Gioacchino Toma: “Luisa Sanfelice in carcere”, 1874 - olio
Gioacchino Toma (Galatina, Lecce, 1836 – Napoli 1891).
Dopo un’infanzia difficile, nel 1854-55 si trasferì a Napoli. Si
interessò alla Causa Nazionale sino ad essere messo al confino nel
1857, e nel 1859-60 partecipò al movimento garibaldino.
Nonostante la ripetuta comparsa delle sue opere (segnatamente nel ’74 e
nel ’77), non godette di grande stima, né da parte della critica, né
tra il pubblico. La critica del XX secolo ha invece riconosciuto nel
Toma uno dei pochi pittori dell’Ottocento italiano in cui l’equilibrio
tra il soggetto e la realizzazione espressiva si attua spesso senza
fratture.
Il pittore traeva la sua migliore ispirazione da un’intimistica riflessione sugli aspetti dolorosi della condizione umana.
La Sanfelice
(qui vediamo la prima versione, del 1874; una seconda ne seguì nel
1877) è ‘composta’ con delicata finezza di accordi cromatici celesti,
grigi, verdini, gialli, che contrastano con la desolazione delle pareti
nude. In opere come questa si avverte una delicata commozione. La Sanfelice è di un dolore raccolto, rassegnato, di cui l’ambiente è come la proiezione *.
*Nota:
Maria Luisa Fortunada de Molina, figlia di un generale borbonico,
aveva sposato a soli diciassette anni Andrea Sanfelice. La donna,
giustiziata l’11 settembre del 1800 in piazza del Mercato a Napoli per
aver appoggiato la repubblica napoletana (1799), viene raffigurata da
Toma all’interno di Castel Sant’Elmo.
Piergiorgio Fanti
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L’Editoriale
Cari lettori, il tema di questo mese è quanto mai complesso ed
articolato. Il termine ‘diritto’ o ‘dritto’, nella lingua italiana
assume anche significati tra loro contrastanti. Diritta è una linea
priva di curve o un palo che si erge verso l'alto e non si piega.
‘Diritto’, ‘retto’ è qualche cosa di onesto e giusto, ma ‘dritto’ oltre
che ‘accorto’, significa anche ‘scaltro’, ‘furbetto’… Il termine
‘diritto’ nel solo gergo giuridico ha molti significati. Come scrive il
giusprivatista Francesco Galgano nelle sue Istituzioni di Diritto
Privato (CEDAM 2013), “il diritto è un sistema di regole per la
soluzione dei conflitti tra gli uomini”. La sua ragion d'essere sta nel
carattere di perenne contesa che assume la convivenza umana. Conflitti
per illeciti amministrativi e finanziari, o per comportamenti violenti,
che possono nascere anche all'interno della famiglia. La funzione del
diritto è appunto quella di impedire l'uso della violenza nella
soluzione dei problemi. ‘Diritto’ significa anche la possibilità di
usufruire di trattamenti e comportamenti protetti dalla legge. Come ad
esempio il diritto al lavoro o alla salute, così come viene sancito
dalla Costituzione. Quest'ultima contiene i principi fondamentali a cui
tutte le leggi italiane si devono conformare e venne promulgata nel
1948 dai padri della Repubblica dopo la fine della seconda guerra
mondiale e il Fascismo, che avevano ridotto il Bel Paese ad un stato di
devastazione generale. Di facile comprensione, contiene principi di
ordine morale di grande importanza per la maturazione e il
completamento della personalità umana. Un principio di diritto romano
asseriva: “Le leggi giovano a chi vigila, non a chi dorme”. Di qui
l'importanza di conoscerla. La Costituzione sancisce che la sovranità,
ossia il potere più alto, appartiene al popolo, che esprime la sua
volontà per mezzo del voto. Il principio fondamentale della nostra
Costituzione è che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge,
senza distinzione di sesso, razza, religione o stato sociale. Quindi
anche chi si trova in uno stato di malattia non perde i diritti. Ci
sono tuttavia situazioni in cui, in caso di grave sofferenza psichica,
l'individuo perde la capacità di intendere e di volere. In questi casi
il giudice elegge un tutore o un curatore che deve garantire
l'interesse della persona o del figlio minorenne. Particolarmente bello
e interessante è l'articolo 32 della Costituzione che descrive la
salute come bene supremo dell'individuo e interesse della società, che
va realizzato garantendo cure gratuite agli indigenti. Di qui
l'incontro con il diritto di essere malati e contemporaneamente di
essere curati. Finisco facendo riferimento al secondo articolo della
carta costituzionale, che sancisce il diritto-dovere al lavoro, fonte
di crescita del paese. I cittadini devono contribuire in funzione delle
proprie abilità e capacità professionali, e chi si trova in un
qualsiasi forma di indigenza ha diritto a un sostegno che gli permetta
di vivere. C'è chi dice “fatta la legge trovato l'inganno”. In qualche
caso è vero, ma la nostra Costituzione è un modello di rettitudine,
solidarietà e moralità. Stiamo attenti nel modificarla, perché i tre
poteri (Parlamento, Governo e Magistratura) sono in un perfetto
equilibrio che serve a prevenire colpi di Stato. Ora è molto difficile
che ciò avvenga, ma che qualcuno si possa approfittare del proprio
potere e fare il furbino questo sì. Vi auguro una buona lettura, con
l'invito a consultare assistenti sociali e patronati per tutelare i
nostri diritti, così come la Costituzione garantisce.
Fabio Tolomelli
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I diritti dell’uomo
Confessiamo una buona volta a noi stessi
Che da quando l’umanità ha introdotto
I diritti dell’uomo, si fa una vita da cani
Karl Kraus
Il primo tema che voglio affrontare è quello dei ‘Diritti
dell’uomo’ nel senso moderno del termine, quello sancito, per
intenderci, dalla “Dichiarazione
dei Diritti dell’uomo”, emanata dalle Nazioni Unite nel 1948. È
innegabile che a partire dalla metà del Novecento il tema dei ‘diritti
umani’ sia divenuto centrale nella discussione culturale, ed abbia
influenzato molte delle decisioni politiche ed anche militari, adottate
in questo lasso di tempo. Se pure, come in ogni caso sia possibile
individuare degli antecedenti storici, antichi quanto si voglia, io
penso che la vera radice degli attuali discorsi sui diritti dell’uomo,
vada individuata nel giusnaturalismo
dei pensatori europei seisettecenteschi. Tale dottrina supponeva che
esistessero una serie di princìpi eterni ed immutabili, inscritti nella
natura umana (il diritto naturale), di cui le norme effettivamente vigenti in una data società (il diritto positivo)
non sarebbero state altro che la traduzione in norme valide per quella
data società. A me pare che tale posizione sia francamente
indifendibile: possibile che 200.000 anni (tanti ne conta - suppergiù -
la nostra specie, corrispondenti a qualcosa come 10.000 generazioni)
non siano stati sufficienti a fornire una completa e definitiva
attuazione di quei princìpi? Se, ad esempio, l’uguaglianza tra gli
esseri umani fosse uno di questi principi, perché mai in un tempo così
lungo non si è mai prodotta neanche una sola società che rispetti
questo principio “eterno ed immutabile”?
Qualunque specie vivente che non attuasse al più presto tutte le
potenzialità contenute nei suoi geni, frutto di un lungo processo di
selezione naturale, si estinguerebbe in brevissimo tempo, e noi non
saremmo qui a discuterne, perché l’homo sapiens non sarebbe stato altro che uno dei tanti esperimenti malriusciti del processo evolutivo.
Probabilmente la prima volta in cui i diritti umani hanno fatto la loro
comparsa in ambito giuridico è stato il Processo di Norimberga condotto
unitamente dagli Alleati e dai Sovietici contro i principali gerarchi
del regime nazista (almeno quelli ancora vivi) nel 1945-’46. Si fece in
quell’occasione ricorso per la prima volta al concetto di “crimini
contro l’umanità”, che significava proprio l’aver infranto i diritti
universali dell’uomo. E solo ricorrendo alla supposta evidenza e
perennità di tali diritti si poté procedere giuridicamente contro gli
imputati, passando sopra al divieto di retroattività di un reato,
presente in tutti gli ordinamenti giuridici (di fatto gli imputati
venivano processati per un reato che, come tale, non esisteva nel
momento in cui veniva commesso). E di lì a poco, le Nazioni Unite,
emanarono la già citata “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo”.
Ma già da allora c’era chi, come l’American Anthropological Society,
asseriva, la pluralità e varietà irriducibile delle culture e, dunque,
l’assoluta impossibilità di enunciare diritti riconducibili all’essere
umano “come tale”.
Quello che voglio dire è che l’attuale discorso sui Diritti umani, non
è sicuramente il punto di arrivo del pensiero umano, mitico coronamento
de “le magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria, ma,
tutt’al più, il punto a cui è giunto attualmente il pensiero
occidentale.
Non a caso ci sono stati e ci sono molti pensatori di diversa
provenienza culturale che sospettano che il tema dei diritti umani non
sia altro che il cavallo di Troia con cui, subdolamente, gli
occidentali intendono procedere a un’assimilazione forzosa delle altre
culture. Ed è difficile non pensare che in questo caso a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende,
guardando alle tante guerre recenti, dichiarate in nome dei Diritti
umani, ma che hanno anche importantissimi risvolti economici e
geopolitici, guarda caso tutti vantaggiosi per il mondo occidentale.
Ma, ad essere sincero, più che dal conflitto interculturale, sono
preoccupato dalle conseguenze culturali che un simile modo di pensare
può portare all’interno della nostra stessa società. Se mi si consente
di concludere questa prima parte - al mio solito - con un’uscita
paradossale: penso che qualunque rispetto per ‘l’uomo’ in astratto,
porti inevitabilmente ad una mancanza di rispetto per i singoli uomini,
nella loro univoca specificità.
E questo mi consente di abbandonare il tema dei diritti eterni e
inalienabili, e di passare ai diritti che vengono garantiti ad ogni
individuo che fa parte della nostra società: il diritto di non essere
ammazzato, malmenato, derubato, maltrattato e sputacchiato. Ma visto
che ho scritto anche troppo, mi limiterò al problema relativo a ciò che
succede quando qualcuno non rispetta questi diritti, vale a dire al
problema Dei delitti e delle pene.
Personalmente non credo nel valore punitivo di una pena, e ancor meno
nel suo valore rieducativo; non credo affatto che la società abbia il
‘diritto’ di privare qualcuno della libertà personale (o addirittura
della vita), ne ha la ‘necessità’, per auto-conservarsi, che è ben
diverso. Se qualche individuo, col suo comportamento, contravviene alle
regole che una società si è data per garantire un certo tipo di
ordinata convivenza (regole che ovviamente variano moltissimo da
società a società) è inevitabile che la società stessa metta questo
individuo nella condizione di non nuocere. Ma ciò, per me, dovrebbe
avvenire senza alcun moralismo o paternalismo: chiunque è libero di
pensarla in maniera antitetica alla nostra e di agire di conseguenza,
la sua morale non è né migliore né peggiore della nostra, è solo
diversa; ma quando questi comportamenti mettono a rischio il modo di
vita che ci siamo scelti, abbiamo la necessità, che sarebbe auspicabile
ci risulti comunque sgradita, di renderlo inoffensivo.
Ne consegue che per me l’unico motivo che può giustificare una pena
detentiva, è il rischio della reiterazione del reato. Ma da ciò deriva
una conseguenza che, per mia esperienza, poche persone sono disposte ad
accettare: se un individuo ha commesso un reato lieve, ma c’è il
concreto rischio che reiteri il reato (mettiamo un borseggiatore che
come scelta di vita, abbia deciso di svolgere quest’onorata
professione) è legittimo incarcerarlo; ma se un individuo ha commesso
quello che ai nostri occhi appare come il più barbaro e ripugnante dei
crimini, ma - per qualche motivo - abbiamo la certezza che non lo potrà
più commettere, non abbiamo alcun diritto di privarlo della libertà
personale.
Però devo confessare una cosa: credo che questa mia visione che
riguarda il diritto come qualcosa di storico (e dunque convenzionale) e
non qualcosa di essenziale, derivi non solo da un’analisi storica, ma
soprattutto dalla mia incapacità di annettere una reale validità etica
a delle norme che valgano indistintamente per tutti. Non mi riesce di
non pensare che ciò che ha realmente importanza per l’uomo, per ciascun
uomo, debba essere qualcosa che vale per lui e per lui solo. Le regole
che hanno valore per tutti, fossero pure le Tavole della Legge, anche
se indubitabilmente comode ed utili per gestire una società, non
possono riguardare la nostra più vera essenza. Quel qualcosa di unico
che ciascuno di noi porta in dono agli altri.
E se non saremo in grado di apprezzare la nostra unicità, appiattendoci
su schemi generali di comportamento, comodi ma sterili, non saremo
neanche in grado di apprezzare l’unicità di coloro che ci stanno
intorno, che è l’autentico dono che la vita ci fa, e che in fondo è
l’unico diritto a cui davvero non sono disposto a rinunciare.
Dobbiamo consentire alla vita che è in noi, e solo in noi, di fluire
liberamente, senza essere troppo preoccupati di rispettare delle norme,
che lasciano il tempo che trovano. Perché c’è qualcosa di più grande in
noi, non solo di quanto gli altri siano spesso disposti a riconoscerci,
ma anche e soprattutto di quanto noi stessi siamo disposti ad
ammettere.
E concludo con una citazione di Martin Buber tratta dal suo Il cammino dell’uomo:
“Rabbi Sussja in punto di morte, esclamò: "Nel mondo futuro non mi si
chiederà: 'Perché non sei stato Mosè?'; mi si chiederà invece: 'Perché
non sei stato Sussja?"'.”
Antonio Marco Serra
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Diritto al rispetto
Oggetto: diritto civile – diritto penale – diritto del lavoro - “vai
diritto per la tua strada” - diritto dei cittadini, dei pensionati –
diritto dei lavoratori – diritto ad avere un lavoro per i disoccupati
nella attuale crisi – diritto alla casa.
Il diritto può avere diverse sfaccettature, ma quella che interessa di
più, è quella che riguarda il diritto degli esseri viventi in generale,
e cioè i più deboli oltre agli animali, i bambini, gli anziani, i
senzatetto, gli ammalati, i portatori di handicap fisici e mentali, che
debbono essere maggiormente tutelati dalle violenze fisiche e verbali
di molta gente cattiva e arida. Soprattutto penso alle donne, che pur
essendo psicologicamente e mentalmente molto più forti e avanti
rispetto a tanti uomini, continuano ad essere sottoposte da loro a
gravi violenze fisiche e psicologiche.
Gli esseri umani, indipendentemente dal ruolo che ricoprono nella
società, sia esso più o meno rilevante - l’uomo di affari o il
professionista piuttosto che l’operaio - dovrebbero avere uguali
diritti che di fatto poi non hanno. Il ‘diverso’, che non rientra nei
canoni della cosiddetta ‘normalità’ per sua indole, ad esempio il gay,
o perché di razza diversa, viene emarginato, ma invece ha il diritto di
essere rispettato, valutato e apprezzato come persona con una sua
specifica personalità, etnia, con le sue esigenze e priorità, e deve
essere accettato in quanto tale, mentre spesso è oggetto di vessazioni
di ogni genere e insulti.
