TRENTO LONGARETTI: “VECCHIO CON VIOLINO E BAMBINA”
Piergiorgio Fanti
I
suoi quadri, di un figurativo moderno, sconfinano talvolta in una sorta
di realismo magico. La pittura di Longaretti ci parla con autorevolezza
del mondo degli emarginati, pur riuscendo ad usare delicati passaggi
cromatici mai sforzatamente drammatici: musicisti di strada, spesso
accompagnati da bambini che ne allietano la vita.
Le opere di Longaretti sono permeate di un sensibile lirismo e a volte
ricordano i dipinti di Chagall, ma a me sembrano avere qualcosa in
comune anche con i ritratti di Cézanne.
La ‘pittura sociale’ in Lombardia diede esempi luminosi nell’Ottocento
e nel primo Novecento. Ad esempio ricordiamo Angelo Morbelli, con i
suoi vecchioni del Pio Albergo Trivulzio; Carlo Fornara, con quadri
come L’aquilone, dove una vecchia reca sulla schiena un carico di legna di incredibili dimensioni, o Attilio Pusterla, con il suo Alle cucine economiche di Porta Nuova.
L’arte sociale in Lombardia ebbe importanza anche nei tempi antichi. Da
ricordare nel Seicento Giacomo Ceruti, detto ‘il Pitocchetto’ perché
ritraeva, appunto, dei ‘pitocchi’, che nelle sue opere acquistavano
grande dignità.
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EDITORIALE
Fabio Tolomelli
I
gesti di solidarietà e aiuto sono per me ammirevoli, tuttavia, come
dice un detto, devono essere fatti senza l’aspettativa di riconoscenza
o gratitudine. L’origine dell’impegno parte dal cuore e dalla forte
convinzione di fare la cosa giusta, senza la pretesa o speranza di
qualsiasi forma di ricompensa sociale o economica. Può capitare poi di
offrire solidarietà o aiuto a persone in difficoltà che non vogliono
essere aiutate, o si aspettano cose diverse da quello che gli offriamo.
Di forme di solidarietà ne esistono molte e possono essere raggruppate
in due generi: economiche e sociali. Quelle economiche sono finalizzate
a sostenere disoccupati, pensionati, sotto-stipendiati e poveri di ogni
forma. Quelle sociali sono legate alle calamità, alle malattie,
all’immigrazione o alla disabilità.
‘Aiuto’ è un termine molto simile a ‘solidarietà’, entrambi consistono nel dare e ricevere.
Sono tanti i sinonimi nella lingua italiana: assistenza, appoggio,
sostegno, soccorso, collaborazione, cooperazione, ausilio, protezione,
rinforzo e anche beneficenza, carità. Ognuno di questi termini
richiederebbe un giusto e proficuo approfondimento che, per motivi di
spazio, lascio al lettore.
Per la mia esperienza personale io ho avuto bisogno sia di solidarietà che di aiuto; ma ho anche dato so¬lidarietà e aiuto.
Se vado a rivedere a ritroso la mia psicopatologia mi accorgo di avere
ricevuto molto dal servizio sanitario. Innanzi tutto per come sono
stato soccorso all’inizio della malattia, quando ero terrorizzato da
quello che mi stava accadendo, in modo particolare dal fatto che non
riuscivo più ad essere padrone delle mie emozioni. Poi sono arrivati:
il giusto sostegno nel periodo in cui la malattia si cronicizzava, il
rinforzo con dialoghi e farmacoterapia, un’assistenza economica e, per
finire, un’attività sportiva con I Diavoli Rossi che mi ha permesso di respirare e solidarizzare condividendo emozioni con chi soffriva più o meno come me.
Premesso che non credo nell’elemosina né nella carità, sono convinto
che, come affermava il mio insegnante di psicologia, è importante,
invece, dare aiuto all’interno di associazioni, o solidarietà per mezzo
di istituzioni pubbliche o private. Questo perché l’intervento è più
efficace, trasparente, visibile. Se vado a rimembrare, la solidarietà
e/o l’aiuto che ho dato è ben poca cosa rispetto a quello che ho
ricevuto: il bilancio è a netto favore di quello che ho ricevuto.
