto amore. Certe volte mi viene da pensare che la sofferenza psichica sia fatta apposta per costringere gli uomini e le donne a rispettarsi e a collaborare, e non viceversa. Anche la grande sofferenza psichica deve avere una sua funzione nella società. Altrimenti non esisterebbe. Dopo un terremoto, dopo una guerra, dopo una tragedia, siamo tutti più solidali e più collaborativi. Nel nostro piccolo, anche di fronte a una grande sofferenza psichica ed umana, non possiamo che chinare la testa con rispetto e cercare di collaborare, ciascuno con quello che può portare per migliorare la situazione. Non è ‘buonismo’. È dura realtà, è ricerca di non disperdere le energie nelle lamentele e nello scontro, è tentativo di remare tutti nella stessa direzione, è ricerca di una maggiore incisività, è ricerca di una evoluzione positiva personale e sociale. È anche una grande fatica, ma ne vale la pena.


Marie Françoise

La notte di note


L’eterno ritorno del CD


Istruzioni per l'uso.
Credo sia giusto, come autore di Note di Notte svelare come ascolto un cd.
Metto il repeat-all e faccio almeno un giro.
+1.
Nel senso che considero concluso l'ascolto solo dopo aver riascoltato la traccia 1.
Credo che un cd debba avere una coerenza circolare e che quindi l'ultima traccia non debba stridere con la prima.




Mango


Me ne parlò una ragazza durante un ricovero.
Mi incuriosì, diceva che ero fissato coi Doors ed avevo bisogno di un po’ di amara leggerezza.
Comprai un cd usato e cominciai ad ascoltarlo. Mi piacevano i salti associativi ed il suo lieve parlare d'amore.
Oggi ho saputo della sua scomparsa, su di un palco, come molti artisti vorrebbero. Il cuore, tanto usato nelle sue canzoni ha ceduto.
Capita solo ai generosi, come al nostro Lucio Dalla. Vorrei averlo ascoltato di più.
Lucio Dalla ho iniziato ad apprezzarlo solo dopo la sua scomparsa. Colpevolmente.
Oggi penso alla ragazza del ricovero ed alla malinconia che può provare in questo momento. Le sono vicino.
Senza di Lei il cd che ho in sottofondo mentre scrivo non lo avrei acquistato. Ora canta che la pietà finalmente ridiventa amore.
Troppo spesso ci rifugiamo nella pietà, nella compassione, negando di fatto il vero amore, questo deve rimanere di Te, Pino Mango, la Tua forza nel ricordarcelo.
Con Affetto.




Pino Daniele


Ho letto una dichiarazione di Vasco Rossi sul suo sito:www.vascorossi.net. Diceva questo, in ricordo di Pino Daniele: "Je so' pazzo vorrei averla scritta io."
Je so' pazzo potrei averla scritta io, ribatto.
Utente psichiatrico esattamente da 17 anni, il primo T.S.O. l'ho preso il 10/01/1998, penso che Pino Daniele mi abbia dato molto.
Non lo trovavo particolarmente simpatico, troppo gattone, però sapeva graffiare.
Rivendico il mio diritto di essere pazzo!
Non faccio male a nessuno ed un piccolo disturbo di personalità va concesso a tutti, anche a chi non ammette di averlo.
Atteggiamento che può diventare pericoloso, quando tale disturbo viene su.
Ed a questa categoria di persone giro esattamente quello che diceva Pino Daniele al termine della canzone citata:
"Je so' pazzo, NON MI SCASSATE O’ CAZZO!"
Grazie Pino.




Il diritto di cambiare il tempo


Ora Legale - Ora Solare. Il Diritto di cambiare il tempo.
Dicono che si risparmia.
Le giornate prima sono più lunghe poi più corte.
Viene buio prima.
Anche Jerry Scotti lo dice con malinconia.
Le notti sono più lunghe e cominciano prima.
Da cui più tempo da dedicare alla mia rubrica che cambia nome. Da Note di Notte a Notte di Note.
Ho voluto anche la presenza di un indirizzo e-mail per un'interazione più diretta.
Mi interessano le Vostre segnalazioni e mi impegno a citare l'artista più ‘imeilato’.
Sperando di incuriosirVi sempre.


Giovanni Romagnani (giovanni_romagnani@alice.it)

Tre modi per perdere soldi


Il gioco d’azzardo è il più veloce, le donne sono il più divertente, l’editoria è il più sicuro


Mi ha colpito un dialogo con un amico, che non vedevo dalla bellezza di 17 anni. Ci siamo rivisti davanti a una birra come due vecchi compagni di vita, dopo che ha letto il mio primo libro (Voglio sentire l'urlo del tuo respiro, ora non più disponibile, ma presto sarà ripubblicato, vi terrò informati). Comunque, dice il vecchio amico: “Be’, con il bel libro che hai scritto non avrai più problemi di soldi...”
Io: “See... Sai qual è la mia percentuale su una copia? Il 5%”. (Dopo un rapido calcolo, facilitato magari dal fatto che il 5% è la metà del 10%):”Vuoi dire che tu guadagni 75 centesimi a libro?”. “Magari!!! Devi toglierci anche il 22% di IVA e il 20% di ritenuta d'acconto!”. “Niente, praticamente!”. “Già...”

Parliamo di un tipo particolare di diritto, il diritto d'autore. Io ne mastico un po' solo per quel che riguarda l'editoria, avendo pubblicato due libri. Il diritto d'autore varia tra il 3 e l'8 per cento sul prezzo di copertina al netto dell'IVA (22%) ed è tassato con ritenuta d'acconto (20%). Facendo un rapido calcolo, se vendo 1.000 copie di un libro che costa 15 euro il mio guadagno netto è di circa 560 euro, e vendere mille copie oggi per uno scrittore ancora sconosciuto è un successone. Al di là dell'esiguo diritto d'autore (sono pochissimi gli scrittori che campano di scrittura) devo scontrarmi anche con il tremendo mondo dell'editoria. È un'illusione romantica che basti pubblicare, e che tutto dopo venga da solo. Niente di più sbagliato. Semmai la pubblicazione è solo l'inizio. L'autore esordiente ha come minimo tre problemi:

1. I CONTI. Parole di un mio grande amico che ha già pubblicato oltre venti libri: “Non saprai mai, e dico mai, quante copie l’editore effettivamente stampa, quante ne distribuisce e soprattutto quante ne vende. Un mio amico ha denunciato il suo editore perché gli disse di aver venduto cinquemila copie. Ha fatto indagini ed erano più di ventimila. Del mio libro ha venduto più una sola libreria specializzata di Roma di quanto mi abbia detto l’editore in tutta Italia. Io ho già metabolizzato, tu sei ancora nella fase predigestiva… Purtroppo è così, a meno che non pubblichi con le grandi sigle editoriali, che non penso proprio abbiano interesse a fare questi giochini... Ma uno di noi come ci arriva?” Insomma, noi non sapremo mai quante copie sono state effettivamente stampate, quante distribuite e quante vendute. L'autore non può che rimettersi alla galanteria dell'editore.

2. LA CONCORRENZA. In Italia si pubblicano 65.000 titoli l’anno, le copie stampate sono quasi 300 milioni. Oltre il 60% dei titoli è rappresentato da “novità”. Insomma, escono in Italia centottanta libri al giorno, comprese domeniche e festivi. Escono sette libri l’ora, almeno quattro dei quali novità.
Tutto questo a fronte di cosa? Ogni italiano acquista in media meno di tre libri l’anno, ivi compresi i testi scolastici, per i quali si è obbligati all’acquisto, se si è studenti.
Se possiamo dire con oggettività che oggi è più facile pubblicare (sessantacinquemila titoli, contro gli ottomila del 1955, i ventimila del 1980 e i trentamila del 1990), la probabilità di farsi notare in questo oceano di libri è evidentemente molto bassa. Una novità, quanto sta in libreria, a queste condizioni? C’è chi dice una settimana, questa è la vita di un libro, poi lascia spazio ad altre novità. Sembra che dei titoli che entrano in una libreria quasi il 50% vende nella libreria stessa un solo esemplare. Tanti titoli non vendono neppure una copia. La percentuale minima di resa delle librerie oscilla tra il 30 e il 40 per cento.

3. LA DISTRIBUZIONE. In Italia sono state censite oltre duemila case editrici. Fatta una prima pulizia, mantenendo cioè quelle con un minimo di distribuzione e un minimo di titoli in catalogo, giungiamo a circa mille aziende. Ma dove cavolo finiscono i libri degli oltre mille editori italiani? Andate in una libreria e, siamo sempre lì, vedrete le grandi sigle editoriali, con i titoli in bella vista, impilati in orizzontale che non puoi non notare appena entrato. Il mio libro, se c’è, è a scaffale. Dove, di grazia, non lo vedrà mai nessuno, o quasi. E poi si dice il successo. Come dice giustamente un mio amico compositore e musicista: “Misurare il successo non ha senso. Se la canzone A la passo in radio duemila volte, la canzone B solo due, chi mai venderà più dischi?” Insomma, torniamo lì: alla illusione romantica che basti pubblicare. In realtà il bello comincia dopo. Faccio un esempio: io sono stato un grande fan di Faletti, ho tutti i suoi libri e anche le sue canzoni. Davanti a lui mi tolgo il cappello, perché era un grande scrittore. Ma ha pubblicato con un grande editore, che soprattutto ha creduto molto in lui. Non tutti hanno questa possibilità, purtroppo. Il rischio di perdersi (e perdere il proprio libro) nei meandri dell'editoria è molto alto.

Concludendo, lo dico ai giovani scrittori che vogliono intraprendere questa strada: non è dura, è durissima. Anche se la speranza è davvero l'ultima a morire. I casi letterari ci sono. C'è, chi arriva. Anche a risultati di proporzioni mondiali. Certo, sarebbe interessante chiedersi, per uno che arriva, quanti arrancano una vita. Ma la speranza è l'ultima a morire, come diceva un filosofo: “Le probabilità di vincere al superenalotto sono una su seicentoventidue milioni. Ma vallo a dire a quello che vince...”.


