Piergiorgio Fanti

Trento Longaretti: “Vecchio con violino e bambina”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Stefy

Nessuno si salva da solo

Luca G.

Etico ed emico

L. L.

Etico ed empatico

Antonio Marco Serra

La bestia orrenda

MarshaL Monaco BRITFOR

La solidarietà umana

Paolo Majerù

L’elemosina

Luigi Zen pass

Caldure

Concy

Il bene viene dal bene

Lu Zen pass

Pensiero Zen

Luca Pasini

Confucio diceva

Tina Gualandi

Solidarietà e aiuto

Lu Zen pass

I giorni della civetta… e altri rapaci

Costanza Tuor

Danza di onde sorelle… perché rido sempre a crepapelle

Lucia

Aiuto!!!

Giulia Berra

A una manciata di vento da qui

Sertralino

La giusta distanza

Francesca

Accaparlante

Edoardo Bellanca

Solidarietà

Darietto

Dazzenger

Mariangela

Solidarietà e aiuto senza frontiere

Darietto

Liquidarietà

AA.VV.

Lo sfogatoio

***

La posta

Matteo Bosinelli

Un regalo speciale

INSERTO: VITA SOLIDALE
      ***     Auto Mutuo Aiuto: una condivisione di esperienze
      Daniela Demaria     Il progetto di Rete
      ***     Narrazioni e testimonianze dei gruppi A.M.A.
      Edgarda Degli Esposti     Solidarietà: un senso di responsabilità su larga scala

Diana Tura

L’assistenza a Bologna

IL TIMONE
      L’Aurora dalla sua panchina     Il piacere di lasciare una pizza sospesa
      ***     Una parola terremotata

Cristicchi

La recensione: “La città della gioia”

DEDICATO AD ARIANNA Lo spazio della poesia

 

      Daniela Mariotti     Vattene angoscia
      Patrizia Bianchi     Non è fuggito il tempo
      Daniela Mariotti     E tutto va
      Daniela Mariotti     Così il tempo grande
      Daniela Mariotti     Guardo il tramonto
      Piergiorgio Fanti     Mia
      Marcella Colaci     Prendo spunto da lei
      Marcella Colaci     Sarò buona
      Daniela Mariotti     Estetica
      Eghos Giz     Uno che non vale soltanto per due
      Paola Scatola     Tutto qui
      Daniela Mariotti     Con il cielo
      Paola Scatola     E basta
      Daniela Mariotti     Dei miei figli
      Marcella Colaci     Ho bisogno del mondo
      Matteo Bosinelli     Il tintinnio dell’amore
      Paola Scatola     Aiutami amore tu

Giovanni Romagnani

La notte di note

Mario Mazzocchi

Un tavolo di lavoro sugli inserimenti lavorativi (I.P.S.)

DAI GRUPPI DI SCRITTURA
      Antonio Metta     Estetica in poesia
      RTP Casa Mantovani     Il mondo non potrà mai farne a meno
      C.D. di Casalecchio     Solidarietà e salute
      UmanaMente     E gli anziani? Che dire…
      Gruppo La Vela     Dal diario di bordo della Vela
I RACCONTI
      Stefy     Insieme nel bene o nel male
      Opola Resonive     Sola al sole
      Onirilìk     Missione speciale
      Maria Chiara Reitani     Il futuro di Luisa

***

Artisti Irregolari Bolognesi: Fly

                                                                                                                           
TRENTO LONGARETTI: “VECCHIO CON VIOLINO E BAMBINA”

   Piergiorgio Fanti


I suoi quadri, di un figurativo moderno, sconfinano talvolta in una sorta di realismo magico. La pittura di Longaretti ci parla con autorevolezza del mondo degli emarginati, pur riuscendo ad usare delicati passaggi cromatici mai sforzatamente drammatici: musicisti di strada, spesso accompagnati da bambini che ne allietano la vita.
Le opere di Longaretti sono permeate di un sensibile lirismo e a volte ricordano i dipinti di Chagall, ma a me sembrano avere qualcosa in comune anche con i ritratti di Cézanne.
La ‘pittura sociale’ in Lombardia diede esempi luminosi nell’Ottocento e nel primo Novecento. Ad esempio ricordiamo Angelo Morbelli, con i suoi vecchioni del Pio Albergo Trivulzio; Carlo Fornara, con quadri come L’aquilone, dove una vecchia reca sulla schiena un carico di legna di incredibili dimensioni, o Attilio Pusterla, con il suo Alle cucine economiche di Porta Nuova.
L’arte sociale in Lombardia ebbe importanza anche nei tempi antichi. Da ricordare nel Seicento Giacomo Ceruti, detto ‘il Pitocchetto’ perché ritraeva, appunto, dei ‘pitocchi’, che nelle sue opere acquistavano grande dignità.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


I gesti di solidarietà e aiuto sono per me ammirevoli, tuttavia, come dice un detto, devono essere fatti senza l’aspettativa di riconoscenza o gratitudine. L’origine dell’impegno parte dal cuore e dalla forte convinzione di fare la cosa giusta, senza la pretesa o speranza di qualsiasi forma di ricompensa sociale o economica. Può capitare poi di offrire solidarietà o aiuto a persone in difficoltà che non vogliono essere aiutate, o si aspettano cose diverse da quello che gli offriamo. Di forme di solidarietà ne esistono molte e possono essere raggruppate in due generi: economiche e sociali. Quelle economiche sono finalizzate a sostenere disoccupati, pensionati, sotto-stipendiati e poveri di ogni forma. Quelle sociali sono legate alle calamità, alle malattie, all’immigrazione o alla disabilità.
‘Aiuto’ è un termine molto simile a ‘solidarietà’, entrambi consistono nel dare e ricevere.
Sono tanti i sinonimi nella lingua italiana: assistenza, appoggio, sostegno, soccorso, collaborazione, cooperazione, ausilio, protezione, rinforzo e anche beneficenza, carità. Ognuno di questi termini richiederebbe un giusto e proficuo approfondimento che, per motivi di spazio, lascio al lettore.
Per la mia esperienza personale io ho avuto bisogno sia di solidarietà che di aiuto; ma ho anche dato so¬lidarietà e aiuto.
Se vado a rivedere a ritroso la mia psicopatologia mi accorgo di avere ricevuto molto dal servizio sanitario. Innanzi tutto per come sono stato soccorso all’inizio della malattia, quando ero terrorizzato da quello che mi stava accadendo, in modo particolare dal fatto che non riuscivo più ad essere padrone delle mie emozioni. Poi sono arrivati: il giusto sostegno nel periodo in cui la malattia si cronicizzava, il rinforzo con dialoghi e farmacoterapia, un’assistenza economica e, per finire, un’attività sportiva con I Diavoli Rossi che mi ha permesso di respirare e solidarizzare condividendo emozioni con chi soffriva più o meno come me.
Premesso che non credo nell’elemosina né nella carità, sono convinto che, come affermava il mio insegnante di psicologia, è importante, invece, dare aiuto all’interno di associazioni, o solidarietà per mezzo di istituzioni pubbliche o private. Questo perché l’intervento è più efficace, trasparente, visibile. Se vado a rimembrare, la solidarietà e/o l’aiuto che ho dato è ben poca cosa rispetto a quello che ho ricevuto: il bilancio è a netto favore di quello che ho ricevuto. Spesso mi è capitato di dare aiuto per farmi sentire bene con me stesso, per sentirmi buono, lenire il doloroso senso di colpa verso gli altri, farmi sentire più bravo anche professionalmente.
Grazie all’aiuto che Il Faro mi dà e che mi ha dato, conosco sempre meglio me stesso, la mia personalità, i miei limiti, le mie possibilità e come realizzarle.
Scrivete e leggete Il Faro: riceverete tanto e darete tanto aiuto e solidarietà, perché la conoscenza è vita.

NESSUNO SI SALVA DA SOLO

   Stefy


uando si parla di solidarietà e aiuto mi salta spontaneamente alla mente il titolo del libro di Margaret Mazzantini Nessuno si salva da solo, perché queste due cose ci vengono date dalle persone che ci circondano. La solidarietà e l'aiuto non implicano per forza la presenza di beni materiali, ma anche solo la comprensione e la vicinanza spirituale verso chi in quel momento sta attraversando un ‘brutto periodo’. Chi dà solidarietà e aiuto mostra sempre la sua empatia verso chi lo circonda, la sua capacità di ‘mettersi nei panni’ di chi ha dei problemi e di riflettere su cosa piacerebbe a lui se avesse dei problemi. La solidarietà e l'aiuto sono due cose implicite nel nostro essere umano, perché siamo esseri socievoli e comunicativi. Non sto parlando di problemi a livello mondiale, ma di problemi a livello personale. Già solo lo scambio di qualche parola di comprensione, per me, è da considerarsi un gesto di solidarietà e l'aiuto sta anche nei piccoli gesti. Ma spesso e volentieri le persone approfittano della tua disponibilità senza comprenderne il valore. La solidarietà e l'aiuto vengono elargiti senza parsimonia da chi ha un animo ricco e profondo, capace di comprendere quanto può stare male chi ha dei problemi, e purtroppo a volte quest'ultimo accetta senza porsi tanti perché. Ma in questo mondo è difficile trovare chi fa gesti di solidarietà e aiuto. Forse perché ormai si trovano solo dei Sancho Panza e non più dei Don Chisciotte. Ma il motivo per cui viene data la solidarietà e l'aiuto è una cosa difficile da comprendere, bisogna andare a scavare nella profondità dell'essere umano. C’è chi, con superficialità, lo fa perché deve dimostrare di essere una persona ‘buona’ agli occhi degli altri e chi, senza interessarsi del parere altrui, lo fa per sentirsi appagato con sé stesso, ma comunque c'è sempre un perché che va ad arricchire le nostre coscienze per poi riversarsi alla fine nel nostro essere, il nostro io.
La solidarietà e l'aiuto ci aiutano a soffrire meno nel momento del bisogno, attaccandoci a parole o gesti che ci vengono da chi ci è vicino e ci fanno sentire meno fragili. La solidarietà e l'aiuto non hanno secondi fini e ci si aspetta che ci arrivino senza chiederli e senza dare nulla in cambio. Ma poi, conviene dare aiuto, in una società come questa, incapace di solidarietà anche nei momenti e nei luoghi in cui sarebbe necessaria, ospedali, centri sociali eccetera? Per dare solidarietà e aiuto bisogna avere ideali in cui si crede fermamente e avere la forza interiore di sostenere moralmente chi ha bisogno, ma si avrà poi la riconoscenza? È per questo che è difficile trovare chi è disposto a dare solidarietà e aiuto. Perché molti temono che sia solo del tempo sprecato. Dare solidarietà e aiuto significa anche far sentire la propria presenza emotiva, ma spesso si ha paura di mostrare le proprie emozioni e di apparire fragili e la difficoltà di cercare di capire gli altri, a volte, è più grande dell'ideale stesso per cui si vorrebbe dare solidarietà. Così si rinuncia a darla. Si arriva a scordarsi che nessuno si salva da solo. Ma che vuoi! Siamo umani, troppo umani e ci facciamo trasportare nella vita dai sentimenti.
La solidarietà e l'aiuto sono due sentimenti che interagiscono tra loro e mostrano la capacità di socializzare con il prossimo. In particolar modo la solidarietà, che è basata sul fattore emozionale, mostra l'empatia delle persone. L'aiuto è un fattore che spesso è materiale, che viene di conseguenza con la solidarietà. Con la solidarietà si tenta di comprendere l'animo altrui, i suoi tumulti, le sue motivazioni e anche i suoi lati oscuri per tentare di rassicurarlo, facendogli sentire che non è solo, ma che può fare affidamento su di te per un aiuto. La solidarietà arriva fino ad un certo punto, perché nessuno è capace di comprendere totalmente ciò che prova un altro, ma è essenziale per noi esseri umani, per far sentire la propria presenza all'altro, non solo fisica, ma emotiva e psicologica. Le persone che socializzano poco, non per questo sono incapaci di dare solidarietà e aiuto agli altri. Hanno solo un modo di socializzare diverso dai soliti stereotipi. Magari hanno un mondo nel cuore e non riescono ad esprimerlo con le parole, e così i loro gesti di solidarietà e aiuto risaltano, perché mettono in mostra il senso di umanità che queste persone di solito tengono nascosto tra le pieghe del loro animo. Possono essere dei gesti piccoli e semplici, ma per chi li sa comprendere appaiono immensi e gli resteranno segnati nel cuore. La solidarietà non sempre è esplicita, ma a volte bisogna saperla percepire attraverso le emozioni che ti vengono trasmesse. Quella è la solidarietà che ti tocca il cuore con le emozioni, perché è dal cuore che nascono. E quando riesci a farle arrivare al cuore dell'altra persona, vuol dire che sei riuscito veramente a dare solidarietà e aiuto!
Ma poi tutta questa solidarietà e aiuto completerà il nostro essere? Io penso di no, perché la nostra vita è fatta di una ricerca interiore verso qualcosa che ci completi, cosa che non riusciremo mai a raggiungere...

ETICO ED EMICO

   Luca G.


E mico?”, chiese Luca. “Sì, emico”, fu la risposta di Leopoldo.
“Che cosa vuol dire 'emico'? È una parola che non ho mai sentito - disse Luca - siamo sicuri che esista?”.
I due cugini si trovavano nella casa di uno zio comune. Luca era andato per le vacanze natalizie a trovare i suoi parenti, i quali abitavano in un piccolo complesso residenziale composto da un appartamento per ogni fratello e sorella del padre. Poco prima di partire, Luca aveva sentito dire da un collega di lavoro la parola 'emico'. “Siamo sicuri che esista?”, ripeté al cugino. “Certo che esiste”, disse Leopoldo, che a differenza di Luca aveva deciso di andare all’università dopo il liceo. E Luca, dopo essere entrato nella stanza del cugino, aveva letto la parola su uno dei suoi manuali aperti. “A me sembra una cosa tanto strana”... “Che vuoi dire?”... “Vedi, Leopoldo, io ho sempre sentito dire 'etica' ed 'estetica', o meglio ho visto accostato al termine 'etica' quello di 'estetica'. Ma non so proprio cosa significhi 'emico'... L’ho sentito dire da un collega di lavoro - spiegò Luca - e l’ho anche trovato qui, guarda”. Così dicendo, indicò il punto dove aveva trovato la parola e domandò: “Tu sai che cosa significa 'emico', Leopoldo? Se non riesci a darmi una definizione, forse potresti fare un esempio pratico…”, aggiunse come incoraggiamento, desideroso di capire con facilità. Leopoldo stette un attimo a pensare, poi cominciò: “Tu alle elementari sei stato educato con una formazione filocattolica, cioè, hai frequentato il catechismo, ti hanno parlato dei Vangeli, dei personaggi più noti della Bibbia, dei dieci comandamenti, giusto?”... “Sì, certo! - rispose Luca - Ho anche fatto sempre l’ora di religione, anche alle medie, anzi, anche alle superiori, dove era sempre un’ora morta, durante la quale svagarsi o ripassare le altre materie. Anche tu hai fatto religione al liceo ed era sempre un’ora morta, no?”... “Sì - ammise Leopoldo - Però ti hanno dato una formazione cattolica”…“Dove vuoi arrivare?”, chiese Luca. “Immagina di incontrare per la prima volta una persona che ha una cultura, una visione del mondo completamente diversa dalla tua, che pratica una religione che non è la tua. Un… musulmano! Ecco - disse Leopoldo - immagina di incontrare per la prima volta un musulmano in vita tua”. “Veramente ne ho già incontrati…”, fece Luca. “Immagina di non averne mai visto uno! - lo interruppe il cugino - Ascoltami: tu incontri per la prima volta in vita tua un musulmano e ti metti a osservarlo per capire come vive. Vedrai una persona che recita versi del Corano invece che della Bibbia, in una lingua che non conosci”... “Sì”, disse Luca. “Lo vedrai lavarsi faccia, mani e piedi, e pregare su un tappeto, inginocchiato, in direzione de La Mecca. Giusto?”… “Certo! - ammise Luca - Prosegui”… “Se lo osservi per qualche giorno, vedrai che non mangia carne di maiale e che ci sono dei periodi in cui digiuna, come il Ramadan”… “Certo”, ripeté Luca. “Ebbene, immagina di averlo visto da fuori, dal tuo punto di vista. Un punto di vista che ti sei formato con le tue esperienze, gli studi che hai fatto, la tua cultura. Da un punto di vista 'etico', insomma. Dimmi - aggiunse Leopoldo - tu che mangi il maiale, preghi Dio, ti fai il segno della croce e fai tutte le cose che fanno i cristiani, troveresti strane alcune delle cose che fanno i musulmani?”. Luca stette un po’ a pensare, perché aveva paura di fare la figura del bislacco o del prevenuto, o peggio del razzista. Alla fine disse: “Ognuno ha le sue religioni e il suo modo di vivere”… “Certo, ma c’è qualcosa che ti colpisce di quel che fanno i musulmani?”...
“L’inginocchiarsi”, fu la prima cosa che venne in mente a Luca. “Ammetto che pure io mi sono inginocchiato, in chiesa, ma non so se riuscirei a stare in ginocchio per un tempo più lungo, per pregare in casa mia. Lo troverei scomodo. E inutile”, concluse. “C’è qualcos’altro?”, chiese Leopoldo. “Che male c’è a mangiare maiale? - disse Luca - So che in India la carne di vacca non viene mangiata, perché là le mucche le venerano, le considerano sacre, ma il maiale…”. “Ecco, vedi? - rispose Leopoldo facendo con le braccia un gesto di soddisfazione - Tu in questo momento stai osservando e giudicando un musulmano da un punto di vista ‘etico’, un punto di vista diverso da quello della persona, della cultura che stai osservando”. “Ed ‘emico’, invece - chiese Luca - cosa vuol dire?”... “Immagina ora di metterti nei panni del musulmano, di apprendere il perché dei suoi rituali, dei suoi gesti - disse Leopoldo - Immagina di sperimentare per qualche tempo l’islamismo, di fare come fa lui. In questo modo capirai il perché del modo di fare dei musulmani, capirai le loro credenze, i loro valori, i loro principi… Ebbene, questo qui sai cos’è?” ... “Cos’è?”, chiese Luca con un po’ di suspense. “È osservare qualcuno dal punto di vista ‘emico’. E lo stesso puoi fare se ti immedesimi in un induista, o in un buddista, e se comprendi la filosofia, il modo di vivere di chi pratica religioni diverse dalla tua”… “Però un briciolo di nozione generale sulle altre culture ci vuole! - replicò Luca - Almeno un punto di partenza...”. “Certo, a scuola ti parlano di altre culture, altri paesi, altre religioni, ma lo fanno seguendo un punto di vista 'etico', cioè esterno dalla cosa che ti stanno spiegando. Per capire perfettamente un’altra religione, devi immedesimarti in essa, vederla dal di dentro”… “Insomma, se ho capito bene, per vedere la Siria dal punto di vista 'emico' devo capire i Siriani, devo sentire sulla pelle la loro cultura e religione, anzi, devo sentire l’aria stessa della Siria. So che è un po’ difficile di questi tempi, vista la situazione politica - ammise Luca - però se io percepisco l’atmosfera tipica di una città musulmana, o araba, ho maggiori probabilità di vederla da un punto di vista 'emico', perché ci sono di persona e capisco com’è il modo di viverci. In fondo le città sono impregnate dell’anima di chi le ha costruite e abitate e di chi ci è passato”. Ormai la visita si era cementata in una conversazione interessante e dopo aver soddisfatto la propria curiosità sul significato della parola 'emico', fino allora parsagli inesistente, Luca era ormai diventato più un fiume di parole in piena che un semplice ascoltatore. “Le case di Roma non possono essere uguali a quelle di Damasco, giusto? Anche dal punto di vista estetico, non ti pare?”... “Dici benissimo, Luca - rispose Leopoldo - le popolazioni hanno un loro punto di vista etico, emico e anche estetico. In fondo l’estetica altro non è che l’esperienza che ogni popolo fa quando trova bello, o non bello, qualcosa. Tu sai che le donne bionde non sono belle per tutte le persone, giusto?”... “Certamente, ci sono persone che preferiscono di gran lunga quelle coi capelli castani”, disse Luca.
“Questo non vale solo per le singole persone, ma anche per i popoli! - disse Leopoldo - Ciascun popolo ha un’idea tutta sua del bello. Prendi i paesi africani: come possono i loro canoni estetici essere uguali ai nostri?”... “Hai ragione. Inoltre penso che l’idea di estetica, l’idea di bellezza cambia non solo a seconda del luogo, ma anche a seconda dell’epoca. Nell’Europa del ’600, per esempio, era già tanto essere sani, non avere malattie, e quindi un punto di vista estetico accettabile allora era che le donne avessero un viso senza brufoli e i denti puliti. Poco importava se erano o meno in carne”… “Giusto, la fissazione della magrezza è arrivata molto tempo dopo - aggiunse Leopoldo - non dappertutto i parametri che dicono com’è una bella donna, o com’è una bella casa, sono gli stessi”... “Ti immagini i tanti artifici che le donne fanno per seguire i canoni estetici odierni? Certe donne arrivano addirittura a rovinarsi! - disse Luca - Se penso al fatto che nell’Ottocento l’anoressia e la bulimia erano praticamente inesistenti…”. “Va bene, cari filosofi” disse una voce vivace e potente. Luca si voltò e vide sua zia che era entrata nella stanza. “Se avete finito, possiamo anche mangiare: Luca, ti fermi a cena?”... “Sì, volentieri, se i miei sono d’accordo, o non stanno già preparando la tavola”, rispose il ragazzo, quindi salutò Leopoldo e si diresse dai suoi genitori per informarli dell’invito.

ETICO ED EMPATICO

   L. L.


N el suo bel racconto, che a passo lento e pensieroso ci fa riflettere su come i nostri punti di vista siano spesso molto miopi, Luca G. utilizza uno strano termine, ‘emico’, che – ci informa - si contrappone a ‘etico’, in quanto corrisponde a un differente punto di vista: in parole povere, si usa per dire che qualcosa si osserva ‘dall’interno’, invece che ‘dall’esterno’…
Questa terminologia tecnica, nata nell’ambito della sociolinguistica anglosassone, in fin dei conti, però, non rende giustizia alla parola ‘etico’. Insomma: se ‘emico’ si può considerare un curioso neologismo, dal tono confidenziale come certi nomignoli originati dal nome dimezzato (tipo Pina per Giuseppina), un vocabolo come ‘etico’ ha tutt’altra dignità, esisteva già nell’antica Grecia e ci collega al mondo dei filosofi. Lungi dall’essere semplicemente il contrario di ‘emico’, ‘etico’ ha un significato talmente ampio che si fa fatica a definirlo. Questo perché nella sua lunga storia il termine ha vissuto un’interessantissima evoluzione concettuale, che va di pari passo con la riflessione che l’umanità ha fatto e continua a fare su sé stessa. Entrare nel campo dell’etica è una grande avventura, e strada facendo potremmo anche sbilanciarci a parlare di morale universale, di giustizia umanitaria… Questa considerazione mi ha dato l’idea di aggiungere al percorso logico di Luca G. un altro piccolo salto: dall’etica, che pur con tutte le buone intenzioni ci dà comunque una visione verticale delle cose, all’empatia, che ci sposta sul piano orizzontale, in sostanza al ‘metterci nei panni’ dell’altro. Magari lontano, magari diverso, magari ostile, l’altro è comunque un nostro simile, nostro fratello… Penso che solo dalla capacità di porsi in modo empatico possa nascere quella ‘solidarietà’ che consiste nel sentirsi in solido con tutta l’umanità. Essere ‘umani’, con gli esseri umani, insomma.
Vi è mai capitato di sentir dire che i profughi di guerra che premono alle nostre porte devono starsene “a casa loro”? Ecco, questa è “casa loro”.