Spesso mi è capitato di dare aiuto per farmi sentire bene con me
stesso, per sentirmi buono, lenire il doloroso senso di colpa verso gli
altri, farmi sentire più bravo anche professionalmente.
Grazie all’aiuto che Il Faro
mi dà e che mi ha dato, conosco sempre meglio me stesso, la mia
personalità, i miei limiti, le mie possibilità e come realizzarle.
Scrivete e leggete Il Faro: riceverete tanto e darete tanto aiuto e solidarietà, perché la conoscenza è vita.
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NESSUNO SI SALVA DA SOLO
Stefy
uando si parla di solidarietà e aiuto mi salta spontaneamente alla mente il titolo del libro di Margaret Mazzantini Nessuno si salva da solo,
perché queste due cose ci vengono date dalle persone che ci circondano.
La solidarietà e l'aiuto non implicano per forza la presenza di beni
materiali, ma anche solo la comprensione e la vicinanza spirituale
verso chi in quel momento sta attraversando un ‘brutto periodo’. Chi dà
solidarietà e aiuto mostra sempre la sua empatia verso chi lo circonda,
la sua capacità di ‘mettersi nei panni’ di chi ha dei problemi e di
riflettere su cosa piacerebbe a lui se avesse dei problemi. La
solidarietà e l'aiuto sono due cose implicite nel nostro essere umano,
perché siamo esseri socievoli e comunicativi. Non sto parlando di
problemi a livello mondiale, ma di problemi a livello personale. Già
solo lo scambio di qualche parola di comprensione, per me, è da
considerarsi un gesto di solidarietà e l'aiuto sta anche nei piccoli
gesti. Ma spesso e volentieri le persone approfittano della tua
disponibilità senza comprenderne il valore. La solidarietà e l'aiuto
vengono elargiti senza parsimonia da chi ha un animo ricco e profondo,
capace di comprendere quanto può stare male chi ha dei problemi, e
purtroppo a volte quest'ultimo accetta senza porsi tanti perché. Ma in
questo mondo è difficile trovare chi fa gesti di solidarietà e aiuto.
Forse perché ormai si trovano solo dei Sancho Panza e non più dei Don
Chisciotte. Ma il motivo per cui viene data la solidarietà e l'aiuto è
una cosa difficile da comprendere, bisogna andare a scavare nella
profondità dell'essere umano. C’è chi, con superficialità, lo fa perché
deve dimostrare di essere una persona ‘buona’ agli occhi degli altri e
chi, senza interessarsi del parere altrui, lo fa per sentirsi appagato
con sé stesso, ma comunque c'è sempre un perché che va ad arricchire le
nostre coscienze per poi riversarsi alla fine nel nostro essere, il
nostro io.
La solidarietà e l'aiuto ci aiutano a soffrire meno nel momento del
bisogno, attaccandoci a parole o gesti che ci vengono da chi ci è
vicino e ci fanno sentire meno fragili. La solidarietà e l'aiuto non
hanno secondi fini e ci si aspetta che ci arrivino senza chiederli e
senza dare nulla in cambio. Ma poi, conviene dare aiuto, in una società
come questa, incapace di solidarietà anche nei momenti e nei luoghi in
cui sarebbe necessaria, ospedali, centri sociali eccetera? Per dare
solidarietà e aiuto bisogna avere ideali in cui si crede fermamente e
avere la forza interiore di sostenere moralmente chi ha bisogno, ma si
avrà poi la riconoscenza? È per questo che è difficile trovare chi è
disposto a dare solidarietà e aiuto. Perché molti temono che sia solo
del tempo sprecato. Dare solidarietà e aiuto significa anche far
sentire la propria presenza emotiva, ma spesso si ha paura di mostrare
le proprie emozioni e di apparire fragili e la difficoltà di cercare di
capire gli altri, a volte, è più grande dell'ideale stesso per cui si
vorrebbe dare solidarietà. Così si rinuncia a darla. Si arriva a
scordarsi che nessuno si salva da solo. Ma che vuoi! Siamo umani,
troppo umani e ci facciamo trasportare nella vita dai sentimenti.