Questo fenomeno secondo me ha generato il bullismo e nonostante il
progresso tecnologico e il raggiungimento di alcuni diritti
riconosciuti alle coppie gay, i pregiudizi continuano a imperversare e
a rendere questa società, forse ancor più delle precedenti, peggiore
dal punto di vista umano, perché priva di valori e vuota. Vi imperversa
la discriminazione, la superficialità, l’indifferenza e la mancanza di
comunicazione diretta fra la gente, visto che molti preferiscono
‘chattare’ e ‘parlare’ attraverso il web, nascondendosi dietro un
computer, spesso fingendo di essere ciò che in realtà non sono, e
questa è una società dove manca il rispetto per l’altro, ancor di più
se considerato diverso o debole, insomma è una società malata.
Francesca
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Diritto: breve excursus
Il tema del Diritto è molto
importante. Fin dai primordi
dell’umanità, si è
sentito il bisogno per l’uomo
che viveva in comunità,
di avere delle regole per i
rapporti con gli altri esseri umani.
Quindi inizialmente dovevano
esserci delle regole orali, tramandate
di generazione in generazione.
Successivamente si arrivò a leggi
scritte: tra le più antiche vi sono
quelle del codice di Hammurabi,
re dei Babilonesi,1750 anni
avanti Cristo, poi segue il decalogo
di Mosè, circa 1200 a.C.,
per giungere alle dodici tavole,
prime leggi scritte di Roma, circa
700 a.C.
A Roma il diritto si chiamava ius,
radice di ‘giustizia’, tale termine
ci porta a pensare ad un equilibrio,
da cui ‘equità’. Per questo
la giustizia è rappresentata dalla
bilancia, che soppesa dall’una e
dall’altra parte.
Ancora la legge di Hammurabi
era legata alla cosiddetta ‘legge
del taglione’, come pure la Bibbia
(dente per dente, occhio per
occhio), poi gradualmente sostituita
dal risarcimento del danno
con denaro.
Le regole sociali espresse nel decalogo,
hanno già il divieto: non
uccidere, non rubare, specificati
dal non desiderare la donna e la
roba d’altri. Tali sono ancora delle
prescrizioni morali.
Questi comandamenti sono poi
riversati nei codici moderni, nelle
formule: “Chiunque… rubi,
uccida ecc. è assoggettato alla
pena di anni…”. Queste formulazioni
nei codici moderni spezzettano
la norma in sotto-divieti,
che tengono conto delle circostanze
attenuanti e aggravanti
dell’azione delittuosa. Tuttavia
la selva intricata di prescrizioni,
che tiene la nostra vita quotidiana
chiusa come da una gabbia,
potrebbe essere ridotta a quelle
dieci regole date da Dio a Mosè
sul monte Sinai.
Anche Benigni recentemente
ce le ha illustrate. Pur se quelle
regole paiono all’uomo moderno
impastate di moralismo, è da
esse che dobbiamo partire, per
costruire le altre, perché è nella
morale che affonda il diritto.
Ogni settore elabora le regole
che si debbono seguire partendo
dalle proprie esperienze.
Questo per quanto riguarda i divieti
e i doveri.
Per quelli che chiamiamo diritti
bisogna fare riferimento, dopo
la seconda guerra
mondiale, per
l’Italia alla Costituzione
e per
tutto il mondo
alla Dichiarazione
Universale dei
Diritti dell’Uomo,
adottata dall’ONU
il 10-XII-1948. In
tale Dichiarazione
solenne l’art.1
afferma la libertà
naturale di tutti gli
esseri umani e la
loro eguaglianza
“in dignità e diritti”,
senza discriminazioni
per razza,
sesso, lingua, religione, opinione politica e altra
condizione.
L’art.2 inizia una lunga elencazione
di diritti fino all’art.28: diritto
alla vita, alla libertà e alla
sicurezza personale oltre ai diritti
alle giurisdizioni, diritto alla
famiglia, matrimonio, casa, corrispondenza;
diritto alla cittadinanza,
alla proprietà privata e
collettiva, diritto alla libertà di
pensiero, diritti politici di associazione.
Tali enunciazioni richiamano le
coeve affermazioni contenute
anche nella nostra Costituzione.
Questa Dichiarazione è stata
successivamente ampliata a
singoli settori: diritti del fanciullo,
della donna, ed altri. Tuttavia
l’ambito del Diritto si amplia
sempre più con l’evolversi del
progresso tecnologico (es.: internet:
diritto dell’informazione
telematica) o addirittura il diritto
spaziale dopo il lancio dei satelliti
nello spazio.
Come si vede il diritto abbraccia
tutti gli ambiti del nostro vivere.
Tra i più importanti ci sono il
diritto alla vita e alla salute. Per
questi diritti lo Stato e la società
si impegnano alla cura delle persone
ammalate o bisognose.
Tuttavia anche in questi importanti
diritti c’è un contrasto di
interessi: il diritto alla salute e
quello alla libertà, autonomia
personale. Le cure devono essere
accettate dal malato fin
quando è capace di intendere e
volere, altrimenti sono gli altri a
preoccuparsi per lui.
Il soggetto principale del Diritto
è la persona umana purché si
tenga conto della sua condizione
di creatura e sia subordinata
alla legge morale, per cui quello
che essa fissa viene reso obbligatorio
attraverso la forza. Fra
le persone infine vale sempre il:
“non fare agli altri, ciò che non
vuoi sia fatto a te” e considerarle
“sempre come fine e mai
come mezzo” in definitiva: “Ama
il prossimo tuo come te stesso”.
Augusto Mocella
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Il diritto alla vita
Non ho studiato giurisprudenza
ma penso che il principale diritto
dell’uomo sia il diritto alla vita. Già
nel grembo materno il feto reclama
questo diritto. L’uomo nasce,
cresce per mezzo del nutrimento,
diversamente questo processo
evolutivo non sarebbe possibile. È
vero che possiamo nutrirci e morire
per altre cause, ma il mancato
nutrimento ci porta a morte certa,
esaurendo così il nostro diritto
alla vita. Considerando il fatto che
nessun uomo ha chiesto di nascere,
è ragionevole pensare che tutti
hanno il diritto di vivere. Nella
maggioranza dei paesi del mondo
anche agli ergastolani è riconosciuto
il diritto alla vita, anche se
molti meriterebbero la morte.
Purtroppo questo diritto a molti è
stato ed è negato. Le due guerre
mondiali, lo sterminio degli Ebrei,
le bombe su Nagasaki ed Hiroshima
sono il ricordo della più grande
violazione del diritto alla vita.
Anche oggi nel Medio Oriente la
guerra semina distruzione e morte,
per motivi egoistici e politici, si
combatte anche solo per il diritto
di professare la propria religione!
Questo dovrebbe farci riflettere!!!
Un vecchio proverbio dice: "Vivi e
lascia vivere”. Sono semplici parole
ma ricche di significato.
Abbiamo il diritto alla vita, ma
anche l’obbligo di estendere questo
beneficio a tutti i nostri simili.
Pace e diritto di vivere non si
mantengono con le armi, ma con
la fratellanza tra i popoli. La vita
è un bene inestimabile, abbiamo il
diritto di viverla, facciamo il possibile
per conservarla.
Mariangela
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Leggendo il Diritto
Se vogliamo sapere di diritto,
quanti codici dobbiamo leggere?
Basta chiamare l’avvocato
e lui subito trova il codice
giusto per risolvere il tuo
problema, però c’è un inconveniente:
l’avvocato lo devi
pagare.
Esiste un paradosso: sia che
tu abbia ragione, sia che tu
abbia torto, se l’avvocato è
OK tu vinci la causa e allora
il tuo avversario deve pagare
anche le tue spese.
Certo che il gentile avvocato,
se è veramente efficiente,
gira la legge come vuole.
Questo a volte porta all’ingiustizia,
perché anche se
difende un assassino a volte
gli può evitare la galera colle
sue micidiali arringhe.
Il diritto e le assicurazioni
sono di origini antichissime.
Persino all’epoca dei Romani:
prima delle fognature, le persone
urinavano in vasi grandi
e pesanti, dopo svuotavano il
vaso fuori dalla finestra.
Però a volte cadevano i vasi
e se qualcuno passava lì sotto,
poteva anche farsi molto
male, per cui l’assicurazione
pagava il danno alla persona
e in questo modo risolvevano
il problema.
Non sempre era soddisfacente
la soluzione.
Il diritto si modificava in base
alle nuove situazioni sociali
appunto.
Persone sagge legiferavano
secondo le situazioni che si
venivano a creare. A tutt’oggi
dal diritto romano prendono
spunto gli avvocati e i giudici.
Luisa Paolucci delle Roncole
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Il diritto di essere liberi
Anch’io ho bisogno d’amarti, quindi vienimi incontro e chiedimi
scusa, per ciò che ti ho dato e per ciò che non mi hai mai dato tu.
Così io penso di avere un diritto, almeno un diritto, quello di poterti amare ancora, anche se tu non mi ami più.
Questa sera vengo con te perché ti amo tanto. Questa mattina vedo te e
ti do due baci, perché ti amavo tanto. Ma quale dovere c’è, ma quale
diritto ho?
Di capirti ne ho abbastanza, di amarti ne ho la necessità compiuta molto, ma ci diciamo addio per il diritto di essere liberi.
Paola Scatola
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Il dovere di soccorsoRiflessioni sparse
I principi di solidarietà e cooperazione sociale sono
sanciti - primariamente, ma non solo - negli artt. 2 e 3
della nostra Costituzione. Tra questi due articoli vi è una
stretta correlazione: l'art. 2 richiede “..l'adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica
e sociale” e in ciò è rafforzato dall'art. 3, 2° comma, che
stabilisce, fra l'altro, che è compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli che rendono difficile l'adempimento
di questi doveri.
***
Delicatissimo è il tema del diritto alla salute e di quello,
correlato, dei Trattamenti Sanitari Obbligatori.
Sull'argomento, di cui non sono competente, posso solo
sottolineare che l'art. 32 della Costituzione tutela “la salute
come fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività..." e così, implicitamente, lo inserisce fra
“i diritti inviolabili dell'uomo” di cui all'articolo 2 sempre
della nostra Costituzione.
Ancora, l'art. 32 della Costituzione sancisce, al 2° comma,
che “nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La
legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal
rispetto della persona umana”. Per disposizione della legge
180 / 1978 (cd. Legge Basaglia) i trattamenti sanitari
"sono di norma volontari".
E, infine e soprattutto, ricordiamo che l'articolo 32 della
Costituzione è stato giudicato dalla Corte Costituzionale
“immediatamente precettivo”, cioè direttamente applicabile
al caso concreto, senza che vi sia la necessità di una
legge ordinaria che disciplini il caso medesimo.
***
Dal reato di “Omissione di soccorso” (art. 593, 1° e
2° comma codice penale) scatta - in un'ottica ‘attiva’
e non più ‘omissiva’ - un consequenziale dovere di soccorso
generico in capo a chiunque si imbatta, o si trovi
in presenza, di un soggetto (anche solo apparentemente)
in pericolo (“...per malattia di mente o di corpo, per
vecchiaia, o per altra causa ... ovvero in un corpo umano
che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o
altrimenti in pericolo”).
All'obbligato è imposto di prestare l'assistenza occorrente
o di darne immediato avviso all'autorità competente;
ma questa seconda possibilità non esime dal prestare
l'assistenza urgente (quando ciò sia possibile), in attesa
dell'intervento di quest'ultima.
Il dovere di soccorso, così profilato, incontra i limiti derivanti
dalle possibilità pratiche e dalle capacità individuali:
non si richiede, per esempio, che un profano presti assistenza
medica, sostituendosi a un medico in quel momento
assente, rimuovendo, per esempio, un infortunato
alla colonna vertebrale, rischiando così un aggravamento
del danno.
***
Estremamente complessa è l'ipotesi in cui la stessa attività
di soccorso configuri (astrattamente) un reato.
È il caso, ad esempio, dello sfondare una porta per introdursi
nella abitazione di un aspirante suicida (astrattamente,
reati di "danneggiamento", "violazione di domicilio"
e, forse, "violenza privata"), il cercare di riattivare
l'attività cardiaca mediante colpi ritmati al torace (astrattamente,
reato di "percosse"). O, ancora - caso limite - il
rubare una macchina per trasportare un malato gravissimo
in un ospedale geograficamente lontano.
Vi è chi ha sostenuto che, in tale ipotesi, l'adempimento
del dovere di soccorrere - configurante un fatto di reato
- non sia punibile in forza dell' art. 51 1° comma codice
penale : “...l' adempimento di un dovere imposto da una
norma giuridica... esclude la punibilità". È stato il caso,
riportato dalle cronache, del processo a Vincenzo Muccioli,
giudicato - e assolto in 2° grado - per aver ‘sequestrato’
degli ospiti della Comunità di San Patrignano, che
avevano manifestato la decisione di fuggire e ri-assumere
pericolosi stupefacenti.
***
Complessa, ancora, è l'ipotesi di chi si imbatte in un
caso di violenza sessuale a una donna.
Ricordo che nella fine degli anni Ottanta, il Movimento
dei Verdi propose di inasprire la pena per gli spettatori
‘passivi’ di tale grave reato: tale proposta passò, con
successo ma fra mille polemiche, al vaglio della Camera
dei Deputati nel marzo del 1989, ma non incontrò poi
l'approvazione del Senato nell'aprile dello stesso anno.
Non so se, successivamente, una proposta simile sia stata
ripresentata in Parlamento: modestamente la riterrei
opportuna, considerati i numerosi casi di ‘omesso soccorso’
riscontrati, purtroppo, nelle cronache.
N.B.: queste mie riflessioni sono aggiornate solo fino a
tutto il 1994, anno in cui terminarono i miei studi giuridici.
Matteo Bosinelli
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Tra diritti e pretese
Riflessioni di un familiare sui confini tra diritti alla salute dei
pazienti e pretese dei familiari nei confronti dei servizi pubblici di
cura
Un'esperienza personale recente e alcune
discussioni accese al CUFO mi hanno
portata a scrivere queste righe. Si tratta
di riflettere sui confini tra ‘diritti’ delle
famiglie e ‘doveri’ dei CSM, con le relative
scelte da parte delle Associazioni tra modalità
‘denuncia dei disservizi/protesta’ e la modalità ‘consapevolezza
dei problemi/collaborazione’.
Si tratta di un dibattito di fondo, che torna spesso nei
nostri discorsi, e che tocca la visione che ciascuno di
noi ha dei disturbi mentali, delle loro possibili cause
e dei ‘rimedi’ che i Servizi possono o non possono
garantire.