LA BESTIA ORRENDA

   Antonio Marco Serra


I n questo periodo apprendiamo spesso, dai mezzi di comunicazione di massa, della morte in mare, nel canale di Sicilia, di decine o centinaia di profughi che cercavano di raggiungere le nostre coste su barconi malandati. Naturalmente c’è qualcuno che reagisce con frasi ciniche: “Se la sono cercata!”, “Sessanta di meno!”, ma la maggior parte delle persone, almeno tra coloro che frequento, si addolora di queste morti e spesso ne attribuisce la causa alla scarsa solidarietà e allo scarso altruismo degli Europei. Anch’io, almeno per un attimo, non posso fare a meno di dolermene, ma poi mi domando che senso abbia tutto ciò. Ogni secondo muoiono nel mondo (vuoi per morte naturale, vuoi per morte violenta) due esseri umani, ogni tre giorni muoiono tante persone quante sono quelle che abitano a Bologna, ogni anno ne muoiono tante quante ne conta l’intera Italia. Se davvero dovessimo, e potessimo, dolerci delle morti di tutti questi esseri sconosciuti, la nostra vita sarebbe solo una perpetua sofferenza. Ho l’impressione che il dolore che proviamo nell’apprendere che delle persone sono annegate nel canale di Sicilia non sia poi molto diverso da quello che proviamo leggendo in un romanzo la tragica morte dell’eroe. Mi ricordo che quando ero piccolo, per quanti sforzi facessi, non ero capace di trattenere qualche lacrimuccia quando leggevo la poesia di Giovanni Pascoli La cavalla storna, che parla dell’assassinio del padre del poeta, quando quest’ultimo era bambino. Era diventato una specie di gioco: “Voglio leggerla ancora una volta, ma questa volta non devo commuovermi”, ma poi, regolarmente, non ci riuscivo. Secondo me si tratta di un dolore fittizio, un dolore su cui non è possibile fondare un’autentica solidarietà. Tutt’al più potrebbe indicare, ma non sono nemmeno sicuro di questo, una predisposizione all’empatia, che potrebbe poi manifestarsi nei casi concreti.
Per una persona della mia età è curioso notare come nell’arco della mia vita certe parole che si legano all’aiuto e alla solidarietà, abbiano cambiato la loro valenza: ‘elemosina’ è diventata una parolaccia, ‘compatire’ qualcuno è divenuta la maggior offesa che si possa arrecargli, eppure, almeno nel suo significato etimologico di ‘soffrire insieme’, secondo me la compassione è la base indispensabile per qualunque agire autenticamente solidale. Se mi è preclusa la possibilità di percepire emozionalmente le sofferenze (ma naturalmente anche le gioie) di chi mi sta dinnanzi, mi è anche di fatto preclusa la possibilità di recargli un aiuto concreto e fattivo, perché solo in questo modo riesco a percepire ciò di cui ha realmente bisogno, che molte volte differisce da ciò di cui questa persona dice, e talvolta persino crede, di aver bisogno. Io credo che una reale solidarietà e un reale aiuto siano possibili solo se si crea un senso di empatia profonda tra chi dà e chi riceve, un’empatia che ha un contenuto sia emozionale che cognitivo. E in questa situazione diviene oggettivamente difficile stabilire chi più sta dando e chi più sta ricevendo e, in fondo, forse non ha neppure molta importanza stabilirlo.
A volte, citando un detto attribuito (credo erroneamente) a Confucio, si sostiene che è sbagliato dare pesci a chi ha fame, bisogna invece insegnargli a pescare (o anziché dargli una ciotola di riso, occorre insegnargli a coltivarlo). Ma ci si dimentica che a volte quel qualcuno ha fame proprio perché le sue condizioni gli impediscono di pescare o di coltivare, e questo è particolarmente vero per tanti che si trovano in situazioni di disagio psichico. Lasciate che ve lo dica qualcuno che lo ha sperimentato di persona. Pochi di voi sanno, e pochissimi, forse, lo crederanno, che io, tanti anni fa, per parecchi mesi ho mendicato per le vie di Bologna, dormendo in una vecchia auto (ed era inverno). Una volta, in piazza Cavour, un tale che aveva appena acquistato un cappotto, mi ha lasciato il suo vecchio cappotto in regalo (e io, che non sono fisionomista, mi ricordo ancora il suo viso), un’altra volta, mentre mi ero appisolato in un angolo di via Marconi, vicino a un supermercato, al mio risveglio mi sono trovato accanto due scatole di biscotti, evidentemente appena acquistate da qualcuno che ha pensato che io ne avessi più bisogno di lui (e io, che ho scarsa memoria e poca passione per i cibi, mi ricordo ancora il loro sapore). Sono solo due esempi tra i tanti, della solidarietà che mi è stata manifestata in quei frangenti. Lasciate che vi garantisca che ciò era proprio quello di cui avevo bisogno: non solo l’avere di che mangiare e di che coprirmi, ma soprattutto il sapere che qualcuno si preoccupava che io avessi di che mangiare e di che coprirmi. In quei momenti non avrei affatto avuto bisogno di qualcuno che con aria saccente si fosse sforzato di spiegarmi come pescare, perché in quel momento non sarei stato in condizione di impararlo, ma avrei avuto bisogno di qualcuno che avesse condiviso con me, fraternamente, ciò che aveva pescato, come è effettivamente accaduto. A volte ci si dimentica che la vita è fatta anche di punti di biforcazione (forse assai più spesso di quanto si creda) a partire dai quali un piccolo fatto apparentemente insignificante per chi guarda dall’esterno, può far rotolare la nostra vita da un lato per un dolce declivio, dall’altro per un pauroso burrone. E in quei momenti non ci è di alcuna utilità apprendere delle nozioni (il pescare) che potrebbero esserci utili per il resto della nostra vita, perché se la risposta che riceviamo non è quella appropriata, quella di cui in quel momento abbiamo bisogno, il resto della nostra vita potrebbe non esserci proprio. Quanti conoscenti che soffrivano come me di qualche disagio psichico ho visto terminare la propria vita con un suicidio, davvero troppi! Scriveva Simone Weil nei suoi Quaderni: “Sapere che quell’uomo, che ha fame e freddo, esiste veramente quanto me, e ha veramente fame e freddo – questo è sufficiente, il resto viene da sé”.
Ma di quale carità sto parlando? A volte si evidenzia la differenza che intercorre tra ‘dono’ e ‘carità’ (o ‘elemosina’ che dir si voglia), facendo notare che il primo fa parte di uno scambio sociale e perciò stesso implica reciprocità, mentre la seconda è fatta a titolo assolutamente gratuito. Ma a ben vedere, almeno per chi si muove nell’ambito di qualche fede religiosa, ciò non è sempre del tutto vero. Proprio perché chi riceve la carità è impossibilitato a restituire il favore, può essere la divinità stessa a farsi garante della restituzione, con qualche sorta di premio futuro. Non era Gesù che diceva: “Ciò che avete fatto a uno solo di questi piccoli, voi l’avete fatto a me” (Mt. 25, 40), con le inevitabili conseguenze che ciò comporta per chi vi crede? Ma anche per chi non aderisce ad una fede religiosa, potrebbe esserci qualche premio, come il non provare rimorsi, il sentirsi a posto con la propria coscienza et similia. Se intendiamo la carità (o l’aiuto, o la solidarietà) sotto questa specie, effettivamente anche la carità farebbe parte del gioco delle regole sociali, e non sarebbe altro che uno degli artifici attraverso cui quella data società si garantisce il proprio continuare ad esistere. Ad esempio, se nell’ultimo secolo si sono sempre più sviluppati i principi del Welfare State è stato perché, tutto a un tratto, siamo diventati più ‘buoni’, o è stato perché in una società democratica contemporanea, disparità sociali troppo pronunciate sarebbero risultate inaccettabili dalla gran parte dei membri della società stessa, mettendo in pericolo la sua stessa sopravvivenza?
Ma non è questa la carità di cui sto parlando. Nel fenomeno del ‘contagio emotivo’, di cui avevo parlato in un articolo di qualche anno fa, non è ovviamente per aderire a qualche dottrina filosofica o religiosa che un bambino di pochi mesi, che ancora non ha sviluppato il senso del sé, quando vede un altro bambino piangere si mette anche lui a piangere, come se la sofferenza altrui fosse la propria. E non è certo per ricevere una qualche ricompensa in questa o in un’altra vita che una madre si interpone tra il proprio figlio e il pericolo che lo sovrasta, disposta a sacrificare la propria vita per salvare quella del figlio. Non siamo noi che, nel nostro essere più profondo, ci adeguiamo ad una serie di regole elaborate a tavolino o, per chi ha fede, inviateci da qualche divinità; al contrario noi elaboriamo le nostre convinzioni etiche e i nostri credo religiosi a partire dal nostro più profondo essere uomini. Naturalmente, poiché noi siamo costituiti da un guazzabuglio inestricabile di neuroni che si collegano tra loro nei più imprevedibili modi, le convinzioni etico-religiose che abbiamo elaborato nei vari tempi e nelle varie società sono molto differenti tra loro e, a volte, agli antipodi le une delle altre. Eppure, visto che sono comunque un’espressione di questo nostro essere uomini, vi è sempre qualcosa che le collega. Persino il nazista che tornava a casa dopo il suo lavoro in un campo di sterminio, convinto di aver fatto il proprio dovere, poteva, come chiunque di noi, abbracciare amorevolmente la propria figlia, raccontarle una fiaba per farla addormentare e augurarsi sinceramente per lei un futuro radioso, in un mondo purificato dalle ‘razze inferiori’. E se siamo convinti e rassicurati dal pensiero che non potremo mai provare empatia per qualcuno che, come quel nazista, abbia commesso azioni e nutrito pensieri ai nostri occhi ripugnanti, allora non abbiamo ancora capito di che pasta sia fatta l’empatia e quale terribile bestia essa sia. È uno specchio impietoso che ci fa scorgere, in chi ci sta dinnanzi, noi stessi: se ciò che costui ha compiuto è, secondo il nostro metro di giudizio, la più nobile delle azioni, comprendiamo che noi stessi avremmo potuto compierla; ma anche se ciò che costui ha compiuto è, secondo il nostro metro di giudizio, la più efferata delle malefatte, anche in questo caso comprendiamo che noi stessi saremmo stati capaci di compierla. Perché al di là di ciò che abbiamo rispettivamente compiuto siamo stati comunque impastati con la medesima farina. Allora il colore della pelle, la lingua, il credo religioso, il sesso, l’età ed ogni altro aspetto di colui che ci sta dinnanzi ci diviene indifferente: noi non siamo lui, ma avremmo realmente e concretamente potuto esserlo, se solo qualche insignificante condizione al contorno fosse stata diversa. E se costui invoca il nostro aiuto, negandoglielo rinnegheremo noi stessi! L’empatia è una bestia orrenda… e meravigliosa.

LA SOLIDARIETÀ UMANA

   MarshaL Monaco BRITFOR


Solidarietà = Rapporto di comunanza tra i membri di una collettività pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda: solidarietà sociale; condivisione di pareri, idee, ansie, paure, dolori ecc.: esprimere la propria solidarietà ai parenti delle vittime.
http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/S/solidarieta.shtml

‘Solidarietà’ è un sostantivo che deriva dalla parola francese solidarité che ha come suo significato principale una forma di impegno etico-sociale a favore di altri.
Dati i gravi cataclismi tuttora in atto a livello globale, per il cambiamento climatico causato dall’attività umana, la solidarietà si può esprimere nell’intraprendere azioni concrete volte ad arrestare ciò che potrebbe porre fine all’esistenza del genere umano e della vita terrestre. La solidarietà da esprimere verso quelle popolazioni che devono esulare dalla propria terra, a quei lavoratori che hanno perso letteralmente il contatto con la terra, agli agricoltori che subiscono il disprezzo di chi ignora il valore della terra, deve imporre l’attuazione di una politica solidale in toto o globale qual dir si voglia. Si è solidali con sé stessi e verso terzi, quando si ha a coscienza che riciclare i rifiuti e fare la raccolta differenziata, consumare con ponderazione e contrastare l’impatto ambientale dell’attività economica porta beneficio a tutti, anche quando si predilige l’energia rinnovabile o si utilizza semplicemente la bicicletta. Questo tipo di solidarietà è d’aiuto a chi è molto sensibile all’inquinamento sia esso acustico o ambientale, a chi soffre di malattie respiratorie eccetera. Ne beneficia la collettività.

L’ELEMOSINA

   Paolo Majerù


C hiedere l’elemosina: la cosa più indegna per un uomo, e se uno si sottomette a ciò vuol dire che ha toccato il fondo. Però questo nello stesso tempo lo rende un eroe civile, perché è ancora vivo: tanti non ci sono arrivati, togliendosi la vita molto prima.
Ultimamente sono aumentati molto, a Bologna li trovi in ogni angolo o via principale. Ho fatto conoscenza con qualcuno di loro, ascoltando le loro storie. Carlo mi ha raccontato che prima era un capo collaudatore in una fabbrica molto ben strutturata e pensava che non ci fosse il rischio che la sua ditta potesse fallire. Un ‘bel’ giorno di sei anni fa si presentò al lavoro e la sua bella e strutturata fabbrica aveva chiuso i cancelli. Non c’era più nessuno dei titolari e anche la direzione era chiusa. Carlo per anni aveva cercato lavoro, poi si era arreso. Avendo un mutuo da pagare, aveva perso la casa; aveva finito le poche risorse e gli erano rimasti i soldi per pochi giorni ormai. La moglie e le due figlie si trasferirono per forza maggiore a casa di un fratello di lei, che gli offrì l’unica cameretta che aveva, ma lui non se la sentiva più di stare in una stanza con tre donne. E fu allora che decise di sparire dalla società, dandosi per disperso, cominciando ad essere costretto, per mangiare, a chiedere l’elemosina. Ma conosco altre storie simili, anche bizzarre, che in un secondo momento vi racconterò.

CALDURE

   Luigi Zen pass


Di barzellette ce ne sono di tre tipi o temperature.
Le freddure che lasciano uguali dopo la lettura.
Le tiepidure che innalzano leggermente la temperatura.
Le caldure quelle che fanno ridere bene e che scaldano.
*****
Secondo le statistiche, fra i cantori i bassi sono i primi
che vanno a fare acquisti durante i saldi,
perché sono attratti dai prezzi bassi.

IL BENE VIENE DAL BENE

   Concy


uesta volta, non so perché, pur dovendo sviluppare un tema che rappresenta un aspetto importante del mio modo di essere, ho avuto il blocco da foglio bianco. Per fortuna è accorsa in mio aiuto una trasmissione televisiva, andata in onda, il 3 di giugno: “Sostieni con il cuore in nome di Francesco” e più precisamente la testimonianza di una persona che da tempo usufruisce di una delle mense francescane presenti su tutto il territorio nazionale. Questa persona durante l’intervista ha dato un messaggio semplice, ma potentissimo: “Invito tutte le persone in ascolto a sostituire il verbo possedere con il verbo condividere”. Il concetto espresso da questi due verbi, a dire il vero, è stato ed è declinato nella quotidianità, da che ho ricordo, dai miei familiari e dalla sottoscritta. Mia madre all’interno della nostra piccola comunità, ha sempre assistito ed accudito, volontariamente, tantissimi ammalati, anche quelli più gravi e costretti a letto. Vestito e vegliato altrettante persone passate a miglior vita, inoltre ha donato ai paesani indigenti, oltre all’affetto, la comprensione, l’umanità, l’attenzione e l’ascolto anche beni di prima necessità. Papà, dal canto suo, non ha voluto essere da meno, infatti per portare avanti la sua attività commerciale, ha quasi sempre assunto operai con disagi vari (solitudine, etilismo, povertà in tutte le sue accezioni) così a casa nostra, oltre a noi sette (cinque figli, mamma, papà e i nonni), c’erano a tavola minimo tre-quattro persone in più. Nel corso degli anni, tutto questo ha prodotto e si è tradotto in altrettanta gratitudine, solidarietà, affetto e aiuto nei confronti della nostra famiglia nei momenti di criticità. Riporto un paio di esempi: Quando mio padre, all’età di quarantotto anni, ebbe un gravissimo incidente automobilistico a seguito del quale stette in coma diciassette giorni, con conseguenze serie per il resto della vita, i Rosciolesi fecero una vera e propria gara di solidarietà e sostegno sia in ospedale che a casa, dopo la dimissione. La stessa cosa si è verificata nei confronti di mia madre, soprattutto negli ultimi cinque anni della sua vita, molti paesani, che non finirò mai di ringraziare, sono stati presenti e vicini, attivandosi per offrirle ed offrirci aiuto concreto, conforto ed affetto.
La mia scelta di lavorare in ambito socio-sanitario ricoprendo un ruolo di sostegno alle persone svantaggiate, ritengo sia la naturale conseguenza del mio percorso di vita. Ogni professionista nell’esercizio del proprio lavoro dovrebbe sempre aver presente che prima c’è la persona e poi il disagio/diagnosi, essere capace di avere un rapporto paritetico, di mettersi nei panni altrui, di aiutare l’utente, in alcuni casi, a riappropriarsi della propria vita, dignità e competenze, con lo scopo di riuscire ad avere pari opportunità e cittadinanza attiva. Voglio concludere con questa riflessione generale: bisogna sempre aver presente che, da un momento all’altro, ognuno di noi potrebbe ritrovarsi dall’altra parte della ‘barricata’.

PENSIERO ZEN

   Lu Zen pass


L’amore è cieco… ossia ci vede come di notte quando c’è la luna splendente e le stelle; però, se pian piano cominciasse a vederci come di giorno quando c’è il sole… Non è più amore.

CONFUCIO DICEVA

   Luca Pasini


Il filosofo cinese Confucio diceva: “Se in riva al fiume, vedi qualcuno che ha fame, non regalargli un pesce, ma insegnagli a pescare”. Su questa citazione che ho riportato, baso il seguente ragionamento sul tema “solidarietà e aiuto”.
Secondo me, essere solidali è giusto, ma ci sono tanti modi per aiutare qualcuno e taluni sono sbagliati. Ad esempio fare l’elemosina è assolutamente sbagliato! Viceversa fornire, quando possibile, alla persona più sfortunata i mezzi perché possa con autocoscienza, determinazione e secondo le proprie possibilità, provvedere a sé stessa, è una via maestra. Non sempre la persona in questione è disposta ad imparare a pescare, volendo ricevere invece direttamente il pesce. Diventa quindi più che mai sbagliato dargliene, in quanto non le si farebbe del bene, ma del male, poiché si adagerebbe sui propri problemi, invece di combatterli.
Concludo portando l’attenzione sul punto cardine dell’argomento: molte religioni, in particolare quella cattolica, fanno dell’elemosina il proprio cavallo di battaglia, ma in realtà basta seguire i notiziari con una certa costanza per vedere che spesso e volentieri ciò serve solo a riscuotere ingenti donazioni di denaro, volontarie o meno, che raramente poi vengono elargite ai più bisognosi. Concludo, citando in merito, l’esempio del cardinale Bertone e dell’attico di sua proprietà, che pare essere frutto di ottocentomila euro che avrebbero dovuto essere destinati ai bambini poveri.

SOLIDARIETÀ E AIUTO

   Tina Gualandi

Ci sono tante forme di solidarietà e tante di aiuto. Ci sono persone generose che fanno del bene senza farsi sentire o notare (Dalla, Sordi e altri) e altre che aiutano facendo ad esempio del volontariato. Ci sono persone celebri e altre comuni che fanno volontariato quando e come possono nei più svariati settori. Mia sorella quando può va alla Caritas e per anni è stata socia di un’associazione che si occupa degli spastici. Io ho iniziato a fare volontariato, dopo la pensione e dopo un periodo critico, nel settore psichiatrico. Dal 2010 partecipo a un gruppo AMA, “Per un linguaggio comune”, frequentato da utenti, familiari ed operatori. Poi ho iniziato a frequentarne altri anche perché stavo meglio, il mio disturbo bipolare era abbastanza controllato, la mia terapia era addirittura diminuita e incontrare persone con problemi non mi dava più fastidio. Da circa due anni sono facilitatrice in un gruppo AMA per persone in sovrappeso. Siamo in poche (quattro donne), ma ci vogliamo bene, ci vediamo ogni quindici giorni molto volentieri, parliamo di tutto e di più, ci scambiamo articoli, informazioni ed opinioni. Speriamo sempre che arrivino altre persone perché ogni persona in più porta linfa al gruppo. Anni fa ho anche fatto volontariato insegnando italiano a studenti stranieri. È stata un’esperienza molto positiva, perché i miei allievi erano molto interessati ad apprendere e ascoltavano con interesse (al contrario degli studenti italiani che spesso non erano mai interessati a quello che insegnavo loro con tutta la mia buona volontà). Ho anche seguito un corso di formazione per diventare ESP (esperti in supporto tra pari), ma fino ad ora non ho fatto nulla a livello pratico.
Il lunedì canto in un coro dalle 18.45 alle 20 e prima vado alla Casa della Pace (a Casalecchio) – dove cantiamo – un paio d’ore e resto in segreteria: do informazioni, prendo in consegna le cose per il mercatino, rispondo al telefono. Da settembre mi sono offerta per fare l’assistente per il coro. Ecco un’altra forma di volontariato utile e dilettevole. Fare volontariato è utile agli altri, ma anche a sé stessi (ecco allora che diventa anche dilettevole) perché c’è uno scambio, si dà e si riceve, e spesso quello che si riceve è molto più di quello che si dà. Ultimamente in giro sono aumentati coloro che chiedono aiuto e spesso ad ogni angolo di strada c’è qualcuno che tende la mano o il berretto. La cosa è veramente triste. Come si fa ad aiutare tutti?

I GIORNI DELLA CIVETTA... E ALTRI RAPACI
LETTERA ZEN SULLA SOLIDARIETÀ

   Lu Zen pass


P oiché la solidarietà è già in atto, io voglio parlare in modo breve di una piccola e importante solidarietà che riguarda il creato, cioè i rapaci, in particolare le civette che da quando i Comuni hanno chiuso le case che erano aperte, mi riferisco non a quello che pensate voi, ma ai cascinali nelle campagne con le pareti aperte, dove veniva immagazzinato il fieno per le mucche, ora trasformate in abitazioni e chiuse con le finestre; così tutte le civette, gli allocchi, i barbagianni eccetera, che andavano a dormire sopra i travi del sottotetto, sono stati sloggiati. Tutti quei cascinali, trasformati in biblioteche, asili nido o abitazioni, non hanno mantenuto nicchie o nidi nelle pareti, quelle più idonee, dove potessero continuare a vivere i rapaci. La fortuna che a noi arrecano le civette consiste principalmente nel fatto che diminuiscono il numero dei topi dei quali si nutrono, i quali fanno danno all’interno delle abitazioni in cui si introducono, il che comporta un aumento dei ratticidi o veleni per topi che vengono introdotti nell’ambiente, e si vede anche un proliferare di gabbie di plastica per topi, che un tempo non c’erano. Termino dicendo che un giorno ho domandato a un veterinario dell’AUSL se ci poteva essere una soluzione a questo problema, e lui mi ha risposto: “Che cosa ci posso fare io?”. Poi mi ha detto: “Ha mai sentito il rumore di un barbagianni, che ti sveglia di notte?”. Io non ho risposto, perché sapevo che avrebbero tenuto ben più svegli i topi che si introducono all’interno delle abitazioni o nel letto.

DANZA DI ONDE SORELLE
PERCHÉ RIDO SEMPRE A CREPAPELLE

   Costanza Tuor

Impara ad amare ciò che desideri ma anche ciò che gli assomiglia.
Sii esigente e sii paziente. È Natale ogni mattino che vivi.
Scarta con cura il pacco dei giorni. Ringrazia, ricambia, sorridi.
Stefano Benni

La verità non si stanzia dalla mia parte, o dalla tua. Io corro il rischio
di affidare agli altri la mia verità nella fiducia che così sarò liberato
dalla mia piccola verità personale, e realizzerò la verità oceanica.
Reb Anderson

S ono solidale con coloro che non hanno mai avuto vicissitudini psichiatriche. Queste strane persone si sentono spesso meno sensibili, meno sensitive, meno capaci di capire le sensibilità particolari di quelli che hanno attraversato il sacro fiume del dolore psichico. Si dice che soltanto coloro che possono vantare un’esperienza così dolorosa siano in grado di essere realmente profondi. Forse non lo si dice ma molti lo credono relegando i sofferenti in un insieme che non si interseca mai con il loro. Tuttavia voglio essere solidale con i cosiddetti normali che stanno a una certa distanza perché ho imparato che non è il gradiente a fare di una persona una persona sensibile e vera, ma piuttosto la sua capacità di mettere in circolo la sua vita come un’onda che parte da lontano per sciogliersi dono sulla riva, intrecciata al vigore di tutte le altre onde che la precedono o la seguono.
Mettere a disposizione la propria esistenza all’incontro con chi è diverso da noi, e spesso tutti siamo diversi tra noi, ci fa responsabili di alimentare la vita nella vita. La nostra esistenza, e con essa tutte le sue esperienze dolorose o faticose, diventano così un punto di riferimento per ciascuno che ne voglia attingere. Crescere e imparare a riconoscere le differenze, perché in fondo essere quello che si è a volte significa anche non fare niente, lasciarsi fare dalla risacca. Ecco il più e il meno di tutto ciò che ci circonda. Accesi/spenti, in ogni attimo nuovi. Nessuno può essere escluso e nessuno dovrebbe sentirsi soltanto “più” di qualche cosa. A volte essere meno è un regalo se sappiamo fare due conti. Sì, sono solidale con chi non ha mai avuto vicissitudini psichiatriche perché rappresenta tutto ciò che io non sono stata e per questo mi dona qualcosa di inestimabile e nuovo da cui posso imparare molte cose che non ho mai scoperto prima e di cui, soprattutto, ringrazio!