Simone Bargiotti

Diritto di famiglia


Prima e dopo il 1975


La famiglia è considerata il nucleo più importante dello Stato, ma sotto il profilo legislativo essa è notevolmente mutata nel tempo. Nel passato non tanto lontano la famiglia era di tipo patriarcale dove il marito era un ‘padre padrone’. Sia la donna che i figli avevano un ruolo prettamente marginale. La vecchia Costituzione recitava infatti: “il marito è il capofamiglia, la coniuge ne acquisisce il cognome e lo deve seguire in qualsiasi abitazione da lui scelta”. Dopo il 1968 il dilagare della protesta sulla disuguaglianza tra maschi e femmine portò, nel 1975, all’abolizione della vecchia norma e alla creazione di un nuovo articolo: “col matrimonio moglie e marito acquistano pari diritti”, oltre agli stessi doveri di reciproca fedeltà, collaborazione, coabitazione e contribuzione ai bisogni familiari.
Io che provengo dal mondo contadino e che mi interesso di storia dell’agricoltura facendo leva anche sui miei ricordi, vorrei accennare ai rapporti umani che intercorrevano nelle famiglie rurali nei secoli passati riportando un tratto del mio libro in CD-ROM L’ingrata vita dei contadini. Le contadine, relegate dal maschio e dalla società di allora ad un ruolo subalterno, difficilmente erano oggetto di riconoscimenti e di gratitudine. Qualunque cosa avessero fatto, compresa la sostituzione nel lavoro e nella conduzione dell'azienda dei mariti e/o dei figli quando questi erano chiamati a svolgere il servizio militare, almeno nel mondo contadino di molte località era considerato un dovere e nulla più. Era quindi comprensibile il manifestarsi d'una certa delusione, astio e insofferenza nei confronti del reggitore o capoccia, sentimenti che si limitavano a un lamento che difficilmente poteva sfociare in una vibrata protesta, salvo quando avrebbero dovuto ottenere qualcosa. Se è vero che il mattarello era il loro ‘scettro’, le donne, salvo eccezioni, non si permettevano mai di maneggiarlo al di fuori del proprio utilizzo culinario, ma non si lasciavano comunque intimorire, anche se non era permesso loro di decidere sugli affari di casa. Si sentivano ripetere in un monotono rituale: “i pantaloni li porto io”, ovvero “qui comando e decido io”. A quei tempi il reggitore della famiglia, salvo eccezioni, pretendeva ubbidienza assoluta e sottomissione da tutti gli altri componenti la famiglia. Se c’erano però da avanzare delle giuste e sacrosante richieste, tutte le donne della famiglia si univano e affrontavano minacciose e compatte quella specie di‘capobranco’. Allora per lui erano dolori. Trincerate dietro la vergara[1] o l’azdora che, come si è detto, seppure ubbidiente incuteva comunque rispetto, specialmente se il capoccia era giovane, le stesse andavano all'attacco finché, giorno dopo giorno, l'irremovibile maschio mostrava segni di resa. Anche se la prima ed ultima parola era sempre la sua, pian piano il suo orgoglio si affievoliva fino a sconfinare in un brontolio di stanchezza, seguito spesso dalla capitolazione totale. La reggitrice, seppure soggetta anch’essa al reggitore, avente alle sue dipendenze figlie e nuore, godeva di una certa autonomia anche per quanto riguardava la gestione dei propri risparmi, ottenuti dalla vendita degli ortaggi o di altri prodotti minuti, con i quali poteva fare piccoli acquisti (filo per cucire, aghi, fazzoletti, coloranti per le stoffe, essenze per i liquori, ecc.). A differenza dei maschi che avevano specifici compiti, il ruolo della reggitrice, come si è visto, non sempre corrispondeva ad un modello unico. Ricadeva comunque esclusivamente sulle sue spalle la gestione dell’economia del podere soprattutto per quanto riguarda l’uso delle provviste e l’educazione delle ragazzine. A queste veniva insegnato a fare la sfoglia, a mungere, a cucinare, a fare le faccende di casa in modo che, con il matrimonio, avessero già un'esperienza di lavoro tale da non deludere le aspettative della reggitrice della casa del marito[2].
Allora, esistevano rituali ben precisi che simboleggiavano l’accettazione della sposa da parte della nuova reggitrice, nell’impegno alla sottomissione, all’obbedienza e alla laboriosità[3]. Le contadine, sebbene facessero vita in comune e partecipassero al lavoro alla stregua degli uomini, venivano ingiustamente escluse dall'eredità: partecipavano alla divisione soltanto nel caso dei raccolti ma, almeno nelle Marche, in ragione della metà o di un terzo rispetto ai famigliari maschi di età corrispondente. Dalle ‘spettanze’ venivano però detratte le spese sostenute per la dote. Mentre le figlie, sposandosi, se ne andavano nella casa dello sposo portando con loro la dote, i maschi, al contrario, portavano a casa la moglie e la sua dote. Tutti vivevano sotto lo stesso tetto, sempre sotto l’autorità del padre o, in mancanza, del fratello primogenito coniugato.


NOTE
[1] La ‘vergara’ non sempre era la moglie del ‘vergaro’, ma la più anziana e la più rispettata delle donne di casa. L'incarico di capo famiglia, in mancanza del padre, veniva infatti assunto dal primogenito.
[2] Cfr. P. Guidicini- C. Alvisi, L’arzdàura – Donne e gestione familiare nella realtà contadina, Ed. F. Angeli, 1994, pag. 69 e seg.
[3] Cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, pag. 427-428.


Roberto Grillini


I diritti dei lavoratori


C’è un’espressione che quando penso al mondo del lavoro mi mette la malinconia: ‘diritti acquisiti’. Riguarda un concetto che nei miei anni giovanili mi rassicurava e mi incoraggiava ad impegnarmi, immaginandomi come una formichina, che piano piano accumulava punti per la sua sicurezza futura. Dalla rivoluzione industriale in qua, con oltre due secoli di lotte, i lavoratori hanno acquisito dei diritti (sudati e purtroppo a volte insanguinati): la rappresentanza sindacale, il diritto di sciopero, la difesa dai licenziamenti, la cassa integrazione, la salute e la sicurezza sul lavoro, la pensione, il ‘trattamento di fine rapporto’, la tutela delle lavoratrici madri e dei minorenni, la limitazione dell’orario, per garantire il riposo e permettere il ritorno allo studio e alla formazione… e viandare. Oggi le cose sono molto cambiate e la crisi finanziaria non è la sola causa: è proprio il nostro mondo che si è repentinamente trasformato. Non è che voglia farci su un trattato socio-politico, il problema infatti è molto complesso e richiederebbe ben altra competenza che la mia… Mi limito ad osservare tristemente che questa trasformazione ha fatto carta straccia di molte conquiste che sembravano certe e ha tolto la serenità a chi è ancora in pista e a chi cerca di costruirsi un domani.
La precarietà, soprattutto per i giovani, ma non solo, da condizione transitoria (la famosa ‘gavetta’) è diventata un modo di esistere. E oltre tutto, insieme all’insicurezza che l’accompagna, è come un virus, che parte da un punto debole e va a intaccare tutto il corpo.
Speriamo che passi…


Lucia

Lo sfogatoio


Numeri (primi e non)


Alla ricerca di numeri temporali.
Il diritto/dovere di sognare.
Paolo Giordano ha scritto La Solitudine dei Numeri Primi!
Un numero primo in matematica è un numero che si può dividere solo per se stesso e per 1.
L'1, a cui ognuno di noi deve tendere è un numero primo molto particolare, divisibile due volte per se stesso.
Ho sofferto la solitudine dei numeri primi.
Io, Giovanni, divisibile solo per me stesso e per la psichiatria.
Diviso, lacerato, da un divisore esterno a me.
Giusto?
Dannoso!
Imparare dai propri sbagli è utile, se ti fa sbagliare un ente esterno a te non tornano i conti.
Amo il numero quattro, che però non è un numero primo perché è divisibile anche per due.
Però i conti tornano:
io, 4, 1 la Psichiatria, 2 le mie identità.
Tenute insieme dai farmaci.
Ma fino a quando?
Fino a quando ci sono da parte dello Stato Italiano i soldi per pagarli, [per l'utente sono gratis, va detto], e finché regge il fegato, che tra l'altro è uno e quindi non ripetibile.
Ho dato i numeri lo so.
La triade sarebbe "utente-farmaco-servizio", ma citare il 3 in questo caso mi sembrava troppo ambizioso.
Meglio il quattro così inseriamo anche l'operatore, che magari è bravo e comunque fa massa.
Giovanni: 4=Olanzapina: 0




Dove le ali diventano proboscide


Pensando a L’elefante e la farfalla di Michele Zarrillo.
Leggerezza e pesantezza, una condizione insita in noi. Volere volare, direbbe qualcuno. E le zavorre? Servono e ci sono. Se zavorra vuol dire paura non è sempre negativa. "Il coraggio vuole ridere" dice Nietzche nello Zarathustra. Bisogna però avere il coraggio di ammettere le proprie paure e quindi il coraggio di ridere. Troppo coraggio: poche paure. Serietà. Incoscienza! Personalmente amo le persone serie e non quelle seriose. Amo chi ride di sé. Non tutti gli operatori lo fanno. Quelli che non lo fanno mi fanno ridere!
Abbiamo il diritto di essere elefanti con gli operatori e farfalle negli affetti?
In genere funziona diversamente. Gli operatori ti fanno volare e ti tagliano le ali con gli psicofarmaci. Rimane quindi il ricordo del "Volo Operativo" e si diventa elefanti negli affetti. E gli elefanti negli affetti devono tornare dagli operatori, per volare.
Coraggio! In questi giorni di Tempesta Elettrica!

È una poesia di psicologia alchemica. Caos e ordine, disagio ed evaso, da se stesso, dove le ali purtroppo diventano proboscide!




Lucky strike


Vivi in bilico e fumi le tue lucky strike.
C'è molto di Vasco Rossi in questo verso.
Ammette il vizio, ma sottolinea che le lucky strike che fuma sono le sue. Ha i soldi cioè per pagarle.
Credo che tutti gli utenti del CSM-Scalo dovrebbero impararsi queste parole a memoria. Anch'io sono un fumatore, ma come Vasco fumo le mie. Mentre tutte le volte che vai al CSM, magari coi tuoi pensieri, ti trovi ad aver a che fare con mandrie di utenti che ti chiedono una paglia. Cosa che ritengo insopportabile.
Inoltre Vasco continua dicendo che qui non arrivano gli angeli.
Quelli di Vasco probabilmente no, mentre di Angeli della Nebbia è pieno.
Non voglio sposare posizioni nichiliste, parlando di Iperborei, ma un po’ di dignità, perdio e per sé.
Se uno ama fumare tabacco deve fare i sacrifici necessari per poterselo permettere.