Dopo anni di ricerca e di riflessioni sulla nostra esperienza
familiare, anche nell’ambito dell’Associazione
Cercare Oltre, con il contributo di vari ‘maestri’ interpellati,
di letture fatte e di convegni ai quali ho partecipato,
sono giunta alla convinzione che il percorso
di vita e la salute mentale di ciascuno di noi siano
condizionati da una molteplicità di fattori tra i quali:
● La predisposizione personale innata (eredità biologica iscritta nel nostro DNA)
● La storia della nostra vita (con i traumi e le ferite della nostra infanzia e della nostra adolescenza…)
● La nostra eredità familiare (gli eventi e le tragedie vissuti dai nostri antenati)
● La nostra eredità karmica (gli eventi delle nostre vite precedenti)
● Le nostre credenze personali
● Le nostre scelte di stili di vita (alimentazione, movimento, respiro, uso di sostanze…) ●
Le condizioni ambientali e sociali in cui viviamo (periodo storico,
zona geografica, sistema di relazioni sociali, condizioni di sicurezza
ed incertezze ecc… sino alle variazioni del magnetismo terrestre,
all’influsso della luna o delle tempeste solari…)
Tutto questo melting pot ed altri fattori ancora influiscono
sulla nostra energia, sul nostro entusiasmo,
sulla nostra depressione, sul tipo e sui livelli di emozioni
che siamo capaci di ‘reggere’, sulle nostre reazioni
agli eventi della vita, in altri termini sulla nostra
salute mentale. Di fronte a questo quadro, secondo
me non è pensabile che da solo, un servizio di tipo
sanitario (che incide sulla salute con medicinali, riabilitazione,
supporti psicologici, stili di vita…) sia in
grado di ‘risolvere’ i problemi di salute mentale dei
nostri cari.
Il Servizio Sanitario può dare un contributo importante
per migliorare la situazione e gli equilibri biologici,
per calmare, evitare guai, ridare fiducia, accompagnare
un percorso verso la guarigione. Ma
secondo me non ha senso ‘delegare’ loro in toto la
cura, ed ancora meno ‘pretendere’ che essi siano in
grado di risolvere i problemi di chi soffre di disturbi
mentali. I medici e gli operatori non sono i detentori
della vita e della morte delle persone. Non sono nemmeno
i detentori della loro salute mentale. Possono
‘solo’ dare un contributo, certo importante, ma non
esclusivo. Non possono che collaborare assieme ad
altri ‘fattori’ di salute, tra i quali i familiari, gli amici,
gli ambienti sociali e di lavoro, gli operatori spirituali,
il paziente stesso che deve decidere di uscire dalla
sua situazione di disagio, perdendo anche magari
qualche vantaggio derivante dall’essere considerato
come ‘malato’. Nei nuovi orientamenti occidentali
sulla salute mentale, il focus viene messo sul paziente,
non più sul medico e sui servizi. Secondo me si
tratta di un cambiamento epocale, di cui facciamo
ancora fatica a misurare le conseguenze, sia per i
medici abituati a sentirsi al centro del processo, sia
per noi familiari abituati ad avere un ruolo marginale
e passivo, addirittura a sentirci colpevoli per quello
che succede ai nostri cari. Non è cosi! Anche i familiari
possono avere un ruolo attivo ad esempio per
sciogliere alcuni nodi (nel loro comportamento, nelle
loro credenze errate, nello stile di vita che propongono…).
Resta fermo che da parte di ciascuno ci vuole
grande rispetto per il paziente che continua a vivere
la sua esperienza su questa terra tra mille difficoltà e
che più di noi percepisce livelli di sofferenza ‘ad alta
soglia’ rispetto a chi si ritiene normale.
Ci vuole anche grande umiltà, in particolare da parte
dei medici e degli operatori dei Servizi, che non posseggono
da soli gli strumenti per risolvere i problemi
di salute mentale di chi si affida loro. Ma in fondo, è
anche rassicurante potere ammettere di non essere
onnipotenti, potere accettare che alla fin fine ciascuno
è responsabile del proprio destino. È con questo spirito di rispetto e di umiltà che secondo me le associazioni
dovrebbero scegliere la modalità ‘consapevolezza
dei problemi/collaborazione’ con i servizi
di cura, non ‘per’ i pazienti ma ‘con’ i pazienti, al loro
fianco se lo gradiscono, perché si tratta pur sempre
della loro vita, non della nostra. Ciascuno può mettere
in campo gli strumenti di cui dispone: competenze
scientifiche, farmaci, sostegno psicologico, competenze
riabilitative, risorse economiche, tempo di volontariato,
calore umano e comprensione, ecc… con
sempre tanto tanto rispetto reciproco, tanto amore.
Certe volte mi viene da pensare che la sofferenza psichica
sia fatta apposta per costringere gli uomini e le
donne a rispettarsi e a collaborare, e non viceversa.
Anche la grande sofferenza psichica deve avere una
sua funzione nella società. Altrimenti non esisterebbe.
Dopo un terremoto, dopo una guerra, dopo una
tragedia, siamo tutti più solidali e più collaborativi.
Nel nostro piccolo, anche di fronte a una grande sofferenza
psichica ed umana, non possiamo che chinare
la testa con rispetto e cercare di collaborare,
ciascuno con quello che può portare per migliorare la
situazione. Non è ‘buonismo’. È dura realtà, è ricerca
di non disperdere le energie nelle lamentele e nello
scontro, è tentativo di remare tutti nella stessa direzione,
è ricerca di una maggiore incisività, è ricerca di
una evoluzione positiva personale e sociale. È anche
una grande fatica, ma ne vale la pena.
Marie Françoise
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La notte di note
L’eterno ritorno del CD
Istruzioni per l'uso.
Credo sia giusto, come autore di Note di Notte svelare come ascolto un cd.
Metto il repeat-all e faccio almeno un giro.
+1.
Nel senso che considero concluso l'ascolto solo dopo aver riascoltato la traccia 1.
Credo che un cd debba avere una coerenza circolare e che quindi l'ultima traccia non debba stridere con la prima.
Mango
Me ne parlò una ragazza durante un ricovero.
Mi incuriosì, diceva che ero fissato coi Doors ed avevo bisogno di un po’ di amara leggerezza.
Comprai un cd usato e cominciai ad ascoltarlo. Mi piacevano i salti associativi ed il suo lieve parlare d'amore.
Oggi ho saputo della sua scomparsa, su di un palco, come molti artisti
vorrebbero. Il cuore, tanto usato nelle sue canzoni ha ceduto.
Capita solo ai generosi, come al nostro Lucio Dalla. Vorrei averlo ascoltato di più.
Lucio Dalla ho iniziato ad apprezzarlo solo dopo la sua scomparsa. Colpevolmente.
Oggi penso alla ragazza del ricovero ed alla malinconia che può provare in questo momento. Le sono vicino.
Senza di Lei il cd che ho in sottofondo mentre scrivo non lo avrei
acquistato. Ora canta che la pietà finalmente ridiventa amore.
Troppo spesso ci rifugiamo nella pietà, nella compassione, negando di
fatto il vero amore, questo deve rimanere di Te, Pino Mango, la Tua
forza nel ricordarcelo.
Con Affetto.
Pino Daniele
Ho letto una dichiarazione di Vasco Rossi sul suo
sito:www.vascorossi.net. Diceva questo, in ricordo di Pino Daniele: "Je
so' pazzo vorrei averla scritta io."
Je so' pazzo potrei averla scritta io, ribatto.
Utente psichiatrico esattamente da 17 anni, il primo T.S.O. l'ho preso
il 10/01/1998, penso che Pino Daniele mi abbia dato molto.
Non lo trovavo particolarmente simpatico, troppo gattone, però sapeva graffiare.
Rivendico il mio diritto di essere pazzo!
Non faccio male a nessuno ed un piccolo disturbo di personalità va concesso a tutti, anche a chi non ammette di averlo.
Atteggiamento che può diventare pericoloso, quando tale disturbo viene su.
Ed a questa categoria di persone giro esattamente quello che diceva Pino Daniele al termine della canzone citata:
"Je so' pazzo, NON MI SCASSATE O’ CAZZO!"
Grazie Pino.
Il diritto di cambiare il tempo
Ora Legale - Ora Solare.
Il Diritto di cambiare il tempo.
Dicono che si risparmia.
Le giornate prima sono più lunghe poi più corte.
Viene buio prima.
Anche Jerry Scotti lo dice con malinconia.
Le notti sono più lunghe e cominciano prima.
Da cui più tempo da dedicare alla mia rubrica che cambia nome. Da Note di Notte a Notte di Note.
Ho voluto anche la presenza di un indirizzo e-mail per un'interazione più diretta.
Mi interessano le Vostre segnalazioni e mi impegno a citare l'artista più ‘imeilato’.
Sperando di incuriosirVi sempre.
Giovanni Romagnani (giovanni_romagnani@alice.it)
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Tre modi per perdere soldi
Il gioco d’azzardo è il più veloce, le donne sono il più divertente, l’editoria è il più sicuro
Mi ha colpito un dialogo con un amico, che non vedevo dalla bellezza di
17 anni. Ci siamo rivisti davanti a una birra come due vecchi compagni
di vita, dopo che ha letto il mio primo libro (Voglio sentire l'urlo del tuo respiro,
ora non più disponibile, ma presto sarà ripubblicato, vi terrò
informati). Comunque, dice il vecchio amico: “Be’, con il bel libro che
hai scritto non avrai più problemi di soldi...”
Io: “See... Sai qual è la mia percentuale su una copia? Il 5%”. (Dopo
un rapido calcolo, facilitato magari dal fatto che il 5% è la metà del
10%):”Vuoi dire che tu guadagni 75 centesimi a libro?”. “Magari!!! Devi
toglierci anche il 22% di IVA e il 20% di ritenuta d'acconto!”.
“Niente, praticamente!”. “Già...”
Parliamo di un tipo particolare di diritto, il diritto d'autore.
Io ne mastico un po' solo per quel che riguarda l'editoria,
avendo pubblicato due libri. Il diritto d'autore varia tra il
3 e l'8 per cento sul prezzo di copertina al netto dell'IVA
(22%) ed è tassato con ritenuta d'acconto (20%). Facendo
un rapido calcolo, se vendo 1.000 copie di un libro che
costa 15 euro il mio guadagno netto è di circa 560 euro, e
vendere mille copie oggi per uno scrittore ancora sconosciuto
è un successone. Al di là dell'esiguo diritto d'autore
(sono pochissimi gli scrittori che campano di scrittura)
devo scontrarmi anche con il tremendo mondo dell'editoria.
È un'illusione romantica che basti pubblicare, e che
tutto dopo venga da solo. Niente di più sbagliato. Semmai
la pubblicazione è solo l'inizio. L'autore esordiente ha come
minimo tre problemi:
1. I CONTI. Parole di un mio grande amico che ha già pubblicato
oltre venti libri: “Non saprai mai, e dico mai, quante
copie l’editore effettivamente stampa, quante ne distribuisce
e soprattutto quante ne vende. Un mio amico ha
denunciato il suo editore perché gli disse di aver venduto
cinquemila copie. Ha fatto indagini ed erano più di ventimila.
Del mio libro ha venduto più una sola libreria specializzata
di Roma di quanto mi abbia detto l’editore in tutta
Italia. Io ho già metabolizzato, tu sei ancora nella fase predigestiva…
Purtroppo è così, a meno che non pubblichi con
le grandi sigle editoriali, che non penso proprio abbiano
interesse a fare questi giochini... Ma uno di noi come ci arriva?”
Insomma, noi non sapremo mai quante copie sono
state effettivamente stampate, quante distribuite e quante
vendute. L'autore non può che rimettersi alla galanteria
dell'editore.
2. LA CONCORRENZA. In Italia si pubblicano 65.000 titoli l’anno, le
copie stampate sono quasi 300 milioni. Oltre il 60% dei titoli è
rappresentato da “novità”. Insomma, escono in Italia centottanta libri
al giorno, comprese domeniche e festivi. Escono sette libri l’ora,
almeno quattro dei quali novità.
Tutto questo a fronte di cosa? Ogni italiano acquista in media meno di
tre libri l’anno, ivi compresi i testi scolastici, per i quali si è
obbligati all’acquisto, se si è studenti.
Se possiamo dire con oggettività che oggi è più facile pubblicare
(sessantacinquemila titoli, contro gli ottomila del
1955, i ventimila del 1980 e i trentamila del 1990), la probabilità
di farsi notare in questo oceano di libri è evidentemente
molto bassa. Una novità, quanto sta in libreria, a
queste condizioni? C’è chi dice una settimana, questa è la
vita di un libro, poi lascia spazio ad altre novità. Sembra
che dei titoli che entrano in una libreria quasi il 50% vende
nella libreria stessa un solo esemplare. Tanti titoli non
vendono neppure una copia. La percentuale minima di resa
delle librerie oscilla tra il 30 e il 40 per cento.
3. LA DISTRIBUZIONE. In Italia sono state censite oltre
duemila case editrici. Fatta una prima pulizia, mantenendo
cioè quelle con un minimo di distribuzione e un minimo di
titoli in catalogo, giungiamo a circa mille aziende. Ma dove
cavolo finiscono i libri degli oltre mille editori italiani? Andate
in una libreria e, siamo sempre lì, vedrete le grandi sigle
editoriali, con i titoli in bella vista, impilati in orizzontale che
non puoi non notare appena entrato. Il mio libro, se c’è, è a
scaffale. Dove, di grazia, non lo vedrà mai nessuno, o quasi.
E poi si dice il successo. Come dice giustamente un mio
amico compositore e musicista: “Misurare il successo non
ha senso. Se la canzone A la passo in radio duemila volte, la
canzone B solo due, chi mai venderà più dischi?” Insomma,
torniamo lì: alla illusione romantica che basti pubblicare. In
realtà il bello comincia dopo. Faccio un esempio: io sono
stato un grande fan di Faletti, ho tutti i suoi libri e anche le
sue canzoni. Davanti a lui mi tolgo il cappello, perché era un
grande scrittore. Ma ha pubblicato con un grande editore,
che soprattutto ha creduto molto in lui. Non tutti hanno
questa possibilità, purtroppo. Il rischio di perdersi (e perdere
il proprio libro) nei meandri dell'editoria è molto alto.
Concludendo, lo dico ai giovani scrittori che vogliono intraprendere
questa strada: non è dura, è durissima. Anche
se la speranza è davvero l'ultima a morire. I casi letterari ci
sono. C'è, chi arriva. Anche a risultati di proporzioni mondiali.
Certo, sarebbe interessante chiedersi, per uno che
arriva, quanti arrancano una vita. Ma la speranza è l'ultima
a morire, come diceva un filosofo: “Le probabilità di vincere
al superenalotto sono una su seicentoventidue milioni. Ma
vallo a dire a quello che vince...”.
Simone Bargiotti
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Diritto di famiglia
Prima e dopo il 1975
La famiglia è considerata il nucleo più importante
dello Stato, ma sotto il profilo legislativo
essa è notevolmente mutata nel tempo.
Nel passato non tanto lontano la famiglia era
di tipo patriarcale dove il marito era un ‘padre
padrone’. Sia la donna che i figli avevano un ruolo
prettamente marginale. La vecchia Costituzione recitava
infatti: “il marito è il capofamiglia, la coniuge ne
acquisisce il cognome e lo deve seguire in qualsiasi abitazione
da lui scelta”. Dopo il 1968 il dilagare della protesta
sulla disuguaglianza tra maschi e femmine portò,
nel 1975, all’abolizione della vecchia norma e alla creazione
di un nuovo articolo: “col matrimonio moglie e
marito acquistano pari diritti”, oltre agli stessi doveri di
reciproca fedeltà, collaborazione, coabitazione e contribuzione
ai bisogni familiari.
Io che provengo dal mondo contadino e che mi interesso
di storia dell’agricoltura facendo leva anche sui miei
ricordi, vorrei accennare ai rapporti umani che intercorrevano
nelle famiglie rurali nei secoli passati riportando
un tratto del mio libro in CD-ROM L’ingrata vita dei contadini.