La solidarietà e l'aiuto sono due sentimenti che interagiscono tra loro
e mostrano la capacità di socializzare con il prossimo. In particolar
modo la solidarietà, che è basata sul fattore emozionale, mostra
l'empatia delle persone. L'aiuto è un fattore che spesso è materiale,
che viene di conseguenza con la solidarietà. Con la solidarietà si
tenta di comprendere l'animo altrui, i suoi tumulti, le sue motivazioni
e anche i suoi lati oscuri per tentare di rassicurarlo, facendogli
sentire che non è solo, ma che può fare affidamento su di te per un
aiuto. La solidarietà arriva fino ad un certo punto, perché nessuno è
capace di comprendere totalmente ciò che prova un altro, ma è
essenziale per noi esseri umani, per far sentire la propria presenza
all'altro, non solo fisica, ma emotiva e psicologica. Le persone che
socializzano poco, non per questo sono incapaci di dare solidarietà e
aiuto agli altri. Hanno solo un modo di socializzare diverso dai soliti
stereotipi. Magari hanno un mondo nel cuore e non riescono ad
esprimerlo con le parole, e così i loro gesti di solidarietà e aiuto
risaltano, perché mettono in mostra il senso di umanità che queste
persone di solito tengono nascosto tra le pieghe del loro animo.
Possono essere dei gesti piccoli e semplici, ma per chi li sa
comprendere appaiono immensi e gli resteranno segnati nel cuore. La
solidarietà non sempre è esplicita, ma a volte bisogna saperla
percepire attraverso le emozioni che ti vengono trasmesse. Quella è la
solidarietà che ti tocca il cuore con le emozioni, perché è dal cuore
che nascono. E quando riesci a farle arrivare al cuore dell'altra
persona, vuol dire che sei riuscito veramente a dare solidarietà e
aiuto!
Ma poi tutta questa solidarietà e aiuto completerà il nostro essere? Io
penso di no, perché la nostra vita è fatta di una ricerca interiore
verso qualcosa che ci completi, cosa che non riusciremo mai a
raggiungere...
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ETICO ED EMICO
Luca G.
E
mico?”, chiese Luca. “Sì, emico”, fu la risposta di Leopoldo.
“Che cosa vuol dire 'emico'? È una parola che non ho mai sentito - disse Luca - siamo sicuri che esista?”.
I due cugini si trovavano nella casa di uno zio comune. Luca era andato
per le vacanze natalizie a trovare i suoi parenti, i quali abitavano in
un piccolo complesso residenziale composto da un appartamento per ogni
fratello e sorella del padre. Poco prima di partire, Luca aveva sentito
dire da un collega di lavoro la parola 'emico'. “Siamo sicuri che
esista?”, ripeté al cugino. “Certo che esiste”, disse Leopoldo, che a
differenza di Luca aveva deciso di andare all’università dopo il liceo.
E Luca, dopo essere entrato nella stanza del cugino, aveva letto la
parola su uno dei suoi manuali aperti. “A me sembra una cosa tanto
strana”... “Che vuoi dire?”... “Vedi, Leopoldo, io ho sempre sentito
dire 'etica' ed 'estetica', o meglio ho visto accostato al termine
'etica' quello di 'estetica'. Ma non so proprio cosa significhi
'emico'... L’ho sentito dire da un collega di lavoro - spiegò Luca - e
l’ho anche trovato qui, guarda”. Così dicendo, indicò il punto dove
aveva trovato la parola e domandò: “Tu sai che cosa significa 'emico',
Leopoldo? Se non riesci a darmi una definizione, forse potresti fare un
esempio pratico…”, aggiunse come incoraggiamento, desideroso di capire
con facilità. Leopoldo stette un attimo a pensare, poi cominciò: “Tu
alle elementari sei stato educato con una formazione filocattolica,
cioè, hai frequentato il catechismo, ti hanno parlato dei Vangeli, dei
personaggi più noti della Bibbia, dei dieci comandamenti, giusto?”...