Ti sorride da un angolo


“Ti sorride da un angolo”.
È un verso di una canzone di Lorenzo Cherubini, Jovanotti, contenuta nell'album Back-Up.
Spesso in CSAPSA parliamo degli ultimi e del loro isolamento esistenziale. È come se in quell'angolo ci dovessero stare e rimanere. Se ne uscissero l'angolo rimarrebbe vuoto. Mi verrebbe da dire pronto per qualcun altro.
Nel mio primo intervento a Radio Kairos ho detto che in CSAPSA ho trovato le condizioni per aprire la “schizzofrenia”. Ma non per tutti è così. Ho deciso di aprire l'angolo della “schiffofrenia” in cui ero confinato. Ogni tanto l'aprivo con qualche sigaretta, ma sostanzialmente rimanevo lì.
Purtroppo però molti in quell'angolo ci rimangono, e devono dimagrire, perché si stringe sempre più. Quando i gradi dell'angolo sono pari a 0°, la persona semplicemente sparisce. E per molti è un bene: "Occhio non vede, cuore non duole."
Stando in CSAPSA ho capito che non è giusto. Grazie a Leonardo ed alla sua immane sensibilità, ho capito che certe situazioni semplicemente non vanno accettate.
Poi ho il mio vocabolario, cito spesso Vasco Rossi, ma questa volta non è colpa d'Alfredo. Uno degli album ritenuti migliori dalla critica del buon Blasco è C'è chi dice no .
In quello, come ho detto con Leonardo, Vasco manda a fare in culo la teoria dei sistemi. Personalmente è un approccio, quello dei grandi sistemi, che non amo.
Lo ritengo spersonalizzante. Voglio continuare a credere che il sociale non si formi a monte, in qualche super-uranio, ma davanti ad un buon bicchiere di vino bevuto in un'accogliente osteria.
In Ridere di te, che è la terza traccia di quell'album, Vasco Rossi canta:
"Le stelle stanno in cielo, i sogni non lo so, so solo che son pochi quelli che si avverano".
Sì, lo so, è difficile, ma tutti insieme qualche sogno possiamo provare a realizzarlo, anche perché Jovanotti, nella canzone che ho citato all'inizio, dice: "Ti sorride da un angolo."
Apriamolo!


Giovanni Romagnani

Dazzenger


● Se i pomp-ieri sono in ritardo che si fa? Si chiamano i pompoggi!"
● Le matto-nelle, le fabbricano in manicomio?
● Nella storia, i sa-latini hanno conosciuto bene i latini?
● Sapete cos'è un pastore? Un pasto preso a certe ore.
● Sapete cos'è un artiglio? Un tiglio con lo sbuzzo dell'arte.
● Sapete cos'è una collina? Una colla piccolina.
● Cosa succede se tocchi una spina elettrica? Ti punge.
● Lo sapete cosa ci fa del cemento armato in una banca? Tenta una rapina.
● Quando i cinesi mangiano le crêpes e vanno a lavorare in una risaia... ridono a crepapelle?
● Sapete perché alcuni alberi hanno la radice quadrata? Perché li hanno piantati vicino alle scuole.
● In un negozio di abbigliamento, due commesse stanno allestendo una vetrina. La prima chiede: "Mi dai una mano?", l'altra stacca la mano a un manichino e le risponde: "Ecco!"
● In profumeria, un cliente legge un’etichetta e chiede: "Siete sicuri che il sandalo profumi?"
● Le persone che vivono nel Sudan... sudano tutto l’anno?
● Sapete qual è l'accordo armonico tra l'arciere e la corda dell'arco? L'in-tesa.
● Sapete qual è il pregio di Augusto? Il gusto per l'oro (simbolo chimico : Au).
● Perché a molti non piace la verdura? Perché è troppo dura.
● Il consulente fiscale dice a Luigi: "Ci vuole la partita IVA". Allora Luigi si organizza: chiede a Iva Zanicchi di fare una partita a carte, chiama il consulente dove loro stanno giocando e dice: "Mi scusi, questa partita con Iva, va bene ?".
● In quale città ci si vuole veramente bene? Miami (si pronuncia "maiemi").
● Qual era il nome di Anna da giovane? Giovanna.
● Il capo magazziniere al fattorino: "Ma quanto tempo ci impieghi a trasportare un collo?". Lui gli risponde: "Tutta la vita: ce l'ho attaccato !" ● A quale ragazza piace fare la lotta? Car-lotta!


Darietto

Ogni rovescio ha la sua medaglia


Avete mai notato? Ciò che è diritto, dritto, retto, destro è considerato giusto, l’opposto è per lo più visto di mal occhio: roba da evitare, come un pensiero contorto, un torto, una tortura, un tiro mancino, un sinistro spettacolo, un gesto maldestro, un manrovescio, un rovescio di fortuna … Aiuto, si salvi chi può!!!
Guardare storto non è gentile! Lo sguardo obliquo, torvo e bieco, è tipico dell’uomo perverso. Si raccomanda di guardare la gente dritto negli occhi (strabici compresi).
Riga diritto, perché una sbandata può costarti come minimo una storta. E, volendo esagerare, anche un sinistro... E poi, distorcendo la verità, in barba a tuoi diritti, perfino se hai ragione sapranno darti torto. La manca non è la dritta, ma per il mancino è la mano giusta. Eppure c’è ancora qualcuno che va dicendo che è “la mano del diavolo”, e non è sufficiente saperla usare con destrezza: sempre sinistra resta (la sinistrezza pare non esista). E un ambidestro dove ce l’ha la manca? Gli manca, ma non è mica monco! Semplicemente la sua manca è più destra del comune. Beato lui, sarà un raccomandato… Riguardo alla politica, no comment, anche perché ultimamente si direbbe un po’… sinistrata. Comunque, per dirla con Giorgio Gaber, “cos’è la destra, cos’è la sinistra?”. Dubbio amletico: palla al centro. E il double face (ottima soluzione per i ‘voltagabbana’), come lo mettiamo? A piacere!
Ogni medaglia ha il suo rovescio… Diamo dunque anche al rovescio una medaglia al valore. Ci sono cose, infatti, che hanno una fascino speciale proprio perché non sono dritte, vedi strabismo di Venere (a proposito, cosa sarebbe Venere senza… curve?). E chi vorrebbe mai raddrizzare le famose torri pendenti? Evviva la torre di Pisa che pende che pende che mai non vien giù! È il fascino dell’imperfezione, dell’originalità, della trasgressione.
La nostra Garisenda, paragonata a un gigante, si è meritata un posto nella Divina Commedia. Ai tempi di Dante, non essendo ancora stata mozzata, era ancor più incombente, perciò stare “sotto ’l chinato” faceva un certo effetto, specie se una nuvoletta spinta dal vento se ne andava in direzione opposta, dando l’impressione all’osservatore che la torre gli cadesse addosso.
Dante probabilmente ne rimase affascinato, quando venne a Bologna per bazzicare l’università, e si soffermò a lungo a rimirarla, però gli venne un po’ di rimorso per aver trascurato l’altissima e più celebre torre Asinelli, perciò scrisse una poesia in cui se la prendeva con i propri occhi, rei di non aver scelto la torre giusta, quella dritta, insomma. Eh, Dante, che dritto!


Lucia Luminasi

Questa o quella? (A Dante)


Forse un po' brilla
o forse insonnolita,
la Garisenda ciondola
sulla città assopita.
Certo le piacerebbe un bel goliardo,
allegro, crapulone e lancia in resta,
ma per un cedimento in gioventù
le capitò di perdere la testa.
Da allora la sorella retta e altera
la piantona, severa,
indicandole il cielo…
Ai piedi dello scombinato duo
che in fin dei conti ben la rappresenta,
la gente di Bologna passa svelta
senza guardare in su.
Sarà la fretta?
Piuttosto... l'imbarazzo della scelta.


L. L.

Gli opuscoli informativi sugli inserimenti socioriabilitativi, formativi e lavorativi del DSM-DP di Bologna: informarsi per conoscere e scegliere


Il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche nel 2011/2012 ha riorganizzato le attività ed i percorsi d’inserimento formativo e lavorativo, introducendo nuovi modelli e metodologie di lavoro e approntando il consolidamento degli interventi in atto che si sono mostrati validi ed efficaci in questi anni. Progetti, aree di attività, modelli operativi, metodologie, prassi e strumenti di lavoro sono stati ordinati ed esposti in un Manuale Operativo e sono stati anche i temi della discussione e del confronto della comunità degli operatori del DSM – DP e dei propri stakeholders, quali utenti, familiari, cooperatori ed operatori di Enti pubblici e privati impegnati sul fronte della formazione e dell’inserimento lavorativo.
Questi cambiamenti interni al DSM-DP sono stati stimolati anche dai processi di cambiamento della normativa del lavoro e del modo di produzione che negli ultimi anni hanno avuto una forte accelerazione. Importanti sono stati la promulgazione della Legge Regionale n. 7/2013 sui tirocini formativi e la riforma del mercato del lavoro come anche le ripercussioni della crisi economica.
Successivamente, nel 2013, con l’applicazione del Manuale Operativo, si è posta un'altra necessità: come verificare concretamente quali obiettivi riabilitativi, formativi e lavorativi sono stati raggiunti, quali cambiamenti organizzativi si sono prodotti e quanto le nuove attività hanno inciso positivamente sulle condizioni, non solo lavorative, degli utenti. Allora si è approntato e si è attivato un percorso di verifica e di valutazione che prevede diversi interventi secondo i vari bisogni rilevati.
Nel corso del confronto aperto tra operatori, utenti e familiari, in occasione del nostro seminario annuale del 2013 emerse che era necessario comunicare ed informare le persone interessate, con un linguaggio semplice e facilmente comprensibile, su quali erano i percorsi e le attività di cui potevano usufruire. Era necessario tradurre il nostro Manuale Operativo ed i nostri atti ufficiali in documenti leggibili e comprensibili, in opuscoli informativi che potessero aiutare gli operatori ad informare e gli utenti ad essere informati in modo chiaro e completo.
Questo proposito rispondeva al diritto di ogni utente di avere tutte le informazioni per poter scegliere in modo consapevole e secondo le proprie attitudini e preferenze il percorso lavorativo o formativo adatto e desiderato. Nel 2014 si è così costituito un gruppo di lavoro tra operatori ed utenti che ha prodotto gli “Opuscoli informativi” che sono stati presentati al 7° workshop del DSM - DP sugli Inserimenti Lavorativi e che potete vedere in questa pubblicazione.


Vincenzo Trono
(Educatore coordinatore Area Progettazione Educativa e Inserimenti
Lavorativi - DSM-DP AUSL di Bologna - Viale Pepoli 5 Bologna)



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Il diritto di abitare


BRAINSTORMING a partire dalla visione del film Elling, film del 2001 diretto da Petter Næss



Che cosa significa “abitare”? Quanti modi di abitare esistono?



A:
Abitare è essere liberi e autonomi (es.: bisogna sapere fare la spesa, gestire la casa, fare il letto, cucinare)

F:
È avere il proprio mondo, il proprio nido, qualcosa che corrisponde alla tua intimità più profonda, ha un valore sacro, ed è inviolabile. Per questo c'è il diritto alla casa, è un fatto di dignità umana.

M:
Abitare è anche condividere affetti e vissuti con le persone con cui abiti, o che ospiti in casa. La casa è anche uno spazio affettivo. A volte però le relazioni possono essere difficili, si può arrivare a litigare.