Le contadine, relegate dal maschio e dalla società
di allora ad un ruolo subalterno, difficilmente erano
oggetto di riconoscimenti e di gratitudine. Qualunque
cosa avessero fatto, compresa la sostituzione nel lavoro
e nella conduzione dell'azienda dei mariti e/o dei
figli quando questi erano chiamati a svolgere il servizio
militare, almeno nel mondo contadino di molte località
era considerato un dovere e nulla più. Era quindi comprensibile
il manifestarsi d'una certa delusione, astio e
insofferenza nei confronti del reggitore o capoccia, sentimenti
che si limitavano a un lamento che difficilmente
poteva sfociare in una vibrata protesta, salvo quando
avrebbero dovuto ottenere qualcosa. Se è vero che il
mattarello era il loro ‘scettro’, le donne, salvo eccezioni,
non si permettevano mai di maneggiarlo al di fuori
del proprio utilizzo culinario, ma non si lasciavano comunque
intimorire, anche se non era permesso loro di
decidere sugli affari di casa. Si sentivano ripetere in un
monotono rituale: “i pantaloni li porto io”, ovvero “qui
comando e decido io”. A quei tempi il reggitore della famiglia,
salvo eccezioni, pretendeva ubbidienza assoluta
e sottomissione da tutti gli altri componenti la famiglia.
Se c’erano però da avanzare delle giuste e sacrosante
richieste, tutte le donne della famiglia si univano e affrontavano
minacciose e compatte quella specie di‘capobranco’.
Allora per lui erano dolori. Trincerate dietro
la vergara[1] o l’azdora che, come si è detto, seppure
ubbidiente incuteva comunque rispetto, specialmente
se il capoccia era giovane, le stesse andavano all'attacco
finché, giorno dopo giorno, l'irremovibile maschio
mostrava segni di resa. Anche se la prima ed ultima parola era sempre la sua, pian piano il suo orgoglio si affievoliva
fino a sconfinare in un brontolio di stanchezza,
seguito spesso dalla capitolazione totale. La reggitrice,
seppure soggetta anch’essa al reggitore, avente alle
sue dipendenze figlie e nuore, godeva di una certa autonomia
anche per quanto riguardava la gestione dei
propri risparmi, ottenuti dalla vendita degli ortaggi o
di altri prodotti minuti, con i quali poteva fare piccoli
acquisti (filo per cucire, aghi, fazzoletti, coloranti per
le stoffe, essenze per i liquori, ecc.). A differenza dei
maschi che avevano specifici compiti, il ruolo della reggitrice,
come si è visto, non sempre corrispondeva ad
un modello unico. Ricadeva comunque esclusivamente
sulle sue spalle la gestione dell’economia del podere
soprattutto per quanto riguarda l’uso delle provviste
e l’educazione delle ragazzine. A queste veniva insegnato
a fare la sfoglia, a mungere, a cucinare, a fare le
faccende di casa in modo che, con il matrimonio, avessero
già un'esperienza di lavoro tale da non deludere
le aspettative della reggitrice della casa del marito[2].
Allora, esistevano rituali ben precisi che simboleggiavano
l’accettazione della sposa da parte della nuova reggitrice,
nell’impegno alla sottomissione, all’obbedienza
e alla laboriosità[3]. Le contadine, sebbene facessero
vita in comune e partecipassero al lavoro alla stregua
degli uomini, venivano ingiustamente escluse dall'eredità:
partecipavano alla divisione soltanto nel caso dei
raccolti ma, almeno nelle Marche, in ragione della metà
o di un terzo rispetto ai famigliari maschi di età corrispondente.
Dalle ‘spettanze’ venivano però detratte le
spese sostenute per la dote. Mentre le figlie, sposandosi,
se ne andavano nella casa dello sposo portando con
loro la dote, i maschi, al contrario, portavano a casa
la moglie e la sua dote. Tutti vivevano sotto lo stesso
tetto, sempre sotto l’autorità del padre o, in mancanza,
del fratello primogenito coniugato.
NOTE
[1] La ‘vergara’ non sempre era la moglie del ‘vergaro’, ma la più
anziana e la più rispettata delle donne di casa. L'incarico di capo
famiglia, in mancanza del padre, veniva infatti assunto dal
primogenito.
[2] Cfr. P. Guidicini- C. Alvisi, L’arzdàura – Donne e gestione familiare nella realtà contadina, Ed. F. Angeli, 1994, pag. 69 e seg.
[3] Cfr. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, pag. 427-428.
Roberto Grillini
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I diritti dei lavoratori
C’è un’espressione che quando penso al
mondo del lavoro mi mette la malinconia:
‘diritti acquisiti’. Riguarda un concetto che
nei miei anni giovanili mi rassicurava e mi
incoraggiava ad impegnarmi, immaginandomi
come una formichina, che piano piano accumulava
punti per la sua sicurezza futura. Dalla rivoluzione
industriale in qua, con oltre due secoli di lotte, i lavoratori
hanno acquisito dei diritti (sudati e purtroppo
a volte insanguinati): la rappresentanza sindacale, il
diritto di sciopero, la difesa dai licenziamenti, la cassa
integrazione, la salute e la sicurezza sul lavoro, la
pensione, il ‘trattamento di fine rapporto’, la tutela
delle lavoratrici madri e dei minorenni, la limitazione
dell’orario, per garantire il riposo e permettere il ritorno
allo studio e alla formazione… e viandare. Oggi le
cose sono molto cambiate e la crisi finanziaria non è
la sola causa: è proprio il nostro mondo che si è repentinamente
trasformato. Non è che voglia farci su
un trattato socio-politico, il problema infatti è molto
complesso e richiederebbe ben altra competenza che
la mia… Mi limito ad osservare tristemente che questa
trasformazione ha fatto carta straccia di molte conquiste
che sembravano certe e ha tolto la serenità a chi è
ancora in pista e a chi cerca di costruirsi un domani.
La precarietà, soprattutto per i giovani, ma non solo,
da condizione transitoria (la famosa ‘gavetta’) è diventata
un modo di esistere. E oltre tutto, insieme all’insicurezza
che l’accompagna, è come un virus, che parte
da un punto debole e va a intaccare tutto il corpo.
Speriamo che passi…
Lucia
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Lo sfogatoio
Numeri (primi e non)
Alla ricerca di numeri temporali.
Il diritto/dovere di sognare.
Paolo Giordano ha scritto La Solitudine dei Numeri Primi!
Un numero primo in matematica è un numero che si può dividere solo per se stesso e per 1.
L'1, a cui ognuno di noi deve tendere è un numero primo molto particolare, divisibile due volte per se stesso.
Ho sofferto la solitudine dei numeri primi.
Io, Giovanni, divisibile solo per me stesso e per la psichiatria.
Diviso, lacerato, da un divisore esterno a me.
Giusto?
Dannoso!
Imparare dai propri sbagli è utile, se ti fa sbagliare un ente esterno a te non tornano i conti.
Amo il numero quattro, che però non è un numero primo perché è divisibile anche per due.
Però i conti tornano:
io, 4, 1 la Psichiatria, 2 le mie identità.
Tenute insieme dai farmaci.
Ma fino a quando?
Fino a quando ci sono da parte dello Stato Italiano i soldi per
pagarli, [per l'utente sono gratis, va detto], e finché regge il
fegato, che tra l'altro è uno e quindi non ripetibile.
Ho dato i numeri lo so.
La triade sarebbe "utente-farmaco-servizio", ma citare il 3 in questo caso mi sembrava troppo ambizioso.
Meglio il quattro così inseriamo anche l'operatore, che magari è bravo e comunque fa massa.
Giovanni: 4=Olanzapina: 0
Dove le ali diventano proboscide
Pensando a L’elefante e la farfalla di Michele Zarrillo.
Leggerezza e pesantezza, una condizione insita in
noi. Volere volare, direbbe qualcuno. E le zavorre? Servono
e ci sono. Se zavorra vuol dire paura non è sempre
negativa. "Il coraggio vuole ridere" dice Nietzche nello
Zarathustra. Bisogna però avere il coraggio di ammettere
le proprie paure e quindi il coraggio di ridere. Troppo
coraggio: poche paure. Serietà. Incoscienza! Personalmente
amo le persone serie e non quelle seriose. Amo chi
ride di sé. Non tutti gli operatori lo fanno. Quelli che non
lo fanno mi fanno ridere!
Abbiamo il diritto di essere elefanti con gli operatori e
farfalle negli affetti?
In genere funziona diversamente. Gli operatori ti fanno
volare e ti tagliano le ali con gli psicofarmaci. Rimane
quindi il ricordo del "Volo Operativo" e si diventa elefanti
negli affetti. E gli elefanti negli affetti devono tornare dagli
operatori, per volare.
Coraggio! In questi giorni di Tempesta Elettrica!
È una poesia di psicologia alchemica. Caos e ordine, disagio ed evaso, da se stesso, dove le ali purtroppo diventano proboscide!
Lucky strike
Vivi in bilico e fumi le tue lucky strike.
C'è molto di Vasco Rossi in questo verso.
Ammette il vizio, ma sottolinea che le lucky strike che fuma sono le sue. Ha i soldi cioè per pagarle.
Credo che tutti gli utenti del CSM-Scalo dovrebbero impararsi queste
parole a memoria. Anch'io sono un fumatore, ma come Vasco fumo le mie.
Mentre tutte le volte che vai al CSM, magari coi tuoi pensieri, ti
trovi ad aver a che fare con mandrie di utenti che ti chiedono una
paglia. Cosa che ritengo insopportabile.
Inoltre Vasco continua dicendo che qui non arrivano gli angeli.
Quelli di Vasco probabilmente no, mentre di Angeli della Nebbia è pieno.
Non voglio sposare posizioni nichiliste, parlando di Iperborei, ma un po’ di dignità, perdio e per sé.
Se uno ama fumare tabacco deve fare i sacrifici necessari per poterselo permettere.
Ti sorride da un angolo
“Ti sorride da un angolo”.
È un verso di una canzone di Lorenzo Cherubini, Jovanotti, contenuta nell'album Back-Up.
Spesso in CSAPSA parliamo degli ultimi e del loro isolamento
esistenziale. È come se in quell'angolo ci dovessero stare e rimanere.
Se ne uscissero l'angolo rimarrebbe vuoto. Mi verrebbe da dire pronto
per qualcun altro.
Nel mio primo intervento a Radio Kairos ho detto
che in CSAPSA ho trovato le condizioni per aprire
la “schizzofrenia”. Ma non per tutti è così. Ho deciso
di aprire l'angolo della “schiffofrenia” in cui ero
confinato. Ogni tanto l'aprivo con qualche sigaretta,
ma sostanzialmente rimanevo lì.
Purtroppo però molti in quell'angolo ci rimangono,
e devono dimagrire, perché si stringe sempre più.
Quando i gradi dell'angolo sono pari a 0°, la persona
semplicemente sparisce. E per molti è un bene:
"Occhio non vede, cuore non duole."
Stando in CSAPSA ho capito che non è giusto.
Grazie a Leonardo ed alla sua immane sensibilità,
ho capito che certe situazioni semplicemente non
vanno accettate.
Poi ho il mio vocabolario, cito spesso Vasco Rossi,
ma questa volta non è colpa d'Alfredo. Uno degli
album ritenuti migliori dalla critica del buon Blasco
è C'è chi dice no .
In quello, come ho detto con Leonardo, Vasco
manda a fare in culo la teoria dei sistemi.
Personalmente è un approccio, quello dei grandi
sistemi, che non amo.
Lo ritengo spersonalizzante. Voglio continuare a
credere che il sociale non si formi a monte, in qualche
super-uranio, ma davanti ad un buon bicchiere
di vino bevuto in un'accogliente osteria.
In Ridere di te, che è la terza traccia di quell'album, Vasco Rossi canta:
"Le stelle stanno in cielo, i sogni non lo so, so solo
che son pochi quelli che si avverano".
Sì, lo so, è difficile, ma tutti insieme qualche sogno possiamo provare
a realizzarlo, anche perché Jovanotti, nella canzone che ho citato
all'inizio, dice: "Ti sorride da un angolo."
Apriamolo!
Giovanni Romagnani
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Dazzenger
● Se i pomp-ieri sono in ritardo che si fa? Si chiamano i pompoggi!"
● Le matto-nelle, le fabbricano in manicomio?
● Nella storia, i sa-latini hanno conosciuto bene i latini?
● Sapete cos'è un pastore? Un pasto preso a certe ore.
● Sapete cos'è un artiglio? Un tiglio con lo sbuzzo dell'arte.
● Sapete cos'è una collina? Una colla piccolina.
● Cosa succede se tocchi una spina elettrica? Ti punge.
● Lo sapete cosa ci fa del cemento armato in una banca? Tenta una rapina.
● Quando i cinesi mangiano le crêpes e vanno a lavorare in una risaia... ridono a crepapelle?
● Sapete perché alcuni alberi hanno la radice quadrata? Perché li hanno piantati vicino alle scuole.
● In un negozio di abbigliamento, due commesse stanno allestendo una
vetrina. La prima chiede: "Mi dai una mano?", l'altra stacca la mano a
un manichino e le risponde: "Ecco!"
● In profumeria, un cliente legge un’etichetta e chiede: "Siete sicuri che il sandalo profumi?"
● Le persone che vivono nel Sudan... sudano tutto l’anno?
● Sapete qual è l'accordo armonico tra l'arciere e la corda dell'arco? L'in-tesa.
● Sapete qual è il pregio di Augusto? Il gusto per l'oro (simbolo chimico : Au).
● Perché a molti non piace la verdura? Perché è troppo dura.
● Il consulente fiscale dice a Luigi: "Ci vuole la partita IVA". Allora
Luigi si organizza: chiede a Iva Zanicchi di fare una partita a carte,
chiama il consulente dove loro stanno giocando e dice: "Mi scusi,
questa partita con Iva, va bene ?".
● In quale città ci si vuole veramente bene? Miami (si pronuncia "maiemi").
● Qual era il nome di Anna da giovane? Giovanna.
● Il capo magazziniere al fattorino: "Ma quanto tempo ci impieghi a
trasportare un collo?". Lui gli risponde: "Tutta la vita: ce l'ho
attaccato !"
● A quale ragazza piace fare la lotta? Car-lotta!
Darietto
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Ogni rovescio ha la sua medaglia
Avete mai notato? Ciò che è diritto, dritto, retto, destro
è considerato giusto, l’opposto è per lo più visto di mal
occhio: roba da evitare, come un pensiero contorto, un
torto, una tortura, un tiro mancino, un sinistro spettacolo,
un gesto maldestro, un manrovescio, un rovescio
di fortuna … Aiuto, si salvi chi può!!!
Guardare storto non è gentile! Lo sguardo obliquo,
torvo e bieco, è tipico dell’uomo perverso. Si raccomanda
di guardare la gente dritto negli occhi (strabici
compresi).
Riga diritto, perché una sbandata può costarti come
minimo una storta. E, volendo esagerare, anche un
sinistro... E poi, distorcendo la verità, in barba a tuoi
diritti, perfino se hai ragione sapranno darti torto. La
manca non è la dritta, ma per il mancino è la mano giusta.
Eppure c’è ancora qualcuno che va dicendo che è
“la mano del diavolo”, e non è sufficiente saperla usare
con destrezza: sempre sinistra resta (la sinistrezza
pare non esista). E un ambidestro dove ce l’ha la manca?