AIUTO!!!

   Lucia


Credo che la mia prima esperienza di ‘aiuto’ (naturalmente escludendo le cure parentali) sia quella che ora vi racconterò, e che mi capitò intorno ai tre anni. Ne ho un ricordo molto vivo, proprio fisico, ed è senz’altro uno dei miei primi ricordi personali non derivanti dalle saghe di famiglia. I miei genitori, entrambi ottimi nuotatori, in una di quelle giornate estive in cui soffia lo scirocco e l’Adriatico si riempie di cavalloni, mi infilarono nella mia ‘ciambella’ bianca e verde e si tuffarono in acqua fra spruzzi e risate. Mi facevano volare in aria saltando le onde e mi afferravano a turno, in un allegro gioco, finché a un tratto si accorsero di non toccare più il fondo con i piedi. Erano finiti in una buca e, appena l’onda li sollevava, la corrente li sospingeva verso il largo. Per ciascuno di loro sarebbe stato abbastanza semplice tornare verso riva, ma la mia presenza rendeva la cosa più difficile. La mamma non osava lasciarmi andare temendo che venissi trasportata più lontano e si stancava molto per tenermi in alto e non farmi bere. Fu allora che il babbo con voce ferma e tranquilla disse: “Non preoccupatevi, non siamo in pericolo, ma adesso chiamerò aiuto”, e così fece. La parola “aiuto!” ripetuta a gran voce mi fece un certo effetto, ma non mi spaventò. Non lontano da noi c’era il bagnino di salvataggio sul suo ‘moscone’ rosso, e in un lampo fu accanto a noi. Fummo issati a bordo e trasportati a riva senza aver subito alcun danno. Ricordo che il bagnino, sorridente, chiacchierava con mio padre e diceva: “Ha fatto bene”. Il babbo, il mio ‘eroe’, uomo di tempra fortissima e di durissime esperienze di vita, non aveva cercato di ‘fare l’eroe’ e non aveva avuto paura di sfigurare chiedendo aiuto. L’importante era risolvere in fretta e senza drammi una situazione difficile. Riflettendoci ora, penso che in caso di emergenza le regole d’oro siano appunto quelle che lui seguì in quella circostanza: non sottovalutare il pericolo, non perdere la testa, tranquillizzare gli altri, chiedere aiuto.
Avendo ereditato il sangue freddo di mio padre, in genere sono in grado di affrontare le difficoltà con grinta, o stringendo i denti, a seconda dei casi. Non mi capita spesso, perciò, di chiedere aiuto: delle due, sono io che prendo fieramente in mano la situazione. Certo, qui entra in gioco la mia proverbiale ‘autosufficienza’, ma anche l’orgoglio non scherza... Non sono molto brava, devo dire, nemmeno a farmi aiutare nelle fatiche della vita pratica. Tendo sempre a cavarmela da sola e mi sovraccarico di impegni, anche di quelli che non sarebbero strettamente di mia pertinenza. La gente, soprattutto in famiglia, contando sulla mia efficienza, se ne approfitta un po’ troppo. Ma in fin dei conti capisco che la vera aguzzina di me stessa sono io… Peraltro, specie nei periodi di maggior carico, mi sono arrivati spontaneamente aiuti preziosi, a volte dai miei cari, a volte anche da gentili sconosciuti. Credo che nella vita il sostegno più grande sia l’avere accanto persone fidate e sincere, che si accorgono da sole di ciò che ti occorre, che ti coprono le spalle, che sanno comprendere e anche perdonare, che non ti abbandoneranno mai, qualunque cosa succeda… Qualcuno così c’è stato per me, e io cerco di essere così, per i miei cari e non solo.
Sono sincera, comunque, se dico che mi è più congeniale dare aiuto che chiederlo, anche in situazioni molto gravi… È più facile rivendicare diritti che chiedere aiuto! Chiedere aiuto, paradossalmente, è un vero atto di coraggio: bisogna vincere la timidezza e il pudore, mostrare la propria fragilità, accettare il rischio di ricevere un no, e di essere magari umiliati con critiche, rimproveri, irrisioni, maldicenze, ‘colpi bassi’ … Infatti, esponendosi in condizioni di inferiorità, si abbassano le difese, e bisogna solo sperare di essere accolti benevolmente. Per quanto mi riguarda, superata quella difficile soglia, non sempre mi è andata bene, ma in qualche caso l’Aiuto con l’A maiuscola è arrivato, e non finirò mai di ringraziare.
Concludendo, non è facile chiedere aiuto, ma non lo è nemmeno saper aiutare senza essere importuni, invadenti, indelicati, e senza costringere l’altro a sentirsi in debito per tutta la vita.
Una grande esperienza per me è stata quella dell’auto mutuo aiuto, perché dal momento in cui, pur sommersi dalle difficoltà e dal dolore, si riesce a rivolgere l’attenzione anche ai problemi degli altri, la prospettiva cambia: ragionandoci insieme si diventa più lucidi e capaci di combattere. Il passo successivo è tirarsi su le maniche e darsi da fare per cambiare le cose, a vantaggio di tutti, ma a partire da sé.

A UNA MANCIATA DI VENTO DA QUI

   Giulia Berra


Bombe a una manciata di vento da qui. Mi interrogo sulle radici di questo dolore trovando poche risposte. Chi è stato? Noi. Quanto hanno inciso i nostri graffi quotidiani sul volto del mondo? Quali le nostre bombe che sono esplose in silenzio? Mi chiedo se la risposta sia nella cultura intesa come educazione. In quella fame di conoscere che spesso ha chiuso e non aperto. Che molte volte ha funzionato come non ci si aspettava lasciandoci colti e incredibilmente distanti. Mi fido molto di chi verrà dopo e cerco di lasciare il miglior terreno che posso. Guardo i bambini che abitano le nostre scuole con le loro valigie piene di luoghi, di parole che non conosco e di storie erranti da ascoltare ad occhi aperti. Vivo ogni giorno la ricchezza che le culture si regalano e mi sento grata per questo. Penso alle persone con cui riesco a sentirmi errante, a quelle per cui sono casa, ai compagni di viaggio incontrati, con cui non ho bisogno di perdermi nelle parole per essere. Non sono sempre graffi mi dico.. a volte sono trame meravigliose. Che la risposta non sia nella spinta che ci rende simili? Nella tensione umana alla forma e alla distruzione... per riconoscersi e tornare a creare? Bombe a una manciata di vento da qui e qualche parola nell’aria, perché un’amica mi ha insegnato che i suoni arrivano sempre.

LA GIUSTA DISTANZA

   Sertralino


L a giusta distanza. Sento i miei amici de Il Faro decidere il tema di questa rivista: “solidarietà e aiuto”. E a me cosa viene in mente? La giusta distanza. Cerco di scacciar via questo pensiero che mi sembra poco coerente con quello che mi sta attorno, ma, come accade con i ritornelli di certe canzoni, continua a ronzarmi in testa un po’ ossessivamente. E allora, tanto vale cercar di capire. Ci penso un attimo e, pur avendo una memoria non proprio da elefante, mi si accende una lampadina: La giusta distanza è il titolo di un film che avevo visto al cinema tanti anni fa.
Ma continuo a capirci poco. Perché, sentendo “solidarietà e aiuto”, a me viene in mente la giusta distanza? Ci ripenso. Penso ai cantanti. Loro fanno beneficenza. Penso a mia zia, che ha adottato tre bambini africani a distanza. Questa è una forma di solidarietà e aiuto? Credo di sì, ma la distanza/prossimità tra chi aiuta e chi è aiutato è notevole. È molto probabile che il nostro magnanimo cantante non conoscerà mai il destinatario della sua beneficenza. Come è molto probabile che mia zia non toccherà mai i bambini africani a cui dà la ‘paghetta’ mensile, non cambierà loro i pannolini, non si sveglierà di notte se piangono, non guarderà i loro occhi tutte le mattine, non sarà lì durante i loro primi amori, non potrà abbracciarli alle prime delusioni.
Il mio amico Luca ha una passione viscerale per il suo barboncino. Lo barda con un vestitino scozzese, gli dà da mangiare solo cibo di prima scelta. Scende da casa, si accende una sigaretta e manda un sms alla sua amante, mentre porta in giro Rufus nei migliori parchi della città. Luca l’altro giorno mi fa una confidenza. Dice che tutte le volte prima di uscire guarda dallo spioncino della porta se i suoi vicini di casa sono sul pianerottolo per non incrociarli. Dice che non conosce i loro nomi e che non ci tiene proprio a conoscerli. A me questo sembra strano. Mi intristisce pensare che possiamo amare solo chi ci dà sì una marea di affetto, ma non ci contraddice. Mi intristisce sapere che Luca fa di tutto per dribblare i suoi vicini, che se bussano per chiedere un pizzico di sale fa finta di non essere in casa. Mi intristisce ascoltare al telegiornale di quella signora anziana della periferia milanese, trovata morta in casa sua da più di dieci giorni. Per fortuna pare che tutto questo non metta solo me di pessimo umore. C’è un signore di origine argentina un po’ più famoso di me a nome Francesco, che fa sapere: “Vedo che molti hanno un’attenzione esagerata verso i loro animali, mentre non si curano affatto se i loro vicini di casa muoiono di fame. No, mi raccomando. Questo non va bene”.
E a me viene in mente di nuovo la distanza.
Quello che temo è che le nostre città diventino come Los Angeles, una città con gli spazi talmente vasti che le persone non si toccano più. Quello che temo è che le nostre vite diventino delle monadi leibniziane “senza né porte né finestre”, in un isolazionismo da impenitenti internauti. Quello che temo è che passiamo sempre più tempo in stazioni, metropolitane ed aeroporti, i ‘non luoghi’ moderni come vengono definiti dagli antropologi. Quello che temo è che in taxi, in quegli stessi taxi in cui una volta chiacchieravamo incuriositi con il tassista per scovare la trattoria tipica in cui “si mangia bene e si spende poco”, ora stiamo ammutoliti con la testa curva sull’ i-phone e il tablet.
Cosa auspico? Beh, a volte sbattiamo la faccia sulle cose belle e non sempre ce ne accorgiamo. L’altra volta entro in una casa. La mia attenzione è rapita da una grande scritta a firma di una piccola donna indiana a nome Teresa, una che di solidarietà e aiuto qualcosa sapeva. La scritta recita:
“L’uomo è irragionevole, illogico, egocentrico: non importa, amalo.
Se fai del bene ti attribuiranno fini egoistici: non importa, fa’ il bene.
Se realizzi i tuoi obbiettivi, troverai falsi amici e veri nemici: non importa, realizzali.
Il bene che farai verrà presto dimenticato: non importa, fa’ il bene.
Quello che hai costruito può essere distrutto in un attimo: non importa, costruisci.
Se aiuti la gente, se ne risentirà: non importa, aiutala”.

ACCAPARLANTE

   Francesca


L a solidarietà è aiutare il prossimo, senza distinzioni di paese di origine e colore della pelle, aiutare chi soffre e chi per varie problematiche e vicissitudini si trova ad essere più svantaggiato. La solidarietà si esplica per lo più nel volontariato, ma anche attraverso quelle associazioni che operano senza ricevere un profitto e che per questo si chiamano infatti cooperative sociali senza scopo di lucro, che danno un aiuto attraverso vari programmi che consentono alle persone a cui si rivolgono di poter recuperare e reinserirsi nella società, riprendendosi una propria vita. Queste associazioni, così come il volontariato, stanno crescendo e ritengo siano il futuro di questa generazione, e per fortuna che esistono.
L’aiuto secondo me non consiste solo nel gesto di fare la carità dando un aiuto materiale in danaro, vestiti o altro a chi ha bisogno, ma soprattutto in un progetto di formazione, che fa sì che i più svantaggiati possano, attraverso un percorso programmato per loro, per l’appunto formativo, ritrovare un posto nella società.
Fra le associazioni no profit ne cito una che secondo me è di particolare interesse: l’associazione CDH, che è un centro di documentazione sul tema dell’handicap, del disagio sociale, del volontariato e del terzo settore, operativo dal 1981. Al suo interno nasce una rivista, HP-Accaparlante, che nel 2013 ha compiuto trent’anni di vita, ed è una rivista culturale che si occupa di disabilità.
L’associazione dispone di una biblioteca, la più grande d’Italia sui temi del deficit, dell’handicap e del terzo settore e propone attività di animazione e formazione, sempre su questo tema, nelle scuole, con gli insegnanti ed i genitori, perché il punto generale del suo lavoro è quello di tentare di proporre un cambiamento culturale rispetto al tema della disabilità e di chi ha delle difficoltà legate al deficit. Quindi è una proposta culturale formativa, ma anche informativa, perché attraverso la rivista Accaparlante viene affrontato il tema della disabilità da un punto di vista differente. Io ritengo che in questo modo si possano abbassare le barriere del pregiudizio nei confronti di chi è ‘diverso’, attraverso la conoscenza e l’informazione sul disagio in senso generale, non solo la disabilità ma anche l’emarginazione sociale.
Il Centro è al Pilastro, quartiere periferico della città, dove questa associazione dà la possibilità di accogliere tutti coloro che vogliono partecipare alle attività formative.
A questo proposito vorrei citare le parole di Roberto Parmeggiani, direttore di questa associazione, tratte da un video visibile su: https://www.youtube.com/watch?v=jJyKcpKaV-E

“L’arrivo in questo quartiere è stato per noi una cosa inaspettata perché abbiamo sentito la vivacità della altre associazioni, delle persone e dell’ambiente e siamo stati accolti a braccia aperte dai cittadini ed è stato abbastanza scontato e naturale intessere relazioni e quindi incontrare le altre associazioni, il quartiere nella sua forma più istituzionale e i cittadini stessi che hanno cominciato a frequentare questa associazione. Il progetto si chiama ‘Pilastro social rating alta accessibilità accogliente’, e mette al centro il tema della accessibilità nelle sue più svariate sfumature per cui la accessibilità fisica ossia la possibilità di entrare negli spazi in un luogo, in un locale come in una struttura pubblica, ma anche la accessibilità intesa come relazione, cioè la capacità di non fermarsi davanti a barriere quali il pregiudizio, la paura del diverso ma anche la possibilità di creare relazioni realmente inclusive. Concretamente prevede l’incontro fra diversi cittadini di diversa estrazione sociale e di diverso tipo che si incontrano e lavorano insieme prima in una parte di formazione poi in una parte più operativa per mappare sul territorio l’accessibilità sul quartiere intendendo con questo sia luoghi chiusi come locali, bar ma anche sedi delle associazioni, sia spazi aperti e cioè i marciapiedi, i parchi i luoghi dove le persone vivono o potrebbero vivere meglio se lo spazio fosse più accessibile. Questa mappatura valuterà l’accessibilità del luogo non per darne un giudizio di valore ma semplicemente per offrire all’interlocutore che può essere la persona che lavora nel locale o l’amministrazione stessa, che potrà dare alcuni elementi anche per poter poi intervenire e rendere più accessibile quel luogo Lo si fa con un gruppo integrato perché l’accessibilità parte anche dalla nostra capacità di interagire ed integrarsi con gli altri. Alla fine del progetto questi dati verranno utilizzati per implementare una banca dati che è accessibile attraverso un sito nel quale il cittadino può entrare per valutare e vedere se quel luogo è più o meno accessibile. Si interseca molto bene con il progetto Pilastro 2016 perché appunto al centro c’è il tema dello spazio fisico del quartiere e c’è il tema della cittadinanza attiva cioè alla partecipazione attiva dei cittadini alla iniziativa. Non è un servizio che viene dall’alto, ma nasce dal cittadino che per primo vive i luoghi e gli spazi e può valutare in modo più oggettivo quando un luogo è accessibile o meno. Il gruppo che si formerà può essere composto da chiunque ha il desiderio o la voglia di mettersi in gioco in questo specifico progetto. È prevista la partecipazione di cittadini del quartiere di tutti i tipi, quindi può essere il giovane che magari è molto per strada e vive gli spazi aperti e ha voglia di sperimentarsi nel fare questa attività, ma può essere anche il pensionato oppure la persona con disabilità che vive più direttamente il tema dell'inaccessibilità ad alcuni luoghi, come possono essere negozianti o professionisti che comunque sono interessati a dedicare una parte del proprio tempo a fare un’analisi di questo tipo da un punto di vista loro, ossia del commerciante o del professionista. Quello che si può fare è entrare direttamente in contatto con noi. A marzo del 2016 abbiamo fatto il primo incontro nel quale hanno radunato il gruppo per poter raccontare nel dettaglio il progetto iniziando l’attività di condivisione, di autoformazione e per prepararsi a uscire in strada.

Ne ho parlato perché penso sia un ottimo esempio di quello che io intendo per solidarietà e aiuto.

SOLIDARIETÀ

   Edoardo Bellanca


H o cominciato a comprendere cos’è la solidarietà quando avevo circa trentacinque anni. Ero reduce da un gravissimo incidente che mi aveva fatto rimanere disteso in un letto, totalmente ingessato, per vario tempo. Quando a poco a poco avevo ripreso ad alzarmi e poi a camminare ed ero estremamente contento… caddi invece in un esaurimento gravissimo, che mi costrinse ad un ricovero ospedaliero. Fu durante quella degenza, in provincia di Brescia, che una infermiera mi chiese se ero disposto a fare un viaggio a Lourdes. Fui dimesso dopo qualche tempo, tornai a Bologna e passarono vari mesi… Non ci pensavo più, a quella promessa. Poi, un giorno, mi arrivò un incartamento per partire come barelliere con l’Unitalsi di Brescia. Non ero credente, la mia fede dell’adolescenza era scivolata via senza che me ne accorgessi. Ma avevo dato la mia disponibilità e d’altronde non avevo problemi con i malati, dato che lo ero stato anch’io… Non mi tirai indietro. A Lourdes mi fecero fare vari servizi come barelliere, anche alle piscine, con malati di varie nazionalità, sebbene non mi reggessi ancora molto bene in piedi, infatti alle piscine aiutavo solo quelli che venivano alle vasche con le loro gambe… Li aiutavo a immergersi e a rialzarsi. Al ritorno a Bologna, ricordo che pensai: “Perché anche a Bologna non può essere come a Lourdes, che ci si aiuti l’un l’altro?”. E fu in quel preciso momento che nacque in me un germe di solidarietà.

DAZZENGER

   Darietto


● “Caspita ho un sonno che adesso vado a letto”. “Io invece non ho sonno e vado a scritto”.
● Sapete come si chiamano i maschi delle mucche? Mucchi.
● A scuola un ragazzo viene interrogato e l’insegnante gli chiede: “Allora, sai chi sono i Macedoni?” e lui titubante risponde: “Sì, gli chef che preparano la macedonia”.
● Sapete chi è una persona romantica? Una persona vissuta nella Roma Antica. (ringrazio la mia mamma)
● Sapete cos’è un pappagallo? Una persona affamata che si pappa un gallo.
● Un barbone dice a un ragazzo: “Tu dai a me un euro… Io ceceno”. Il ragazzo gli risponde: “Beato te che ci ceni, io non ci faccio manco colazione”. (ringrazio Massy)
● Sai perché quando torni a casa, fai il remake di un famoso film? Perché vai via col venti. (ringrazio Massy)
● Due persone ignoranti s’incontrano. Uno chiede all’altro: “Mi scusi, qual è la targa di Bologna?”. E l’altro gli risponde: “Bo!?”.

SOLIDARIETÀ E AIUTO SENZA FRONTIERE

   Mariangela
Ricerca su siti internet effettuata presso il Centro Diurno San Biagio


T ra le tante associazioni umanitarie la più grande e degna di lode è Medici Senza Frontiere. L’associazione è nata nel 1971 da un gruppo di medici e giornalisti francesi. È una associazione privata internazionale che annovera in gran parte medici e operatori sanitari, ma è aperta anche ad altri professionisti che siano utili alla sua missione. Tremila operatori internazionali, tra cui trecentotrentotto italiani, lavorano negli angoli più remoti dei sessanta paesi in cui Medici Senza Frontiere opera, intervenendo in tutti gli scenari di crisi senza discriminazione di etnia, religione o ideologia politica. In qualità di volontari, sono al corrente dei rischi presenti nelle missioni che compiono, e si astengono dal reclamare per sé o per altri aventi diritto compensi diversi da quelli che l’associazione sarà in grado di fornire loro. I Medici Senza Frontiere operano per salvare vite umane, forniscono assistenza medica di emergenza alle popolazioni colpite da guerre, epidemie, malnutrizione o catastrofi naturali. Intervengono per curare le persone vittime di discriminazione o escluse dalla assistenza sanitaria. Le loro attività mediche comprendono la gestione di ospedali, cliniche e centri nutrizionali, chirurgia di guerra e routinaria, lotta alle epidemie e supporto psicologico per le vittime di traumi.
La sicurezza dei pazienti e del loro personale viene prima di qualsiasi altra cosa. Per quanto sia impossibile eliminare del tutto i rischi, lavorano molto sui protocolli di sicurezza e il loro personale è tenuto a rispettare scrupolosamente le misure che vengono indicate. Prima di iniziare un nuovo progetto e anche durante il suo svolgimento valutano regolarmente rischi e minacce. Le misure vengono definite in funzione del contesto. Il divieto all’uso e al porto di armi all’interno delle loro strutture è una delle norme principali e serve a garantire la sicurezza del loro personale e dei loro pazienti. Feriti o malati, ma sempre disarmati, tutti possono beneficiare delle cure mediche, anche coloro che partecipano ai combattimenti.
Neutralità e indipendenza sono essenziali in contesti di guerra, i Medici Senza Frontiere non si schierano con nessuna della parti in conflitto. Offrono cure mediche sulla base dei bisogni che identificano. La loro indipendenza deriva dalle loro risorse finanziarie che nelle zone di conflitto provengono esclusivamente da donazioni private.
Le guerre tra paesi diversi o conflitti interni possono avere gravi conseguenze. Molti scappano e chi resta, spesso non ha accesso alle cure mediche. Anche pazienti che hanno bisogno di cure mediche di routine come nel caso di complicazioni nelle gravidanze o malattie croniche come il diabete o ipertensione, si trovano senza strutture e personale in grado di fornire loro le cure necessarie, ma i medici e gli infermieri di Medici Senza Frontiere provano di intervenire con l'assistenza medica e sanitaria. L’operato di Medici Senza Frontiere si è dimostrato indispensabile anche quando eventi naturali come terremoti, tsunami e uragani in pochi minuti riescono a seminare morte e distruzione fra intere popolazioni. Migliaia di persone possono rimanere ferite o traumatizzate dalla perdita di familiari, amici o delle proprie case. Spesso viene a scarseggiare l’acqua potabile e i trasporti sono limitati o inesistenti. Rispondere rapidamente segna per molti la differenza fra la vita e la morte.
Il terremoto del 2010 ad Haiti è ad oggi la più grande risposta a una emergenza mai realizzata da Medici Senza Frontiere. La catastrofe ha ucciso 220.000 persone lasciandone un milione e mezzo senza casa e distruggendo il 60% delle strutture sanitarie, inclusi due ospedali dell’associazione. I Medici Senza Frontiere hanno lavorato in ventisei Centri Sanitari, incluso un ospedale gonfiabile allestito in quello che era un campo da calcio. In dieci mesi hanno curato 350.000 pazienti, eseguito 16.000 operazioni chirurgiche e nei primi tre mesi di epidemia di colera hanno curato il 60% dei casi diagnosticati in tutto il paese! Inoltre hanno risposto all’emergenza. Alla fine degli anni ’90 come in altri paesi, in Italia è stata presa la decisione di aprire una missione. L’organizzazione si è resa conto che le stesse persone curate dalla loro organizzazione a migliaia di chilometri di distanza in altri continenti si trovavano anche qui in Italia e in Europa molto spesso in condizioni di estrema precarietà e bisogno! Dal 2002 Medici Senza Frontiere è stata presente in contesti particolarmente delicati come gli sbarchi a Lampedusa, tra i lavoratori stagionali nel sud Italia e all’interno dei centri per migranti in diverse regioni. Nel 2015 hanno realizzato circa 3340 visite mediche all’interno del C.P.S.A. a Pozzallo e hanno garantito un servizio di supporto psicologico per richiedenti asilo dei centri di accoglienza straordinaria della provincia di Ragusa. Inoltre in caso di naufragio sono stati presenti agli sbarchi con quindici interventi di primo soccorso psicologico nei porti di Augusta, Pozzallo, Catania, Palermo, Lampedusa, Messina, Agrigento e Taranto, durante i quali hanno assistito 2500 persone sopravvissute ad eventi traumatici durante il loro viaggio in mare. Un servizio di primo soccorso psicologico è stato ugualmente garantito a Roma presso il Centro Baobab e la tendopoli della Stazione Tiburtina, principali punti di transito per migranti e richiedenti asilo che si trovano nella città come tappa per il loro viaggio verso l’Europa del nord.
Nel 2016 gli arrivi non saranno minori se si considera che solo nei primi tre mesi dell’anno le persone arrivate sono equivalenti a quelle giunte durante lo stesso periodo nel 2015. Nonostante questo afflusso Medici Senza Frontiere continuerà il lavoro con la popolazione migrante, in Sicilia come in altre regioni italiane, attraverso diversi progetti già in corso o di prossima apertura. In tanti anni di lavoro l’esperienza ottenuta ha dimostrato che la mancanza di cure uccide più di guerre e catastrofi naturali.
Medici Senza Frontiere si è dimostrata meritevole di un alto riconoscimento non solo per aver prestato soccorso ma anche dalla volontà di testimoniare e denunciare le crisi dimenticate dai media internazionali, gli abusi e le violenze che si stanno verificando nell’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale, le inadeguatezze del sistema degli aiuti e la sempre più frequente e pericolosa strumentalizzazione degli aiuti umanitari per fini utilitari o politici. Per questi motivi nel 1999 Medici Senza Frontiere è stata insignita del premio Nobel per la Pace.
Un sincero ringraziamento va a questa associazione per la solidarietà e l’aiuto prestato ai bisognosi con l’augurio che possa continuare ad operare nel migliore dei modi anche se esistono ancora difficoltà e pericoli.