L:
Abitare è vivere uno spazio, condividere con altri.


Riguardo le scene iniziali del film:

A:
Elling deve ancora imparare a essere autonomo, cosa che in genere si impara prima rispetto alla sua età, in questo non ha una vera normalità.

L:
A me è piaciuto il fatto che nella condizione forzata (la casa di cura) in cui Elling e il suo amico si trovano, riescono a condividere uno spazio e a creare un legame affettivo e di amicizia molto profondo.

A:
D'altra parte però è stato necessario portare Elling in quella struttura, per potere dargli un aiuto, altrimenti, lasciato a se stesso, sarebbe peggiorato sempre di più. Meno male che l'hanno preso in tempo!


ALCUNI LUOGHI CHE SI ABITANO:

CASE (case grandi, piccole, condomini, villette, di proprietà, in affitto, del Comune, da soli, in coppia, con la famiglia, con amici, con inquilini, ecc..)
SCUOLE, UNIVERSITA’, ISTITUTI SCOLASTICI
COLLEGI UNIVERSITARI E PER STUDENTI
CASERMA E LUOGHI MILITARI
COLONIA E CAMPI ESTIVI
TENDA, ROULOTTE, CAMPER, CAMPEGGIO
MEZZI DI TRASPORTO: BARCA, AEREO, PULLMAN, TRENO, ECC...
HOTEL, PENSIONE
OSPEDALI, CASE DI CURA, CLINICHE
COMUNITA’ TERAPEUTICA
GRUPPI APPARTAMENTO, CASE FAMIGLIA, ECC...
DORMITORIO
LA STRADA
CARCERE


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Disegno di Stefano Gardini




Approfondimento personale: “I luoghi che ho abitato”



Roy
Nel 2003 sono andato a “Villa A”, a Riolo Terme. Nell’ambito di tale struttura ho fatto amicizia con molte persone. Nel 2006 sono andato presso “G”, a Bologna. Nel 2008 mi sono recato a “Casa M” e poi, dopo 4 anni, sono andato al G.A.P. Gruppo Appartamento Protetto. Presso il G.A.P., il rapporto con gli utenti è buono. Io, a volte, per evitare inutili diatribe assecondo certi atteggiamenti. Nell’ambito del G.A.P. ci sono i turni, quindi spesa, cucinare e pulire. Nel mio tempo libero leggo. Io pago la mia retta per quanto riguarda l’affitto. La retta ammonta a circa 370 Euro. Ci sono tre camere, due bagni, sala, cucina e una terrazza molto grande. Nella mia camera ci sono molti libri, riviste.
La mia camera è il mio mondo.

M: L’aeroporto
Era l’anno 2010 e precisamente il mese di ottobre e non pensavo in realtà al luogo in cui mi trovavo, o meglio, di rendermi conto di dove mi trovavo e cioè di essere in un aeroporto perché non c’ero mai stato prima. In quell’anno abitavo con mio zio che voleva andare a Santo Domingo e una mattina siamo partiti per l’aeroporto di Bologna in un taxi con le valigie e appena arrivato sono entrato in un luogo che per me… sembrava di entrare in un mondo del tutto nuovo: la sala d’aspetto di un aeroporto. La gente e la frenesia che c’era mi ha dato dello sgomento, soprattutto quando c’è il momento del controllo dei bagagli e la corsa per prendere l’aereo. Poi sono salito sull’aereo e qui… entrare su un aereo è stata davvero una grande emozione, soprattutto quella di aspettare di decollare. Poi quando l’aereo è decollato, mi ha dato l’ebbrezza di stare in alto, che non avevo mai provato. Comunque questa è stata un’esperienza bella che forse non riproverò più perché non è stato il frutto di una mia iniziativa ma è stata quella di mio zio, che pensava di volersi rifare una vita in America.

Francesco Musco
Avevo 3 anni quando mi trasferii in quella che considero ‘la mia casa’ in senso assoluto. Era (è) una casa popolare della periferia sud di Foggia. Una casa popolare sì, ma con garage, cantina e giardino. Amavo quella casa, me ne rendo conto da quello che ho provato in quegli anni, adesso so come dare un nome a quello che avvertivo dentro di me. È come se mi rendessi conto già dell’importanza di avere una casa intesa come punto di riferimento, come luogo inviolabile, appartenente solo a chi lo abita. Il nome che darei a quello che provavo è ‘serenità’, ‘senso’, più precisamente ‘senso di appartenenza’. Questo ovviamente non poteva non dipendere dalla presenza dei miei genitori.
Un po’ di anni dopo, quando mia madre morì, le mie case divennero due e poi tre, quelle dei parenti che a turno ospitavano me e il mio fratellino. Due case degli zii e una dei nonni. Mi adattai a tutte e tre, in particolare a quella di una mia zia con sette figli e quindi vi erano tanti cuginetti e tanta allegria. Un anno con il mio fratello maggiore lo trascorsi anche in un seminario che faceva praticamente da collegio: grandi spazi, grandi camerate, ambiente piacevolmente francescano, ma mai caldo come quello di una famiglia.
Poi quando avevo 9-10 anni tornammo a casa dei nonni dove vi era anche una mia zia zitella che ci faceva un po’ da mamma (tra l’altro era sua sorella) e dopo un anno di collegio quella casa, per quanto in un edificio antico, ci sembrò più bella e accogliente di due anni prima, ma mai bella e accogliente come la nostra casa del quartiere “Cep” di Foggia, dove recuperammo, due anni dopo, quando vi ritornammo assieme a mio padre (che non era mai andato via da lì), quella dignità di essere tornati in famiglia dopo essere stati sballottati qua e là, per un po’ di anni; una famiglia tragicamente monca di mia madre, ma con tutto il ricordo quasi palpabile di lei.
Alcuni anni dopo andai a fare il servizio militare per due anni. Quando tornai alla mia casa, vi tornai profondamente cambiato e cambiò così la mia percezione delle cose, della vita e del mondo esterno, ma penso che ciò accada a tutte le persone che hanno vissuto un’esperienza di sofferenza. Tutto assunse un senso più profondo quando tornai nella mia magica casa d’infanzia. Io, cantante melodico, iniziai ad amare il Jazz. La casa in particolare assunse un valore molto più grande: era il mio centro di energia, era diventata la carezza, il conforto, il luogo dove cantavo le mie canzoni, scrivevo le mie poesie e dove mi rilassavo e contemplavo il verde circostante guardando spesso il cielo e nutrendomi di tutto questo.
La sera, tornando dal lavoro, infilavo contento la chiave nella serratura del portone esterno e con altrettanto compiacimento osservavo la mia ombra sul muro dell’androne. Era un rumore allegro anche quello della chiave che mi permetteva di entrare in casa e avvertivo questo: l’odore immensamente piacevole per la sua familiarità e una carezza misteriosa me la sentivo addosso ogni volta che vi entravo. Quella casa aveva assunto il valore di mia madre. Era lei, forse, che non essendovi più, mentalmente era diventata appunto la mia casa.

A
La mia prima esperienza sull’abitare riguarda la mia infanzia.
La prima casa in cui ho vissuto si trovava nella mia città natale che è Foggia, in viale V (una zona vicino al centro città), ed era una casa molto grande di 130 mq e avevo tre corridoi e stanze varie, moltissimo spazio; la stanza più grande era il salotto dove molte volte invitavamo (logicamente grazie ai miei genitori) tantissime persone e quindi ospiti.
Avevo una mia stanza, era molto grande, ed essendo molto piccolo (vi ho vissuto fino a quando avevo 8 anni), in quello spazio giocavo, invitavo i miei amici. Ho un ricordo ultra positivo nel complesso e la maggior parte delle cose che facevo erano divertenti, inoltre avevo un bellissimo letto, era molto comodo e dormivo benissimo. Avevo vicino molti peluche. La mia casa d’infanzia aveva una grande cucina e inoltre possedeva una fantastica sala da pranzo; la mia casa era antica, aveva tre balconi: uno nella mia stanza, uno in sala da pranzo e l’altro in salotto.
I miei genitori avevano una stanza da letto grandissima, bellissima e arredata con mobili davvero meravigliosi; inoltre il letto era stupendo e ornato in maniera magnifica. Nella casa c’era una stanza che faceva da ufficio o stanza di lavoro per mio padre che è tuttora avvocato e anche quello era un bello spazio. C’era la stanza per gli ospiti e infine un bagno molto bello e spazioso con vasca da bagno rilassante. In assoluto è stata la casa più bella della mia vita.

Roberta
Mi ricordo che da piccola ho vissuto in una casa grande, calda e accogliente con la mia famiglia. Giocavo spesso con le mie amiche correndo lungo il corridoio e nel salone e giocando a nascondino tra le vetrate dei balconi.
Successivamente ho abitato un collegio femminile, ai tempi dell’università, ed era piacevole conversare con la mia compagna di stanza e ritrovarsi tutte insieme nella sala grande a guardare la tv, era anche bello mangiare tutte assieme nella sala ristorante. L’unica cosa che mancava erano i ragazzi, ma non era poi un problema così grosso.
A un certo momento della mia vita sentii l’esigenza di lasciare il collegio per vivere in appartamento condiviso con altre persone per fare esperienza e così fu. In verità cambiai diversi appartamenti tutti caratterizzati principalmente da divertimento e poi da allegria, incomprensioni, litigi e riappacificazioni e poi di nuovo goliardia. Di tutto questo conservo dei bellissimi ricordi.
Qualche anno dopo mi venne il forte desiderio di vivere da sola e ne parlai in famiglia tanto che mio padre mi fece un bel regalo e acquistò una bella casa che intestò a me. In quest’ultimo luogo abitativo mi sono anche molto divertita ma ho scoperto la solitudine. Adesso continuo a vivere là con la mia famiglia e mi trovo molto bene.
Confronto tra collegio femminile e casa di cura. Una delle esperienze abitative che mi ha profondamente segnato è sicuramente quella del collegio femminile. Mi sono trovata bene da subito con tutte le ragazze che vivevano in collegio ed in particolar modo ho adorato la mia compagna di stanza. Con lei si era creata un’amicizia speciale infatti parlavamo ore ed ore dei nostri interessi, delle nostre passioni e dei nostri pseudo-problemi. Inoltre ci divertivamo tanto a prendere in giro le altre compagne di convitto; tutto avveniva tra di noi segretamente per non ferire nessuno. Uno degli argomenti da noi trattati più di frequente era quello dei ragazzi che purtroppo lì mancavano, quindi parlavamo dei nostri incontri all’esterno in particolare all’università e si era stabilita tra di noi una bella sintonia, si era creata una forte energia e a volte c’era anche empatia. Ci ascoltavamo e ci capivamo in un modo impressionante. Ricordo che comunque anche con le altre compagne di collegio avevo instaurato buoni rapporti, infatti andavamo insieme a fare shopping e mangiare la pizza e tutto era svolto con goliardia.
Oltre questa esperienza ho avuto anche un’altra esperienza abitativa molto toccante (breve ma intensa): il ricovero presso la casa di cura. Anche qui ho trovato una magnifica compagna di stanza con la quale si era instaurato un rapporto di complicità e solidarietà reciproca. Devo dire che mi sono trovata molto bene anche con le altre ragazze ricoverate in quanto simpatiche e aperte. Insieme andavamo al bar a fare colazione e poi organizzavamo cene speciali. Il ricordo più forte che ho comunque, senza dubbio è il fatto che ci facevamo la doccia nello stesso momento utilizzando due bagni differenti della struttura e avevamo anche gli stessi gusti televisivi. La stessa situazione l’ho vissuta nel collegio femminile; anche lì con la mia compagna di stanza vivevo in ‘simbiosi’: doccia più o meno nello stesso momento e desiderio comune di guardare determinati programmi televisivi. Credo che entrambe le esperienze mi abbiano aiutato a crescere e a migliorare sempre più.