Gli manca, ma non è mica monco! Semplicemente
la sua manca è più destra del comune. Beato lui, sarà
un raccomandato… Riguardo alla politica, no comment,
anche perché ultimamente si direbbe un po’…
sinistrata. Comunque, per dirla con Giorgio Gaber,
“cos’è la destra, cos’è la sinistra?”. Dubbio amletico:
palla al centro. E il double face (ottima soluzione per i
‘voltagabbana’), come lo mettiamo? A piacere!
Ogni medaglia ha il suo rovescio… Diamo dunque anche
al rovescio una medaglia al valore. Ci sono cose,
infatti, che hanno una fascino speciale proprio perché
non sono dritte, vedi strabismo di Venere (a proposito,
cosa sarebbe Venere senza… curve?). E chi vorrebbe
mai raddrizzare le famose torri pendenti? Evviva la
torre di Pisa che pende che pende che mai non vien
giù! È il fascino dell’imperfezione, dell’originalità, della
trasgressione.
La nostra Garisenda, paragonata a un gigante, si è
meritata un posto nella Divina Commedia. Ai tempi di
Dante, non essendo ancora stata mozzata, era ancor
più incombente, perciò stare “sotto ’l chinato” faceva
un certo effetto, specie se una nuvoletta spinta dal
vento se ne andava in direzione opposta, dando l’impressione
all’osservatore che la torre gli cadesse addosso.
Dante probabilmente ne rimase affascinato, quando
venne a Bologna per bazzicare l’università, e si soffermò
a lungo a rimirarla, però gli venne un po’ di rimorso
per aver trascurato l’altissima e più celebre torre Asinelli,
perciò scrisse una poesia in cui se la prendeva
con i propri occhi, rei di non aver scelto la torre giusta,
quella dritta, insomma. Eh, Dante, che dritto!
Lucia Luminasi
|
Questa o quella? (A Dante)
Forse un po' brilla
o forse insonnolita,
la Garisenda ciondola
sulla città assopita.
Certo le piacerebbe un bel goliardo,
allegro, crapulone e lancia in resta,
ma per un cedimento in gioventù
le capitò di perdere la testa.
Da allora la sorella retta e altera
la piantona, severa,
indicandole il cielo…
Ai piedi dello scombinato duo
che in fin dei conti ben la rappresenta,
la gente di Bologna passa svelta
senza guardare in su.
Sarà la fretta?
Piuttosto... l'imbarazzo della scelta.
L. L.
|
Gli opuscoli informativi sugli inserimenti socioriabilitativi,
formativi e lavorativi del DSM-DP di Bologna: informarsi per conoscere
e scegliere
Il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche nel
2011/2012 ha riorganizzato le attività ed i percorsi d’inserimento
formativo e lavorativo, introducendo nuovi modelli e metodologie
di lavoro e approntando il consolidamento degli interventi in
atto che si sono mostrati validi ed efficaci in questi anni. Progetti,
aree di attività, modelli operativi, metodologie, prassi e strumenti di
lavoro sono stati ordinati ed esposti in un Manuale Operativo e sono
stati anche i temi della discussione e del confronto della comunità degli
operatori del DSM – DP e dei propri stakeholders, quali utenti, familiari,
cooperatori ed operatori di Enti pubblici e privati impegnati sul fronte
della formazione e dell’inserimento lavorativo.
Questi cambiamenti interni al DSM-DP sono stati stimolati anche dai
processi di cambiamento della normativa del lavoro e del modo di produzione
che negli ultimi anni hanno avuto una forte accelerazione. Importanti
sono stati la promulgazione della Legge Regionale n. 7/2013
sui tirocini formativi e la riforma del mercato del lavoro come anche le
ripercussioni della crisi economica.
Successivamente, nel 2013, con l’applicazione del Manuale Operativo,
si è posta un'altra necessità: come verificare concretamente quali obiettivi
riabilitativi, formativi e lavorativi sono stati raggiunti, quali cambiamenti
organizzativi si sono prodotti e quanto le nuove attività hanno
inciso positivamente sulle condizioni, non solo lavorative, degli utenti.
Allora si è approntato e si è attivato un percorso di verifica e di valutazione
che prevede diversi interventi secondo i vari bisogni rilevati.
Nel corso del confronto aperto
tra operatori, utenti e familiari,
in occasione del nostro seminario
annuale del 2013 emerse che
era necessario comunicare ed
informare le persone interessate,
con un linguaggio semplice e facilmente
comprensibile, su quali
erano i percorsi e le attività di cui
potevano usufruire. Era necessario
tradurre il nostro Manuale
Operativo ed i nostri atti ufficiali
in documenti leggibili e comprensibili,
in opuscoli informativi
che potessero aiutare gli operatori
ad informare e gli utenti ad
essere informati in modo chiaro
e completo.
Questo proposito rispondeva
al diritto di ogni utente di avere
tutte le informazioni per poter
scegliere in modo consapevole
e secondo le proprie attitudini e
preferenze il percorso lavorativo
o formativo adatto e desiderato.
Nel 2014 si è così costituito un
gruppo di lavoro tra operatori
ed utenti che ha prodotto gli
“Opuscoli informativi” che sono
stati presentati al 7° workshop
del DSM - DP sugli Inserimenti
Lavorativi e che potete vedere in
questa pubblicazione.
Vincenzo Trono
(Educatore coordinatore Area Progettazione Educativa e Inserimenti
Lavorativi - DSM-DP AUSL di Bologna - Viale Pepoli 5 Bologna)
|
Il diritto di abitare
BRAINSTORMING a partire dalla visione del film Elling, film del 2001 diretto da Petter Næss
Che cosa significa “abitare”? Quanti modi di abitare esistono?
A: Abitare è essere liberi e autonomi (es.: bisogna sapere fare la spesa, gestire la casa, fare il letto, cucinare)
F: È avere il proprio mondo, il proprio nido, qualcosa che
corrisponde alla tua intimità più profonda, ha un valore sacro, ed è
inviolabile. Per questo c'è il diritto alla casa, è un fatto di dignità
umana.
M:
Abitare è anche condividere affetti e vissuti con le persone con cui
abiti, o che ospiti in casa. La casa è anche uno spazio affettivo. A
volte però le relazioni possono essere difficili, si può arrivare a
litigare.
L:
Abitare è vivere uno spazio, condividere con altri.
Riguardo le scene iniziali del film:
A:
Elling deve ancora imparare a essere autonomo, cosa che in genere si
impara prima rispetto alla sua età, in questo non ha una vera
normalità.
L:
A me è piaciuto il fatto che nella condizione forzata (la casa di cura)
in cui Elling e il suo amico si trovano, riescono a condividere uno
spazio e a creare un legame affettivo e di amicizia molto profondo.
A:
D'altra parte però è stato necessario portare Elling in quella
struttura, per potere dargli un aiuto, altrimenti, lasciato a se
stesso, sarebbe peggiorato sempre di più. Meno male che l'hanno preso
in tempo!
ALCUNI LUOGHI CHE SI ABITANO:
CASE (case grandi, piccole, condomini, villette, di proprietà, in
affitto, del Comune, da soli, in coppia, con la famiglia, con amici,
con inquilini, ecc..)
SCUOLE, UNIVERSITA’, ISTITUTI SCOLASTICI
COLLEGI UNIVERSITARI E PER STUDENTI
CASERMA E LUOGHI MILITARI
COLONIA E CAMPI ESTIVI
TENDA, ROULOTTE, CAMPER, CAMPEGGIO
MEZZI DI TRASPORTO: BARCA, AEREO, PULLMAN, TRENO, ECC...
HOTEL, PENSIONE
OSPEDALI, CASE DI CURA, CLINICHE
COMUNITA’ TERAPEUTICA
GRUPPI APPARTAMENTO, CASE FAMIGLIA, ECC...
DORMITORIO
LA STRADA
CARCERE
Disegno di Stefano Gardini
Approfondimento personale: “I luoghi che ho abitato”
Roy
Nel 2003 sono andato a “Villa A”, a Riolo Terme. Nell’ambito di tale
struttura ho fatto amicizia con molte persone. Nel 2006 sono andato
presso “G”, a Bologna. Nel 2008 mi sono recato a “Casa M” e poi, dopo 4
anni, sono andato al G.A.P. Gruppo Appartamento Protetto. Presso il
G.A.P., il rapporto con gli utenti è buono. Io, a volte, per evitare
inutili diatribe assecondo certi atteggiamenti.
Nell’ambito del G.A.P. ci sono i turni, quindi spesa, cucinare e
pulire. Nel mio tempo libero leggo.
Io pago la mia retta per quanto riguarda l’affitto. La retta ammonta a
circa 370 Euro. Ci sono tre camere, due bagni, sala, cucina e una
terrazza molto grande. Nella mia camera ci sono molti libri, riviste.
La mia camera è il mio mondo.
M: L’aeroporto
Era l’anno 2010 e precisamente il
mese di ottobre e non pensavo in
realtà al luogo in cui mi trovavo, o
meglio, di rendermi conto di dove
mi trovavo e cioè di essere in un aeroporto
perché non c’ero mai stato
prima. In quell’anno abitavo con
mio zio che voleva andare a Santo
Domingo e una mattina siamo
partiti per l’aeroporto di Bologna
in un taxi con le valigie e appena
arrivato sono entrato in un luogo
che per me… sembrava di entrare
in un mondo del tutto nuovo: la
sala d’aspetto di un aeroporto. La
gente e la frenesia che c’era mi ha
dato dello sgomento, soprattutto
quando c’è il momento del controllo
dei bagagli e la corsa per prendere
l’aereo. Poi sono salito sull’aereo
e qui… entrare su un aereo è
stata davvero una grande emozione,
soprattutto quella di aspettare
di decollare. Poi quando l’aereo è
decollato, mi ha dato l’ebbrezza
di stare in alto, che non avevo mai
provato. Comunque questa è stata
un’esperienza bella che forse non
riproverò più perché non è stato
il frutto di una mia iniziativa ma è
stata quella di mio zio, che pensava
di volersi rifare una vita in America.
Francesco Musco
Avevo 3 anni quando mi trasferii in
quella che considero ‘la mia casa’
in senso assoluto. Era (è) una casa
popolare della periferia sud di Foggia.
Una casa popolare sì, ma con
garage, cantina e giardino. Amavo
quella casa, me ne rendo conto
da quello che ho provato in quegli
anni, adesso so come dare un
nome a quello che avvertivo dentro
di me. È come se mi rendessi
conto già dell’importanza di avere
una casa intesa come punto di riferimento,
come luogo inviolabile,
appartenente solo a chi lo abita. Il
nome che darei a quello che provavo
è ‘serenità’, ‘senso’, più precisamente
‘senso di appartenenza’.
Questo ovviamente non poteva
non dipendere dalla presenza dei
miei genitori.
Un po’ di anni dopo, quando mia
madre morì, le mie case divennero
due e poi tre, quelle dei parenti
che a turno ospitavano me e il mio
fratellino. Due case degli zii e una
dei nonni. Mi adattai a tutte e tre,
in particolare a quella di una mia
zia con sette figli e quindi vi erano
tanti cuginetti e tanta allegria. Un
anno con il mio fratello maggiore
lo trascorsi anche in un seminario
che faceva praticamente da collegio:
grandi spazi, grandi camerate,
ambiente piacevolmente francescano,
ma mai caldo come quello
di una famiglia.
Poi quando avevo 9-10 anni tornammo
a casa dei nonni dove vi
era anche una mia zia zitella che ci
faceva un po’ da mamma (tra l’altro
era sua sorella) e dopo un anno
di collegio quella casa, per quanto
in un edificio antico, ci sembrò
più bella e accogliente di due anni
prima, ma mai bella e accogliente
come la nostra casa del quartiere
“Cep” di Foggia, dove recuperammo,
due anni dopo, quando vi
ritornammo assieme a mio padre
(che non era mai andato via da lì),
quella dignità di essere tornati in
famiglia dopo essere stati sballottati
qua e là, per un po’ di anni; una
famiglia tragicamente monca di
mia madre, ma con tutto il ricordo
quasi palpabile di lei.
Alcuni anni dopo andai a fare il
servizio militare per due anni.
Quando tornai alla mia casa, vi
tornai profondamente cambiato
e cambiò così la mia percezione
delle cose, della vita e del mondo
esterno, ma penso che ciò accada
a tutte le persone che hanno vissuto
un’esperienza di sofferenza.
Tutto assunse un senso più profondo
quando tornai nella mia magica
casa d’infanzia. Io, cantante
melodico, iniziai ad amare il Jazz.
La casa in particolare assunse un
valore molto più grande: era il mio
centro di energia, era diventata la
carezza, il conforto, il luogo dove
cantavo le mie canzoni, scrivevo
le mie poesie e dove mi rilassavo
e contemplavo il verde circostante
guardando spesso il cielo e nutrendomi
di tutto questo.
La sera, tornando dal lavoro, infilavo
contento la chiave nella serratura
del portone esterno e con altrettanto
compiacimento osservavo la
mia ombra sul muro dell’androne.
Era un rumore allegro anche quello
della chiave che mi permetteva di
entrare in casa e avvertivo questo:
l’odore immensamente piacevole
per la sua familiarità e una carezza
misteriosa me la sentivo addosso
ogni volta che vi entravo. Quella
casa aveva assunto il valore di
mia madre. Era lei, forse, che non
essendovi più, mentalmente era diventata
appunto la mia casa.
A
La mia prima esperienza sull’abitare
riguarda la mia infanzia.
La prima casa in cui ho vissuto si
trovava nella mia città natale che
è Foggia, in viale V (una zona vicino
al centro città), ed era una casa
molto grande di 130 mq e avevo
tre corridoi e stanze varie, moltissimo
spazio; la stanza più grande
era il salotto dove molte volte invitavamo
(logicamente grazie ai
miei genitori) tantissime persone e
quindi ospiti.
Avevo una mia stanza, era molto
grande, ed essendo molto piccolo
(vi ho vissuto fino a quando avevo
8 anni), in quello spazio giocavo,
invitavo i miei amici. Ho un ricordo
ultra positivo nel complesso e la
maggior parte delle cose che facevo
erano divertenti, inoltre avevo
un bellissimo letto, era molto comodo
e dormivo benissimo. Avevo
vicino molti peluche. La mia casa
d’infanzia aveva una grande cucina
e inoltre possedeva una fantastica
sala da pranzo; la mia casa era
antica, aveva tre balconi: uno nella
mia stanza, uno in sala da pranzo e
l’altro in salotto.
I miei genitori avevano una stanza
da letto grandissima, bellissima e
arredata con mobili davvero meravigliosi;
inoltre il letto era stupendo
e ornato in maniera magnifica. Nella
casa c’era una stanza che faceva
da ufficio o stanza di lavoro per
mio padre che è tuttora avvocato
e anche quello era un bello spazio.
C’era la stanza per gli ospiti e infine
un bagno molto bello e spazioso
con vasca da bagno rilassante. In
assoluto è stata la casa più bella
della mia vita.
Roberta
Mi ricordo che da piccola ho vissuto
in una casa grande, calda e
accogliente con la mia famiglia.
Giocavo spesso con le mie amiche
correndo lungo il corridoio e nel
salone e giocando a nascondino
tra le vetrate dei balconi.
Successivamente ho abitato un
collegio femminile, ai tempi dell’università,
ed era piacevole conversare
con la mia compagna di
stanza e ritrovarsi tutte insieme
nella sala grande a guardare la tv,
era anche bello mangiare tutte assieme
nella sala ristorante. L’unica
cosa che mancava erano i ragazzi,
ma non era poi un problema così
grosso.