‘LIQUIDARIETÀ’

   Darietto


Solidarietà? No, grazie… Preferisco ‘liquidarietà’! Con questo termine desidero intendere i ‘liquidi’, cioè i soldi. Nella mia esperienza, purtroppo, ho visto la solidarietà usata come strumento, da parte di gente malvagia e strafottente, per riempirsi le tasche di soldi a svantaggio delle persone che ne hanno veramente bisogno, come i bambini in Africa o coloro che necessitano di cure per determinate disabilità.
L’aiuto? Ancora peggio! Negli ambienti di lavoro, non si sa nemmeno cosa sia la collaborazione e il lavoro di squadra, si taglia sulla sicurezza, come se fosse un giocattolo da portar via ad un bambino indifeso e le morti sul lavoro, infatti, non si possono nemmeno contare sulle dieci dita delle mani. Inoltre, c’è molto menefreghismo e indifferenza, che portano le persone a non aiutare i loro pari. Per esempio ho visto, con orrore al TG che mentre una ragazza veniva stuprata, la gente che passava in automobile (e si vedeva benissimo ciò che stava succedendo) non si fermava per darle una mano o almeno trovare un metodo per allontanare, con l’astuzia, quegli uomini.
Poi, in programmi televisivi interessanti dove la gente si confronta alla pari con i politici, questi ultimi è come se avessero una barriera protettiva di sicurezza: a loro non accade nulla e penso che se invece capitasse che un loro parente venisse derubato, o che una loro figlia o nipote venisse stuprata, il loro pensiero cambierebbe radicalmente. Dà fastidio vederli sorridere alla gente in TV e vedere le persone incazzate nere, perché tali personalità politiche non fanno nulla per la sicurezza e quindi non sono per nulla solidali con la gente che non è loro pari: loro sono in un mondo ben più lontano (anche se abitano sulla Terra) e, se fosse una piramide, starebbero in cima, mentre la gente comune starebbe alla base.
I politici hanno solo ‘liquidarietà’ e l’hanno tra di loro, aiutandosi tra parenti, amici e amici di amici. Ad esempio, il vitalizio che può essere di 7000 € al mese, è una ‘liquidarietà’ tra politici che si parano il c#§o, mentre il povero pensionato si prende solo 500 € al mese e non riesce a vivere decentemente con dignità: e il politico nemmeno si vergogna di questa cosa! È indecente! Solidarietà? Ma va là!
Nel campo religioso cristiano, Gesù in una parabola dice di aiutare gli altri, ma vedo molta gente andare a Messa, come alcuni miei parenti, e poi quando è ora di aiutare qualcuno si voltano dall’altra parte e ho avvertito, peggio ancora, senso di razzismo. Mi chiedo quindi: Gesù e Dio hanno insegnato questo? Non credo proprio… Loro sono l’incarnazione del Bene e non del Male, quest’ultimo è rappresentato da Satana (o Diavolo o Belzebù, come volete); infatti, un giorno, parlando con i miei genitori, ho scoperto persino che i mafiosi (gente estremamente malvagia) vanno a frequentare la Messa. I mafiosi, guarda caso, maneggiano molto con i soldi. Concludendo, secondo me, le due categorie - politici e mafiosi - vanno a braccetto con la ‘liquidarietà’. Basta infatti guardare i vari TG, nei quali spesso, abbiamo modo di ‘beccare’ qualche nuovo ‘birichino’ politico che si trova invischiato nella mafia e/o altre porcate varie: ma guarda un po’!?
Sono invece rarissime le persone veramente solidali che aiutano altre persone, anche a distanza (come i bambini in Africa) perché veramente pure di cuore.
Con tutta questa disonestà, menefreghismo e ‘liquidarietà’, dove andremo a finire? Sono veramente preoccupato…

LO SFOGATOIO

La vita continua

Ma che c… faccio? Sempre dietro a piangere e non concludere niente. Se mi vedesse così Robby, mi direbbe: “ Che due c…. che fai venire!”, e se ne andrebbe. Ma il mio dolore è grande e mi porta a cercare dappertutto parole di conforto, che alla fine son sempre le stesse, fino ad arrivare alla psichiatra, che mi dà una pastiglia in più, che mi rincoglionisce solamente, non allevia il mio dolore. Così, dopo tre giorni che prendo questa pastiglia, mi rendo conto che è il momento di prendere in mano la mia vita, come direbbe lui, e me la faccio togliere. La mia pace passa anche attraverso il dolore che provo per la perdita di Robby e dovrò abituarmi ad averlo come un ricordo, senza lasciarmi cadere nell’oblio. Non posso fermarmi solo perché non c’è più! Lui faceva parte della mia vita, ma non era la mia vita. Mi dovrò costruire una vita senza la sua presenza, prendendo coscienza che una parte di quella che sono la devo a lui. Bene o male Robby non se n’è andato, ma rivive in certi miei atteggiamenti che lui ha fatto diventare così. E non mi rimane che dire che la vita continua, e la vita è tutta una prova. La sua morte è una di queste, che devo cercare di superare, uscendone vittoriosa e avendo sempre nel cuore il suo ricordo e il suo affetto. Mi aspettano tante cose da fare per costruire la mia vita, e non posso fermarmi anche se il dolore mi rallenta. Ora ho preso coscienza che non posso annebbiare il dolore nelle pastiglie, perché il dolore è un’emozione che fa parte della vita e dobbiamo viverla come ogni emozione. Mi dico che la vita continua anche se la grande Signora ha deciso di mettere fine a quell’attesa estenuante…
È stato terribile saperti teoricamente morto, ma non lo eri! Ora sono serena per te che non dovrai più soffrire e non ti aspetta dell’altro dolore. Piango! Piango per me, che so che mi manchi e mi mancherai! Che ora ho un pezzo vuoto di me che tu mi hai colmato e continuavi a colmare, anche solo con il pensiero della tua presenza nella mia vita. Ma dicono che ci si abitua a tutto! Sarà dura, ma mi dovrò abituare alla tua mancanza terrena e pensare che il tuo spirito è ancora accanto a me a proteggermi e, a volte, prendermi in giro! Ti ho visto dentro la bara! Avevi lo sguardo sereno come quando ti addormentavi finito di fare l’amore! Ti ho stretto le mani e dato un ultimo bacio sulle labbra. Ma non sei “la bella addormentata” e non ti sei risvegliato! E le mie lacrime continuano a sgorgare al pensiero che non sei più accanto a me. Di te mi rimane la tua foto e tanti ricordi, sia belli che brutti. Momenti di due vite che si sono intrecciate tra loro, due che non hanno saputo stare insieme, ma che non riuscivano a fare a meno l’uno dell’altro. Ora dovrò imparare a fare a meno di te! Tenerti in un angolo del mio cuore come un caro ricordo di un pezzo importante della mia vita. Mi manchi! Mi manchi! Ho finito le lacrime e il mio dolore ne richiede altre per sfogarsi! Vorrei urlare contro il cielo, ma so che il cielo non c’entra niente con quello che ti è successo! Devo calmarmi, se no vado giù di testa! Devo farmi forza, so che tu lo vorresti, anzi, conoscendoti, mi prenderesti già in giro, per tutto il pianto che faccio. Ora devo nascondere il mio dolore dietro la quotidianità per poter continuare la mia vita e dirti “Arrivederci, amore mio!”.

Stefy



Il mio isolamento

È durato parecchio tempo che non so quantificare. Ciò che so, ora che vivo, è che vegetavo. Dormivo, tanto, mangiavo poco, male e schifezze. Non leggevo, non ascoltavo la radio, non curavo né la mia casa, né la mia persona. Non guardavo nemmeno i giornali, perché alzarmi dal letto mi costava una fatica immensa. Andavo in bagno per fare ciò che non potevo evitare, non mi lavavo, non mi tagliavo le unghie, mi cambiavo se proprio dovevo uscire, raramente. Non tiravo su le tapparelle perché la luce mi dava fastidio e mia sorella, ogni volta che veniva a trovarmi, non smetteva di sgridarmi, perché la casa puzzava di fumo, perché non avevo lavato i piatti, perché avevo i capelli sporchi. Lei mi sgridava e diceva: “Ma dove vuoi finire?!?” ed io la guardavo e basta. Non riuscivo ad aprir bocca, non sapevo cosa dirle. La mia casa, che è colorata e piena di luce, anche perché abito al terzo ed ultimo piano, mi sembrava grigio-nera. Era come se volessi vedere all’esterno lo stesso colore che c’era dentro di me. Quando sono vestita di nero tutti dicono che sembro più magra, o meno grossa e mi piace il nero, ma in questo periodo oltre ai colori, tutti i colori, mi piace moltissimo il bianco, probabilmente perché è un colore che per anni non esisteva. Anche perché mi ricordava il periodo del coro di San Petronio; noi donne dovevamo essere bianche sopra e nere sotto (nelle liturgie) nei concerti tutte in nero. L’insieme era bellissimo e sembravamo tanti cherubini. Io che vivo perennemente o quasi con la radio accesa per ascoltare musica o i programmi proposti, non l’accendevo perché era solo rumore. Il mio cervello era continuamente al lavoro, occupato o da pensieri che non avrei dovuto avere o da ‘chiodini’ continui e martellanti. Mi davo tutti i nomi possibili e immaginabili (cretina, stupida, imbecille) e mi sembrava di non aver mai fatto nulla di buono nella mia vita. Arrivavo a sera senza aver fatto nulla; a volte di notte non dormivo perché avevo sonnecchiato di giorno; ero presa da attacchi di fame atroci e se avevo finito le provviste di mia sorella e non ero andata a fare la spesa, o ordinavo una pizza, se ancora potevo farlo, o ….sono arrivata a mangiare la pasta quasi cruda, una vera schifezza, e anche delle patate che ho dovuto buttare. Le mie agende in quegli anni sono finite tutte nella spazzatura, alcune nemmeno nella carta da riciclare. Quella che ho conservato ha intere pagine vuote, completamente vuote. Il mio commento a quel periodo è: “povera bestia!”.

Tina Gualandi



Più smile meno slide

Le lettere frizzanti tambureggiano i tasti digitali. Gocce di elettricità sullo schermo.
Zampillano le faccine... sceglietene una che vi rappresenti.
Matt’immagini quante espressioni possono avere le emozioni. Fuggi forse scrivendo di una realtà che non ti rispecchia, o, forse, semplicemente non ti aspetta.

Giovanni Romagnani



Bar. Tra domeniche del non e lunedì di ripresa

Giornata strana, di confine. Si cerca il massimo dai ricordi della settimana, malinconie non espresse.
Caffè in cucina, senza banco. Non costa ma mi costa.
Una fine del millennio, probabilmente.

Joe



Sentimenti

Disprezzo e belligeranza sono sentimenti che si provano quando pensi di aver perso del tempo che nessuno ti restituirà mai più… ma ti assorbono energia ed è molto preziosa…
Saluti…

Paolo Sanzani



Vedere ed Essere

Guardare vuol dire sognare
mentre Vedere vuol dire Essere.

Don Joe



Stigma

Quando lo Stigma è in testa ad un Primario, nella fattispecie del reparto psichiatrico del Maggiore, "Paolo Ottonello", per noi Utenti c’è poco da fare se non ascoltare. Cosa che vi invito a fare scaricando il link qui sotto.
E non c’è più niente da fare, perché quando cara Psichiatria Primaria mi rompi, io Ti scrivo che mi De Rompi. E di argomenti ne ho sempre di più, anche in latino. De Rompibus.
https://soundcloud.com/radiokairos/signore-e-signori-il-welfare-e-sparito-martedi-14-giugno-2016-2

Giovanni Romagnani




Da quando leggo il Faro, lo trovo molto interessante. È scorrevole, attuale e molto vario. Conosco molte persone che scrivono sul Faro. Ci siamo conosciuti a distanza di anni, in centri diurni, poliambulatori, gruppi di auto mutuo aiuto, gruppi di teatro… Ci sono persone che cercano di aiutare ad affrontare la vita quotidiana, a risolvere problemi, a trovare lavoro, nuovi amici, nuovi amori, a fare gite, viaggi, feste, ad andare al cinema o a teatro, a fare mangiate insieme… Cercano di aiutarsi a vicenda per poi formare un gruppo unico, ampliato, per conoscersi meglio e intensificare i rapporti. A me piace molto farne parte. Ciao, amici del Faro!
Andrea Capuzzi


Cari Lucia, Antonio, Francesca, Dario, Tina eccetera... vi ringrazio per il vostro grande senso di umanità nei miei confronti. Nella sensibilità dimostratami per la vicenda vissuta ultimamente e nell’avermi permesso di frequentare il ‘circolo’ del Faro, un ambiente stimolante per ogni attitudine che si trova in ogni persona. Questo ambiente mi distoglie dal dolore che provo ancora e mi stimola ad impegnarmi di più per il mio futuro e scoprire cose di cui avevo solo sentito parlare.
Grazie per la vostra grande pazienza e umanità che avete con me!
Con affetto
Stefy

UN REGALO SPECIALE

   Matteo Bosinelli


I o credo che far giocare una persona che sta male (o, viceversa, se si sta male personalmente), può essere un gran regalo in termini di solidarietà e fratellanza. Di seguito riporto una partita a scacchi giocata con un caro amico (di cui non dico il nome per privacy), che rafforzò la nostra amicizia.

NB : la partita è già stata pubblicata su un numero del Faro di quattro anni fa, ma con numerosissimi miei errori di trascrizione, che qui ho corretto (spero bene!).

Bosinelli -- (.... ) (Bologna, 1982)

1) e4    c5
2) d4    cxd4
3) c3    Cf6
4) e5    Cd5
5) cxd4    d6
6) Ac4    Cb6
7) e6



( mossa originale, ma di cui esiste la confutazione:
7) CxAc4
8) Da4+    Cc6
9) exf7+    Rxf7
10) DxCc4+    d5
11) Dd3    Cb4


e avrei perso lentamente la partita.)

7) … Axe6
8) AxAe6    fxAe6
9) Cf3    Cc6
10) Cc3    Dd7
11) Cg5    e5
12) d5    Cd8
13) Db3    g6
14) Ce6    CxCe6
15) dxCe6    Dc6
16) Ae3    Dxg2
17) Cb5    Tc8



(se : 17) … Dc6;
18) Tc1 e vince.
Se invece 17) … Dd5;
18) Cc7+)

18) Cxa7    DxTh1+
19) Re2    Dd5
20) CxTc8    Dc4+
21) Re1    DxCc8
22) Tc1    Dd8
23) AxCb6    Da8
24) Db5        scacco matto
















Il Progetto “Rete dei Gruppi di Auto Mutuo Aiuto
Area Metropolitana” AUSL di Bologna

   Daniela Demaria

C orreva l’anno 2003 quando un gruppo di cittadini e di operatori dell’Azienda USL, interessati se non già impegnati in iniziative di mutualità, sedevano insieme in un corso di formazione su questo tema. Cominciava a prendere corpo un progetto, nell’ambito dei Piani per la Salute previsti dall’allora Piano Sanitario Regionale, con l’obiettivo di promuovere e facilitare gruppi di Auto Mutuo Aiuto mettendo in rete quelli già esistenti nel territorio.
È iniziata, così, una integrazione molto vitale fra realtà di base e spesso spontanee come i gruppi A.M.A. e le istituzioni sanitarie e sociali. Non un›azione calata dall›alto, ma un›attività di stimolo alla diffusione della cultura e della metodologia A.M.A., nonché di coordinamento e di rete tra i diversi gruppi, in termini di supporto, organizzazione, confronto e scambio di pratiche ed esperienze.
Il progetto in questi anni è cresciuto e si è sviluppato, a oggi i gruppi in rete nell’Area Metropolitana sono più di 100 e riguardano nove aree tematiche: disagio psichico, problematiche di dipendenza, deterioramento cognitivo, problematiche relazionali, comportamenti alimentari, problematiche di disabilità, genitorialità, malattia organica, lutto. Ciascun gruppo è composto da un minimo di tre a un massimo di quindici persone, portatrici del bisogno o loro familiari. Esistono anche gruppi chiusi per alcune situazioni protette: tra detenute in carcere, tra donne che hanno subito violenza e vivono in strutture chiuse.
Questo il percorso e la storia dei gruppi A.M.A. ma per rendere al meglio l’idea di cosa siano e quanto possano essere significativi, ‘passo il testimone’ a chi il gruppo lo ‘vive’ poiché sono consapevole che le parole dei partecipanti siano più efficaci. Mi sembra utile sottolineare l’importanza e il contributo ‘umano’ che condivisioni personali possano dare ai momenti di promozione dei gruppi A.M.A. e quanto sia necessario far sentire la propria voce e quella di chi non può parlare.
Il ‘condividersi alla luce del sole’ è un atto di coraggio che i partecipanti ai gruppi fanno per dar voce al disagio, per condividere i propri vissuti. Non mi stancherò mai di ringraziare le persone che mi accompagnano nel percorso di promozione dei gruppi perché mi offrono l’opportunità di vivere insieme momenti intensi. Ogni volta che ascolto le loro parole torno a casa con l’aumentata consapevolezza che la condivisione sia una forza che accomuna tutti, che emozionarsi, piangere, ridere insieme dovrebbe essere un diritto acquisito dell’essere umano e che la speranza aumenti là dove sia possibile sperare insieme!
Ogni volta si manifesta quella che io amo definire ‘la magia dei gruppi’. Ascoltare le loro narrazioni mi ricarica (e questo per un operatore è sicuramente un privilegio)... La loro forza di volontà e determinazione mi rigenerano e sentirli parlare è per me ulteriore conferma dell’importanza dei gruppi A.M.A. e, di conseguenza, dell’importanza del promuoverli soprattutto con narrazioni/testimonianze come quelle che seguono, consegnate direttamente a me e pubblicate sul fascicolo relativo al decennale del progetto AMA…
Chiudo dicendo che se tutto questo è possibile, se le parole sono semi che possono donare speranza anche a una persona sola, se il gruppo aiuta a far tornare il sorriso e anche la risata a chi pensava di non poterlo più fare, perché non continuare a farlo? Per me personalmente l’incontro con i partecipanti ai gruppi è sempre un momento personale e professionale importante.








Narrazioni e testimonianze

Ho perduto in brevissimo tempo mio marito, mio padre e i miei nonni materni. Improvvisamente la mia vita è stata stravolta e ho perso gli affetti, i riferimenti importanti, le mie sicurezze. Stavo malissimo, mi sentivo lacerata con un dolore acuto che non mi lasciava tregua. Faticavo a dormire e a compiere le più semplici attività giornaliere come alzarmi da letto, mangiare, vestirmi. Vedevo il mondo che mi circondava era orribile e decisamente ingiusto. Non trovavo un senso a ciò che era accaduto alla mia famiglia. Anche molti ‘amici’, dopo i primi momenti, si erano allontanati trovando difficile frequentare una persona come me, così piena di problemi. La disperazione e la solitudine erano insopportabili e mi hanno spinto a cercare una via d’uscita … così ho frequentato un corso sull’Auto Mutuo Aiuto. È stata una bellissima esperienza. Mi si è aperto un mondo nuovo. Con loro ho capito che i gruppi erano il modo giusto per aiutarmi a superare i miei lutti, le mie angosce.
Dal 2005 ho pensato insieme ad alcune amiche di avviare un gruppo A.M.A. per persone colpite dal lutto. L’esperienza è stata molto importante per me, ho avuto molti e continui benefici. Nel gruppo mi sento compresa dagli altri. Noi condividiamo gli stessi problemi, siamo degli ottimi compagni di viaggio, possiamo parlare liberamente senza giudicarci. Non mi sento più in angoscia come prima perché so di non essere sola. Ciò che mi ha colpito nei gruppi A.M.A. è che applicano un principio di solidarietà che va controcorrente rispetto al marcato individualismo della nostra attuale società. Ogni giorno imparo qualcosa dagli altri e do qualcosa: è un bellissimo scambio che mi orienta ad essere una persona migliore.
Stare in un gruppo di Auto Mutuo Aiuto è un’avventura che consiglio a tutti.

D.


Oltre 20 anni fa non esistevano i gruppi di Auto Mutuo Aiuto. Posso dire che per me è stato particolarmente difficile affrontare la malattia mentale di un mio familiare quando parenti e amici si allontanavano e la famiglia rimaneva sola.
In seguito, appoggiandomi ai servizi di Casalecchio, ho avuto l’aiuto di operatori del settore. Da un incontro con altri familiari da oltre nove anni è nato il gruppo di Auto Mutuo Aiuto di cui faccio parte.
Ritengo che sia particolarmente utile incontrarsi e condividere le varie esperienze per affrontare meglio la sofferenza e ritrovare forza e fiducia. “La vita non è aspettare che passi la tempesta ma imparare a ballare sotto la pioggia” (Gandhi).

una mamma


Sono una mamma adottiva di due bimbe colombiane. Il nostro avvicinamento ad un gruppo di Auto Mutuo Aiuto per genitori adottivi è avvenuto contemporaneamente al nostro inizio nel cammino istruttorio con i servizi sociali. Inizialmente la nostra partecipazione era molto silenziosa, amavamo ascoltare tutte le coppie nelle loro esperienze positive e negative per farci una sorta di pacchetto d’esperienza per come poi comportarci in futuro con il nostro bambino. Poi, piano piano, abbiamo cominciato a sentirci a nostro agio ed a partecipare anche noi con tutti i nostri dubbi le nostre ansie e tante tante domande sul complicato mondo dell’adozione. Spesso il gruppo ci ha sostenuto e abbracciato in momenti di sconforto. Durante un colloquio di giudici andato male per un probabile abbinamento in Italia, durante l’attesa interminabile della chiamata che non arrivava mai dalla Colombia, durante le pressioni e l’ignoranza che dovevamo combattere tutti i giorni da parte di parenti, amici e conoscenti che non capivano mai quando era ora di stare in silenzio, senza fare troppe domande. Non ci sentivamo soli…
Grazie a questa grande esperienza che abbiamo e stiamo vivendo, io e mio marito abbiamo collaborato con i servizi sociali per creare un gruppo A.M.A. nel nostro territorio ... gruppo ancora attivo e vivace!

P.


Cari Amici, le nostre strade si sono incrociate perché tutti siamo coinvolti dal dispiacere, procurato dalla malattia di un nostro caro (il deterioramento cognitivo), difficile da affrontare in solitudine. Durante questo percorso, si sono verificati altri eventi, in diversi momenti ho pensato di ritirarmi, poi è stato come l’attrazione di una calamita, la necessità di continuare a vedervi e condividere con voi i miei pensieri. Grazie anche alla vostra pazienza e comprensione, adesso posso affrontare con più serenità il domani. Conserverò nel futuro un ottimo ricordo dei nostri incontri. Vi auguro di proseguire i vostri percorsi con tanta forza. Grazie Amici del gruppo, grazie Daniela.
Con affetto

P.