D
L’esperienza abitativa che preferisco raccontare riguarda quella che ho vissuto quest’estate. Sono andata al mare in un paesino della Calabria a casa di un cristiano evangelista. La mattina ci si alzava presto, si andava al mare, si passeggiava sul lungomare, si cantava, si pregava e si mangiava tutti insieme. Era una vita in comunità. Siamo andati anche con la barca a vela in 10 persone (dove in realtà il massimo doveva essere di 4). Sono stata lì per un mese intero. È stata un’esperienza piacevole, si pregava Gesù e si portava il suo messaggio. Alle 12 si pranzava sotto l’ombrellone e poi andavamo in giro sotto gli altri ombrelloni ad evangelizzare, a pregare. Si faceva da mangiare tutti insieme. Dopo cena, stavamo in una sala con il pianoforte dove si cantava e si lodava il Nostro Personale Salvatore Gesù Cristo. Ho incontrato tante persone che erano contente quando ci vedevano. Ho imparato a socializzare con le persone. È stata una vacanza bella e benedetta. Il messaggio di Gesù mi ha dato la forza per diventare quello che volevo essere.

S
Il luogo più bello che ho abitato è la casa di montagna dei miei nonni, da piccolo. È una casetta rurale, con il camino e quelle enormi scale che portano al secondo piano. I miei nonni stimolavano molto la mia fantasia, mio nonno mi portava in giro (strade tutte curve e deserte, dove se passavano 5 macchine in un giorno è molto) e mi raccontava quando non avevano il bagno e andava a lavarsi nel fiume. Mia nonna era bravissima a raccontare le favole, che avevano un non so che di magico. Da piccolo giocavo molto anche con gli animali di mia zia, che abitava di fianco a noi, perché questa casa è una borgata, un insieme cioè di 4 o 5 case. Mi divertivo molto con un cucciolo di cane e uno di gatto, che da cuccioli giocavano sempre insieme. Poi si dice che cane e gatto non vanno d’accordo… comunque la montagna ha tutta una sua atmosfera, e mi è rimasta non solo nei ricordi d’infanzia. A volte ci sono andato anche con gli amici o con una ragazza in età adulta, e sono bellissime le serate davanti al fuoco, magari dopo una grigliata, con le sigarette accese direttamente con la brace…

Luigi Zen

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Associazione UmanaMente
LABORATORIO DI SCRITTURA
Ogni venerdì ore16:45 - 17:45, Sala Cufo, Viale Pepoli 5 (BO)


Il diritto alla cura


Io sento il diritto ad essere curato e ad avere persone che mi aiutino. Ho sempre avuto la disponibilità all’ascolto da parte degli operatori del CSM. Mi sento seguito bene ed ascoltato nei miei bisogni. C’è un ‘fare insieme’ con la psichiatra anche dal punto di vista farmacologico. Anche al Centro Diurno mi sento seguito ed ascoltato. Grazie a questo percorso sono riuscito a cambiare atteggiamento in famiglia rispettando il ruolo dei miei genitori in quanto tali. Anche il lavoro mi ha aiutato a rispettare le persone che hanno i miei stessi problemi. Ai colloqui i medici mi hanno sempre ascoltato e ho sempre discusso con loro sul mio progetto di cura. Mi sento trattato come una persona normale e non malata.




Armando



Secondo me i diritti vengono tutti rispettati qui in Italia, mentre in altri Stati non è così, ad esempio negli Stati Uniti non è garantita l’assistenza sanitaria. Quando stavo male sono andato tre volte dai Carabinieri, perché pensavo che i miei diritti fossero stati calpestati. Ero convinto di essere seguito e che delle persone volessero cacciarmi dalla mia abitazione. Erano solo fantasie paranoiche, e l’ho scoperto solo dopo essermi curato.




Massimo



Mi sento seguito, curato e considerato in quanto persona bisognosa di cure. Non mi è stato necessario avanzare particolari richieste, anche perché sono una persona con poche pretese. Ho molto rispetto per gli altri e questo mi porta a chiedere null’altro che il necessario. Mi sento rispettato nei miei diritti. È fondamentale rendersene conto!




Anonimo



Sento che sono stati decurtati e sminuiti i miei diritti di malato per una serie di procedure. Ho iniziato il mio tirocinio da malato a diciassette anni, mi sento derubato di buona parte della mia vita a causa della malattia. Mi hanno curato con metodi antiquati che hanno cronicizzato la mia malattia. Vivo da anni in un gruppo appartamento e mi sento dire dagli operatori che ‘ci marcio’ sopra. Da buon opportunista, talvolta mi faccio scudo della mia malattia per non fare delle cose. Forse è proprio così. Mi sento la vita ‘schematizzata’, anche se usufruisco di molta libertà nelle ore pomeridiane. Economicamente non ho da lamentarmi, però se potessi cambierei la mia vita seduta stante. Sopporto il peso della vita comunitaria, sentendo una lenta disgregazione dell’IO. Secondo me si fa troppo poco per i malati mentali. Sono veramente un malato mentale?




Anonimo



Centro Diurno di Casalecchio di Reno

Je suis Charlie


Charlie Hebdo è un periodico francese, un giornale di satira che si occupa di diverse tematiche, sia politiche che religiose.
Nel 2006 Charlie Hebdo pubblicò una serie di caricature di Maometto che fecero molto scalpore perché considerate oltraggiose nei confronti della comunità musulmana. Per la religione musulmana infatti è peccato raffigurare il profeta Maometto ed è vietato inoltre rappresentare Allah.
Nel novembre 2011 la sede del giornale fu distrutta a seguito di un lancio di alcune bombe Molotov. La mattina del 7 gennaio di quest'anno tre uomini armati con fucili d'assalto hanno attaccato la sede del giornale durante la riunione settimanale di redazione. Dodici persone sono state uccise, tra cui il redattore del giornale, diversi collaboratori e due poliziotti. I terroristi si sono dichiarati provenienti dal movimento Al Qaida e Isis.
Quella mattina il settimanale aveva pubblicato una vignetta sul leader dello Stato Islamico. I tre terroristi sono poi stati individuati e uccisi.
Successivamente alla vicenda, le strade di Parigi si sono affollate di persone da tutto il mondo per mostrare solidarietà alle vittime di Charlie. Il movimento "Je suis Charlie" (io sono Charlie) é nato proprio per mostrare come “Charlie” non sia un’unica persona, ma invece rappresenti tutti coloro che credono nella libertà di espressione e di parola in una società libera.



1) Cosa pensi di ciò che è accaduto?

“Credo che ciò che è successo sia davvero indecente. Credo esista e debba continuare ad esistere la libertà di espressione e di parola a prescindere di ciò che si dice”.

Davide Z.

“Credo fermamente che non avrebbero mai dovuto uccidere quelle persone, l’omicidio non può essere mai ammesso, qualsiasi sia l’offesa ricevuta”.

Anonimo

“Credo che la libertà di espressione esista e che sia anche la più grande ricchezza culturale in una società libera come la nostra. Come lo è anche la libertà di azione. Ogni qualvolta ci sono privazioni di libertà, saranno sempre presenti però anche attentati. Non credo che ciò che è successo abbia qualcosa a che fare con rivendicazioni religiose, ma..”.

Elisa F.

“Credo che la libertà di pensiero e di espressione debba essere sempre svincolata da tutto, dalla politica, dalla religione…”.

Anonimo


2) "È un esercizio di libertà anche criticare il modo in cui la satira come quella di Charlie caratterizza qualcosa che per noi è caro, come la nostra fede, la nostra razza o la nostra etnia. La libertà ha un limite (un insulto gratuito non è libertà) ed è quello del rispetto dello spazio altrui, a prescindere da cosa si pensa o si diffonde, e che nessuna diffusione di idee meriti reazioni violente, come è successo a Charlie Hebdo.". (Salvatore Santoru)
Cosa pensi di questa affermazione? Secondo te esiste un confine tra la libertà di espressione e l’attenzione a non ledere i diritti delle persone?


“Cosa succede quando i diritti vengono lesi? Non certo una strage può riportare uno stato libero. Se qualcuno viola la libertà di un altro è giusto che forse si possa preoccupare a sua volta della propria libertà, ma un’azione violenta come quella accaduta non può essere una reazione accettabile”.

Elisa F.

“Non credo che la libertà di espressione possa avere un prezzo. Ognuno deve poter essere libero di esprimersi e esprimere il proprio pensiero sempre. La violenza è ingiustificabile”.

Anonimo

“Non sono d’accordo con questa affermazione. Una vignetta non può comportare il togliere la libertà a qualcuno, anzi non può che rafforzarla nel possibile commento che essa suscita.”

Davide Z.

“Credo sia sempre importante stare attenti a non offendere il prossimo, e dall’altra parte come a non fargli del male.”

Werther R.


3) “Trovo di cattivo gusto una parte del lavoro di Charlie Hebdo perché nelle sue vignette abbonda l'intolleranza di ogni genere. Ma la mia disapprovazione non può certo modificare le scelte della rivista. I vignettisti, ma anche gli artisti e scrittori di tutto il mondo, dovrebbero avere la possibilità di esprimersi e sfidare l'autorità senza essere ammazzati. L'omicidio non è mai una conseguenza accettabile". (Roxane Gay) Sei d’accordo con ciò che dice la scrittrice?

“Sono d’accordo con questa affermazione. Devo ammettere che se al posto di Maometto fosse stato disegnato il mio Dio probabilmente non sarei rimasta indifferente ma mi sarei offesa. Non per questo avrei mai pensato a simili atti di violenza”.