A un certo momento della mia vita
sentii l’esigenza di lasciare il collegio
per vivere in appartamento
condiviso con altre persone per
fare esperienza e così fu. In verità
cambiai diversi appartamenti
tutti caratterizzati principalmente
da divertimento e poi da allegria,
incomprensioni, litigi e riappacificazioni
e poi di nuovo goliardia. Di
tutto questo conservo dei bellissimi
ricordi.
Qualche anno dopo mi venne il
forte desiderio di vivere da sola e
ne parlai in famiglia tanto che mio
padre mi fece un bel regalo e acquistò
una bella casa che intestò a
me. In quest’ultimo luogo abitativo
mi sono anche molto divertita ma
ho scoperto la solitudine. Adesso
continuo a vivere là con la mia famiglia
e mi trovo molto bene.
Confronto tra collegio femminile e
casa di cura. Una delle esperienze
abitative che mi ha profondamente
segnato è sicuramente quella del
collegio femminile. Mi sono trovata
bene da subito con tutte le ragazze
che vivevano in collegio ed in
particolar modo ho adorato la mia
compagna di stanza. Con lei si era
creata un’amicizia speciale infatti
parlavamo ore ed ore dei nostri
interessi, delle nostre passioni e
dei nostri pseudo-problemi. Inoltre
ci divertivamo tanto a prendere in
giro le altre compagne di convitto;
tutto avveniva tra di noi segretamente
per non ferire nessuno. Uno
degli argomenti da noi trattati più
di frequente era quello dei ragazzi
che purtroppo lì mancavano, quindi
parlavamo dei nostri incontri
all’esterno in particolare all’università
e si era stabilita tra di noi una
bella sintonia, si era creata una
forte energia e a volte c’era anche
empatia. Ci ascoltavamo e ci capivamo
in un modo impressionante.
Ricordo che comunque anche con
le altre compagne di collegio avevo
instaurato buoni rapporti, infatti
andavamo insieme a fare shopping
e mangiare la pizza e tutto era
svolto con goliardia.
Oltre questa esperienza ho avuto
anche un’altra esperienza abitativa
molto toccante (breve ma intensa):
il ricovero presso la casa di cura.
Anche qui ho trovato una magnifica
compagna di stanza con la quale
si era instaurato un rapporto di
complicità e solidarietà reciproca.
Devo dire che mi sono trovata molto
bene anche con le altre ragazze
ricoverate in quanto simpatiche e
aperte. Insieme andavamo al bar a
fare colazione e poi organizzavamo
cene speciali. Il ricordo più forte
che ho comunque, senza dubbio è
il fatto che ci facevamo la doccia
nello stesso momento utilizzando
due bagni differenti della struttura
e avevamo anche gli stessi gusti
televisivi. La stessa situazione
l’ho vissuta nel collegio femminile;
anche lì con la mia compagna di
stanza vivevo in ‘simbiosi’: doccia
più o meno nello stesso momento
e desiderio comune di guardare
determinati programmi televisivi.
Credo che entrambe le esperienze
mi abbiano aiutato a crescere e a
migliorare sempre più.
D
L’esperienza abitativa che preferisco
raccontare riguarda quella
che ho vissuto quest’estate. Sono
andata al mare in un paesino della
Calabria a casa di un cristiano
evangelista. La mattina ci si alzava
presto, si andava al mare, si passeggiava
sul lungomare, si cantava,
si pregava e si mangiava tutti
insieme. Era una vita in comunità.
Siamo andati anche con la barca
a vela in 10 persone (dove in realtà
il massimo doveva essere di
4). Sono stata lì per un mese intero.
È stata un’esperienza piacevole,
si pregava Gesù e si portava il
suo messaggio. Alle 12 si pranzava
sotto l’ombrellone e poi andavamo
in giro sotto gli altri ombrelloni
ad evangelizzare, a pregare. Si
faceva da mangiare tutti insieme.
Dopo cena, stavamo in una sala
con il pianoforte dove si cantava e
si lodava il Nostro Personale Salvatore
Gesù Cristo. Ho incontrato
tante persone che erano contente
quando ci vedevano. Ho imparato a
socializzare con le persone. È stata
una vacanza bella e benedetta.
Il messaggio di Gesù mi ha dato la
forza per diventare quello che volevo
essere.
S
Il luogo più bello che ho abitato è
la casa di montagna dei miei nonni,
da piccolo. È una casetta rurale,
con il camino e quelle enormi scale
che portano al secondo piano.
I miei nonni stimolavano molto la
mia fantasia, mio nonno mi portava
in giro (strade tutte curve
e deserte, dove se passavano 5
macchine in un giorno è molto) e
mi raccontava quando non avevano
il bagno e andava a lavarsi nel
fiume. Mia nonna era bravissima a
raccontare le favole, che avevano
un non so che di magico. Da piccolo
giocavo molto anche con gli
animali di mia zia, che abitava di
fianco a noi, perché questa casa
è una borgata, un insieme cioè di
4 o 5 case. Mi divertivo molto con
un cucciolo di cane e uno di gatto,
che da cuccioli giocavano sempre
insieme. Poi si dice che cane e
gatto non vanno d’accordo… comunque
la montagna ha tutta una
sua atmosfera, e mi è rimasta non
solo nei ricordi d’infanzia. A volte
ci sono andato anche con gli amici
o con una ragazza in età adulta, e
sono bellissime le serate davanti al
fuoco, magari dopo una grigliata,
con le sigarette accese direttamente
con la brace…
Luigi Zen
Associazione UmanaMente
LABORATORIO DI SCRITTURA
Ogni venerdì ore16:45 - 17:45, Sala Cufo, Viale Pepoli 5 (BO)
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Il diritto alla cura
Io sento il diritto ad essere curato
e ad avere persone che
mi aiutino. Ho sempre avuto la
disponibilità all’ascolto da parte
degli operatori del CSM. Mi
sento seguito bene ed ascoltato
nei miei bisogni. C’è un ‘fare
insieme’ con la psichiatra anche
dal punto di vista farmacologico.
Anche al Centro Diurno mi sento
seguito ed ascoltato. Grazie a
questo percorso sono riuscito a
cambiare atteggiamento in famiglia
rispettando il ruolo dei miei
genitori in quanto tali. Anche il
lavoro mi ha aiutato a rispettare
le persone che hanno i miei stessi
problemi. Ai colloqui i medici
mi hanno sempre ascoltato e ho
sempre discusso con loro sul mio
progetto di cura. Mi sento trattato
come una persona normale e
non malata.
Armando
Secondo me i diritti vengono
tutti rispettati qui in Italia,
mentre in altri Stati non è così,
ad esempio negli Stati Uniti non
è garantita l’assistenza sanitaria.
Quando stavo male sono andato
tre volte dai Carabinieri, perché
pensavo che i miei diritti fossero
stati calpestati. Ero convinto di
essere seguito e che delle persone
volessero cacciarmi dalla mia
abitazione. Erano solo fantasie
paranoiche, e l’ho scoperto solo
dopo essermi curato.
Massimo
Mi sento seguito, curato e
considerato in quanto persona
bisognosa di cure. Non mi
è stato necessario avanzare particolari
richieste, anche perché
sono una persona con poche
pretese. Ho molto rispetto per gli
altri e questo mi porta a chiedere
null’altro che il necessario. Mi
sento rispettato nei miei diritti. È
fondamentale rendersene conto!
Anonimo
Sento che sono stati decurtati
e sminuiti i miei diritti di malato
per una serie di procedure.
Ho iniziato il mio tirocinio da malato
a diciassette anni, mi sento
derubato di buona parte della
mia vita a causa della malattia.
Mi hanno curato con metodi antiquati
che hanno cronicizzato la
mia malattia. Vivo da anni in un
gruppo appartamento e mi sento
dire dagli operatori che ‘ci marcio’
sopra. Da buon opportunista,
talvolta mi faccio scudo della mia
malattia per non fare delle cose.
Forse è proprio così. Mi sento la
vita ‘schematizzata’, anche se
usufruisco di molta libertà nelle
ore pomeridiane. Economicamente
non ho da lamentarmi,
però se potessi cambierei la mia
vita seduta stante. Sopporto il
peso della vita comunitaria, sentendo
una lenta disgregazione
dell’IO. Secondo me si fa troppo
poco per i malati mentali. Sono
veramente un malato mentale?
Anonimo
Centro Diurno di Casalecchio di Reno
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Je suis Charlie
Charlie Hebdo è un periodico francese, un giornale di satira che si occupa di diverse tematiche, sia politiche che religiose.
Nel 2006 Charlie Hebdo pubblicò una serie di caricature di Maometto che
fecero molto scalpore perché considerate oltraggiose nei confronti
della comunità musulmana. Per la religione musulmana infatti è peccato
raffigurare il profeta Maometto ed è vietato inoltre rappresentare
Allah.
Nel novembre 2011 la sede del giornale fu distrutta a seguito di un
lancio di alcune bombe Molotov. La mattina del 7 gennaio di quest'anno
tre uomini armati con fucili d'assalto hanno attaccato la sede del
giornale durante la riunione settimanale di redazione. Dodici persone
sono state uccise, tra cui il redattore del giornale, diversi
collaboratori e due poliziotti. I terroristi si sono dichiarati
provenienti dal movimento Al Qaida e Isis.
Quella mattina il settimanale aveva pubblicato una vignetta sul leader
dello Stato Islamico. I tre terroristi sono poi stati individuati e
uccisi.
Successivamente alla vicenda, le strade di Parigi si sono affollate di
persone da tutto il mondo per mostrare solidarietà alle vittime di
Charlie.
Il movimento "Je suis Charlie" (io sono Charlie) é nato proprio per
mostrare come “Charlie” non sia un’unica persona, ma invece rappresenti
tutti coloro che credono nella libertà di espressione e di parola in
una società libera.
1) Cosa pensi di ciò che è accaduto?
“Credo che ciò che è successo sia davvero indecente. Credo
esista e debba continuare ad esistere la libertà di espressione e di
parola a prescindere di ciò che si dice”.
Davide Z.
“Credo fermamente che non avrebbero mai dovuto uccidere quelle
persone, l’omicidio non può essere mai ammesso, qualsiasi sia l’offesa
ricevuta”.
Anonimo
“Credo che la libertà di espressione esista e che sia anche la più
grande ricchezza culturale in una società libera come la nostra. Come
lo è anche la libertà di azione. Ogni qualvolta ci sono privazioni di
libertà, saranno sempre presenti però anche attentati. Non credo che
ciò che è successo abbia qualcosa a che fare con rivendicazioni
religiose, ma..”.
Elisa F.
“Credo che la libertà di pensiero e di espressione debba essere sempre svincolata da tutto, dalla politica, dalla religione…”.
Anonimo
2) "È un esercizio di libertà anche criticare il modo in cui la
satira come quella di Charlie caratterizza qualcosa che per noi è caro,
come la nostra fede, la nostra razza o la nostra etnia. La libertà ha
un limite (un insulto gratuito non è libertà) ed è quello del rispetto
dello spazio altrui, a prescindere da cosa si pensa o si diffonde, e
che nessuna diffusione di idee meriti reazioni violente, come è
successo a Charlie Hebdo.". (Salvatore Santoru)
Cosa pensi di questa affermazione? Secondo te esiste un confine tra la
libertà di espressione e l’attenzione a non ledere i diritti delle
persone?
“Cosa succede quando i diritti vengono lesi? Non certo una
strage può riportare uno stato libero. Se qualcuno viola la libertà di
un altro è giusto che forse si possa preoccupare a sua volta della
propria libertà, ma un’azione violenta come quella accaduta non può
essere una reazione accettabile”.
Elisa F.
“Non credo che la libertà di espressione possa avere un prezzo.
Ognuno deve poter essere libero di esprimersi e esprimere il proprio
pensiero sempre. La violenza è ingiustificabile”.
Anonimo
“Non sono d’accordo con questa affermazione. Una vignetta non può
comportare il togliere la libertà a qualcuno, anzi non può che
rafforzarla nel possibile commento che essa suscita.”
Davide Z.
“Credo sia sempre importante stare attenti a non offendere il prossimo, e dall’altra parte come a non fargli del male.”
Werther R.
3) “Trovo di cattivo gusto una parte del lavoro di Charlie
Hebdo perché nelle sue vignette abbonda l'intolleranza di ogni genere.
Ma la mia disapprovazione non può certo modificare le scelte della
rivista. I vignettisti, ma anche gli artisti e scrittori di tutto il
mondo, dovrebbero avere la possibilità di esprimersi e sfidare
l'autorità senza essere ammazzati. L'omicidio non è mai una conseguenza
accettabile". (Roxane Gay)
Sei d’accordo con ciò che dice la scrittrice?
“Sono d’accordo con questa affermazione. Devo ammettere che se al posto
di Maometto fosse stato disegnato il mio Dio probabilmente non sarei
rimasta indifferente ma mi sarei offesa. Non per questo avrei mai
pensato a simili atti di violenza”.
Anonimo
“Anche io sono d’accordo con il parere di Roxane Gay. È più che
legittimo non approvare le scelte della rivista ma altrettanto
importante è lasciare la libertà a tutti di esprimersi, sempre.”
Anonimo
4) Ecco la vignetta della rivista Charlie Hebdo uscita dopo gli avvenimenti del 7 gennaio: “Tutto è perdonato”. Cosa ne pensi?
“Trovo le vignette di Charlie spesso ironiche e simpatiche allo
stesso tempo. La gravità grandissima del fatto non è spiegabile secondo
me come conseguenza di questi disegni”.
Anonimo
“Guardando questa vignetta penso solo al fatto che questa frase
secondo me non è corretta. Non è vero che tutto è perdonato e
perdonabile. Altrimenti mi chiederei, perché mia madre non mi perdona e
io non riesco a tornare a vivere?”
Elisa F.
“Trovo carina la vignetta e non ne capisco la gravità. Ho letto che
per i musulmani non si può disegnare il profeta Maometto ma questo non
giustifica la violenza attuata”.
Anonimo
“Io credo che questa vignetta come altre possano essere utili per
sensibilizzare al problema della guerra che Isis e Al Qaida stanno
diffondendo”.
Davide Z.
“Anche io credo che se il disegno spiritoso fosse sul mio Dio ne
rimarrei molto offeso, ma giustamente questo non giustifica nessuna
azione così aggressiva”.
Werther R.
5) “Not in my name”: i giovani musulmani condannano il terrorismo e
l'attentato a Charlie. Con questo slogan che dice: “non in nome mio e
non nel nome dell'Islam" essi vogliono distaccarsi dalle azioni e dai
comportamenti di queste persone, per evidenziare come non tutti i
mussulmani siano terroristi e anzi di come loro stessi condannino
questo tipo di comportamenti.
“Mi sembra una cosa molto vera e molto importante da dire ad alta voce. Concludo dicendo: viva la libertà!”.
Elisa F.
“Anche io sono molto d’accordo con questa idea dei musulmani. Mi
sembra giusto ribellarsi anche per loro alle facili generalizzazioni. ”
Anonimo
“Sono d’accordo, la penso come loro. Che sia in nome di Gesù Cristo
o di Maometto, nessuna guerra religiosa può essere considerata giusta
nel mondo di oggi”.
Davide Z.