“Sì, certo! - rispose Luca - Ho anche fatto sempre l’ora di religione,
anche alle medie, anzi, anche alle superiori, dove era sempre un’ora
morta, durante la quale svagarsi o ripassare le altre materie. Anche tu
hai fatto religione al liceo ed era sempre un’ora morta, no?”... “Sì -
ammise Leopoldo - Però ti hanno dato una formazione cattolica”…“Dove
vuoi arrivare?”, chiese Luca. “Immagina di incontrare per la prima
volta una persona che ha una cultura, una visione del mondo
completamente diversa dalla tua, che pratica una religione che non è la
tua. Un… musulmano! Ecco - disse Leopoldo - immagina di incontrare per
la prima volta un musulmano in vita tua”. “Veramente ne ho già
incontrati…”, fece Luca. “Immagina di non averne mai visto uno! - lo
interruppe il cugino - Ascoltami: tu incontri per la prima volta in
vita tua un musulmano e ti metti a osservarlo per capire come vive.
Vedrai una persona che recita versi del Corano invece che della Bibbia,
in una lingua che non conosci”... “Sì”, disse Luca. “Lo vedrai lavarsi
faccia, mani e piedi, e pregare su un tappeto, inginocchiato, in
direzione de La Mecca. Giusto?”… “Certo! - ammise Luca - Prosegui”… “Se
lo osservi per qualche giorno, vedrai che non mangia carne di maiale e
che ci sono dei periodi in cui digiuna, come il Ramadan”… “Certo”,
ripeté Luca. “Ebbene, immagina di averlo visto da fuori, dal tuo punto
di vista. Un punto di vista che ti sei formato con le tue esperienze,
gli studi che hai fatto, la tua cultura. Da un punto di vista 'etico',
insomma. Dimmi - aggiunse Leopoldo - tu che mangi il maiale, preghi
Dio, ti fai il segno della croce e fai tutte le cose che fanno i
cristiani, troveresti strane alcune delle cose che fanno i musulmani?”.
Luca stette un po’ a pensare, perché aveva paura di fare la figura del
bislacco o del prevenuto, o peggio del razzista. Alla fine disse:
“Ognuno ha le sue religioni e il suo modo di vivere”… “Certo, ma c’è
qualcosa che ti colpisce di quel che fanno i musulmani?”...
“L’inginocchiarsi”, fu la prima cosa che venne in mente a Luca.
“Ammetto che pure io mi sono inginocchiato, in chiesa, ma non so se
riuscirei a stare in ginocchio per un tempo più lungo, per pregare in
casa mia. Lo troverei scomodo. E inutile”, concluse. “C’è
qualcos’altro?”, chiese Leopoldo. “Che male c’è a mangiare maiale? -
disse Luca - So che in India la carne di vacca non viene mangiata,
perché là le mucche le venerano, le considerano sacre, ma il maiale…”.