Anonimo

“Anche io sono d’accordo con il parere di Roxane Gay. È più che legittimo non approvare le scelte della rivista ma altrettanto importante è lasciare la libertà a tutti di esprimersi, sempre.”

Anonimo


4) Ecco la vignetta della rivista Charlie Hebdo uscita dopo gli avvenimenti del 7 gennaio: “Tutto è perdonato”. Cosa ne pensi?

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“Trovo le vignette di Charlie spesso ironiche e simpatiche allo stesso tempo. La gravità grandissima del fatto non è spiegabile secondo me come conseguenza di questi disegni”.

Anonimo

“Guardando questa vignetta penso solo al fatto che questa frase secondo me non è corretta. Non è vero che tutto è perdonato e perdonabile. Altrimenti mi chiederei, perché mia madre non mi perdona e io non riesco a tornare a vivere?”

Elisa F.

“Trovo carina la vignetta e non ne capisco la gravità. Ho letto che per i musulmani non si può disegnare il profeta Maometto ma questo non giustifica la violenza attuata”.

Anonimo

“Io credo che questa vignetta come altre possano essere utili per sensibilizzare al problema della guerra che Isis e Al Qaida stanno diffondendo”.

Davide Z.

“Anche io credo che se il disegno spiritoso fosse sul mio Dio ne rimarrei molto offeso, ma giustamente questo non giustifica nessuna azione così aggressiva”.

Werther R.


5) “Not in my name”: i giovani musulmani condannano il terrorismo e l'attentato a Charlie. Con questo slogan che dice: “non in nome mio e non nel nome dell'Islam" essi vogliono distaccarsi dalle azioni e dai comportamenti di queste persone, per evidenziare come non tutti i mussulmani siano terroristi e anzi di come loro stessi condannino questo tipo di comportamenti.

“Mi sembra una cosa molto vera e molto importante da dire ad alta voce. Concludo dicendo: viva la libertà!”.

Elisa F.

“Anche io sono molto d’accordo con questa idea dei musulmani. Mi sembra giusto ribellarsi anche per loro alle facili generalizzazioni. ”

Anonimo

“Sono d’accordo, la penso come loro. Che sia in nome di Gesù Cristo o di Maometto, nessuna guerra religiosa può essere considerata giusta nel mondo di oggi”.

Davide Z.


CREDIAMO CHE ALCUNE VIGNETTE DI CHARLIE SIANO STATE ESAGERATE, FORSE OFFENSIVE NEI CONFRONTI DI CREDENTI NELLE DIVERSE RELIGIONI OGGETTO DI SATIRA, MA QUESTO NON GIUSTIFICA MAI UN OMICIDIO!!!



Laboratorio di Narrativa – RTP Casa Mantovani

La mia cella


Durante un incontro della redazione di Ne vale la pena che approfondiva gli aspetti concreti della vita in carcere, mi è stato chiesto di scrivere, o meglio di descrivere con le parole la mia cella, di cui avevo disegnato la piantina sulla carta millimetrata; in questa cella vivo da parecchio tempo presso il reparto penale della casa circondariale Dozza di Bologna. Cercando di fornire una visione d’insieme, parto dalle misure dell’ambiente. Premesso che la tipologia delle celle è standard, va detto che il progettista è stato indubbiamente “democratico”, anche nell’ottica del comfort, senza differenze per nessuno. Posso affermare che la stanza dove sono recluso misura meno di 10 metri quadri, e che al suo interno c’è lo stretto indispensabile per vivere: con riferimento alla piantina, in dettaglio, evidenzio che il lato lungo della parete è di 434 cm, mentre quello più corto è di 284 cm. La superficie totale del bagno è di 2 metri quadri, con la parete più lunga di 110 cm. Ovviamente bisogna tenere presente che da queste misure va sottratta la superficie dei sanitari, ovvero un lavandino, un wc, un lava piedi. Lo stesso ragionamento va fatto per il restante ambiente della cella, dove, ironizzando, ricordo che sono presenti due brande in ferro battuto del ’700, due armadietti “Luigi XVI”, e due sgabelli in legno “modello Nerone”, stile basso impero romano. Tuttavia ogni detenuto, ingegnandosi, con il tempo e l’esperienza riesce a dare un tocco personale alla sua cella, che con passione ed impegno può riuscire a trasformare da una squallida cella anonima in una stanza un po’ più accogliente. Così, apportando migliorie di vario tipo, è possibile dare un aspetto più vivibile alla cella, che diventa una sorta di mono, mono, monolocale ben arredato. A proposito di arredi, ognuno si sbizzarrisce come meglio crede, cercando di utilizzare la creatività con il poco di cui si dispone. Ad esempio c’è chi interviene con discrezione, e chi invece tappezza tutte le pareti con poster, quadri “fai da te”, disegni appesi alle porte, o graffiti alle pareti. Chiaramente l’impronta delle diverse etnie è molto riconoscibile, e nelle celle si possono ritrovare ambienti di sapore rumeno, albanese, arabo, cinese, russo, slavo, italiano… Dalle diverse culture derivano diverse progettazioni e funzionalità della cella, associate al gusto personale di chi ci vive, perché ovviamente ognuno vive la sua reclusione a modo proprio, e traduce spesso nell’ambiente il suo stato d’animo. Provo ad aggiungere qualche altro dettaglio per dare al lettore un’idea più precisa della mia “suite”. Evidenzio che il rivestimento del pavimento non è mai stato posato, dopo quasi trent’anni e questo mi sembra veramente incredibile soprattutto perché non se ne comprende il motivo. Qualcuno ricollega questo fatto allo scandalo delle “carceri d’oro”, ma non abbiamo elementi concreti per considerare vera questa motivazione. Il pavimento è quindi in cemento grezzo: per sopperire a questo disagio ho acquistato a mie spese pennelli e vernice tipo “smalto”, cambiando i connotati alle superfici ammuffite e sbiadite, andando così a rendere lavabili sia le pareti che il pavimento, e nascondendo il cemento grezzo sotto vari strati di vernice. Utilizzando colori chiari ho migliorato anche la luminosità e l’igiene complessiva dell’ambiente. Infine, acquistando sempre a mie spese una pellicola plastificata con disegni fantasia, ho allestito una sorta di “parete cucina” nell’angolo dove normalmente cucino, rendendolo lavabile e funzionale all’attività di preparazione del cibo. Personalmente non amo tappezzare le pareti con poster volgari o altre immagini di santi, santini, crocefissi, rosari, o con foto di familiari. Mi piace l’arredo minimalista, del resto il posto in cui vivo è quello che è e lo spazio è molto ristretto, per cui preferisco questo stile. L’unica trasgressione, se così si può dire, l’ho realizzata in bagno, dove a terra ho posizionato due tappetini di spugna color rosa, che rendono l’ambiente un po’ più vivace ed allegro. Ed infine, un solo calendario dalla mia Raffaella Fico, rivolto verso di me, che io solo posso vedere, perché è appeso nel fronte del mobiletto in direzione del mio giaciglio in “ferro battuto del ’700”.


Michele D’Ambrosio


Il giornale “Ne vale la pena” è frutto di una selezione degli articoli realizzati all'interno del laboratorio di giornalismo del carcere bolognese della Dozza. Tutti gli articoli si trovano su www.bandieragialla.it/carcere Questo testo è stato inserito il 2/12/14 da Ilaria Avoni.


E la chiamano casa


Vignette di Ivano Ferrari



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da Le urla dal Silenzio https://urladalsilenzio.wordpress.com

Riflettendo con consapevolezza…


Essere gentili è più importante dell’essere giusti. Molte volte ciò di cui abbiamo bisogno non è di sentire un discorso perfetto, ma di avere un Cuore speciale che ascolta..


S. I.

da Spazio Libero anno XIX dicembre 2014.
Mensile di attualità a cura del Centro di Riabilitazione Interpersonale
del DSM di Arezzo - spaziolibero@hotmail.com - http://www.nolimit.it/spaziolibero


Il diritto e lo Zen in Breve


Che cos’è il diritto… è forse qualcosa che si può ottenere senza avere fatto nulla… Che poi dipende a quali circostanze esso viene applicato, come in auto il diritto di avere la precedenza o la rinuncia al diritto perché si deve dare la precedenza…
Ma in senso zen, pensando che il Buddha ci siede accanto, tutto è uguale; o non separato, sia il bene materiale, o affettivo, che stiamo consumando. Come è ancora più importante quello che non abbiamo ottenuto nel tyan, transito della vita; perché l’insieme di quello che ci manca e di quello che abbiamo ottenuto a confronto è il nostro maestro di vita.



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Luigi Zen


La Trottola a Venezia


Sabato 22/11/2014 siamo partiti da Bologna alle 9 e 10 e siamo arrivati a Venezia alle 10 e 30, la sera invece siamo partiti da Venezia alle 18 e 30 e siamo arrivati a Bologna alle 20.
Eravamo in venticinque, tutti molto contenti perché la giornata era bella, luminosa e non fredda.
Abbiamo visitato S. Marco, la Torre dell’Orologio, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, il Ponte di Rialto, altri ponti, e abbiamo fatto un bel giro per negozi. Venezia mi è sembrata più bella che mai, forse perché c’erano meno turisti in giro e più veneziani, o perché è stata una gran bella giornata, ma ho pensato che vorrei tornarci presto e per qualche giorno, per andare a visitare anche Murano, Burano e il Lido.
Bellissimi i negozi con le maschere e i vestiti di carnevale, le piazzette (campielli), le stradine (calli) e i tanti mercatini.


Tina Gualandi


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A fianco alcune gondole, imbarcazioni di legno tipiche della laguna veneziana.
Nel quadro "Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo" di Gentile Bellini, databile al 1500, le gondole appaiono più corte, più larghe e meno slanciate di quelle attuali. Fu solo tra il 1600 e il 1700 che la fisionomia della barca si avvicinò a quella attuale.

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A lato, foto di gruppo nella piazzetta davanti all'osteria dove la Trottola si è fermata per la pausa pranzo.
Tra i partecipanti si riconoscono alcuni membri e collaboratori della redazione de "Il Faro", tra cui Darietto, Concetta, Moreno, Tina e Cristina.

Il diritto


Di solito
si dice
diritti e doveri...
Noi tutti
abbiamo raggiunto
un gran numero di diritti.
La società ci difende
dagli altri e da noi stessi!
Abbiamo il diritto
di vivere felici
una lunga vita?
L'amore deve condurci
lungo la via della vita,
dobbiamo approfittare
dei diritti guadagnati
per vivere felici.
Ovviamente ci sono dei doveri
da seguire per essere
così pienamente
accettati
come un tassello attivo
della società...