CREDIAMO CHE ALCUNE VIGNETTE DI CHARLIE SIANO STATE ESAGERATE,
FORSE OFFENSIVE NEI CONFRONTI DI CREDENTI NELLE DIVERSE RELIGIONI
OGGETTO DI SATIRA, MA QUESTO NON GIUSTIFICA MAI UN OMICIDIO!!!
Laboratorio di Narrativa – RTP Casa Mantovani
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La mia cella
Durante un incontro della redazione di Ne vale la pena che approfondiva gli aspetti
concreti della vita in carcere, mi è stato
chiesto di scrivere, o meglio di descrivere
con le parole la mia cella, di cui avevo disegnato
la piantina sulla carta millimetrata; in questa
cella vivo da parecchio tempo presso il reparto penale
della casa circondariale Dozza di Bologna. Cercando
di fornire una visione d’insieme, parto dalle misure
dell’ambiente. Premesso che la tipologia delle celle è
standard, va detto che il progettista è stato indubbiamente
“democratico”, anche nell’ottica del comfort,
senza differenze per nessuno. Posso affermare che
la stanza dove sono recluso misura meno di 10 metri
quadri, e che al suo interno c’è lo stretto indispensabile
per vivere: con riferimento alla piantina, in dettaglio,
evidenzio che il lato lungo della parete è di 434 cm,
mentre quello più corto è di 284 cm. La superficie totale
del bagno è di 2 metri quadri, con la parete più lunga
di 110 cm. Ovviamente bisogna tenere presente che
da queste misure va sottratta la superficie dei sanitari,
ovvero un lavandino, un wc, un lava piedi. Lo stesso ragionamento
va fatto per il restante ambiente della cella,
dove, ironizzando, ricordo che sono presenti due brande
in ferro battuto del ’700, due armadietti “Luigi XVI”,
e due sgabelli in legno “modello Nerone”, stile basso
impero romano. Tuttavia ogni detenuto, ingegnandosi,
con il tempo e l’esperienza riesce a dare un tocco personale
alla sua cella, che con passione ed impegno può
riuscire a trasformare da una squallida cella anonima
in una stanza un po’ più accogliente. Così, apportando
migliorie di vario tipo, è possibile dare un aspetto più
vivibile alla cella, che diventa una sorta di mono, mono,
monolocale ben arredato. A proposito di arredi, ognuno
si sbizzarrisce come meglio crede, cercando di utilizzare
la creatività con il poco di cui si dispone. Ad esempio
c’è chi interviene con discrezione, e chi invece tappezza
tutte le pareti con poster, quadri “fai da te”, disegni appesi
alle porte, o graffiti alle pareti. Chiaramente l’impronta
delle diverse etnie è molto riconoscibile, e nelle
celle si possono ritrovare ambienti di sapore rumeno,
albanese, arabo, cinese, russo, slavo, italiano… Dalle
diverse culture derivano diverse progettazioni e funzionalità
della cella, associate al gusto personale di chi ci
vive, perché ovviamente ognuno vive la sua reclusione
a modo proprio, e traduce spesso nell’ambiente il suo
stato d’animo. Provo ad aggiungere qualche altro dettaglio
per dare al lettore un’idea più precisa della mia
“suite”. Evidenzio che il rivestimento del pavimento non
è mai stato posato, dopo quasi trent’anni e questo mi
sembra veramente incredibile soprattutto perché non
se ne comprende il motivo. Qualcuno ricollega questo
fatto allo scandalo delle “carceri d’oro”, ma non abbiamo
elementi concreti per considerare vera questa motivazione.
Il pavimento è quindi in cemento grezzo: per
sopperire a questo disagio ho acquistato a mie spese
pennelli e vernice tipo “smalto”, cambiando i connotati
alle superfici ammuffite e sbiadite, andando così a rendere
lavabili sia le pareti che il pavimento, e nascondendo
il cemento grezzo sotto vari strati di vernice.
Utilizzando colori chiari ho migliorato anche la luminosità
e l’igiene complessiva dell’ambiente. Infine, acquistando
sempre a mie spese una pellicola plastificata
con disegni fantasia, ho allestito una sorta di “parete
cucina” nell’angolo dove normalmente cucino, rendendolo
lavabile e funzionale all’attività di preparazione del
cibo. Personalmente non amo tappezzare le pareti con
poster volgari o altre immagini di santi, santini, crocefissi,
rosari, o con foto di familiari. Mi piace l’arredo
minimalista, del resto il posto in cui vivo è quello che è
e lo spazio è molto ristretto, per cui preferisco questo
stile. L’unica trasgressione, se così si può dire, l’ho realizzata
in bagno, dove a terra ho posizionato due tappetini
di spugna color rosa, che rendono l’ambiente un
po’ più vivace ed allegro. Ed infine, un solo calendario
dalla mia Raffaella Fico, rivolto verso di me, che io solo
posso vedere, perché è appeso nel fronte del mobiletto
in direzione del mio giaciglio in “ferro battuto del ’700”.
Michele D’Ambrosio
Il giornale “Ne vale la pena” è frutto di una selezione degli
articoli realizzati all'interno del laboratorio di giornalismo del
carcere bolognese della Dozza. Tutti gli articoli si trovano su
www.bandieragialla.it/carcere Questo testo è stato inserito il 2/12/14
da Ilaria Avoni.
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E la chiamano casa
Vignette di Ivano Ferrari
da Le urla dal Silenzio https://urladalsilenzio.wordpress.com
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Riflettendo con consapevolezza…
Essere gentili è più importante dell’essere giusti. Molte volte ciò
di cui abbiamo bisogno non è di sentire un discorso perfetto, ma di
avere un Cuore speciale che ascolta..
S. I.
da Spazio Libero anno XIX dicembre 2014.
Mensile di attualità a cura del Centro di Riabilitazione Interpersonale
del DSM di Arezzo - spaziolibero@hotmail.com - http://www.nolimit.it/spaziolibero
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Il diritto e lo Zen in Breve
Che cos’è il diritto… è forse qualcosa che si può ottenere senza
avere fatto nulla… Che poi dipende a quali circostanze esso viene
applicato, come in auto il diritto di avere la precedenza o la rinuncia
al diritto perché si deve dare la precedenza…
Ma in senso zen, pensando che il Buddha ci siede accanto, tutto è
uguale; o non separato, sia il bene materiale, o affettivo, che stiamo
consumando. Come è ancora più importante quello che non abbiamo
ottenuto nel tyan, transito della vita; perché l’insieme di quello che
ci manca e di quello che abbiamo ottenuto a confronto è il nostro
maestro di vita.
Luigi Zen
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La Trottola a Venezia
Sabato 22/11/2014 siamo partiti da Bologna alle 9 e 10 e siamo
arrivati a Venezia alle 10 e 30, la sera invece siamo partiti da
Venezia alle 18 e 30 e siamo arrivati a Bologna alle 20.
Eravamo in venticinque, tutti molto contenti perché la giornata era bella, luminosa e non fredda.
Abbiamo visitato S. Marco, la Torre dell’Orologio, il Palazzo Ducale,
il Ponte dei Sospiri, il Ponte di Rialto, altri ponti, e abbiamo fatto
un bel giro per negozi. Venezia mi è sembrata più bella che mai, forse
perché c’erano meno turisti in giro e più veneziani, o perché è stata
una gran bella giornata, ma ho pensato che vorrei tornarci presto e per
qualche giorno, per andare a visitare anche Murano, Burano e il Lido.
Bellissimi i negozi con le maschere e i vestiti di carnevale, le piazzette (campielli), le stradine (calli) e i tanti mercatini.
Tina Gualandi
A fianco alcune gondole, imbarcazioni di legno tipiche della laguna veneziana.
Nel quadro "Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo" di
Gentile Bellini, databile al 1500, le gondole appaiono più corte, più
larghe e meno slanciate di quelle attuali. Fu solo tra il 1600 e il
1700 che la fisionomia della barca si avvicinò a quella attuale.
A lato, foto di gruppo nella piazzetta davanti all'osteria dove la Trottola si è fermata per la pausa pranzo. Tra
i partecipanti si riconoscono alcuni membri e collaboratori della
redazione de "Il Faro", tra cui Darietto, Concetta, Moreno, Tina e
Cristina.
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Il diritto
Di solito
si dice
diritti e doveri...
Noi tutti
abbiamo raggiunto
un gran numero di diritti.
La società ci difende
dagli altri e da noi stessi!
Abbiamo il diritto
di vivere felici
una lunga vita?
L'amore deve condurci
lungo la via della vita,
dobbiamo approfittare
dei diritti guadagnati
per vivere felici.
Ovviamente ci sono dei doveri
da seguire per essere
così pienamente
accettati
come un tassello attivo
della società...
Loopa Sonivree
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Poesie di Daniela Mariotti
Senza titolo
È umana e serena questa
notte d'inverno con la sua
umidità tangibile, la stanza
è tiepida e fuori forse si
affollano i nostri sogni,
i nostri desideri più teneri.
Posso immaginare che appena
spengo la luce si accendano
ai margini della stanza,
dal contorno dei fogli si formi
una collana di sorrisi,
per il semplice fatto di esistere.
27 Dicembre 2014
Nevica forte
è freddo. Purtroppo
questa nevicata non
dà nessuna allegria.
penso ai senza tetto
e al loro duro cammino.
Anche il tempo è ingiusto.
In qualche riga
In qualche riga riporto
le mie parole più belle,
più lievi e le terrò con me,
come una luce infinita.
Dicembre 2014
Ancora una notte bianca
bianco è il cielo e piatto
è piatto e bianco come un coperchio
lontana la luce di una candela
a piene mani puoi spingere via
il bianco aspettando che il cielo
si trasformi in una cupola azzurra
e chiara, fino all'aurora.
I diritti perduti
II malati di malattie mentali
sono avvolti in manto di sofferenza
a cui è difficile dare un senso ed una fine.
La memoria ha cancellato
il diritto alla felicità
lasciando al suo posto una profonda ferita
o la realtà di un vuoto incolmabile.
Ci si aggira nel buio, quando
si è colpiti da un disagio mentale,
e l'atteggiamento di chi si avvicina ad uno di noi
al momento attuale è, al massimo, di tolleranza.
La speranza di un miglioramento,
secondo me, è rimasta una pietosa utopia.
È terribile sprofondare nel buio
quando si desidera tanto la luce.
Sogni senza tempo
Mi piace pensare di essere sul bordo del mare,
al tramonto, come una volta successe.
Ma quando? E mi piaceva tanto.
Qualche volta. Ma in che età?
E mai ero sola. Il sole delicato
passava dal blu al rosa
e mi perdevo nell'orizzonte,
parlando e bisbigliando
che l'amore non morisse mai,
come il cielo infinito e benevolo,
come una voce che era il sussurro del mare.
Oggi solo doveri, troppo spesso incombono.
E la mia vita è pesante e solitaria.
Trova tu argomenti più leggeri.
Pesante è il dovere di vivere e pensare,
mia vita, che ti chiamo sorella,
sorellina cara, ritrova la tua leggerezza!
Piccola speranza
Ecco che una piccola
speranza squarcia il buio
della sera, della notte.
E ritrovo immagini del domani
che portano all'umanità intera
giorni chiari. E via, la speranza
ci porta avanti verso le vie
del cielo che si trasforma
in sorriso ogni tanto: un sorriso
tutto nuovo, speciale perché
mai provato, così tenero.
Un abbraccio dell'alba
che sempre si rinnova.
Per tutti noi, poveri umani che
lanciamo verso il cielo
i nostri fiori immaginari.
Sotto le foglie secche
Sotto le foglie secche
dicembre porta in sé,
ancora, un mucchietto di parole.
A volte vagano nella mente
e che queste esprimano
amore per tutto il creato
e non basta mai, questo
amore infinito. Ma più spesso
le parole portano addosso una grande
immane tristezza, è indelebile,
il segno della solitudine. Ma dove
si nasconde l'Amore per l'umanità?
Eppure anch’io ne faccio parte.
Un altro anno: 2015
Sono caduta in meditazione,
mi piacerebbe che uscissero parole poetiche,
ma evidentemente non è la giornata giusta.
Voglio comunque lasciare un segno:
là, seduta in camera, cerco poesie,
là aspettano l'arrivo dell’inverno…
Non si può volare sempre con la mente.
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Poesie di Marcella Colaci
La felicità
Contare fino a dieci
gli amici
e sapere che nulla può
sradicarli:
uno sguardo
una parola
un sorriso
una risata.
Riuscire a scaldarmi
per ore ed ore
del loro pensiero
e con le dita intorno
ad una tazza di latte
sorseggiarli
scaldandomi dentro.
Fuori a volte tutto sa di nulla
allora li chiamo
e sento
la luna e il sole
pianeti in orbita
abbracciarmi.
Le battaglie
Guardami nel profondo e valuta i passi
che dalla culla cercano diritti umani.
Elaboro battaglie, gustare il bello
per poi gustare me stessa.
Se tutto fosse sul palmo di una mano
forse giungerei serena
e matura per amare.
(da “Poetica vitale a colori”)
Indignatos
Vorrei essere spettatrice
ma non posso, la precarietà attanaglia,
i figli gridano
libertà, giustizia, lavoro
e il futuro gela.
(da “Poetica vitale a colori”)
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Poesie di Paola Scatola
Era un mio diritto
Perché non mi hai più voluta
ed era un mio diritto
l’averti accanto, papà,
ed era un mio diritto
l’averti a fianco,
ma tu hai deciso così
d’allontanarti per sempre,
d’averti così solo e lontano.
Il diritto
Ti volevo per il diritto d'essere
amata. Ti volevo così per
essere accettata.
Poi così finì e fu in un bel dì.
Io e te
Se penso e ripenso a te
scongiuro me. Se penso e ripenso a te
mi socchiudo, racchiudo in te.
Se piango, ma
credo e ricredo in te,
poi cado e ricado su te
e coniugo il nome me
coll'essere te, un te visibilmente
crudo e ignudo, chiudo e
racchiudo.
Rispetto
Volevo rispetto
ma mi amava l’amore tuo,
mi volevi bene
ma volevo la corte tua:
così ho imparato ad amarti,
senza rispetto tu
e senza rispetto io.
Ma ti voglio così come sei
anche senza rispetto.
Quante volte ho pensato a te
solo il Signore, da lassù,
sa quante volte ho bisogno di te,
ancora, quaggiù,
anche senza rispetto.
Mare nuovo
Chiamami ancora,
oh! “Mio mare nuovo”
questo è un mio diritto
dopo che mi hai detto:
“Anch’io ti amo”!.
Sono mia
Se posso chiederti il tuo possesso
me ne frego di adesso.
Se posso guardarti negli occhi
m’accorgo dei miei pantaloni rotti.
Se posso tenerti con diritto
ti osservo morderti
come un cane maledetto.
Se posso, io no – ma tu amando me, sì –
mi chiami “Ci-ci”, ma congiungiti ancora così.
Se posso col diritto d’andare
d’andarmene via così
che sono mia.
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Poesie di Matteo Bosinelli
Rhona
"Sono preoccupata per te",
mi disse allora Rhona
- che, io so, non sbaglia,
ma spesso perdona -
"Il tempo non attende,
e sempre passa:
non devi sbagliare,
dunque, ora, la mossa.
Mi puoi capire, se vuoi:
Il tuo amore ti aspetta,
vai, e non giocare, se puoi,
una partita maledetta".