Trovarsi completamente spogli sotto una pioggia ghiacciata, fragili, indifesi, sbilanciati sopra un baratro, investiti da un grande soffio di vento freddo; c’è un uragano dentro di te... No, è un fuoco, è una grande fiammata che ti avvolge e non ti lascia mai, mai … E tu bruci, bruci, senza poter far nulla... Qualcosa ti ha colpito. Ma sogni o sei sveglia? È proprio a te che sta capitando tutto questo? Non hai più tregua. Non hai più pace. Non hai più vita. Si è ammalata tua figlia. Ammalata di mente. Un male che ‘non si vede’. Il male che ‘nessuno vede’ . Quindi è o non è? Persino i tuoi amici, i tuoi stessi parenti dubitano che ciò sia reale. Ma tu sei lì e lo vedi bene. Anche se non sai ancora cos’è. Impotente. Sola. Senza aiuti. Soffri con lei, per lei; non sai che fare. E da quel momento nulla è più come prima. Ma com’era prima? Tanti dubbi, tante nubi nella tua testa, tanti ricordi, tante battaglie e tante sconfitte... Sei assolutamente sola davanti a una montagna enorme. Che ti viene addosso. Pezzo dopo pezzo, se non reagirai, quei massi si staccheranno e ti seppelliranno con la tua disperazione e ... con tua figlia e la sua malattia. Con queste poche righe ho cercato di esprimere il mio stato d’animo all’esordio della malattia mentale di mia figlia. Dopo un paio d’anni d’inferno più o meno ‘autogestito’ ho trovato, casualmente, sul mio cammino uno strumento che si chiama Auto Mutuo Aiuto. Una mia amica mi ha presentata ad una persona facente parte di un gruppo A.M.A., una persona che mi ha dedicato il suo tempo per qualche ora e ha saputo catturare la mia attenzione per condurmi all’interno del gruppo (perché non è sempre facile, anzi). Un gruppo che oggi vedo come un grande abbraccio allargato; anche se i miei incontri si sono diradati e lo frequento con meno costanza in realtà non l’ho mai più lasciato. L’ho introiettato al punto da non dimenticare i volti e i dolori di tutti coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte. La differenza tra la disperazione e il senso di solitudine e il sentirmi attirata in questo cerchio di solidarietà dove mi sono sentita subito capita (dunque questo dramma non stava capitando solo a me) è stata immediata. Era come se fossi sbarcata su un pianeta dove avevo finalmente trovato i miei simili; potevano capirmi, capire il mio linguaggio, un linguaggio comune, perché in comune abbiamo qualcosa: un dolore grande, la malattia di un familiare che non si sa come affrontare, come gestire. Sappiamo tutti di che cosa stiamo parlando quando accenniamo ad un comportamento, ad un atteggiamento del nostro malato, ma soprattutto sappiamo cosa stiamo provando. E il punto è: come venirne fuori? Come aiutarlo? Come migliorare le proprie condizioni quotidiane e quelle del nostro malato? In questa ‘palestra’ che è il gruppo A.M.A. si imparano delle ‘tecniche di resistenza’ o a volte di vera ‘sopravvivenza’, semplicemente ascoltando. Ascoltando gli altri e donando la propria esperienza agli altri. Ed è una ‘palestra’ (anche se è riduttivo il termine rende l’idea) dato che ci vuole costanza e anche allenamento e anche fatica a volte. È una palestra – dicevo – che serve per ‘tenersi in forma’ perché, purtroppo, siamo e saremo sempre impreparati di fronte a esperienze del genere, come il vedere e vivere l’ammalarsi di un figlio. Le istituzioni, la medicina e gli utili e necessari apparati che conosciamo non ti spiegano comunque mai ciò che ti sta capitando dal punto di vista psicologico in quei momenti. Semplicemente perché non hanno mai provato. Mentre una persona di un gruppo A.M.A. sì. Perché se è lì con te ha il tuo stesso problema. Sta vivendo la tua stessa disperazione. In questo cerchio si impara a donare il proprio ‘sapere’ per esperienza e ad attingere al ‘sapere’ dell’altro. Io sono entrata nel gruppo A.M.A. nel marzo del 2006; sono passati tanti anni. Mi sono sentita molto sostenuta e stimata dal mio gruppo. E quando penso a queste persone che mi hanno dato tanto affetto e per le quali provo tanto affetto anch’io (e spero lo abbiano sentito) penso alle loro storie, ai loro dolori, ai lori figli e familiari ammalati. Li ho tutti nel cuore e ogni loro sofferenza è stata ed è un po’ anche mia… è una sensazione che si prova nel gruppo, forse per portare via un po’ del loro peso, del grande fardello che portano. E nello stesso tempo mi sono sentita un po’ alleggerita del mio ‘carico’, depositando nelle loro mani, che si tendevano generose, il mio dolore in tanti momenti così devastanti che ci sono stati nel nostro faticoso e difficile cammino. Come tutte le cose spontanee e quindi non imposte, il gruppo A.M.A. è uno strumento anche ‘curativo’. È una scelta importante ed impegnativa. È un arricchimento e un aiuto per sé e di conseguenza per il familiare ammalato. Voglio esprimere gratitudine immensa per l’aiuto vero che ho ricevuto sempre dal mio gruppo A.M.A. e che credo abbia avuto un peso nel nostro percorso familiare.

R.


AIUTO
Pensavo di essere rimasta ormai sola,
con la mia sofferenza...
ma poi una mano tesa,
un abbraccio,
una parola di conforto,
uno sguardo dove negli occhi ho rivisto la stessa sofferenza...
Fa che non sia più una grigia giornata d’inverno,
c’è uno spiraglio di sole...
È la luce delle persone che come me cercano la speranza,
la condivisione,
senza pregiudizi,
senza maschere... ormai spogli…
Grazie perché ora non sarò più sola…

F.


Sono entrata nel gruppo nel 2005, grazie all’indicazione dello psichiatra che ha in cura mio figlio. Ero distrutta e soprattutto non accettavo la malattia di mio figlio. Grazie ad un percorso doloroso ed intenso la mia vita ha ripreso un senso e se pur con difficoltà, ho accettato la malattia. Il gruppo non ti fornisce la soluzione a tutto, ma il poter parlare liberamente senza reticenze di tutto quello che sconvolgeva la mia vita, l’ascoltare le esperienze degli altri (o più’ specificamente le altre perché siamo più donne che uomini presenti alle riunioni) è servito tanto. Io definisco il posto in cui ci si trova la ‘stanza dei segreti’, è chiaro che è garantita ad ognuno la riservatezza, ed alle volte si esce da lì tanto provati da tutto ciò che si dice che si ha solo voglia di tacere e meditare. Perciò posso dire che per me l’Auto Mutuo Aiuto è stato ed è tuttora molto importante, perché attraverso la condivisione sono nate delle belle amicizie e con il nome stesso del gruppo ho ritrovato una parola che non avevo più, la ‘speranza’, speranza di accettare, speranza di capire, speranza di migliorare la mia se pur difficile vita! In questa società così indifferente, in una vita così dura, ben vengano i gruppi di Auto Mutuo Aiuto.

una mamma


Il mio incontro con l'A.M.A.
Credo che tutto sia iniziato nel 2010 quando nel mio CSM ho visto una locandina che parlava dei gruppi A.M.A.. Ho chiesto informazione, ma mi è stato detto che non c’era niente di adatto a me. Leggendo il dépliant che mi ero presa, ho letto di un gruppo dal titolo accattivante ‘Per un linguaggio comune’ e un recapito telefonico. Ho telefonato, ho parlato un po’, ho fatto delle domande e mi sono sentita dire che il gruppo si incontrava ogni settimana dalle 18 alle 20, che potevo andare a conoscerlo e poi ero libera di decidere se restare o meno. Sono andata e… ancora oggi vado ogni volta che posso. Dal gruppo ho iniziato vari percorsi interessanti e coinvolgenti. Quando sono entrata nel gruppo A.M.A. avevo già iniziato a stare abbastanza bene, ma l’incontro con il gruppo, la conoscenza di tante persone interessanti e positive e fare tante cose con loro mi ha aiutata a stare ancora meglio, a sentirmi utile, ad avere quasi tutti i miei pomeriggi impegnati e a sentire la mia vita interessante. Credo che l’Auto Mutuo Aiuto sia un’esperienza utilissima, perché oltre a mettere in contatto persone che condividono lo stesso problema, si fonda sulla convinzione che il gruppo racchiuda in sé la potenzialità per favorire un aiuto reciproco tra i propri membri che risultano ‘esperti per esperienza’.

T.


Che cosa mi aspettavo dall’Auto Mutuo Aiuto quando ne sentii parlare per la prima volta? Non lo sapevo, ma la disperazione mi indusse a provare. A causa della malattia di un mio familiare, che si stava consumando in una sofferenza indicibile che non trovava sollievo in nessuna cura, anche il resto della famiglia era devastato.
Al primo incontro dell’Auto Mutuo Aiuto eravamo cnque persone, tutte piene di dolore, di sensi di colpa, di mancanza di fiducia, senza speranza. Insieme a loro ho imparato a parlare: parlare della mia situazione e dire cose che a nessun parente o amico avevo mai raccontato, perché col silenzio si pensa di proteggere un figlio in difficoltà dal giudizio degli altri che non possono capire. Ho imparato ad ascoltare e ho trovato un ascolto attento e partecipe perché tutti avevamo avuto le stesse drammatiche esperienze e provato le stesse emozioni. Ho trovato la solidarietà del gruppo che è diventato molto numeroso ed ha aiutato e sostenuto tante persone.
Parlare della propria sofferenza consente di mettere ordine nel tormento che lacera il cuore, nel rovello che invade la mente, consente di definirne i singoli aspetti: il senso di colpa, il desiderio che tutto possa tornare come prima, l’impotenza ad aiutare la persona malata, la difficoltà della relazione, la solitudine... La condivisione delle esperienze, il confronto dei nostri comportamenti con quelli di altre persone che hanno lo stesso problema consente di vedere che esistono altre possibilità di agire, induce a sperimentare altre strategie, in modo e in misura diversi, secondo le proprie forze. L’Auto Mutuo Aiuto insegna a guardare dentro sé stessi, a credere che il cambiamento sia possibile, a riaccendere la speranza.
Quando sono riuscita a cambiare qualche cosa di me anche intorno a me qualche cosa è cambiata.

G.


L’Auto Mutuo Aiuto funziona e non mi stancherò mai di poterlo condividere... a me personalmente ha salvato la vita. Ho imparato a non confondermi con il branco e a valorizzare la mia diversità.

M.


PERCHÈ IL GRUPPO: si entra in un gruppo A.M.A. perché, qualunque sia la situazione di disagio che ci spinge, si pensa che si troveranno persone che hanno attraversato o stanno attraversando la nostra esperienza e che ci potranno comprendere. Perché la pressione psicologica diventa tale da farti cercare un aiuto.
LE ATTESE: si pensa di poter alleviare la solitudine perché, nel nostro caso, quando c'è una malattia grave (un tumore) che comporta terapie pesanti con effetti pesanti, la famiglia non riesce a supportarti completamente e spesso siamo anche noi a non volere gravare troppo sul compagno, sui figli, sui genitori. Si spera di trovare delle risposte anche piccole. Si attende di essere confortati.
LE RISPOSTE: in un gruppo A.M.A. trovi CONFORTO E CONTENIMENTO.
Puoi dare sfogo alle tue ansie, alle tue angosce sapendo che verranno comprese, perché le altre le hanno vissute. Una paura verrà sdrammatizzata, altre accolte nella loro giusta misura. Non avrai paura di piangere e spesso uscirai sollevata.
La dimensione gruppale è un abbraccio mai soffocante perché sei tu a decidere quando partecipare, quanto raccontare, quanto esporti e, al tempo stesso, il gruppo conterrà le tue emozioni con il suo affetto e la sua comprensione e potrà anche darti la forza per andare avanti e lentamente riuscire a ricostruire il tuo mondo frantumato, la fiducia nelle tue risorse. Nel gruppo ho trovato sostegno, conforto, confronto, solidarietà, spesso complicità, una grande vitalità insieme alla consapevolezza estrema della fragilità di ognuna di noi. Il gruppo attraversa momenti di grande sofferenza e dolore per la nuova malattia di un'amica, la morte di una compagna, ma le maglie si tendono per farsi più fitte e reggere. E al contempo si sa ridere e apprezzare moltissime piccole e meno piccole cose. Il gruppo diventa un organismo unitario molto coeso e ricco delle esperienze e dei caratteri di ognuno dei suoi componenti. Il gruppo facilita un percorso di empowerment che è il riappropriarsi delle proprie energie, delle proprie capacità e tirare fuori magari talenti dispersi nel tempo, soffocati dalla vita. Non è probabilmente un caso che nel 2006 dal gruppo sia nata un'associazione, per restituire una parte di quell'affetto che ci aveva accolte e per portare al di fuori del gruppo chiuso le competenze che in quel gruppo si erano scoperte o riscoperte.

P.


SAPERE CHE CI SIETE
Credo che tutti conosciamo bene una delle belle immagini che l’Auto Mutuo Aiuto rimanda: il CERCHIO. Quando le persone arrivano presso la sede indicata per gli incontri, si siedono una accanto all’altra formando un CERCHIO. All’inizio è predisposto cercando le sedie opportune per il numero di persone attese. In seguito si aggiungono nuove sedie per accogliere i nuovi arrivi e il CERCHIO mano a mano si allarga. Nel tempo capita che pure si restringa IL CERCHIO… ma sempre molti sono i visi che vi si affacciano, che vanno e vengono e lasciano un pezzetto della loro vita, una traccia di cui sono testimoni importanti, spesso dolenti, ansiosi, ma anche reattivi e determinati e sempre accolti, ascoltati, ricambiati… Oggi, 29 novembre 2013, nella sede di Viale Pepoli, in un incontro plenario, si è ricordato il decennale della partenza del progetto “rete dei gruppi A.M.A. Area metropolitana” AUSL di Bologna.
All’arrivo le sedie predisposte mi sono sembrate poche e quasi mi è dispiaciuto; al centro una pianta desertica che testimoniava la ‘resilienza’. Tenuta senza acqua a lungo, questa si appallottola in un’apparenza priva di vita; sembra rinsecchita, ma si riapre e si ravviva quando viene posata su una ciotola con un poco di acqua, come Daniela aveva curato di fare prima degli arrivi. Dopo un quarto d’ora l’evento ‘magico’ si è realizzato di nuovo attraverso l’unica magia possibile: l’impegno e la tenacia umani, la capacità di ‘resilienza’, la voglia di andare avanti ad occhi aperti: il CERCHIO si è allargato. Dapprima da dieci a quindici, poi a ventidue, a trenta e a più di quaranta persone e c’è stato spazio per tutti, finché gli ultimi arrivati hanno dovuto sedersi in doppia fila. Chi manca? Ci si è chiesti a un certo punto. Gli uomini! Ha notato uno dei due uomini presenti, facendo sentire la propria voce. Ricordare l’inizio ha significato per me ricordare la ‘posa delle prime pietre’ da parte di alcuni operatori e di compagni o genitori di persone con disagio psichico … fu molto commovente. In quel punto iniziale, seguito dalla presentazione dell’esperienza AMA di Trento e dal desiderio di riprodurre l’esperienza a Bologna, compresi che non sarei più stata, anzi non saremmo più stati soli di fronte a molti turbamenti personali o in famiglia, se colpiti dagli inciampi della vita; in futuro avremmo potuto trovare accoglienza tra persone che stavano vivendo esperienze simili alla nostra e quindi saremmo stati sostenuti da una maggiore ‘sicurezza sociale’. Di certo ci si doveva rimboccare le maniche. E in molti l’hanno fatto se dieci anni fa partirono tre gruppi e ora se ne contano a Bologna e dintorni ben ottantatré. E molte altre esperienze ci sono state, nel frattempo terminate. Non ho voluto mancare, dieci anni dopo quella ‘posa delle prime pietre’, proprio per riconoscenza e per affetto. CI SIETE, e io? Ci sono, per quanto ho potuto nel tempo e per quanto potrò in futuro. Quanti siete nel gruppo ‘Sempre Insieme’? Ha chiesto a Simonetta una partecipante … a volte otto, a volte quindici, ha risposto, ma in tutto siamo circa cento. E svolgiamo un’attività silenziosa, correlata al bisogno delle partecipanti, nel momento pre o post-operatorio, nel momento della depressione … SAPERE CHE CI SIETE! In qualche modo, con le fatiche e le preziose diversità che ognuno porta, siete capaci di restare in sella … vorrei esserci per il ventennale per misurare altre e molte energie vitali …. È un augurio e una speranza.
Vi voglio bene!

A.







Solidarietà: un senso di responsabilità su larga scala

   Edgarda Degli Esposti
presidente della Consulta contro l’esclusione sociale del Comune di Bologna

L e diseguaglianze ci rendono infelici. Gli individualismi bloccano la nostra crescita personale e di conseguenza sociale, civile, culturale. Nella certezza che nessuno di noi è ‘un’isola’, occorre trovare una strada che faciliti le relazioni, che crei legami, scambi, reciprocità, fra tutti gli esseri umani a qualunque provenienza razza sesso nazionalità essi appartengano. Costruire ponti e non muri come ci suggerisce la più grande autorità religiosa morale culturale del nostro tempo, Papa Francesco, significa aprirsi, accettare l’altro l’altra, viverli come un’opportunità di crescita, scambiare, far scorrere l’ energia in modo bi-direzionale da un ‘polo’ all’altro e viceversa. Perché reciprocità può sempre esserci anche quando la disparità di condizione di status è di per sé un fatto oggettivo. Questo per noi è l’accezione più alta più della solidarietà intesa come un senso di responsabilità su larga scala, in cui ognuno ognuna vive gli altri, chiunque essi siano, come una parte essenziale e costruttiva della comunità alla quale dare, ma anche attingere cultura saperi usanze tradizioni, quando questi provengano da altre parti del mondo e modi di essere di sentire di comunicare, quando si tratti di persone che mostrano qualche disagio o fragilità.
Certo però che solidarietà e aiuto, senza nulla togliere alla loro qualità di espressione ‘nobile’ dell’animo umano, poco possono quando si tratta di variare significativamente il quadro sociale e politico della comunità di riferimento. Qui allora mi viene in mente l’idea forza che ha segnato la mia vita e il mio agire negli ultimi trent’anni. Per dirla con il titolo di allora: strategia dei diritti etica della solidarietà. Che significa esattamente questo: riconoscere in primo luogo alle persone, a tutte le persone, diritti civili, sociali, di cittadinanza non a parole, ma diritti codificati e soprattutto agibili, facilmente fruibili, ‘utilizzabili’, senza complicazioni e/o fatiche. Contenere questa azione, che deve essere tenace inarrestabile a moto continuo, perché le trasformazioni sociali sono soggette ad un continuo dinamismo, sotto un’egida precisa: quella della solidarietà come modus di pensare agire vivere. Solidarietà dunque come sfondo come senso comune come orizzonte e nel contempo come baricentro della nostra azione individuale e collettiva, solidarietà come condicio sine qua non della coesione sociale, indispensabile per tenere aggregate e quindi solide sicure al riparo da insanabili lacerazioni le nostre comunità. In tutti questi anni strada ne è stata fatta tanta basti pensare a quanto sia diffuso e capillare l’associazionismo. La Consulta contro l’esclusione sociale del Comune di Bologna conta oltre cento associazioni, ma il registro delle iscrizioni della ex provincia ci parla di oltre quattrocento associazioni, tutte che, seppur con finalità diverse e molteplici campi di azione, si muovono sul terreno dei diritti e sotto l’indiscussa egida della solidarietà umana sociale civile. Un esempio concreto che vorrei citare è il progetto ‘Bologna accoglie’, che investe oltre sessanta associazioni e tanti enti gestori (cooperative sociali, onlus eccetera) che attraverso un lavoro in rete si stanno cimentando in una pluralità di progetti che investono Bologna e l’area metropolitana, tesi a coinvolgere attivamente i giovani richiedenti asilo e protezione internazionale in veri e propri ‘patti di volontariato’, previsti da un protocollo regionale ad hoc fra Anci, Terzo settore e sindacati. La Regione Emilia Romagna ha svolto un ruolo di primo piano investendo risorse e mantenendo solidamente la regia in tutto l’iter dell’accordo. L’esperienza è cominciata da qualche mese, verifiche da parte nostra e dell’Istituzione ‘Serra Zanetti’, che è stata in campo fin dalla prima ora, dal lavoro di co-progettazione, se ne fanno costantemente, quindi senza enfasi si può affermare prove alla mano che siamo sulla strada giusta. Certo il cammino è appena cominciato ma la traiettoria è quella: dei diritti e della solidarietà perseguiti insieme, società civile con le sue organizzazioni e la pubblica amministrazione nelle sue diverse e plurime articolazioni. Del resto diversamente non potrebbe essere se non a discapito dei risultati: per essere efficace la strada dei diritti e della solidarietà deve vedere un cartello di forze molto esteso in cui l’attore pubblico deve fare la propria insostituibile parte sollecitando sostenendo promuovendo valorizzando l’azione di tutti gli attori sociali in una concezione di sviluppo pieno della sussidiarietà così come ci suggerisce il titolo V della nostra costituzione.



L’ ASSISTENZA A BOLOGNA

   Diana Tura
Responsabile della Sala Studio dell'Archivio di Stato di Bologna


Il profilo di una città è definito oltre che dagli aspetti politici, economici e demografici, anche dalla rete dei ‘servizi’ che in essa operano in aiuto a categorie di persone che necessitano di assistenza. Alla fine del Medioevo a Bologna il panorama della carità e dell’assistenza, che si era configurato nei quattro secoli precedenti, aveva raggiunto una notevole complessità e si articolava in una molteplicità di istituzioni e di forme che rispecchiavano momenti diversi della storia civile, culturale e religiosa della città. In linea di massima l’origine di queste istituzioni è da ricondursi a persone o a moventi legati alla religione; in tutto l’Occidente cristiano la nascita delle ‘opere assistenziali’ è legata inizialmente agli istituti religiosi; a Bologna fra il XII e il XIII secolo presso i monasteri benedettini vi erano ospizi per pellegrini, viandanti, infermi e trovatelli; altri ordini religiosi o cavalleresco-ospitalieri, nati durante le crociate con lo scopo di assistere i pellegrini, istituirono luoghi di raccolta e di assistenza all’interno della città. A questa organizzazione ecclesiastica in seguito si affiancò un’assistenza laica, costituita dalle confraternite, gruppi di cittadini organizzati in difesa di alcune categorie di persone con la finalità di mutuo soccorso, ospitalità, assistenza e carità. Tali associazioni, dopo un primo periodo di diffusione nel XII secolo, si erano consolidate nel XIII secolo, per arrivare fra il XIV e il XV secolo ad un controllo pressoché assoluto di alcune funzioni civili, come ad esempio la gestione ospedaliera, che in quell’epoca non si occupava solo di malati, ma anche di bambini abbandonati, di pellegrini e di condannati. Numerosi dunque furono gli enti di assistenza e di beneficenza che a Bologna, dal XIII al XVIII secolo, si configurarono come istituzioni stabili, quasi sempre di lunga durata e di rilevanza cittadina: ospedali per ammalati e per alloggio di viandanti e pellegrini, orfanotrofi e ‘conservatori’ di fanciulli e fanciulle, ospizi e ricoveri per vecchi, per donne ‘pericolanti’, cioè in condizione di perdita o rischio dell’onore, per mendicanti.
Le forme di assistenza presenti in città erano molto articolate e coprivano l’intero ciclo della vita: neonati abbandonati, adolescenti poveri, ragazze ‘in pericolo d’onore’, vedove, donne il cui matrimonio era, per qualche ragione, fallito e che si trovavano in situazioni di rischio per la loro reputazione, orfani, benestanti impoveriti: per ognuna di queste categorie esistevano specifici istituti assistenziali, per accedere ai quali erano necessarie specifiche e diverse qualità. Ad esempio per accedere all’Opera dei poveri vergognosi il povero doveva essere un nobile o almeno un benestante decaduto, per accedere all’Opera pia dei mendicanti era necessario che il mendicante fosse residente da alcuni anni in città. Anche per accedere ai ‘conservatori’, agli ‘orfanotrofi’ o alle ‘case’ erano richiesti particolari requisiti oltre a quello della cittadinanza. Per esempio le ragazze che entravano al Conservatorio del Baraccano, oltre ad altri numerosi requisiti, dovevano avere “onestà, bellezza e salute”.
Nel corso del XIV secolo dall’unione di alcune di queste confraternite nacquero gli ospedali di Santa Maria della Vita e di Santa Maria della Morte, che acquisendo altre confraternite dettero inizio a un processo di progressiva centralizzazione dell’assistenza, che nel XV secolo cominciò ad essere gestita da pubbliche autorità. Al vertice delle istituzioni assistenziali bolognesi vi erano gli ospedali per gli infermi, di cui Bologna era particolarmente ricca in virtù dell’antica tradizione medica dell’Università; nel ‘700 gli ospedali erano essenzialmente otto: gli ospedali della Vita e della Morte, i più antichi e grandi, facenti capo alle due corrispettive arciconfraternite; l’ospedale di S. Orsola, specializzato nell’assistenza degli incurabili, l’ospedale di S. Antonio abate dei Fatebenefratelli o “Sportini”, l’ospedale Azzolini o della Maddalena, l’ospedale del SS. Salvatore o dei poveri abbandonati, l’ospedale della SS. Trinità o dei convalescenti e l’ospedale di S. Giobbe, specificatamente destinato alla cura del morbo gallico o ‘male francese’ o ‘male di S. Job’, in pratica la sifilide, comparsa a Bologna alla fine del XV secolo. Molti di questi ospedali chiusero fra la fine del Settecento e l’Ottocento e le loro competenze confluirono negli attuali ospedali Maggiore e S. Orsola, istituzioni che conservano ancora l’alto prestigio dell’antica attività ospedaliera di Bologna.
Di tutta l’intensa attività assistenziale del Medioevo e dell’età moderna non è rimasta solo una gloriosa memoria, ma anche una ricca eredità: edifici storici e possedimenti vari, collezioni d’arte e un’abbondante documentazione, questa forse meno conosciuta, conservata in vari istituti cittadini. Gli archivi ospedalieri bolognesi e quelli delle istituzioni di carità ed assistenza, che con gli ospedali hanno avuto vicende storiche comuni, hanno avuto percorsi molto complessi, non solo a Bologna ma in tutta Italia. Ciò fu conseguenza del fatto che la maggior parte di queste istituzioni nacque nel corso dell’età medievale e moderna dalla libera iniziativa di singoli benefattori o di associazioni private, e solo a partire dalla seconda metà del secolo XVIII esse furono assoggettate al controllo pubblico. Nel corso dell’Ottocento, prima e dopo l’unità d’Italia, iniziò un processo di accorpamenti degli enti ospedalieri e degli enti di carità e assistenziali, che portò alla costituzione delle IPAB (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza). Recentemente vi è stata un’ulteriore riorganizzazione disciplinata dalle Regioni, con la creazione delle ASP (Aziende pubbliche di servizi alla persona), enti pubblici senza fini di lucro, dotati di autonomia statutaria, gestionale e patrimoniale. A Bologna si sono costituite inizialmente tre ASP , “Giovanni XXIII” (2006), “Poveri Vergognosi” (2007) e “Irides” - Istituzioni Riunite Infanzia, Disabilità e Sociale (2008), confluite infine in un’unica ASP, l’azienda Pubblica di Servizi alla Persona Città di Bologna (2014).