Loopa Sonivree

Poesie di Daniela Mariotti



Senza titolo

È umana e serena questa
notte d'inverno con la sua
umidità tangibile, la stanza
è tiepida e fuori forse si
affollano i nostri sogni,
i nostri desideri più teneri.
Posso immaginare che appena
spengo la luce si accendano
ai margini della stanza,
dal contorno dei fogli si formi
una collana di sorrisi,
per il semplice fatto di esistere.




27 Dicembre 2014

Nevica forte
è freddo. Purtroppo
questa nevicata non
dà nessuna allegria.
penso ai senza tetto
e al loro duro cammino.
Anche il tempo è ingiusto.




In qualche riga

In qualche riga riporto
le mie parole più belle,
più lievi e le terrò con me,
come una luce infinita.




Dicembre 2014

Ancora una notte bianca
bianco è il cielo e piatto
è piatto e bianco come un coperchio
lontana la luce di una candela
a piene mani puoi spingere via
il bianco aspettando che il cielo
si trasformi in una cupola azzurra
e chiara, fino all'aurora.




I diritti perduti

II malati di malattie mentali
sono avvolti in manto di sofferenza
a cui è difficile dare un senso ed una fine.
La memoria ha cancellato
il diritto alla felicità
lasciando al suo posto una profonda ferita
o la realtà di un vuoto incolmabile.
Ci si aggira nel buio, quando
si è colpiti da un disagio mentale,
e l'atteggiamento di chi si avvicina ad uno di noi
al momento attuale è, al massimo, di tolleranza.
La speranza di un miglioramento,
secondo me, è rimasta una pietosa utopia.
È terribile sprofondare nel buio
quando si desidera tanto la luce.




Sogni senza tempo

Mi piace pensare di essere sul bordo del mare,
al tramonto, come una volta successe.
Ma quando? E mi piaceva tanto.
Qualche volta. Ma in che età?
E mai ero sola. Il sole delicato
passava dal blu al rosa
e mi perdevo nell'orizzonte,
parlando e bisbigliando
che l'amore non morisse mai,
come il cielo infinito e benevolo,
come una voce che era il sussurro del mare.
Oggi solo doveri, troppo spesso incombono.
E la mia vita è pesante e solitaria.
Trova tu argomenti più leggeri.
Pesante è il dovere di vivere e pensare,
mia vita, che ti chiamo sorella,
sorellina cara, ritrova la tua leggerezza!




Piccola speranza

Ecco che una piccola
speranza squarcia il buio
della sera, della notte.
E ritrovo immagini del domani
che portano all'umanità intera
giorni chiari. E via, la speranza
ci porta avanti verso le vie
del cielo che si trasforma
in sorriso ogni tanto: un sorriso
tutto nuovo, speciale perché
mai provato, così tenero.
Un abbraccio dell'alba
che sempre si rinnova.
Per tutti noi, poveri umani che
lanciamo verso il cielo
i nostri fiori immaginari.




Sotto le foglie secche

Sotto le foglie secche
dicembre porta in sé,
ancora, un mucchietto di parole.
A volte vagano nella mente
e che queste esprimano
amore per tutto il creato
e non basta mai, questo
amore infinito. Ma più spesso
le parole portano addosso una grande
immane tristezza, è indelebile,
il segno della solitudine. Ma dove
si nasconde l'Amore per l'umanità?
Eppure anch’io ne faccio parte.




Un altro anno: 2015

Sono caduta in meditazione,
mi piacerebbe che uscissero parole poetiche,
ma evidentemente non è la giornata giusta.
Voglio comunque lasciare un segno:
là, seduta in camera, cerco poesie,
là aspettano l'arrivo dell’inverno…
Non si può volare sempre con la mente.



Poesie di Marcella Colaci



La felicità

Contare fino a dieci
gli amici
e sapere che nulla può
sradicarli:
uno sguardo
una parola
un sorriso
una risata.
Riuscire a scaldarmi
per ore ed ore
del loro pensiero
e con le dita intorno
ad una tazza di latte
sorseggiarli
scaldandomi dentro.
Fuori a volte tutto sa di nulla
allora li chiamo
e sento
la luna e il sole
pianeti in orbita
abbracciarmi.




Le battaglie

Guardami nel profondo e valuta i passi
che dalla culla cercano diritti umani.

Elaboro battaglie, gustare il bello
per poi gustare me stessa.

Se tutto fosse sul palmo di una mano
forse giungerei serena
e matura per amare.
(da “Poetica vitale a colori”)




Indignatos

Vorrei essere spettatrice
ma non posso, la precarietà attanaglia,
i figli gridano
libertà, giustizia, lavoro
e il futuro gela.
(da “Poetica vitale a colori”)





Poesie di Paola Scatola



Era un mio diritto

Perché non mi hai più voluta
ed era un mio diritto
l’averti accanto, papà,
ed era un mio diritto
l’averti a fianco,
ma tu hai deciso così
d’allontanarti per sempre,
d’averti così solo e lontano.




Il diritto

Ti volevo per il diritto d'essere
amata. Ti volevo così per
essere accettata.
Poi così finì e fu in un bel dì.




Io e te

Se penso e ripenso a te
scongiuro me. Se penso e ripenso a te
mi socchiudo, racchiudo in te.
Se piango, ma
credo e ricredo in te,
poi cado e ricado su te
e coniugo il nome me
coll'essere te, un te visibilmente
crudo e ignudo, chiudo e
racchiudo.




Rispetto

Volevo rispetto
ma mi amava l’amore tuo,
mi volevi bene
ma volevo la corte tua:
così ho imparato ad amarti,
senza rispetto tu
e senza rispetto io.
Ma ti voglio così come sei
anche senza rispetto.
Quante volte ho pensato a te
solo il Signore, da lassù,
sa quante volte ho bisogno di te,
ancora, quaggiù,
anche senza rispetto.




Mare nuovo

Chiamami ancora,
oh! “Mio mare nuovo”
questo è un mio diritto
dopo che mi hai detto:
“Anch’io ti amo”!.




Sono mia

Se posso chiederti il tuo possesso
me ne frego di adesso.
Se posso guardarti negli occhi
m’accorgo dei miei pantaloni rotti.
Se posso tenerti con diritto
ti osservo morderti
come un cane maledetto.
Se posso, io no – ma tu amando me, sì –
mi chiami “Ci-ci”, ma congiungiti ancora così.
Se posso col diritto d’andare
d’andarmene via così
che sono mia.



Poesie di Matteo Bosinelli



Rhona

"Sono preoccupata per te",
mi disse allora Rhona
- che, io so, non sbaglia,
ma spesso perdona -
"Il tempo non attende,
e sempre passa:
non devi sbagliare,
dunque, ora, la mossa.
Mi puoi capire, se vuoi:
Il tuo amore ti aspetta,
vai, e non giocare, se puoi,
una partita maledetta".




“… nella follia”

Dedico a te questa poesia,
dolce mia cara
che vorrei tutta mia.
Ti sento indifesa,
ma forte da dire,
se questa resa
devo a te dare.
La razionalità
è poi solo mia,
mi muovo con te, ora,
nella follia.
È un passo nuovo,
su un altro selciato,
in cui devo muovermi,
e sono turbato.
Non ci son Leggi,
a cui sia preparato,
non ci son schemi,
in cui muovermi agiato.



Poesie di Luigi (Villa Olga)



Come una mela rossa

Ci sono giornate tonde e colorate
come una mela rossa.
Sembra quasi un peccato addentarla,
rovinare quella buccia così perfetta.
Si vorrebbe quasi guardarla da vicino,
entrarci dentro.
Passare la giornata così:
fuori la pioggia
e noi
dentro una mela!




Qualcuno ha rubato la notte

Qualcuno ha rubato la notte
e il piacere di addormentarsi.
Rimane l'insonnia
i pensieri si infilano tra le lenzuola,
le paure imbottiscono il cuscino.
La notte è nera,
nero il cuore,
nero il risveglio del disamore.




Succede

Succede di perdere le stelle
perderle in un bicchiere e in una lite
una notte di noia e disperazione.
Succede per caso di alzare gli occhi al cielo
e non vederle neppure.
Ma cercarle
forse
è già trovarle.



Sciopero


Tra la folla la donna si china e scruta
la montagna è tersa, la terra solida.
Un gelo di parole fende gli umori e l’aria
sale dal pendio dove sono le spine
e inasprisce il silenzio.
Può succedere di tutto
e la saliva s’impasta nella gola.
La donna e le sue compagne
hanno incanalato rivoli d’acqua
e li guardano sbiancare i sassi.
Si vede ancora la montagna
che vibra dell’ultima luce
la distesa d’acqua alla quale
la donna esausta si bagna
mentre veglia la limpidezza del mare
dove si arrocca un grumo di pesci.
È dolce il calare del giorno
in cui tutto è successo
tutto è stato utile
e si distende viva sulla terra
una macchia rossa di speranza
che si abitua al tramonto.
Si misura il confronto
si pesano evento e risultati
fra sorrisi compiaciuti
si pesano le parole.
Ora bisogna che la luna si nasconda
alla montagna e la breve nottata finisca.
Ieri c’era un tramonto di vampa
la luce tremolante e tutto è successo.
La donna nel gruppo vorrebbe muoversi
e quando la prima luce si accende
con movimenti brevi raccoglie la veste
e va.


Ermanno Bitelli

Mangiatoia


Accorsero dai monti e dalle valli,
dai borghi e le contrade, ad ogni via,
a piedi o in groppa ad asini o cavalli
per quel richiamo in cielo o per magia

portando sotto braccio o sulle spalle
doni a quel re, col cor pieno di gioia,
ch’è nato nel tepore d’una stalla
sopra la paglia d’una mangiatoia.

Nacque Gesù, morì per noi, risorse,
ma nella greppia sparì pur la paglia…
Riempiono le tasche e pur le borse
opportunisti, pezzi di canaglia,

ingordi, ladri e pensionati “d’oro,”
gaudenti spesati dello Stato,
senza pudore e senza alcun decoro
che vengono lodati e pur premiati.

Raccolgono le briciole di pane
lavoratori tutti e bassa classe,
ma ‘sti politicanti, porco cane,
li crocifiggon pure con le tasse.


R. G.

La posta


Carissime Lucia e Concetta,
ho visto la nuova veste de "Il Faro"... è meraviglioso!!!! Complimenti a voi e a tutta la redazione...
Avete fatto davvero un grande lavoro. A tutti i complimenti che avrete sicuramente ricevuto come redazione, si vanno ad unire i miei, modesti ma molto sentiti.
Un abbraccio immenso.