“Ecco, vedi? - rispose Leopoldo facendo con le braccia un gesto di
soddisfazione - Tu in questo momento stai osservando e giudicando un
musulmano da un punto di vista ‘etico’, un punto di vista diverso da
quello della persona, della cultura che stai osservando”. “Ed ‘emico’,
invece - chiese Luca - cosa vuol dire?”... “Immagina ora di metterti
nei panni del musulmano, di apprendere il perché dei suoi rituali, dei
suoi gesti - disse Leopoldo - Immagina di sperimentare per qualche
tempo l’islamismo, di fare come fa lui. In questo modo capirai il
perché del modo di fare dei musulmani, capirai le loro credenze, i loro
valori, i loro principi… Ebbene, questo qui sai cos’è?” ... “Cos’è?”,
chiese Luca con un po’ di suspense. “È osservare qualcuno dal punto di
vista ‘emico’. E lo stesso puoi fare se ti immedesimi in un induista, o
in un buddista, e se comprendi la filosofia, il modo di vivere di chi
pratica religioni diverse dalla tua”… “Però un briciolo di nozione
generale sulle altre culture ci vuole! - replicò Luca - Almeno un punto
di partenza...”. “Certo, a scuola ti parlano di altre culture, altri
paesi, altre religioni, ma lo fanno seguendo un punto di vista 'etico',
cioè esterno dalla cosa che ti stanno spiegando. Per capire
perfettamente un’altra religione, devi immedesimarti in essa, vederla
dal di dentro”… “Insomma, se ho capito bene, per vedere la Siria dal
punto di vista 'emico' devo capire i Siriani, devo sentire sulla pelle
la loro cultura e religione, anzi, devo sentire l’aria stessa della
Siria. So che è un po’ difficile di questi tempi, vista la situazione
politica - ammise Luca - però se io percepisco l’atmosfera tipica di
una città musulmana, o araba, ho maggiori probabilità di vederla da un
punto di vista 'emico', perché ci sono di persona e capisco com’è il
modo di viverci. In fondo le città sono impregnate dell’anima di chi le
ha costruite e abitate e di chi ci è passato”. Ormai la visita si era
cementata in una conversazione interessante e dopo aver soddisfatto la
propria curiosità sul significato della parola 'emico', fino allora
parsagli inesistente, Luca era ormai diventato più un fiume di parole
in piena che un semplice ascoltatore. “Le case di Roma non possono
essere uguali a quelle di Damasco, giusto? Anche dal punto di vista
estetico, non ti pare?”... “Dici benissimo, Luca - rispose Leopoldo -
le popolazioni hanno un loro punto di vista etico, emico e anche
estetico. In fondo l’estetica altro non è che l’esperienza che ogni
popolo fa quando trova bello, o non bello, qualcosa. Tu sai che le
donne bionde non sono belle per tutte le persone, giusto?”...
“Certamente, ci sono persone che preferiscono di gran lunga quelle coi
capelli castani”, disse Luca.
“Questo non vale solo per le singole persone, ma anche per i popoli! -
disse Leopoldo - Ciascun popolo ha un’idea tutta sua del bello. Prendi
i paesi africani: come possono i loro canoni estetici essere uguali ai
nostri?”... “Hai ragione. Inoltre penso che l’idea di estetica, l’idea
di bellezza cambia non solo a seconda del luogo, ma anche a seconda
dell’epoca. Nell’Europa del ’600, per esempio, era già tanto essere
sani, non avere malattie, e quindi un punto di vista estetico
accettabile allora era che le donne avessero un viso senza brufoli e i
denti puliti. Poco importava se erano o meno in carne”… “Giusto, la
fissazione della magrezza è arrivata molto tempo dopo - aggiunse
Leopoldo - non dappertutto i parametri che dicono com’è una bella
donna, o com’è una bella casa, sono gli stessi”... “Ti immagini i tanti
artifici che le donne fanno per seguire i canoni estetici odierni?
Certe donne arrivano addirittura a rovinarsi! - disse Luca - Se penso
al fatto che nell’Ottocento l’anoressia e la bulimia erano praticamente
inesistenti…”. “Va bene, cari filosofi” disse una voce vivace e
potente. Luca si voltò e vide sua zia che era entrata nella stanza. “Se
avete finito, possiamo anche mangiare: Luca, ti fermi a cena?”... “Sì,
volentieri, se i miei sono d’accordo, o non stanno già preparando la
tavola”, rispose il ragazzo, quindi salutò Leopoldo e si diresse dai
suoi genitori per informarli dell’invito.