IL PIACERE DI LASCIARE UNA PIZZA SOSPESA

   L’Aurora dalla sua panchina Da Piazza Grande, Giugno 2016 (redazione@piazzagrande.it)


Viene da Napoli l’usanza di lasciare un caffè pagato al bar, chiamato caffè sospeso, sospeso in attesa di essere gustato da una persona che evidentemente ha qualche difficoltà economica. Ieri sera per televisione hanno fatto vedere che a Bologna due pizzaioli napoletani, nella loro pizzeria da asporto, hanno messo in pratica questa usanza tutta napoletana, trasferita pari pari a Bologna. A essere sospesa questa volta è la pizza. Sono orgogliosa che la mia città abbia intrapreso questa bella usanza, speriamo che questa iniziativa venga copiata da tutte le pizzerie. Mi hanno spiegato che i titolari fanno un prezzo speciale per le pizze sospese, circa quattro euro. Un volontario porta le pizze disponibili al dormitorio dove sono sempre molto gradite dagli ospiti. È stato chiesto se una persona che desidera una pizza sospesa può prenderla. Certamente. Per noi sarà un piacere. Che bello! Offrire qualcosa di appetitoso, buono da mangiare. Una soddisfazione per chi offre e per chi la riceve, molto più gratificante che allungare due euro a una persona all’angolo della strada. Tante piccole cose potrebbero essere sospese, se a qualche fornaio venisse in mente di offrire una mandorlina di crescente coi ciccioli, io per esempio la gradirei molto volentieri. Un po’ di generosità fa bene al cuore, un vecchio detto bolognese recita: “poco ma volentieri”. Tutto può essere sospeso: un limone, una mela, una matita, un quaderno. Per ora siamo felici che siano arrivate le pizze sospese, vogliamo che Bologna si faccia onore in questa gara di solidarietà, non sai chi ti ha offerto la pizza, ma, in un certo senso, sei grato verso tutta la città che in forma anonima ti offre quel poco che può. Un granello di sabbia in un deserto, che però ti fa capire che non sei solo nelle difficoltà. La gioia è immensa, appagante. Tempo addietro ho cucinato un tegame di trippa e fagioli per gli amici dell’Happy Center, l’hanno tanto gradita, i piatti parevano lavati tanto si erano impegnati col pane a fare la scarpetta.
Quando c’è un’iniziativa positiva, ben venga, sono la prima ad esserne contenta.






UNA PAROLA TERREMOTATA

   Testo originale pubblicato su unaparolaalgiorno.it: http://unaparolaalgiorno.it/significato/S/solidarieta


S olidarietà: rapporto di fratellanza e di assistenza reciproca che unisce i membri di un gruppo. Attraverso il francese: solidarité; derivato dal latino: solidus solido.
Si parla dei doveri di solidarietà prescritti dalla Costituzione; si parla di persone solidali con chi ha subìto un’ingiustizia; si parla di una persona che con te, nel momento di difficoltà, si è mostrata solidale. Per chi si domandasse se ci può essere un legame fra geometria e sentimenti umani, voilà. La solidarietà è il sostegno reciproco, al modo in cui ogni parte di un solido è retta e tenuta salda da tutte le altre: nessuna si ritrova sola nel vuoto. La solidarietà è quindi la compattezza del corpo sociale, il suo essere massiccio, e ci spiega che la forza di un corpo sta nella sua coesione. Coesione che si esprime innanzitutto nella mutua assistenza, in una fratellanza che scaturisce dalla coscienza di far parte di un uno.
Quando non ci curiamo di qualcuno che sta male o è in difficoltà - càpita - ecco che nel solido si apre una crepa: una sola, una crepa da nulla. Ma di crepa in crepa il corpo si indebolisce, le fenditure si allargano fino a renderlo fragilissimo, incoerente, che perde pezzi, fra i quali ci siamo anche noi. Il modo in cui questa parola viene usata ci dice che è l’aiuto il cemento del corpo in cui viviamo, il venirsi incontro nella partecipazione di un destino comune in cui nessuno dovrebbe essere lasciato indietro o dimenticato: una società solidale è una società solida. (E pare che sia un valore di un certo rilevo, da qualche milione di anni a questa parte).
Se fossimo in mare avremmo detto: siamo tutti sulla stessa barca. Qui possiamo dire: siamo tutti sulla stessa terra, i cui tremori distruttivi capitano ora qui ora là. La percezione - non necessariamente consapevole - di una comunanza di condizione e di umana precarietà è il fondamento della solidarietà che abbiamo sperimentato. Solidarietà che dovrebbe alimentare la nostra convivenza anche lontano dai terremoti.
Questa è una “parola terremotata”, frutto di una collaborazione con l’associazione LaCà, nata dopo il sisma in Emilia. Col loro aiuto cerchiamo di capire come alcune parole si sono trasformate dopo il terremoto e come si possono rinnovare. Il testo in corsivo è un loro diretto contributo.




LA CITTÀ DELLA GIOIA di Dominique Lapierre (1985)

L a città della gioia (1985), di Dominique Lapierre, è un romanzo francese ambientato a Calcutta negli anni Settanta. Il romanzo si articola sulla vita di tre personaggi: il primo è Hasari Pal, contadino costretto a emigrare a Calcutta a causa di un evento climatico avvenuto nel suo paese e passato così da un grave tipo di povertà a un altro. Egli è così disperato da essere pronto a vendere il proprio sangue per poche rupie ma questo non è sufficiente, e neppure lavorando come ‘uomo cavallo’, cioè guidatore di risciò, riesce risolvere i suoi problemi economico-familiari. Il secondo personaggio è Paul Lambert, un missionario francese che decide di vivere la sua vocazione tra i più poveri dei poveri. Questa figura è molto importante per quanto riguarda la solidarietà verso i poveri della bidonville di Calcutta, dove il romanzo è ambientato. Comprendendo che uno dei problemi principali è la mancanza di assistenza medica, va alla ricerca di un dottore che possa fornirla agli indigenti. Quello che mi ha colpito di più di questo personaggio è che la sua intenzione di aiutare i poveri è cosi forte che vuole immedesimarsi in loro e nella loro povertà, vivendo nella miseria come loro. Il terzo personaggio è Max Loeb, un giovane medico statunitense, figlio di un importante cardiologo, che dona un anno della sua vita professionale per aiutare gli indigenti. La cosa che più mi ha colpito è che gli abitanti dello slum, pur non avendo quasi nulla fanno grandi feste per ringraziare Dio e sono solidali gli uni con gli altri nel darsi aiuto. Consiglio la lettura per l’attenzione e la dovizia di particolari sulla policromatica realtà indiana.

Vattene angoscia

   Daniela Mariotti


Vattene angoscia
sparisci
domani
non ti voglio
vedere!
Prego prego...
con gli occhi.

Non è fuggito il tempo

   Patrizia Bianchi


Non è fuggito il tempo
dell’umano incontro.
Vedo mani stringersi
nel silenzio della sera,
anime alla ricerca d’amore.
che nel tenero abbraccio
dell’ultimo raggio di sole
chiedono aiuto,
o gesti di solidarietà.

E tutto va

   Daniela Mariotti


E tutto va
verso il basso
dove spero
di vedere sorgere
un sole tenero
che non bruci
il mio canto
e torni la speranza e…
dal mio cammino
interrotto
nasca la luce.
Oh, estetica,
reggi la mia mano
fino
ad un lieto
sogno.

Così il tempo grande

   Daniela Mariotti


Così il tempo grande
che raccoglie
anche il mio ricovero.
Io sono piccola
e invoco la serenità
della parola
sfuggita.

Guardo il tramonto

   Daniela Mariotti


Guardo il tramonto
di un solo giorno
che se ne va
con il suo bordo
di rosa lasciandomi
in silenzio
perfetto.

Mia

   Piergiorgio Fanti


Tu sei per me
la più carina del mondo
e un amore a tutto tondo
ti lega a me.

Tu sei per me
la più simpatica del mondo
e un amore un po’ giocondo
ti lega a me.

Tu sei per me
la più ironica del mondo
e un amore rubicondo
ti lega a me.

Tu sei per me
come un sole splendente
e un amore colmo di calore
mai si ripiega, muore.

Prendo spunto da lei

   Marcella Colaci


Prendo spunto da lei.
Manca il mare
eppur la vedo la spiaggia
mancano affetti
eppur li sento nel cuore
godo di una pace
eppur non mi sento piena
vedo i colori
eppur vesto di nero.
Cosa sia questa stagione
impressa nella memoria
altra stagione
andata a nascondersi,
cosa sia la natura
che manca eppur mi avvolge…
Qualcosa mancherà sempre?
Qualcosa sarà sempre
nell'incognita del destino avvolta?
Prendo spunto da lei
violetta tenue
che malgrado il cemento
sboccia
tenerissima nei suoi piccoli petali
eppur perfetta.
Con lei mi fermo e lo stupore
di essere malgrado il tempo
senza mare né spiaggia né affetti
mi prende e mi ammonisce di imperfezione,
da lei deduco la mia intemperanza
e mi dico che sboccerà altra vita
sboccerà malgrado il cemento,
se non ci sarà tempo sarà solo
quella parte del destino
un riaffiorare di imbecillità,
senza la naturale ragionevolezza
e, povera me, senza colore.
Ma la violetta vince,
sarò come lei vittoriosa?
Sarò, malgrado tutto, viva?
Durerà una stagione
ma il seme è lì pronto a vivere
pronto a rigermogliare perfetto
e dentro me basterebbe cosa
per poterlo esporre al vento
e poterlo amare, ammirare
del suo coraggio.
Viva la vita che torna a baciarmi
malgrado tutto.

Sarò buona

   Marcella Colaci


Sarò buona
sarò buona come il pane
sarò fresca di rugiada
e camminerò
nei deserti di memoria
imparando ad amare
non solo me stessa
ma prima me stessa
divenendo nella forza
non solo bellezza.
Sarò non solo buona
con me stessa
ma guerriera
imparerò a difendermi
con destrezza
userò la forza
non solo dell'amore
e sarò principessa.
Castello la mia casa
forgerò la mia sapienza
e colorerò
la strada di gioie
fino a prediligere
la tua alla mia anima.

Estetica

   Daniela Mariotti


Se nessuno
piangesse alle porte
del cielo, se nessuno
avesse quello sguardo
smarrito potremmo
passeggiare serenamente.

Uno che non vale soltanto per due

   Eghos Giz


Mani intrecciate e cuori palpitanti
Tasselli di un puzzle, dopo qualche incertezza vedi
si incastrano alla perfezione
Poi, tutte quelle frecce parallele,
lo stare fianco a fianco fa puntare
sguardo e direzione sempre avanti
Sapere di questo e pure di quest'altro
Non saperne e pure
desiderare di esserne parte - questo binomio
così istintuale e talmente lontano,
relativamente lontano?
Dal posto in cui si trova, il punto più alto
gira intorno tutto lo sguardo, grigio che ricopre
e certo, qualche puntolino sporadico
di colore - come sprazzi
Aguzzate la vista, tutte Voi
Giovinezza, Esperienza, Tempra d'Animo
e fategli sapere
Dove può trovarli (...) Anywhere Town
Quando può trovarli (...) nel frattempo
Chi può trovarli (...) e quanti sono
Come può trovarli (…) non solo un mezzo
Sopra a tutto il
Perché - conoscenza sostanziale delle cose
conoscenza sostanziale delle cose
E questo binomio - vi è questo e pure quest'altro
a braccetto insieme
un equilibrato passo a due
tandem tutt'altro che faticoso
alla fine
Ma così lontano
e così raggiungibile
il percorso per
Arrivare a questo Binomio.

Tutto qui

   Paola Scatola


Sono sola:
tutto qui
ma ci sei
tu con me
in alcuni
momenti
sei con me
arriva
presto
sono tua.

Con il cielo

   Daniela Mariotti


Con il cielo
cercai gli occhi
cercai
gli
occhi
vibranti
come una
volta
chiedo
pietà
chiedo
misericordia
al vasto
cielo che
non dimentica
cercando
pace per tutte
le anime.

E basta

   Paola Scatola


Vieni con me e basta,
non lasciarmi più
ed è così
che ti vorrei
sempre con me
perché
ti voglio
bene.

Dei miei figli

   Daniela Mariotti


Dei miei figli
intravedo
il futuro.
E mari lontani
portano
mille fiori
dall’inebriante
profumo.

Ho bisogno del mondo

   Marcella Colaci


Ho bisogno del mondo
come ho bisogno di salutare la luna
dispiace la lontananza
di ogni cuore
dispiace il crudele egoismo del cielo
ad aver solo per lui
la bellezza
dispiace dover lasciare le parole
che solo scritte riescono a scaldare
a fermare la mente nel tempo imperfetto
eppur perfettissimo nel suo scandire il tempo.
Ho bisogno del mondo
di tutte le anime pure, lievi, generose
assetate d'amore.
Ho bisogno del mondo
che dietro ad ogni battito di ciglia
sa contenere il battito d'ali e volare
oh sì, l'immaginario
lo attraversiamo incoscienti
poi si manifesta e tollera ogni ombra
cercando luce.
Ho bisogno del mondoooooooooooooooo.
Vile il tuo petto e la tua lingua
vile l'indifferenza
il dramma dell'inumana storia
che da sepolta risorge
solo se accompagnata al pane.
Smetti di saziarti mondo
smetti di pensare alle viscere
e risorgi di acqua, di povertà, di salute
acqua di cristallo pura come anima
povertà di spirito per risorgere
salute per eludere la morte.
Ho bisogno del mondo
e scrivo di lui e di me
ma di lui non oso offenderlo
non oso
malgrado la bieca invidia del creato
che sereno nasce, muore e non chiede
ma prima muto
poi di lotte fiero fa rincasare le membra
povere membra
sempre in lotta per non soccombere
alla lingua di figli morsi dalla fame
figli buoni e cattivi
buoni se il seno è stato dolce
cattivi se il seno amaro non ha sfamato la bocca
figli, ancora i figli
a sentenziare su madri e padri.
Quanto ho bisogno del mondo
come figlia e madre
come orfana
come donna
seppur non vorrei il seno
responsabile di tanto amore
lo denudo e in pancia creo l'universo
il mondo.
Ne ho bisogno, ma è lì
proprio lì carne e sapore
viscere e sale, seno, figlia, madre
sono io il mondo
siamo il mondo
e siamo uno per l'altra, per l'altro
siamo la luna e satelliti
l'universo.

Il tintinnio dell’amore

   Matteo Bosinelli


È passato tanto tempo, ormai,
quando ti dissi:
"amami e vivrai".
Eri fuggita subito molto lontano,
pur prendendomi timidamente per mano.
Sai, è ora lucida la mia follia:
sto cercando la comune parola,
ma averti per ora non posso,
perché purtroppo sei ancora troppo 'sola'.

Aiutami amore tu

   Paola Scatola


Aiutami ancora tu
sei con me
un piccolo
aiuto
vorrei da te
ed è qui
che ti vorrei
con me
per un aiuto
un piccolo
aiuto.

LA NOTTE DI NOTE

   Giovanni Romagnani
      feedback a: romagnani.gio@gmail.com


Una scintilla nel buio

Per me la libertà era guaranà. Imbottito di guaranà passavo notti insonni, alla radice delle mie nevrosi, radice quale il guaranà è. Poi una scintilla nel buio, apparì e sparì, e trovai questa canzone qua, e tutto mi fu chiaro.

Franco Battiato - No U-Turn
Per conoscere
me e le mie verità
io ho combattuto
fantasmi di angosce
con perdite di io.
Per distruggere
vecchie realtà
ho galleggiato
su mari di irrazionalità.
Ho dormito per non morire
buttando i miei miti di carta
su cieli di schizofrenia.

https://www.youtube.com/watch?v=o9XHfHu8ZKI




Perché non mi piace la televisione

Torno a un tema a me caro e a un autore che amo. Francesco “Franco” Battiato. E al suo verso “ l’odore domina sovrano”. È questo il punto. La televisione è estetica e asettica, al Borotalco. Non si sente la puzza dei piedi! E invece, l’olfatto, che credo stimoli l’ipotalamo, è importantissimo. Pensate al cibo. Un conto è osservarlo, un altro sentirne la fragranza. Buffo che si sponsorizzino i profumi con le immagini. Belle ragazze o muscolosi maschi per fragranze od essenze che vedi e non senti. Il richiamo al negozio di profumeria è automatico.
Lì il macho non c’è, ma almeno c’è il flacone. Per cui ben vengano eventi sui cinque sensi, come quelli organizzati dalla dottoressa Elena Pasquali, perché il vivere più UmanaMente passa anche da lì, non semplicemente dal vedere, ma anche dal Sentire.




Dettagli

Ho detto a Radio Kairos (105,85 FM) che il mondo deve ritrovare il silenzio: il suo mare interno. In alcuni casi la sua Marea. Come può uno scoglio arginare il mare, anche se non voglio torno già a volare. Ma in fondo lo scoglio ci vuole, la differenza, nell’incontro/scontro dei flutti, si fa apprezzare. E così le difficoltà. Danno sale. Fanno bruciare le ferite, ma ce le ricordano. Poi si può vivere o niente, incazzarsi, perdere o ritrovare Arcangelo Corelli, ma quando perdiamo il desiderio di immaginare la fantasia, il terzo occhio si apre, mettendo in luce i rincoglioniti.
Grazie Franco!
https://www.youtube.com/watch?v=tfqwo73wjVU
Franco Battiato, Oceano di Silenzio.




Le aquile non volano a stormi

Ho visto un filmato in cui Lele Mora parlava in un orto a Exodus con don Mazzi.
Premetto che ho seguito molto poco l’intera vicenda di Gabriele Mora, ma ho comprato un libro, che non ho ancora letto, in cui il signor Mora parla della sua esperienza in carcere. Ho già scritto che ho provato la detenzione psichiatrica.
So cosa vuol dire essere chiuso in un reparto, non so cosa vuol dire essere chiuso in una cella. Per cui le nostre esperienze sono diverse. Ci accomuna la privazione temporanea di libertà. La sua vicenda mi ricorda quella di Sergio Cusani durante tangentopoli. Su questo non aggiungo altro.
Mi ha colpito il dialogo che ho sentito: Gabriele Mora dice a don Mazzi, che stimo ma non amo - a tratti lo trovo demagogico - che l’ orto in cui lui lavora deve diventare un giardino. Come lo dovrebbe diventare il, da tutti noi ambito, vecchio Stivale.
Che ha davanti a sé una delle isole che da sempre ho desiderato visitare, la Sicilia.
L’ho vista, anni fa, dallo stretto di Messina, ma non sono andato di là. Celebrata da Franco Battiato e Manlio Sgalambro nel cofanetto dvd-cd Niente è come sembra.
Giuseppe Girotti in Città Sognate parla della fessura tra causa ed effetto. Lì vola l’Aquila, spirito le cui emanazioni, in rarefatte zone del pensiero, affinano la nostra disposizione a vivere e valutare.
https://www.youtube.com/watch?v=PfVsrAZpSoI
Franco Battiato - Le aquile non volano a stormi




Rewind: per una volta Vasco ha avuto fretta.

Bisogna tornare indietro, è vero.
Con Canzoni per me Vasco l’ha fatto, con grande coraggio.
Bisogna però rimanere lì ed iniziare con Rewind, non finire.
A Imola nel ‘98 c’ero.
Commosso.
E ho colto l’atmosfera strana e rarefatta fra la decima e l’undicesima canzone.
“È una canzone molto vecchia…”
Jenny è pazza + Sally.
(Vasco)
Sono andato di là.
Far Arden Azzurro.
Marea.
Vasco le ha introdotte così.
Con quel pizzico di esitazione che solo un artista vero sa avere.
In quel momento senza Amici.
Solo con il suo complesso, la sua band.
Stavo per piangere, ha dichiarato dopo.
Le canzoni sono nel sangue della mia vita.
Lì davvero il paradiso non esiste, finalmente.
E non c’è bisogno di ballarci su.
Piove nella giungla, ed è un rumore, né bello né brutto, semplicemente qualcosa che interrompe.
Ti riporta indietro.
Ti fa riavvolgere.
Mi aiuto con le illusioni.
E le emozioni che non sai nemmeno di darmi, almeno sono le mie.
Nessuno mi toglierà mai Imola, nemmeno il riavvolgimento lento del nastro.
Fine prima parte.




Vasco

In fondo il Dipartimento è uno Stupido Hotel.




***

Dedicato alle Città Sognate da Giuseppe Girotti a cui ambisco anch’io. Grazie Beppe! Ed alla tua fantastica fessura tra causa ed effetto.
https://www.youtube.com/watch?v=E8jo7DBxaos
Franco Battiato, L’ombra della luce.
Bonus track
Giuseppe Girotti, Uomo distratto.
https://www.youtube.com/watch?v=03QKCR1bY9U




***

Città Sognate, album di PNL - Psichedelica.
Tra le mie città sognate, c’è anche la tua. Ritmo sincopato, eros, richiami Doors. C’è di tutto.
Album apparentemente onirico, ha un elegante richiamo alla terra, all’interno della quale la fessura tra causa ed effetto permette forse di arrivare a Ixtlan. Per scrivere direttamente all’artista:
giuseppe.girotti@gmail.com




***

Scrive Norberto Bobbio in Destra e Sinistra che forse, se girassimo le spalle al Parlamento, la destra sarebbe a sinistra e la sinistra a destra. Io personalmente resto in bilico, mi limito a dire per quello che sento e leggo, che questa canzone di Francesco Battiato detto Franco è sempre attuale.
https://www.youtube.com/watch?v=gfHpWwWu-qY
Franco Battiato - Povera patria.