Daniela Guidi



Gentile Redazione de "Il Faro",
mi chiamo M. L. e da dieci anni sono paziente psichiatrico del CSM Mazzacorati. Durante la prima giovinezza sono stato colpito da una repentina e violenta forma di psicosi che mi ha portato a chiedere aiuto all'istituzione psichiatrica citata sopra; aiuto che ho subito ricevuto, sia dal punto di vista morale, che umanamente affettivo e clinico-farmacologico.
Dopo anni di pazienti e generose cure posso dire di sentirmi molto meglio, pur se non mancano momenti oggettivi e soggettivi di scoramento e di tristezza. Dopo questa breve presentazione, forse un po' drammatica e prolissa, ci tengo a testimoniarVi tutta la mia ammirazione e solidarietà per la Vostra rivista, interessante e profonda. Particolarmente nobile e lodevole il Vostro impegno nel dare pubblica voce al dolore spesso trascurato di chi soffre psichicamente, nell'anima.
Con la presente vorrei sottoporre alla Vostra cortese attenzione alcune delle mie poesie. Sin dall'adolescenza, la lettura dei grandi poeti e l'esercizio privato della scrittura poetica sono state la mia umana salvezza, quelle forze che mi hanno impedito di sprofondare nella tenebra di un'amara e fosca depressione o nelle spirali dell'ideazione suicida. Non ho purtroppo mai avuto occasione di fare leggere o di pubblicare i miei versi, ed essendo un testimone del disagio psichico che sto vivendo sulla mia pelle ed insieme un goffo autore di poesie, vorrei umilmente cogliere, qualora Voi lo gradiate, l'occasione di poter vedere pubblicati i miei versi proprio sulla Vostra rivista. Per me sarebbe un'occasione speciale ed unica di dar voce al mio malessere tradotto in poesia e di poter, almeno così spero, toccare potenzialmente le corde della sensibilità di qualche lettore.
Esprimo a Voi anticipatamente la mia sconfinata gratitudine per l'attenzione che vorrete dedicarmi. Con infinita stima,

lettera firmata



Gentile Redazione de " Il Faro",
Vi scrivo al fine di ringraziarvi della Vostra decisione di pubblicare le poesie che vi inviai circa un mese fa. Perdonatemi per il ritardo con cui Vi testimonio la mia gratitudine. Sono tanti anni che seguo la Vostra rivista e ribadisco come sia di grande interesse.
Sempre aperta a tutti, umanamente, e ricca di molteplici spunti e capace di spaziare in tante aree del sapere umano. Vi auguro di tutto cuore una felicissima prosecuzione del Vostro lavoro. Con stima e rispetto.

M. L.



Cara redazione,
so che parlate di giustizia. Beh, io ho una storia da raccontarvi; una storia su cui sto anche facendo un libro.
Io da 12 anni ho una causa aperta contro un’istituzione chiamata Ministero della Salute. Mi venne fatta nel 2002 diagnosi di sieropositività. Non avevo avuto alcun comportamento a rischio. Ero vergine e mai alcun contatto con droga o quant'altro. Mi era stato asportato a Parigi nel 1986 il colon e feci la bellezza di 31 trasfusioni di sangue...
In primo grado nel 2011 mi venne riconosciuto il risarcimento... in appello annullatomi per via dell'incertezza del luogo dove contrassi la malattia. Ora sono alla cassazione...
Ditemi voi... non so nemmeno dire tutto quello che sto ancora patendo.

Carlo Tracco



Ciao Lucia!
Approfitto per mandare a te e alla redazione un caro saluto.
Leggo sempre "Il Faro" con tanto affetto e ogni tanto sento la Tina che mi aggiorna su qualche piccola novità. Come state? Io sono in fibrillazione perché finalmente divento zia (a marzo più o meno). Ci saranno molte cose da fare e io non vedo l'ora.
Tu come stai? Colgo l'occasione anche per nuovamente ringraziare per l'esperienza che ho potuto fare lì con voi. Anche se ho scelto di imboccare altre strade la vostra vicinanza me la porto dietro come un grande regalo e mi piace ricordarlo ogni tanto perché a volte, il fatto che non ci si veda, può lasciar pensare che anche i pensieri se ne vadano da altre parti, ma non è così. Allora alla prossima uscita.
Un abbraccio a tutti

Costanza Tuor


Bologna la “dotta”


Il nome della città di Bologna è solitamente accostato ai due aggettivi “grassa” e “dotta”, il primo non si riferisce ai puri aspetti culinari ma ha il significato di “gaudente”, esprime dunque non solo l’aspetto materiale del piacere del cibo, ma anche quello spirituale del sapere, della conoscenza, legandosi quindi anche all’altro aggettivo. Quando si parla di Bologna oltre alla squisitezza della sua cucina, viene subito in mente anche la sua antica Università, che nel medioevo raccoglieva studenti italiani e stranieri che, pur venendo per studiare, non rinunciavano, data l’esuberanza giovanile, a nessun piacere della vita, incrementando così con il loro soggiorno prolungato in città, l’economia cittadina. Infatti nel giro di pochi decenni confluirono in città prima centinaia, poi migliaia di studenti, per lo più ricchi ed accompagnati da domestici e servitori che rimanevano per anni in città, usufruendo quindi di alloggi, cibo, abbigliamento, libri e divertimento, cioè osterie, postriboli, luoghi per gioco d’azzardo e quindi contribuendo ad una cospicua circolazione di denaro.
Quando esattamente iniziò tutto ciò è difficile da stabilire, in quanto far risalire ad una data precisa l’origine dell’Università a Bologna non è possibile, anche se più storici ci hanno provato, perché questa, allora chiamata Studio, non fu effettivamente istituita, ma nacque come qualcosa di spontaneo e soprattutto di non programmato. Infatti non esiste un vero e proprio atto istitutivo, anche se per motivi di ordine politico, ad un certo punto si cominciò a far risalire la nascita dello Studio ad un famoso privilegio del 423 dell’imperatore Teodosio, che in età moderna si dimostrò palesemente falso.
In realtà a Bologna come in altre parti d’Europa, dopo le ondate di invasioni di vari popoli in Europa, finito il periodo di depressione, vi era stata una forte ripresa economica che necessitava di nuovi ordinamenti legislativi, più adatti alla nuova vita urbana e commerciale, rispetto a quelli dell’epoca medievale, Bologna, per la sua posizione geografica era un nodo commerciale importante, perché univa la Lombardia con la Romagna e la Toscana con Venezia, in più era il punto d’incontro tra la zona di tradizione longobarda e quella bizantina e quindi era l’ambiente più adatto a sentire per primo l’esigenza di un “diritto universale”, un “diritto comune”, un “diritto complesso” necessario per la nuova economia. E fu proprio a Bologna che ad un certo punto qualcuno si rese conto che questo tipo di diritto esisteva già, non bisognava crearlo dal nulla, era stato soltanto abbandonato: era il diritto romano contenuto e sistemato nel Corpus iuris civilis che l’imperatore Giustiniano aveva emanato all’inizio del VI secolo ed aveva poi esteso anche all’Italia nel 554, ma che poi era stato tralasciato per seguire i diritti barbarici e le consuetudini feudali dei popoli invasori.
Certo il diritto di Giustiniano ben si era adattato all’epoca romana, ma non poteva funzionare per l’XI secolo: occorreva quindi studiarlo, rivederlo ed adattarlo alle nuove esigenze cittadine. Questo fu l’impegno dei primi “professori universitari”, chiamati "glossatori", perché glossavano, cioè commentavano parola per parola, norma per norma, i testi dell’antico diritto romano. Ovviamente, studiando così approfonditamente questi testi, i glossatori acquisivano sempre più conoscenze giuridiche che cominciarono a trasmettere ai giovani: nacquero così a Bologna alla fine dell’XI secolo, le prime scuole di diritto, formate da alcuni maestri coi rispettivi scolari.
La nascita dello Studio fu favorita a Bologna, e nei secoli successivi anche in altri centri europei, dalla nascita dei Comuni e dalla lotta per le investiture: fu infatti in questo clima che qualcuno si mise a cercare, al di fuori dei testi ecclesiastici, cioè l’Antico e il Nuovo Testamento, altro materiale che potesse servire a supporto delle tesi nel contrasto fra Papato ed Impero. Fra i sostenitori della supremazia imperiale qualcuno riconobbe nel Corpus iuris giustinianeo un valido strumento per sostenere le tesi filoimperiali. Questo qualcuno forse fu Pepone, sulla cui figura ancora ci sono molte ombre, e che alcuni identificano con un vescovo scismatico bolognese vissuto intorno agli anni Ottanta dell’XI secolo o con Pietro Crasso, in tutti i casi sicuramente autore del libello filoimperiale noto con il nome di Defensio Heinrici IV regis. Pepone cominciò a tenere a Bologna, in maniera del tutto autonoma, una scuola di diritto; la sua esperienza fu poi ripresa dopo circa venti anni da Irnerio, maestro d’arti bolognese, che cominciando a studiare in modo del tutto occasionale alcuni testi giuridici si appassionò a tal punto del diritto da diventarne un esperto e da iniziare a far lezione: fu per questo in seguito ricordato come lucerna iuris e come vero iniziatore dello Studio bolognese. Tra i suoi allievi, che proseguirono il suo insegnamento, vi furono quattro importanti dottori: Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo di porta Ravennate.
Mentre si sviluppava lo studio del diritto civile basandosi sul Corpus iuris di Giustiniano, sempre a Bologna, un monaco camaldolese di origine toscana, Graziano, cominciò a raccogliere tra il 1140 e il 1142 i canoni e i decreti ecclesiastici sparsi in vari //tema del prossimo numero: libri in un “corpus” organico di diritto canonico, conosciuto con il nome di Decretum.
Riassumendo: l’inizio dell’insegnamento universitario a Bologna, in forma del tutto autonoma e privata, si può collocare nel trentennio a cavallo tra l’XI e il XII secolo; nei primi decenni si limitò allo studio del diritto civile e canonico, poi tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento inizio à ad occuparsi anche delle Arti, cioè della medicina, della fisica, del notariato, della filosofia e delle arti del Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del Quadrivio (geometria, aritmetica,astronomia,musica).
Nel 1888, durante gli eventi dell’Esposizione Emiliana (il grande EXPO di quell’epoca), per celebrare anche Bologna il centenario dell’Università, come accadeva in altre città, che pure non avevano centri di studio così antichi, si volle stabilire convenzionalmente la data del 1088 come anno di nascita dell’Università di Bologna, e così si fece anche nel 1988, celebrando il Nono Centenario. Anche se in realtà, come disse Giosuè Carducci inaugurando quei primi, solenni festeggiamenti, “l’Università di Bologna nacque libera, crebbe e grandeggiò privata…”, in quale anno di preciso, non è poi così importante.

Diana Tura

Responsabile della Sala Studio dell'Archivio di Stato di Bologna.




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Pierpaolo delle Masegne: studenti raffigurati sull'arca di Giovanni da Legnano, 1383.


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Le tombe dei glossatori Accursio, Odofredo, Rolandino de'Romanzi, presso l'abside di S. Francesco.