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ETICO ED EMPATICO
L. L.
N
el suo bel racconto, che a passo lento e pensieroso ci fa riflettere su
come i nostri punti di vista siano spesso molto miopi, Luca G. utilizza
uno strano termine, ‘emico’, che – ci informa - si contrappone a
‘etico’, in quanto corrisponde a un differente punto di vista: in
parole povere, si usa per dire che qualcosa si osserva ‘dall’interno’,
invece che ‘dall’esterno’…
Questa terminologia tecnica, nata nell’ambito della sociolinguistica
anglosassone, in fin dei conti, però, non rende giustizia alla parola
‘etico’. Insomma: se ‘emico’ si può considerare un curioso neologismo,
dal tono confidenziale come certi nomignoli originati dal nome
dimezzato (tipo Pina per Giuseppina), un vocabolo come ‘etico’ ha
tutt’altra dignità, esisteva già nell’antica Grecia e ci collega al
mondo dei filosofi.
Lungi
dall’essere semplicemente il contrario di ‘emico’, ‘etico’ ha un
significato talmente ampio che si fa fatica a definirlo. Questo perché
nella sua lunga storia il termine ha vissuto un’interessantissima
evoluzione concettuale, che va di pari passo con la riflessione che
l’umanità ha fatto e continua a fare su sé stessa. Entrare nel campo
dell’etica è una grande avventura, e strada facendo potremmo anche
sbilanciarci a parlare di morale universale, di giustizia umanitaria…
Questa considerazione mi ha dato l’idea di aggiungere al percorso
logico di Luca G. un altro piccolo salto: dall’etica, che pur con tutte
le buone intenzioni ci dà comunque una visione verticale delle cose,
all’empatia, che ci
sposta
sul piano orizzontale, in sostanza al ‘metterci nei panni’ dell’altro.
Magari lontano, magari diverso, magari ostile, l’altro è comunque un
nostro simile, nostro fratello… Penso che solo dalla capacità di porsi
in modo empatico possa nascere quella ‘solidarietà’ che consiste nel
sentirsi in solido con tutta l’umanità. Essere ‘umani’, con gli esseri
umani, insomma.
Vi è mai capitato di sentir dire che i profughi di guerra che premono
alle nostre porte devono starsene “a casa loro”? Ecco, questa è “casa
loro”.
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LA BESTIA ORRENDA
Antonio Marco Serra
I
n questo periodo apprendiamo spesso, dai mezzi di comunicazione di
massa, della morte in mare, nel canale di Sicilia, di decine o
centinaia di profughi che cercavano di raggiungere le nostre coste su
barconi malandati. Naturalmente c’è qualcuno che reagisce con frasi
ciniche: “Se la sono cercata!”, “Sessanta di meno!”, ma la maggior
parte delle persone, almeno tra coloro che frequento, si addolora di
queste morti e spesso ne attribuisce la causa alla scarsa solidarietà e
allo scarso altruismo degli Europei. Anch’io, almeno per un attimo, non
posso fare a meno di dolermene, ma poi mi domando che senso abbia tutto
ciò. Ogni secondo muoiono nel mondo (vuoi per morte naturale, vuoi per
morte violenta) due esseri umani, ogni tre giorni muoiono tante persone
quante sono quelle che abitano a Bologna, ogni anno ne muoiono tante
quante ne conta l’intera Italia. Se davvero dovessimo, e potessimo,
dolerci delle morti di tutti questi esseri sconosciuti, la nostra vita
sarebbe solo una perpetua sofferenza. Ho l’impressione che il dolore
che proviamo nell’apprendere che delle persone sono annegate nel canale
di Sicilia non sia poi molto diverso da quello che proviamo leggendo in
un romanzo la tragica morte dell’eroe. Mi ricordo che quando ero
piccolo, per quanti sforzi facessi, non ero capace di trattenere
qualche lacrimuccia quando leggevo la poesia di Giovanni Pascoli La cavalla storna,
che parla dell’assassinio del padre del poeta, quando quest’ultimo era
bambino. Era diventato una specie di gioco: “Voglio leggerla ancora una
volta, ma questa volta non devo commuovermi”, ma poi, regolarmente, non
ci riuscivo. Secondo me si tratta di un dolore fittizio, un dolore su
cui non è possibile fondare un’autentica solidarietà. Tutt’al più
potrebbe indicare, ma non sono nemmeno sicuro di questo, una
predisposizione all’empatia, che potrebbe poi manifestarsi nei casi
concreti.