***

Dedicato al mitico Teatro degli Orrori,
conosciuto grazie alla ferma ed acuta determinazione di Paolo Coceancig.
https://www.youtube.com/watch?v=BEenOPJ8OtQ
Franco Battiato - L’esodo



UN TAVOLO DI LAVORO SUGLI INSERIMENTI LAVORATIVI - IPS

   Mario Mazzocchi (7)


R ecentemente, l’Associazione Nessuno Resti Indietro (1) ha aperto col Dipartimento di Salute Mentale un tavolo di lavoro sull’IPS (Individual Placement and Support, ossia Supporto al Collocamento Individuale). L’IPS è uno dei quattro Percorsi di inserimento lavorativo previsti dal DSM: tirocini formativi, tirocini inclusivi, corsi di formazione e, appunto, l’IPS. Mentre gli altri percorsi, almeno di norma, non aprono la strada a veri contratti di lavoro, l’IPS è finalizzato proprio a questo:
- c’è una fase iniziale di ricerca e preparazione, ossia di orientamento nella ricerca, ricerca effettiva di occasioni di lavoro, preparazione del curriculum e dei colloqui di lavoro eccetera; in tutto questo, l’utente fruisce di un supporto individualizzato da parte dell’operatore IPS;
- tutto ciò dovrebbe terminare con un autentico contratto di lavoro, durante il quale la persona può comunque ancora ricorrere al supporto dell’operatore IPS ad esempio per colloqui di verifica; in questo senso, può dirsi che anche la fase del lavoro vero e proprio rientra ancora nel percorso IPS.
Ma l’IPS, durante la prima fase di ricerca e preparazione che abbiamo descritto, non prevede alcuna indennità di partecipazione, diversamente dai tirocini, sia formativi che inclusivi (2). Una soluzione del problema la si potrebbe vedere nella possibilità, per chi intraprende l’IPS, di poter intraprendere contemporaneamente anche un tirocinio, ovvero di poterne continuare uno già iniziato. Ma questo non è previsto dalla metodologia IPS: chi lo intraprende non può contemporaneamente fare un tirocinio; anzi, se già ne sta facendo uno, prima di intraprendere l’IPS deve sospenderlo.
In questo senso si sostengono, da parte del DSM, sostanzialmente due tesi:
- affinché l’IPS possa raggiungere il suo fine, ossia un contratto di lavoro, occorre che la persona dedichi alla fase di ricerca e preparazione almeno qualche ora al giorno per diversi giorni alla settimana; ciò non sarebbe compatibile con un contemporaneo impegno in un tirocinio, che generalmente prevede a sua volta circa venti ore alla settimana, almeno se si vuole arrivare a un’indennità di 200 o 250 € al mese;
- più in generale, si sostiene che il modello IPS deve essere applicato così com'è, perché è stato sperimentato che così funziona.
In realtà, a proposito della prima tesi, può osservarsi quanto segue. Già da tempo, e giustamente, il DSM combatte quella mentalità assistenziale e tutelante, molto radicata, che ben si riassume nella parole “so io quel che è meglio per te”, cercando di promuovere invece, almeno nell’ambito dei percorsi di inserimento lavorativo, il “protagonismo responsabile dell’utente” (3). Ma, dando per scontato che l’utente non possa essere in grado di fare due cose insieme, quel “so io quel che è meglio per te”, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra, travestito da “io so che non ce la fai a fare due cose insieme”.
Semmai, a nostro giudizio, consentendo a una persona di intraprendere contemporaneamente due diversi percorsi, si rischia di togliere posto ad altri in uno dei due o in entrambi. Si prospetta allora un’altra ipotesi da proporre e discutere col DSM. Per i soli utenti che non possono rinunciare a un tirocinio e soprattutto alla relativa indennità per motivi economici e di conseguenza restano esclusi dall’IPS, si può ipotizzare un gettone di presenza alla fase di ricerca dell’IPS, quantificato intorno ai 200 o 250 €, cifra cui ammonta l’indennità di partecipazione di un tirocinio di circa venti ore settimanali, gettone da erogarsi a due condizioni:
- attestazione, tramite ISEE o documento equivalente, di una situazione economica che non può fare a meno di un’erogazione, in forma di indennità di partecipazione o altro (4);
- sottoscrizione di un patto, fra l’utente e l’istituzione (5), secondo il quale l’utente deve impegnarsi nella fase di ricerca del lavoro come in un lavoro. Val la pena di rilevare che la sottoscrizione di un patto in questi termini potrebbe essere considerata anche in tutte quelle situazioni in cui l’utente in IPS non percepisca il gettone di presenza. È vero che in queste situazioni non c’è il rischio che l’utente percepisca una cifra di denaro pubblico senza il corrispettivo impegno nel percorso IPS, ma è anche vero che un utente che non si impegna nel percorso IPS toglie il posto ad altri, considerato che le risorse umane, ossia le persone incaricate dell’IPS presso i CSM, sono limitate.
Secondo la metodologia IPS, è l’utente che decide di intraprendere il percorso e non spetta a nessun operatore del CSM di selezionarlo o indirizzarlo, o almeno così dovrebbe essere (6). Allora, se giustamente si lascia all’utente la titolarità della scelta, si devono anche esigere da lui comportamenti responsabilmente conseguenti a questa scelta.

NOTE
1 Nessuno Resti Indietro è un’Associazione di Promozione Sociale iscritta al Comitato Utenti, Familiari e Operatori (Cufo) del Dipartimento di Salute Mentale. Da quest’anno collabora con la redazione de Il Faro nel quadro dei Progetti Prisma (Promuovere e Realizzare Insieme la Salute Mentale Attivamente).
2 Più raramente i corsi di formazione prevedono un’indennità ed è, comunque, più bassa di quella prevista dai tirocini, formativi o inclusivi.
3 Queste parole hanno dato il titolo al penultimo workshop sugli Inserimenti Lavorativi.
4 Pur con il seguente limite: l’ISEE attesta una situazione relativa, più che al singolo, al nucleo familiare, almeno se la persona ancora convive coi genitori. Chi è figlio di persone benestanti rischia dunque di essere escluso dal beneficio economico, benché anche una persona in questa situazione abbia bisogno di strumenti, anche economici, per autonomizzarsi dalla sua famiglia.
5 Da parte dell’istituzione, il firmatario del patto potrebbe essere uno degli operatori di quella mini équipe che dovrebbe aver elaborato con l’utente il suo progetto individualizzato.
6 Di fatto poi le cose vanno spesso diversamente. Siamo al corrente di molti casi in cui chi partecipa all’IPS è stato selezionato e indirizzato dal CSM o dalla mini équipe, anche perché gli opuscoli informativi che erano stati approntati in coincidenza del penultimo workshop sugli inserimenti lavorativi, “Protagonismo e responsabilità dell’utente negli inserimenti lavorativi”, non sono ancora nella disponibilità degli utenti, almeno per quel che ci risulta. Ne potrebbe derivare, come caso limite, che venga informato sull’esistenza dell’IPS solo quell’utente che è già stato selezionato per l’IPS stesso.
7 Presidente di Nessuno Resti Indietro.

IL MONDO NON POTRÀ MAI FARNE A MENO

   LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani


Dopo il verbo “amare” il verbo “aiutare” è il più bello del mondo.
Anonimo

L a solidarietà e l’aiuto sono dei temi troppo importanti e questa volta il gruppo di Narrativa si è trovato in serie difficoltà nel parlare di questo tema. Nessuno di noi riusciva a mettere insieme dei pensieri che potessero spiegare cosa sia per ognuno la solidarietà e l’aiuto e tutti convenivamo nell’affermare solo che il mondo non potrà mai farne a meno.
Ad uno di noi, Maurizio, è venuto in mente che alcuni musicisti contemporanei hanno provato con testi e melodie ad esprimere ciò che si prova e si pensa dinanzi a questo tema grande che tocca la parte più interna e 'umana' di ciascuno. Abbiamo provato a fare un elenco dei brani che ci venivano in mente e 'ritagliato' delle frasi che sentivamo rappresentative:

Il mondo che vorrei - L. Pausini
“…Come si fa a rimanere qui
Immobili così
Indifferenti ormai
A tutti i bimbi che
Non cresceranno mai
Ma che senso ha ascoltare e non cambiare…”

Si può dare di più - Tozzi/ Morandi/Ruggeri
“…E se parlo con te
e ti chiedo di più
è perché te sono io
e non solo tu. […]
come fare non so
non lo sai neanche tu
ma di certo si può
dare di più.”

L’amico è - Dario Baldan Bembo
“…È l’amico è
il più deciso della compagnia
e ti convincerà a non arrenderti
anche le volte
che rincorri l’impossibile
perché lui ha
l’amico ha
il saper vivere che manca a te
ti spinge a correre
ti lascia vincere
perché un amico punto e basta è.”

Imagine - John Lennon
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world

Mi fido di Te - Jovanotti
“..Rabbia stupore la parte l’attore
dottore che sintomi ha la felicità
evoluzione il cielo in prigione
questa non è un’esercitazione
forza e coraggio..”


Abbiamo analizzato i testi delle canzoni e da questi sono scaturite le seguenti osservazioni:

Non è semplice ascoltare le richieste di aiuto. A volte siamo troppo concentrati su noi stessi, badiamo a noi e non al nostro prossimo... Anche a quello più vicino.
Luciano

La condivisione è importante… l’uomo è un essere sociale ed il discorso sull’autonomia mi sembra esasperato ultimamente. È una bugia l’autonomia, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che sia solidale con noi e ci comprenda anche quando non chiediamo aiuto.
Alessandro

Io ho tanti amici, ma quelli importanti sono pochi e li sento spesso al telefono anche se non posso vederli spesso... Sono quelli che mi spingono ad essere una persona migliore, sono quelli che mi aiutano…
Elisa

I sintomi della felicità… Li cerco talvolta e non li trovo… Ma lo sguardo di qualcuno che mi accetta mi fa star bene e mi aiuta, questa è solidarietà per me.
Davide


Componimento di gruppo sulle parole dell’aiuto e della solidarietà
Ascolta non passare indifferente.
Non si sa come aiutare,
ma la disponibilità ad esserci
non deve mancare.
Incoraggia chi è indifeso,
un sorriso spesso è tanto atteso.
Dona ciò che puoi,
la vita, prima o poi, restituisce tutto
può sollevarti anche dal periodo più brutto.
Immagina un mondo solidale:
se lo immagini, si può avverare.
La felicità non è un sintomo lontano,
arriva, basta tenderle la mano.
                                       I Narrativi

SOLIDARIETÀ E SALUTE

   Centro Diurno di Casalecchio di Reno


● Essere solidali con gli altri può essere un aiuto per farci stare meglio; fare dei favori agli altri può essere un bene per la nostra salute.
● Noi dovremo essere capaci di accettare e ospitare nel nostro paese gente bisognosa che proviene dal Vicino Oriente e principalmente dalla Siria perché quello è un paese in piena guerra civile. I Siriani sono molto bisognosi di attenzioni.
● La solidarietà ha un grande valore nel sostenere chi è cagionevole della propria salute.
● La solidarietà per me è aiutare il prossimo e questo ci aiuta a far stare bene di salute.
● La solidarietà è riuscire a cambiare i giorni di chi stai aiutando e riuscire a colorare di un colore intenso i giorni più grigi.
● La solidarietà la intendo come una forma di aiuto ad altre persone; la salute la intendo come stare bene, a proprio agio con il corpo.
● La solidarietà è fare in modo che la gente che soffre per problemi di salute possa rendere effettivo (almeno in parte) il detto latino mens sana in corpore sano.
● La solidarietà non è comprare a chi ha fame un pesce ma insegnargli a pescare.




E GLI ANZIANI? CHE DIRE…

   Associazione UmanaMente


Il laboratorio di scrittura di UmanaMente questa volta ha preferito lavorare su un tema diverso: “La terza età”. L’argomento, senz’altro molto interessante, è stato però già affrontato in passato sul Faro. In accordo con gli autori pubblichiamo una selezione dei testi prodotti, privilegiando quelli che comunque presentano attinenza col tema di questo numero: “Solidarietà e aiuto”.


Brainstorming sulla terza età

Oriano: quando si parla di terza età per me si parla soprattutto della saggezza degli anziani e dei consigli che possono dare ai più giovani.
Stefania: a me viene in mente mia nonna e la coerenza di quello che aveva detto e fatto nella sua vita. Aveva detto: se devo rimanere ferma in un letto la faccio finita e quando le hanno diagnosticato un tumore l’ha fatta finita, preparando anche tutti i mucchietti di risparmi da lasciare ai parenti.
Marco: associo il periodo della terza età alla pensione. Penso ai pensionati autosufficienti e a quelli che invece hanno bisogno di un'assistenza dignitosa non solo in terza età, ma anche in quarta età. Penso poi alla terza età che possono avere i pazienti psichiatrici.
Maria: gli anziani, se ancora in buona salute possono dare una grande mano ai figli se hanno dei bambini per l’educazione.
Oriano: mi ha colpito quello che ha detto Stefania perché ho conosciuto persone che hanno avuto lutti in famiglia e anziani che l’hanno fatta finita anche perché prendevano pensioni da 200-300 euro al mese.
Stefania: a me è venuto in mente che mia nonna mi ha educato e cresciuto, che mi ha insegnato a cucinare, mi ricordo che mi faceva dipanare la lana dei materassi. Quando era primavera si andava a raccogliere radicchi selvatici nei campi che io scambiavo per piscialetti. Per tenermi buona mi faceva tirare la sfoglia.
Marco: mi hanno messo grande tristezza gli interventi degli altri: problemi di salute, di reddito ed equilibrio mentale. La terza età come un periodo di problematiche e come un epilogo brutto della vita.
Antonio: invecchiare non è un male, ma un bene perché i vecchi possono essere un bene per i giovani affinché non commettano delle sciocchezze. Posso chiedere consigli agli anziani saggi e attraverso il loro aiuto maturare e scegliere una buona strada. È però vero che esistono anche anziani già morti e apatici. Dipende da cosa hanno fatto nella vita e se sono riusciti a raggiungere la maggior parte dei loro obiettivi, altrimenti saranno solo anziani depressi.
Stefania: se in terza età hai già raggiunto tutti gli obiettivi allora diventi apatico.
Cristian: non è vero. Scopo della terza età è l'accettazione della morte.
Stefano: errare humanum est, perseverare autem diabolicum...e “Chi dice ma, cuore contento non ha, però chi ma non dice, non è felice”... Io spero solo di arrivarci alla terza età.
Nadia: molto spesso arrivare alla terza età vuol dire imparare a convivere con il corpo che si degrada, con le malattie, anche quelle peggiori come l’Alzheimer e il Parkinson.
Diana: anche a me piacerebbe arrivarci un giorno alla terza età. Il mio pensiero è che ho un gran rispetto degli anziani perché da loro puoi imparare molte cose. Occorre rispetto e anche pazienza. A volte la loro mente può essere come quella di un bambino e occorre pazienza per stare con i bambini che però danno molta gioia.
Giovanni: penso al senso del tempo nella terza età, al fatto che rallenti, che pensi di più e agisci di meno. Occorre analizzare Giovanni Pascoli e la sua raccolta di poesie Myricae che ha ben svelato il senso del tempo nel rapporto con la natura. Leopardi nella poesia Ginestra descrive la nascita del fiore del deserto dopo la morte portata dalla colata lavica del vulcano. Dalle ceneri nasce una nuova vita.
Francesco: sarebbe interessante vedere da un punto di vista storico come è cambiato il ruolo dell’anziano nel corso della storia.
Marco: mi trovo d’accordo con il discorso del degrado del corpo. La vita è dura e non si sa quando finirà. In terza età si fa un bilancio di quello che si è fatto e di quello che non si è riusciti a fare






IL RUOLO E LA VISIONE DELL'ANZIANO NEL CORSO DELLA STORIA

   Francesco

D iventar vecchi oggi è un destino comune alla maggioranza delle persone. Si nasce, si cresce, si invecchia, si muore. Non è andata sempre così: nei tempi passati ed anche nel passato più recente a raggiungere l’età adulta non erano in molti e l’età media della vita era di molto inferiore a quella odierna. L’aspettativa di vita da fine Ottocento ad oggi si è raddoppiata.
L’immagine che si ha dell’anziano cambia di tempo in tempo, di luogo in luogo ed oscilla tra la visione del vecchio come un peso o come un detentore di saggezza e sapienza. Così, se ad Atene egli è escluso dal governo e nessun aiuto è previsto da quella formidabile democrazia per chi raggiunge quell’età, a Sparta la società dei guerrieri sceglie la gerusia quale assemblea che detiene il potere più alto dello Stato, formata, come indica l’etimo stesso della parola, da anziani. Anche nell’antica Roma questa ambivalenza di vedute continua a sussistere lasciando spazio a posizioni contrapposte. Seneca insiste sulla ‘giovinezza’ dello spirito per affrancarsi dal decadimento fisico ed individua nella filosofia lo strumento per custodire tale qualità, Cicerone invece stronca la vecchiaia come il peggiore dei mali.
Nel Seicento e nel Settecento la frequenza e la diffusione delle epidemie in Europa, insieme alle pessime condizioni igienico-sanitarie ed alla povertà determinarono le condizioni per una vita media molto bassa, intorno ai trent’anni, con la conseguenza di avere società estremamente giovani. È di allora la consuetudine di tenersi a fianco una figlia nubile che accudisce l’anziano, il quale conserva il suo potere mantenendo la proprietà dei beni o garantendosi con dettagliati contratti la propria assistenza prima di cedere ai figli i propri beni. Con l’Ottocento, dopo la rivoluzione industriale, si ha un allungamento della vita media ed un’esplosione demografica che porta l’Europa dai centottantasette milioni di inizio secolo ai trecento milioni del 1870. Si assiste così alla comparsa dei primi ospedali e degli ospizi. Chi svolge un ruolo primario nell’assistenza è solamente la Chiesa e qualche organizzazione di carità, gli stati con i loro governi sono del tutto assenti.
L’ideologia del Ventennio fascista assesta un ulteriore colpo all’immagine ed al ruolo dell’anziano: il mito della giovinezza preclude ogni suo possibile apporto alla vita sociale.
Dopo la seconda guerra mondiale la diffusione del benessere introduce un sempre maggior numero di anziani fino ad arrivare alla situazione odierna in cui il numero di over cinquanta ha superato quello dei giovani sotto i cinquanta: siamo in una società in cui l’anziano non può essere più relegato in un ruolo secondario e marginale.





TERZA ETÀ

Signora vuole sedersi? A volte quando mi trovo in autobus mi sento rivolgere questa frase da qualche giovane. In quel momento mi sento a disagio, perché la persona che l’ha pronunciata ha ‘visto’ la mia vecchiaia (ne ho quasi sessantotto, di anni), ma io, a parte il mio involucro, non mi sento vecchia e i miei occhi sono sempre giovani: vedono sempre allo stesso modo. In quanto all’invito sono contenta che ci sia ancora qualcuno ben educato. In questi tempi siamo in molti ad essere anziani e molti con problemi economici. Per fortuna ci sono delle associazioni no profit che qualche aiuto lo danno ed anche le chiese fanno la loro parte. Quando si va in pensione i nostri figli ci affidano i loro bambini, così si alleggerisce il loro fardello lavorativo, anche se dopo, magari, dicono che li viziamo. Poi penso anche che i nonni vengono ripagati dai nipotini con le loro tenerezze e che gli anziani hanno bisogno di tenerezze. La vecchiaia, purtroppo, proprio quando potremmo stare bene, qualche volta ci regala qualche malattia insanabile tipo l’Alzheimer o un tumore, oppure essendo vicino al ‘capolinea’, alla morte, ci lasciamo turbare l’umore pensandoci su.
A volte arriva a casa un opuscolo da un centro sociale che allieta la vita degli anziani con varie iniziative quali cene, pranzi, balli, teatro e tutto con prezzi modici. Anche l’iscrizione costa poco. Io, tempo addietro, iscrissi me e mio marito a questo centro senza andarci mai, perché lui non ne volle sapere, mentre a me avrebbe fatto piacere farne parte. Oltre ai balli, cene eccetera, si fanno anche delle gite turistiche. Certamente tutto questo, anche se ci sono prezzi bassi, non è accessibile a chi ha problemi economici.

Maria Carmela




Spenderò poche parole per quel che riguarda gli anziani. Dal sessantesimo anno di età, età in media per la pensione, gli anziani che cominciano in quel periodo ad essere tali, si sentono felici, perché hanno coronato la vita lavorativa e vedono i figli che con le loro famiglie crescono e prolungano la loro progenie coi nipoti. Mah! In realtà i problemi non finiscono e così nuove difficoltà si profilano all’orizzonte! Studiai, quando ero all’Università che esistono varie tappe nella vita di ciascuno (che si definiscono con le varie età), quella della vecchiaia è l’ultima prova tra quelle che si sono succedute appunto durante la vita. In questa, a mio avviso si dovrebbe cominciare ad accettare l’idea della morte e, a ciascuno il proprio ‘credo’; non nel rifugiarsi in questo, ma a liberarsi dai pensieri che hanno da sempre serrato la mente e il corpo con mille affezioni. Sono gli interessi, le passioni, che sprigionano questa libertà che può (e molto probabilmente lo farò), continuare ad aiutare sia loro che le loro famiglie, nondimeno le loro posterità. Così la memoria storica di ciò che avranno conseguito con il loro operato non si perderà nella discendenza e continueranno a rivivere anche dopo la loro morte! Per saper morire bisogna saper vivere. Così sia.

Cristian




uando si parla di ‘terza età’, si pensa alla parte senile della nostra vita, non a un’età specifica e si pensa che sia composta da saggezza, perdita di vitalità e carica di tutti i malanni che ci ha donato la nostra vita. Ma non è così. Nella senilità ci si può ritrovare il tempo per fare le cose che in gioventù non ci è stato concesso di fare, con più saggezza e stimolo per la conoscenza, senza farsi confondere dalle cose che ci circondano. All’inizio del secolo scorso si pensava all’anziano in casa a riflettere saggiamente sul suo passato ed a educare i nipoti con il rigore che i genitori non riuscivano a dare, ma ora quando si parla di anziani si pensa al nonno che va a prendere i nipotini a scuola, dopo un pomeriggio passato in compagnia di altri anziani in qualche centro sociale, che partecipa alle gite organizzate da quest’ultimo e va a ballare in compagnia degli amici. Non lo si guarda più come persona inerme, ma come persona attiva che ha trovato il modo di dar sfogo alla sua diversa vitalità con vari interessi. Gli anni della senilità vengono vissuti dall’anziano con le doti che ha acquisito con l’esperienza nel tempo della gioventù. Con più calma, comprensione e profondità. È in questa sua profondità, maturata nel tempo, che si ritrova l’accettazione verso la società che lo circonda, diventandone parte integrante e attiva e dimostrando che ha ancora molto da dare e forse anche più, vista l’esperienza e la saggezza. L’età senile si può quasi considerare come la fase in cui il nostro essere si va a completare grazie all’esperienza e la saggezza acquisita, affrontando la vita con calma, senza l’irrequietezza della gioventù, l’inesperienza dell’infanzia e le ingiurie degli anni. Le persone che sanno dar valore agli anziani sanno che in loro non trovano un peso morto, ma una persona attiva che ha dentro di sé un ‘libro di saggezza’ da cui imparare ad affrontare la vita. Chi non li sa apprezzare capirà poi quale ‘tesoro’ ha avuto a fianco senza dargli il giusto valore. La loro saggezza, moralità, esperienza e la capacità di non farsi togliere i sogni e le speranze dal tempo che passa, mostra la loro forza interiore. Ma quando noi giungeremo a quell’età avremo la stessa forza interiore? Questa nostra vita frenetica non ci permette di riflettere su come saremo noi in età senile. Avremo ancora dentro di noi l’energia vitale che ci porterà a vivere giorno dopo giorno con saggezza ed esperienza? Sapremo far tesoro delle esperienze che viviamo quotidianamente per gli anni che ci aspettano, in cui possiamo permetterci di prendere la vita con il suo giusto ritmo, senza doverle correre dietro? Sapremo colmare il nostro essere di quella cosa che in gioventù abbiamo cercato avidamente e che riusciremo a trovare solo con il tempo, in età senile? E quando giungeremo a quell’età, non per questo ci lasceremo andare, ma rallenteremo il nostro ritmo per riflettere su quanto tempo ci abbiamo messo per raggiungere quella saggezza semplice che in gioventù pensavamo fosse tanto complessa. Ma è semplice, ed allora diamo ragione ai nostri nonni, quando ci dicevano che la vita è una cosa semplice. Non ha bisogno di tanti giri di parole per essere spiegata. In vecchiaia veniamo ‘illuminati’ da questa semplice verità, che ci fa vivere i nostri ultimi anni con serenità, affrontando i giorni che passano con saggia calma, prendendoli senza la frenesia del mondo di oggi.