“… nella follia”
Dedico a te questa poesia,
dolce mia cara
che vorrei tutta mia.
Ti sento indifesa,
ma forte da dire,
se questa resa
devo a te dare.
La razionalità
è poi solo mia,
mi muovo con te, ora,
nella follia.
È un passo nuovo,
su un altro selciato,
in cui devo muovermi,
e sono turbato.
Non ci son Leggi,
a cui sia preparato,
non ci son schemi,
in cui muovermi agiato.
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Poesie di Luigi (Villa Olga)
Come una mela rossa
Ci sono giornate tonde e colorate
come una mela rossa.
Sembra quasi un peccato addentarla,
rovinare quella buccia così perfetta.
Si vorrebbe quasi guardarla da vicino,
entrarci dentro.
Passare la giornata così:
fuori la pioggia
e noi
dentro una mela!
Qualcuno ha rubato la notte
Qualcuno ha rubato la notte
e il piacere di addormentarsi.
Rimane l'insonnia
i pensieri si infilano tra le lenzuola,
le paure imbottiscono il cuscino.
La notte è nera,
nero il cuore,
nero il risveglio del disamore.
Succede
Succede di perdere le stelle
perderle in un bicchiere e in una lite
una notte di noia e disperazione.
Succede per caso di alzare gli occhi al cielo
e non vederle neppure.
Ma cercarle
forse
è già trovarle.
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Sciopero
Tra la folla la donna si china e scruta
la montagna è tersa, la terra solida.
Un gelo di parole fende gli umori e l’aria
sale dal pendio dove sono le spine
e inasprisce il silenzio.
Può succedere di tutto
e la saliva s’impasta nella gola.
La donna e le sue compagne
hanno incanalato rivoli d’acqua
e li guardano sbiancare i sassi.
Si vede ancora la montagna
che vibra dell’ultima luce
la distesa d’acqua alla quale
la donna esausta si bagna
mentre veglia la limpidezza del mare
dove si arrocca un grumo di pesci.
È dolce il calare del giorno
in cui tutto è successo
tutto è stato utile
e si distende viva sulla terra
una macchia rossa di speranza
che si abitua al tramonto.
Si misura il confronto
si pesano evento e risultati
fra sorrisi compiaciuti
si pesano le parole.
Ora bisogna che la luna si nasconda
alla montagna e la breve nottata finisca.
Ieri c’era un tramonto di vampa
la luce tremolante e tutto è successo.
La donna nel gruppo vorrebbe muoversi
e quando la prima luce si accende
con movimenti brevi raccoglie la veste
e va.
Ermanno Bitelli
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Mangiatoia
Accorsero dai monti e dalle valli,
dai borghi e le contrade, ad ogni via,
a piedi o in groppa ad asini o cavalli
per quel richiamo in cielo o per magia
portando sotto braccio o sulle spalle
doni a quel re, col cor pieno di gioia,
ch’è nato nel tepore d’una stalla
sopra la paglia d’una mangiatoia.
Nacque Gesù, morì per noi, risorse,
ma nella greppia sparì pur la paglia…
Riempiono le tasche e pur le borse
opportunisti, pezzi di canaglia,
ingordi, ladri e pensionati “d’oro,”
gaudenti spesati dello Stato,
senza pudore e senza alcun decoro
che vengono lodati e pur premiati.
Raccolgono le briciole di pane
lavoratori tutti e bassa classe,
ma ‘sti politicanti, porco cane,
li crocifiggon pure con le tasse.
R. G.
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La posta
Carissime Lucia e Concetta,
ho visto la nuova veste de "Il Faro"... è meraviglioso!!!! Complimenti a voi e a tutta la redazione... Avete
fatto davvero un grande lavoro. A tutti i complimenti che avrete
sicuramente ricevuto come redazione, si vanno ad unire i miei, modesti
ma molto sentiti.
Un abbraccio immenso.
Daniela Guidi
Gentile Redazione de "Il Faro",
mi chiamo M. L. e da dieci
anni sono paziente psichiatrico
del CSM Mazzacorati. Durante la
prima giovinezza sono stato colpito
da una repentina e violenta
forma di psicosi che mi ha portato
a chiedere aiuto all'istituzione psichiatrica
citata sopra; aiuto che
ho subito ricevuto, sia dal punto
di vista morale, che umanamente
affettivo e clinico-farmacologico.
Dopo anni di pazienti e generose
cure posso dire di sentirmi molto
meglio, pur se non mancano
momenti oggettivi e soggettivi di
scoramento e di tristezza. Dopo
questa breve presentazione, forse
un po' drammatica e prolissa,
ci tengo a testimoniarVi tutta la
mia ammirazione e solidarietà
per la Vostra rivista, interessante
e profonda. Particolarmente nobile
e lodevole il Vostro impegno
nel dare pubblica voce al dolore
spesso trascurato di chi soffre psichicamente,
nell'anima.
Con la presente vorrei sottoporre
alla Vostra cortese attenzione alcune
delle mie poesie. Sin dall'adolescenza,
la lettura dei grandi
poeti e l'esercizio privato della
scrittura poetica sono state la mia
umana salvezza, quelle forze che
mi hanno impedito di sprofondare
nella tenebra di un'amara
e fosca depressione o nelle spirali
dell'ideazione suicida. Non ho
purtroppo mai avuto occasione di
fare leggere o di pubblicare i miei
versi, ed essendo un testimone del
disagio psichico che sto vivendo
sulla mia pelle ed insieme un goffo
autore di poesie, vorrei umilmente
cogliere, qualora Voi lo gradiate,
l'occasione di poter vedere
pubblicati i miei versi proprio sulla
Vostra rivista. Per me sarebbe
un'occasione speciale ed unica di
dar voce al mio malessere tradotto
in poesia e di poter, almeno così
spero, toccare potenzialmente le
corde della sensibilità di qualche
lettore.
Esprimo a Voi anticipatamente
la mia sconfinata gratitudine per
l'attenzione che vorrete dedicarmi.
Con infinita stima,
lettera firmata
Gentile Redazione de " Il Faro",
Vi scrivo al fine di ringraziarvi
della Vostra decisione di
pubblicare le poesie che vi inviai
circa un mese fa. Perdonatemi per
il ritardo con cui Vi testimonio la
mia gratitudine. Sono tanti anni
che seguo la Vostra rivista e ribadisco
come sia di grande interesse.
Sempre aperta a tutti, umanamente,
e ricca di molteplici spunti
e capace di spaziare in tante aree
del sapere umano. Vi auguro di
tutto cuore una felicissima prosecuzione
del Vostro lavoro. Con
stima e rispetto.
M. L.
Cara redazione,
so che parlate di giustizia. Beh, io ho una storia da raccontarvi; una storia su cui sto anche facendo un libro.
Io da 12 anni ho una causa aperta contro un’istituzione chiamata
Ministero della Salute. Mi venne fatta nel 2002 diagnosi di
sieropositività. Non avevo avuto alcun comportamento a rischio. Ero
vergine e mai alcun contatto con droga o quant'altro. Mi era stato
asportato a Parigi nel 1986 il colon
e feci la bellezza di 31 trasfusioni di sangue...
In primo grado nel 2011 mi venne riconosciuto il risarcimento... in
appello annullatomi per via dell'incertezza del luogo dove contrassi la
malattia. Ora sono alla cassazione...
Ditemi voi... non so nemmeno dire tutto quello che sto ancora patendo.
Carlo Tracco
Ciao Lucia!
Approfitto per mandare a te e alla redazione un caro saluto.
Leggo sempre "Il Faro" con tanto affetto e ogni tanto sento la Tina che
mi aggiorna su qualche piccola novità. Come state? Io sono in
fibrillazione perché finalmente divento zia (a marzo più o meno). Ci
saranno molte cose da fare e io non vedo l'ora.
Tu come stai? Colgo l'occasione anche per nuovamente ringraziare per
l'esperienza che ho potuto fare lì con voi. Anche se ho scelto di
imboccare altre strade la vostra vicinanza me la porto dietro come un
grande regalo e mi piace ricordarlo ogni tanto perché a volte, il fatto
che non ci si veda, può lasciar pensare che anche i pensieri se ne
vadano da altre parti, ma non è così. Allora alla prossima uscita.
Un abbraccio a tutti
Costanza Tuor
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Bologna la “dotta”
Il nome della città di Bologna è solitamente accostato
ai due aggettivi “grassa” e “dotta”, il primo non
si riferisce ai puri aspetti culinari ma ha il significato
di “gaudente”, esprime dunque non solo l’aspetto
materiale del piacere del cibo, ma anche quello
spirituale del sapere, della conoscenza, legandosi
quindi anche all’altro aggettivo. Quando si parla di
Bologna oltre alla squisitezza della sua cucina, viene
subito in mente anche la sua antica Università, che
nel medioevo raccoglieva studenti italiani e stranieri
che, pur venendo per studiare, non rinunciavano,
data l’esuberanza giovanile, a nessun piacere della
vita, incrementando così con il loro soggiorno prolungato
in città, l’economia cittadina. Infatti nel giro
di pochi decenni confluirono in città prima centinaia,
poi migliaia di studenti, per lo più ricchi ed accompagnati
da domestici e servitori che rimanevano
per anni in città, usufruendo quindi di alloggi, cibo,
abbigliamento, libri e divertimento, cioè osterie, postriboli,
luoghi per gioco d’azzardo e quindi contribuendo
ad una cospicua circolazione di denaro.
Quando esattamente iniziò tutto ciò è difficile da stabilire, in quanto
far risalire ad una data precisa l’origine dell’Università a Bologna
non è possibile, anche se più storici ci hanno provato, perché questa,
allora chiamata Studio, non fu effettivamente istituita, ma nacque come
qualcosa di spontaneo e soprattutto di non programmato. Infatti non
esiste un vero e proprio atto istitutivo, anche se per motivi di ordine
politico, ad un certo punto si cominciò a far risalire la nascita dello
Studio ad un famoso privilegio del 423 dell’imperatore Teodosio, che in
età moderna si dimostrò palesemente falso.
In realtà a Bologna come in
altre parti d’Europa, dopo
le ondate di invasioni di vari
popoli in Europa, finito il periodo
di depressione, vi era
stata una forte ripresa economica
che necessitava di
nuovi ordinamenti legislativi,
più adatti alla nuova vita urbana
e commerciale, rispetto
a quelli dell’epoca medievale,
Bologna, per la sua posizione geografica era un
nodo commerciale importante, perché univa la Lombardia
con la Romagna e la Toscana con Venezia, in
più era il punto d’incontro tra la zona di tradizione
longobarda e quella bizantina e quindi era l’ambiente
più adatto a sentire per primo l’esigenza di un
“diritto universale”, un “diritto comune”, un “diritto
complesso” necessario per la nuova economia. E fu
proprio a Bologna che ad un certo punto qualcuno
si rese conto che questo tipo di diritto esisteva già,
non bisognava crearlo dal nulla, era stato soltanto
abbandonato: era il diritto romano contenuto e
sistemato nel Corpus iuris civilis che l’imperatore
Giustiniano aveva emanato all’inizio del VI secolo ed
aveva poi esteso anche all’Italia nel 554, ma che poi
era stato tralasciato per seguire i diritti barbarici e
le consuetudini feudali dei popoli invasori.
Certo il diritto di Giustiniano ben si era adattato
all’epoca romana, ma non poteva funzionare per
l’XI secolo: occorreva quindi studiarlo, rivederlo ed
adattarlo alle nuove esigenze cittadine. Questo fu
l’impegno dei primi “professori universitari”, chiamati
"glossatori", perché glossavano, cioè commentavano
parola per parola, norma per norma, i testi
dell’antico diritto romano. Ovviamente, studiando
così approfonditamente questi testi, i glossatori acquisivano
sempre più conoscenze giuridiche che cominciarono
a trasmettere ai giovani: nacquero così
a Bologna alla fine dell’XI secolo, le prime scuole di
diritto, formate da alcuni maestri coi rispettivi scolari.
La nascita dello Studio fu favorita a Bologna, e nei
secoli successivi anche in altri centri europei, dalla
nascita dei Comuni e dalla lotta per le investiture: fu
infatti in questo clima che qualcuno si mise a cercare,
al di fuori dei testi ecclesiastici, cioè l’Antico
e il Nuovo Testamento, altro materiale che potesse
servire a supporto delle tesi nel contrasto fra Papato
ed Impero. Fra i sostenitori della supremazia
imperiale qualcuno riconobbe nel Corpus iuris giustinianeo
un valido strumento per sostenere le tesi
filoimperiali. Questo qualcuno forse fu Pepone, sulla
cui figura ancora ci sono molte ombre, e che alcuni
identificano con un vescovo scismatico bolognese
vissuto intorno agli anni Ottanta dell’XI secolo o
con Pietro Crasso, in tutti i casi sicuramente autore
del libello filoimperiale noto con il nome di Defensio
Heinrici IV regis. Pepone cominciò a tenere a Bologna,
in maniera del tutto autonoma, una scuola di
diritto; la sua esperienza fu poi ripresa dopo circa
venti anni da Irnerio, maestro d’arti bolognese, che
cominciando a studiare in modo del tutto occasionale
alcuni testi giuridici si appassionò a tal punto
del diritto da diventarne un esperto e da iniziare a
far lezione: fu per questo in seguito ricordato come
lucerna iuris e come vero iniziatore dello Studio bolognese.
Tra i suoi allievi, che proseguirono il suo
insegnamento, vi furono quattro importanti dottori:
Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo di porta Ravennate.
Mentre si sviluppava lo studio del diritto civile basandosi
sul Corpus iuris di Giustiniano, sempre a
Bologna, un monaco camaldolese di origine toscana,
Graziano, cominciò a raccogliere tra il 1140 e il
1142 i canoni e i decreti ecclesiastici sparsi in vari
//tema del prossimo numero:
libri in un “corpus” organico di diritto canonico, conosciuto
con il nome di Decretum.
Riassumendo: l’inizio dell’insegnamento universitario
a Bologna, in forma del tutto autonoma e privata,
si può collocare nel trentennio a cavallo tra l’XI e il
XII secolo; nei primi decenni si limitò allo studio del
diritto civile e canonico, poi tra la fine del Duecento
e gli inizi del Trecento inizio à ad occuparsi anche
delle Arti, cioè della medicina, della fisica, del notariato,
della filosofia e delle arti del Trivio (grammatica,
retorica, dialettica) e del Quadrivio (geometria,
aritmetica,astronomia,musica).
Nel 1888, durante gli eventi dell’Esposizione Emiliana
(il grande EXPO di quell’epoca), per celebrare
anche Bologna il centenario dell’Università, come
accadeva in altre città, che pure non avevano centri
di studio così antichi, si volle stabilire convenzionalmente
la data del 1088 come anno di nascita
dell’Università di Bologna, e così si fece anche nel
1988, celebrando il Nono Centenario. Anche se in
realtà, come disse Giosuè Carducci inaugurando
quei primi, solenni festeggiamenti, “l’Università di
Bologna nacque libera, crebbe e grandeggiò privata…”,
in quale anno di preciso, non è poi così importante.
Diana Tura
Responsabile della Sala Studio dell'Archivio di Stato di Bologna.
Pierpaolo delle Masegne: studenti raffigurati sull'arca di Giovanni da Legnano, 1383.
Le tombe dei glossatori Accursio, Odofredo, Rolandino de'Romanzi, presso l'abside di S. Francesco.
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