Per una persona della mia età è curioso notare come nell’arco della mia
vita certe parole che si legano all’aiuto e alla solidarietà, abbiano
cambiato la loro valenza: ‘elemosina’ è diventata una parolaccia,
‘compatire’ qualcuno è divenuta la maggior offesa che si possa
arrecargli, eppure, almeno nel suo significato etimologico di ‘soffrire
insieme’, secondo me la compassione è la base indispensabile per
qualunque agire autenticamente solidale. Se mi è preclusa la
possibilità di percepire emozionalmente le sofferenze (ma naturalmente
anche le gioie) di chi mi sta dinnanzi, mi è anche di fatto preclusa la
possibilità di recargli un aiuto concreto e fattivo, perché solo in
questo modo riesco a percepire ciò di cui ha realmente bisogno, che
molte volte differisce da ciò di cui questa persona dice, e talvolta
persino crede, di aver bisogno. Io credo che una reale solidarietà e un
reale aiuto siano possibili solo se si crea un senso di empatia
profonda tra chi dà e chi riceve, un’empatia che ha un contenuto sia
emozionale che cognitivo. E in questa situazione diviene oggettivamente
difficile stabilire chi più sta dando e chi più sta ricevendo e, in
fondo, forse non ha neppure molta importanza stabilirlo.
A volte, citando un detto attribuito (credo erroneamente) a Confucio,
si sostiene che è sbagliato dare pesci a chi ha fame, bisogna invece
insegnargli a pescare (o anziché dargli una ciotola di riso, occorre
insegnargli a coltivarlo). Ma ci si dimentica che a volte quel qualcuno
ha fame proprio perché le sue condizioni gli impediscono di pescare o
di coltivare, e questo è particolarmente vero per tanti che si trovano
in situazioni di disagio psichico. Lasciate che ve lo dica qualcuno che
lo ha sperimentato di persona. Pochi di voi sanno, e pochissimi, forse,
lo crederanno, che io, tanti anni fa, per parecchi mesi ho mendicato
per le vie di Bologna, dormendo in una vecchia auto (ed era inverno).
Una volta, in piazza Cavour, un tale che aveva appena acquistato un
cappotto, mi ha lasciato il suo vecchio cappotto in regalo (e io, che
non sono fisionomista, mi ricordo ancora il suo viso), un’altra volta,
mentre mi ero appisolato in un angolo di via Marconi, vicino a un
supermercato, al mio risveglio mi sono trovato accanto due scatole di
biscotti, evidentemente appena acquistate da qualcuno che ha pensato
che io ne avessi più bisogno di lui (e io, che ho scarsa memoria e poca
passione per i cibi, mi ricordo ancora il loro sapore). Sono solo due
esempi tra i tanti, della solidarietà che mi è stata manifestata in
quei frangenti. Lasciate che vi garantisca che ciò era proprio quello
di cui avevo bisogno: non solo l’avere di che mangiare e di che
coprirmi, ma soprattutto il sapere che qualcuno si preoccupava che io
avessi di che mangiare e di che coprirmi. In quei momenti non avrei
affatto avuto bisogno di qualcuno che con aria saccente si fosse
sforzato di spiegarmi come pescare, perché in quel momento non sarei
stato in condizione di impararlo, ma avrei avuto bisogno di qualcuno
che avesse condiviso con me, fraternamente, ciò che aveva pescato, come
è effettivamente accaduto. A volte ci si dimentica che la vita è fatta
anche di punti di biforcazione (forse assai più spesso di quanto si
creda) a partire dai quali un piccolo fatto apparentemente
insignificante per chi guarda dall’esterno, può far rotolare la nostra
vita da un lato per un dolce declivio, dall’altro per un pauroso
burrone. E in quei momenti non ci è di alcuna utilità apprendere delle
nozioni (il pescare) che potrebbero esserci utili per il resto della
nostra vita, perché se la risposta che riceviamo non è quella
appropriata, quella di cui in quel momento abbiamo bisogno, il resto
della nostra vita potrebbe non esserci proprio. Quanti conoscenti che
soffrivano come me di qualche disagio psichico ho visto terminare la
propria vita con un suicidio, davvero troppi! Scriveva Simone Weil nei
suoi Quaderni:
“Sapere che quell’uomo, che ha fame e freddo, esiste veramente quanto
me, e ha veramente fame e freddo – questo è sufficiente, il resto viene
da sé”.