Stefy




In passato, quando ancora lavoravo fuori casa, le rarissime volte che pensavo alla mia terza età non lo facevo certo con pessimismo. Pensavo al tempo libero che avrei avuto tutto per me. Immaginavo di fare qualche viaggio specialmente all’estero. Una volta domandai a una signora una località che le era piaciuta in assoluto, lei mi rispose: San Pietroburgo. Così mi fece nascere la voglia di andarci. Qualche viaggio poi l’ho fatto, ma non in quel luogo. Sono stata ad Aosta, all’isola d’Elba, a Padova e a Venezia, così non ho speso troppi soldi. Ho impiegato un po’ di tempo anche a ricamare, a tentare di realizzare dei lavoretti con la pasta di sale, a leggere qualche libro. Il tempo che è passato dalla gioventù alla terza età mi è sembrato lunghissimo e me lo sono goduto. Il lavoro e la mia famiglia mi hanno gratificata tantissimo. Molte volte si sente dire da qualcuno che la vita è breve, che è ‘un’affacciata alla finestra’, ma per me non è stato così. Ultimamente non sto bene in salute, ma spero di arginare al più presto il disturbo che ho, anche se in passato qualcuno mi ha detto: “Signora, non cerchi di arrampicarsi sugli specchi”. Forse se avessi dei nipotini avrei un motivo in più per cercare di guarire.

Maria Carmela


DAL DIARIO DI BORDO DELLA VELA

La vela si confonde nei flussi ventosi della realtà e così procede per adesso come una candela al vento, le rotte che portano ai nostri sogni sono da ricercare e quando saranno svelate le percorreremo con fermezza e coscienza dell’unicità della nostra esperienza. Più che impegnati in un mare tempestoso barca ed equipaggio sembrano essere ancora fermi e si preparano per varare la barca e salpare. Qualcuno si attarda nella vita del porto e questo oltre a rappresentare il disagio e la sofferenza della situazione attuale è anche un luogo 'misterioso'. Questo perché teatro di circoli viziosi di esistenze al margine della vita a terra. Quindi rappresentiamo quest’ultima come la normalità, il porto come interfaccia tra situazione di disagio e normalità e la vela e il mare come il percorso liberatorio che intendiamo seguire. Sono interessanti sia la promiscuità che l’operosità di questo porto in attesa del mare che sarà instabile e cangiante come le nostre esistenze.

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Dall’ennesima esperienza di day hospital o ricovero: lo stesso sentimento di VUOTO, di abbandono. Il bisogno di FARE insieme e non solo PARLARE ha accomunato e riunito nel 2014 di nuovo un gruppo: ci si era già provato nel 2011 purtuttavia e nonostante le porte chiuse, il gruppo vive, si estende e si realizza in esperienze mutualistiche, di condivisione di tempo, amicizia e risorse, scambio di esperienze, di informazioni, l’accompagnarsi ed aiutarsi… e la valorizzazione individuale… Durante il 2015 da altre simili esperienze di autogestione del disagio psichico provengono altre persone interessate ad allargare la sfera relazionale.
Il confine che si delinea tra esperienza di disagio e ambito psichiatrico è il limite all’autorealizzazione, intesa come superamento della disistima e dell’isolamento con tutte le variabili di intensità e complessità. La consapevolezza dell’unicità e particolarità del percorso da intraprendere ha portato alla necessità di un confronto e un interscambio gestibili attraverso un’ottica di gruppo. Così il gruppo si allarga e si restringe, alcuni entrano a farne parte, altri li perdiamo, ma non li dimentichiamo… Nel 2016 ci formalizziamo in un gruppo di auto mutuo aiuto (AMA) il nome è La Vela, anche se prima siamo un’esperienza di umana mutualità. Quindi non ci si riunisce solo in incontri quindicinali pianificati per l’intero anno in sala Roncati, nell’ex manicomio...

INSIEME NEL BENE O NEL MALE

   Stefy


S ono in sala d’aspetto del reparto oncologico e sto aspettando che finisca la flebo per alimentarti. Era solo a metà! Ho fatto perfino in tempo a fare la spesa! Ma a che serve se poi tu non riesci a deglutire il cibo. Tutto è iniziato che sembrava una semplice gastrite. E giù a curare questa gastrite che non passava mai. Poi la dottoressa ha deciso di farti fare una gastroscopia e lì hai avuto la tremenda diagnosi: tumore all’esofago. hai iniziato così a fare tutte le analisi del caso ed è risultato maligno. L’unica cosa ‘buona’ è che è fermo lì. Ma con il passare del tempo fai sempre più fatica a deglutire e lo stomaco ti fa sempre più male. Così ogni giorno veniamo qui in ospedale a fare le flebo per alimentarti e quelle antidolorifiche, in attesa che venga decisa la data per estirpare questo ‘essere maligno’ che ti succhia la tua linfa vitale. Ne abbiamo passate tante insieme, con il nostro amore che faceva da collante a tenerci uniti e ora che potevamo essere sereni e avevamo raggiunto il nostro equilibrio, arriva il destino a mettere alla prova il nostro volerci bene, nel bene o nel male. Questa cosa non la vivi solo tu che ce l’hai addosso, ma anche io e con angoscia, perché non posso farci niente, se non piangere di nascosto da te per non farti soffrire di più. Questa cosa mette alla prova tutto: la nostra pazienza, la nostra forza, la nostra comprensione uno per l’altro, ma soprattutto la voglia di combattere uniti, come sempre. Ecco! Hai finito e adesso mi raggiungi con il tuo sorriso che vuol sfidare la morte! Mi dai un bacio e ironicamente mi dici: “Ecco, amore, anche per oggi ho già mangiato!”… Sorrido alla battuta, per quel tuo modo di prendere questa cosa con una punta di leggerezza. Ci avviamo verso l’uscita, che domani sarà un’entrata, finché non decideranno cosa fare. Ma comunque sempre insieme…
Dopo due mesi ti hanno operato e tolto quell’ ‘essere maligno’ che era cresciuto dentro te. Ma sono avvenute delle complicazioni e ti hanno dovuto rioperare. È da due settimane che ti tengono in coma farmacologico e i dottori dicono che non ti possono più operare, perché moriresti sotto i ferri. Così hanno deciso che ti terranno in coma farmacologico, fino a che il tuo corpo non cederà alla morte. Ma dimmi: come posso fare ad abituarmi alla tua morte? Dopo una vita passata insieme, la ‘grande signora’ ci separerà! Ho vissuto questa vicenda con sentimenti gravi e più ti aggravavi, più i miei sentimenti si facevano pesanti. Ora devo solo attendere la conferma della tua morte. Quando sono venuta a trovarti in ospedale e ti ho portato il libro di Terzani, Un altro giro di giostra, eri sereno. Spero che sia un altro giro di giostra anche per te. Un giro in cui non cadrai vittima dell’alcolismo e non farai gli errori che hai fatto in questa vita. Che sia per te migliore di quello che hai passato. Io, intanto, cerco di adeguarmi alla tua mancanza e mi addolora non poterti vedere un’ultima volta. Questa situazione mi riempie di angoscia e dolore che non so descrivere. Le mie lacrime sono talmente tante che non riescono a sgorgare dai miei occhi e l’urlo di dolore che vorrei fare mi si è fermato in gola. Ho sempre lo sguardo triste e neanche i falsi sorrisi riescono a mimetizzarlo. Di noi due ricordo i momenti felici. La nostra non è stata una storia superficiale, perché ci sono stati i momenti di gioia e i momenti di tristezza, vissuti sempre insieme, senza mai lasciarci. Mentre il dolore perfora il mio cuore come mille chiodi, ripenso a quando ci siamo conosciuti sull’autobus e io mi ero fatta male a una mano. Tu, sorridendo, mi hai detto: “Ti do un bacino, che ti passa il male” e poi mi hai invitata a sedermi accanto a te. Abbiamo legato subito e ci siamo scambiati il numero di cellulare. Poi dopo vari incontri, sono venuta a vivere con te. I momenti felici e poi le discussioni. Quel tuo tenermi sul tuo petto, abbracciati, finito di fare l’amore, contenevano tutto l’amore che c’era tra noi. Quando ero ricoverata mi telefonavi quasi tutti i giorni e quando mi sei venuto a trovare, in clinica, non riuscivamo a lasciarci, e hai rischiato di perdere l’autobus. Come ti piaceva il mio modo di cucinare! Sono queste le cose che voglio ricordare di noi, non le discussioni. Tanto già so che mi devo abituare all’idea che ti perderò e potrò solo ricordarti così come eri, testardo, impulsivo e spericolato nel vivere, ma capace anche di tanta tenerezza. Ma sempre con quel sorriso sulle labbra.
Siamo stati sempre insieme, nel bene o nel male, nulla ci ha separati. Solo ora la ‘grande signora’ ci verrà a dividere.

SOLA AL SOLE

   Opola Resonive


E ra sola, poverina, non riusciva a vedere niente, sulla spiaggia sotto il sole, accecata da tanta luminosità, così decise di trasferirsi nel suo capanno dove aveva preso casa per questa vacanza sull‘isola, circondata solo da palme e sabbia. Erano anni che desiderava andare a vivere in mezzo all’oceano, dove non l‘avrebbe disturbata nessuno. L‘isola era disabitata, perciò aveva portato con sé le provviste di cibo per un mese, dopo di che sarebbero passati a prenderla.
Era sola, nessun essere umano, sola al sole. Perché voleva fare un‘esperienza così drastica? Forse perché non riusciva a girare per la sua città natale, dove viveva, senza essere fermata dal suo pubblico, che l‘amava profondamente. Era una cantante di successo. Per questo che aveva pensato di trasferirsi per un periodo limitato in un posto isolato, aveva comunque un telefono satellitare col quale rimaneva in contatto quotidianamente con la sua famiglia, un marito e due figlie già adolescenti, che avevano condiviso questo suo desiderio.
Voleva scrivere una canzone sulla solitudine, uno sguardo verso la propria interiorità, un conoscersi meglio per amarsi di più... Scriveva sempre canzoni d‘amore, ma la sua casa discografica le aveva chiesto di cambiare con un argomento molto impegnativo.
Ora lei è sola, riparata nella capanna, sta suonando la chitarra, pensa che anche se non riuscirà nella realizzazione di una canzone all’altezza delle aspettative, il ricordo di questo periodo rimarrà impresso nella sua vita. Lei ama vivere, lei ama la natura, l‘isola è piccola, non c’è gente che mormora, non c‘è nessuno, si guarda attorno vede solo la spiaggia, il capanno e l‘oceano sconfinato. L‘isola è di venti metri quindi è molto piccola e fa parte dell‘arcipelago delle Figi.
La famiglia sta a Los Angeles in America, sono parecchie ore di volo... Ora chiama casa, tutto bene, marito e figlie; il mondo va avanti anche senza di lei, meglio così, pensa, tutti siamo importanti ma nessuno è indispensabile! Uno sguardo alla vita quotidiana, ma ecco passare davanti un serpente velenoso! O no? Forse dovrebbe essere spaventata, ma che gusto c‘è? Se non ci sono altri abitanti sull‘isola, nessuno la può sentire. Un serpente? No, solo un ramo... Tutto il sole che ha preso deve averle fatto uno strano effetto… forse un’insolazione, o un’isolazione (sola sull‘isola). Parole, a chi? Pensieri che scorrono veloci come la pioggia che quando cade nelle isole viene portata dai cicloni tropicali, ma non è la stagione.
Provviste molte, non morirà certo di fame, ha un piccolo generatore che le fornisce l‘energia elettrica per le luci e per il congelatore. Fa caldo! Ma è lì per abbronzarsi, o cosa? Cosa farà? Pensa ad amare la natura e le piante... Sull‘isola non le pare ci siano animali, neanche insetti, in particolare le odiatissime zanzare!
Corre il tempo veloce fra notte e giorno, giorno e notte. Decide di chiamare casa, poi si riperde nel nulla, o il nulla ormai è diventato tutto per lei. Paure, pause, si alternano tristezza, solitudine, amore, per chi? Dolore? Psicoterapia? Cura, lotta contro un destino che le pone davanti sempre ostacoli e il superarli è un suo grande desiderio. Desiderare, convincersi che si riesce a superare tutto con pazienza, perseveranza, costanza e fiducia. Che ore sono? Ho chiamato casa oggi? Ha chiamato, ma non riesce a ricordarlo. Uno sguardo profondo su sé stessa, una luce, il sole le dà luce, tanta luce e calore, ormai è cotta, bella vacanza, ma non riesce a comporre, non ha scritto niente, pensa, pensa...
"Amore cortese a cui nulla sfugge", i pensieri si rincorrono, è difficile rimanere soli; un pensiero profondo la coinvolge, questa esperienza ha accresciuto l‘amore per la sua famiglia, un legame forte che la rende più sicura. Amici! Ha bisogno di amici, quanto tempo è passato? Un mese... Ormai è finita! Si sono susseguiti tanti pensieri che l‘hanno convinta a non sentirsi costretta a cercare sempre il meglio, ma ad essere sé stessa, con rispetto verso gli altri. La solitudine non è una malattia, ma un momento che fa parte della nostra vita. Rincorrere gli altri va bene? No, percorrere il tragitto assieme, ma non farsi trascinare... Vuole accettare gli altri come sono, senza cambiarli.
Vacanza finita, la vengono a prendere: canzoni scritte, zero... amici conosciuti sull‘isola, zero... feste, zero... profonda conoscenza di sé, dieci... conoscenza del sole, dieci... Sola al sole, ma con tanti pensieri.

MISSIONE SPECIALE

   Onirilìk


Erano le undici di sera e mentre me ne stavo tranquillo sul mio letto a leggere, sentii bussare alla porta: “Raffaele, posso entrare?”. Era la voce del dottor Marcheselli, il primario di villa Montebianco, un uomo sulla sessantina dall’aspetto piuttosto comune. Sin dal primo incontro, avuto qualche settimana prima, mi avevano colpito i suoi modi estremamente affabili e gentili.
Dopo la stretta di mano, cosa che analizzo sempre nei dettagli perché considero molto indicativa del carattere e dello stato d’animo delle persone, chiese se potevo dedicargli qualche minuto del mio tempo. Disse che era piuttosto soddisfatto di come stavano procedendo le cose, e mi disse di stare tranquillo, perché tutto stava andando davvero benone. Emanava un non so che di orgogliosa soddisfazione, a mio parere immotivata, che mi mise un po’ in ansia… beh, tutto benone sembrava un po’ eccessivo, e dirmi di stare tranquillo in genere è proprio la maniera migliore per farmi innervosire. “Tutto ok?”, chiese Marcheselli. “Ok”. risposi. ”Posso fare entrare il dott. Ottone?”. “Ah, prego” dissi io.
Il dott. Ottone era il vice primario, luminare della scienza in questione, sempre elegante ed eccentrico. Il dott. Ottone era considerato uno dei migliori nel suo campo, una specie di luminare. Quando mi capitava di incontrarlo non mancava mai di condividere amichevolmente la sua variopinta cultura, con simpatia e semplicità. Una cosa strana era però che mentre la stretta di mano di Marcheselli era sempre forte e rassicurante, quella di Ottone era stranamente un po’ troppo flaccida e freddina. A volte poteva inquietare un po’.
Il problema comunque non era questo. Il mio problema era sapere cosa volevano da me questi due alle undici di sera. Cosa fanno, il turno di notte? Pensai a qualche noia in arrivo.
Dopo esserci accomodati Ottone, saltando ulteriori convenevoli, iniziò ad illustrarmi la questione.
“Dunque - disse - è pervenuta qui a villa Montebianco la richiesta da parte del Ministero della Difesa, di valutare se tra gli ospiti ci siano delle persone dotate innanzitutto di forte integrità morale, spiccata personalità, sensibilità acute, capacità di analisi visiva ampia e rapida, udito ipermetrico e anche un briciolo di coraggio che non guasta mai; il tutto per una missione speciale. Qui a villa Montebianco, ne abbiamo individuate due e una sei tu, cosa ne pensi?”
Mi sembrava di aver ascoltato la Clerici che fa la lista degli ingredienti per fare un pasticcio di patate! Missione speciale? Ministero della Difesa? Oh, ma io sono pacifista, antimilitarista, odio le armi, e sono anche stato riformato per insufficienza toracica! Io sono qui per riposare, altro che missione speciale! Mentre cercavo le parole per esprimere un gentile rifiuto il dottor Ottone riprese: “Il corpo della Marina Democratica Mineraria ha individuato sul fondale del Mar Giallo il barattolo di vetro 4 stagioni de luxe, dove è rinchiusa una bambina di sei anni scomparsa qualche tempo fa in misteriose circostanze. La bimba fortunatamente sembra sia in ottima salute. Lo scopo della missione è riportarla a terra almeno entro l’inizio dell’anno scolastico. Il motivo per cui l’esercito sta cercando dei civili per questa missione, purtroppo non lo sappiamo, e questo è tutto. Raffaele, cosa ne pensi?”
Una bambina RINCHIUSA IN UN BARATTOLO? In fondo al mare? Ma cosa mangia in un barattolo? Cosa beve? Cosa respira? Ma soprattutto dove vanno a finire le sue pupìpupì?
Era così tutto sorprendentemente surreale che iniziai a pensare fosse una burla, o una specie di iniziazione goliardica di Villa Montebianco... boh… certo sarebbe un peccato che la bimba perdesse il suo primo giorno di scuola, pensai.
Marcheselli appariva rilassato e come sempre molto sicuro di sé. Lo sguardo di Ottone invece mi ricordava quello di uno che si è dimenticato di innaffiarti le piante mentre sei in vacanza e aspetta una qualsiasi forma di perdono. Capii che era tutto una cosa seria.
“Raffaele, se decidi di accettare ti potrò rivelare gli ultimi particolari della missione, la scuola inizia fra due giorni, quindi purtroppo non ci sarà tempo per l’addestramento che comunque non è strettamente indispensabile. E come hai sentito niente armi o cose del genere, è una missione umanitaria!” Il pensiero di come potesse stare una bambina chiusa in un barattolo di vetro da sola in fondo al mare mi commosse profondamente, quindi accettai, era in gioco una vita e il suo primo giorno di scuola.
“Dunque - riprese Ottone - come ti ho detto siete stati scelti in due, tu e Christoff, lui per la sua esperienza da sub, tu per le tue qualità pindariche”. Christoff era un ragazzo sulla trentina di origine tedesca, ma residente a Savona. Esperto di pesca subacquea, era stato scelto pare anche per motivi socio-fisico-riabilitativi.
“Per motivi di segretezza Christoff partirà con il peschereccio Alba Viola si immergerà nel punto designato dalla Marina Democratica Mineraria, ma siccome non siamo sicuri che avrà sufficiente riserva di ossigeno per raggiungere l’obiettivo, in contemporanea tu verrai lanciato dal dirigibile Long John”.
“Lanciato cosa? Da un dirigibile? Ma sarà un sommergibile, no? Lo sanno anche i bambini che il dirigibile vola e sott’acqua ci va il sommergibile, no?... O qualcuno ha capito male, oppure ci sarà stato un errore di trascrizione!”.
Il dott. Marcheselli, che fino a quel punto era stato in silenzio, intervenne rassicurante. “Raffaele, tranquillo, nessun errore, anche se sembra strano, è proprio un dirigibile. Abbiamo scelto te perché siamo certi che con il tuo quoziente pindarico-percettivo la missione avrà successo”. Questi qua sono tutti fuori di testa pensai, ok per le capacità pindariche, ma il dirigibile vola alto, e può anche incendiarsi. Insomma è obsoleto, ma ormai avevo accettato. Quella notte dormii poche ore, ma profondamente.
Mi risvegliai riposato e stranamente in ottima forma. Quando in sala caffè incontrai Christoff, ci scambiammo un gioioso sorriso e una forte stretta di mano, come due amici che non si vedono da tanto tempo. Il suo sguardo non celava l’orgoglio di essere stato scelto per un incarico così importante e delicato, ma non scambiammo nemmeno una parola sulla missione, bevemmo un caffè e dopo una sigaretta, parlammo di come era andata la notte, dei nostri malanni e dei Jefferson Airplane. Insomma delle cose di sempre.
Sul Long John faceva un freddo cane, il rumore dei motori era assordante, il rollio al limite del rigetto di stomaco. Eravamo solo io ed il pilota. Ricordo che l’interno del Long John era completamente spoglio, non c’era la benché minima presenza di attrezzature per lo svolgimento di una missione speciale. Niente tute da sub, maschera o pinne, o martelli per rompere il vetro, nessuno mi aveva detto come si doveva svolgere la missione, ma non ero preoccupato, avrei seguito l’istinto, come Alce Nero. Mentre sentivo che passava la sensazione di freddo, rallentava anche il flusso dei miei pensieri. In una frazione di secondo mi ritrovai sul fondo del mare. Un ambiente fantastico, stupefacente, indescrivibile. Calma e armonia regnavano. Stelle e cavallucci marini abbondavano. Tranquilli pesciotti cicciuti sguazzavano tra castelli di corallo e ciuffetti di posidonie, il tutto immerso in una limpidissima e luminescente acqua giallina, tipo Venoruton per intenderci, bollicine comprese.
Il barattolo era lì, poggiato delicatamente sul fondo sabbioso. La bambina con i capelli dorati sembrava serena e tranquilla.
Quando in sala caffè rividi Christoff ci salutammo a pacche sulle spalle, caffè e sigaretta.
Non parlammo dei dettagli della missione speciale, ma come al solito di come era andata la notte, dei nostri malanni, di Alvin Lee e di Richie Havens.
Christoff continuò sempre a dire che quello non poteva essere un dirigibile, perché il dirigibile vola! È il sommergibile che va sott’acqua!
Lo sanno anche i bambini!

IL FUTURO DI LUISA

   Maria Chiara Reitani


L uisa era stanca, ogni qualvolta pensava alle sue opere vedeva davanti a sé un gran tavolo da cucina…
Le giornate erano lunghe soprattutto per lei che era una donna sensibile, che guardava dentro di sé e che era insoddisfatta di tutto quello che faceva. La vita era stata dura. Si era sposata tardi e aveva due figli che erano la sua grande soddisfazione. Ora erano grandi e conducevano una vita autonoma. Andavano a trovarla spesso, passavano lunghe ore a conversare. Erano momenti felici e insostituibili. La donna passava intere giornate a riflettere sulla sua vita, Era maggio inoltrato e Luisa andava spesso in campagna a ritemprarsi. Faceva lunghe passeggiate. Era contenta di quello che la vita le aveva donato, aveva molti passatempi, amava scrivere racconti.
Cosa le riservava il domani? Spesso si era posta questa domanda senza darsi una risposta. Andava avanti, con coraggio e determinazione. Il futuro non le faceva paura ma la spronava a migliorarsi. Era stanca, ma felice per quello che aveva costruito nella sua vita.
I giorni passavano inesorabilmente e questo l’angosciava, tutto le faceva paura ma non si arrendeva. Era una donna forte e volitiva. Non si arrendeva davanti alle difficoltà. Questa era la sua forza e la sua determinazione.

OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI


La galleria virtuale, http://arteirregolare.comitatonobeldisabili.it, è stata progettata e realizzata dagli artisti irregolari riuniti nel Collettivo Artisti Bolognesi, assieme al Comitato Nobel per i Disabili, con il sostegno del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Usl di Bologna. Agli artisti del Collettivo, e acoloro che saranno ospitati in futuro, la galleria offre uno spazio virtuale nel quale dare visibilità alle proprie produzioni ed uno strumento per entrare in contatto diretto con il pubblico e gli eventuali acquirenti. Le opere, infatti, sono tutte in vendita e saranno gli autori a trattare direttamente gli aspetti commerciali del proprio lavoro, acquisendo o rafforzando così, anche in questo ambito, le loro capacità e competenze.





Ho iniziato a dipingere tardi, per merito di mia madre, che un giorno, vedendomi annoiato, mi ha regalato un pennello e dei colori. Tramite la pittura ho subito provato la piacevole sensazione di vivere in un mondo parallelo, quasi un uscire dalla quotidianità per ritrovarmi in un mondo tutto mio!
Sicuramente non riproduco paesaggi, cerco invece di esprimere le mie sensazioni in quadri semplici che potrebbe fare un bambino.
Spero che i miei dipinti vi possano piacere, sono praticamente come miei figli, ognuno con caratteristiche diverse, ma col medesimo stile...

Fly




I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Fly