Ma di quale carità sto parlando? A volte si evidenzia la differenza che
intercorre tra ‘dono’ e ‘carità’ (o ‘elemosina’ che dir si voglia),
facendo notare che il primo fa parte di uno scambio sociale e perciò
stesso implica reciprocità, mentre la seconda è fatta a titolo
assolutamente gratuito. Ma a ben vedere, almeno per chi si muove
nell’ambito di qualche fede religiosa, ciò non è sempre del tutto vero.
Proprio perché chi riceve la carità è impossibilitato a restituire il
favore, può essere la divinità stessa a farsi garante della
restituzione, con qualche sorta di premio futuro. Non era Gesù che
diceva: “Ciò che avete fatto a uno solo di questi piccoli, voi l’avete
fatto a me” (Mt. 25, 40), con le inevitabili conseguenze che ciò
comporta per chi vi crede? Ma anche per chi non aderisce ad una fede
religiosa, potrebbe esserci qualche premio, come il non provare
rimorsi, il sentirsi a posto con la propria coscienza et similia.
Se intendiamo la carità (o l’aiuto, o la solidarietà) sotto questa
specie, effettivamente anche la carità farebbe parte del gioco delle
regole sociali, e non sarebbe altro che uno degli artifici attraverso
cui quella data società si garantisce il proprio continuare ad
esistere. Ad esempio, se nell’ultimo secolo si sono sempre più
sviluppati i principi del Welfare State è stato perché, tutto a
un tratto, siamo diventati più ‘buoni’, o è stato perché in una società
democratica contemporanea, disparità sociali troppo pronunciate
sarebbero risultate inaccettabili dalla gran parte dei membri della
società stessa, mettendo in pericolo la sua stessa sopravvivenza?
Ma non è questa la carità di cui sto parlando. Nel fenomeno del
‘contagio emotivo’, di cui avevo parlato in un articolo di qualche anno
fa, non è ovviamente per aderire a qualche dottrina filosofica o
religiosa che un bambino di pochi mesi, che ancora non ha sviluppato il
senso del sé, quando vede un altro bambino piangere si mette anche lui
a piangere, come se la sofferenza altrui fosse la propria. E non è
certo per ricevere una qualche ricompensa in questa o in un’altra vita
che una madre si interpone tra il proprio figlio e il pericolo che lo
sovrasta, disposta a sacrificare la propria vita per salvare quella del
figlio. Non siamo noi che, nel nostro essere più profondo, ci adeguiamo
ad una serie di regole elaborate a tavolino o, per chi ha fede,
inviateci da qualche divinità; al contrario noi elaboriamo le nostre
convinzioni etiche e i nostri credo religiosi a partire dal nostro più
profondo essere uomini. Naturalmente, poiché noi siamo costituiti da un
guazzabuglio inestricabile di neuroni che si collegano tra loro nei più
imprevedibili modi, le convinzioni etico-religiose che abbiamo
elaborato nei vari tempi e nelle varie società sono molto differenti
tra loro e, a volte, agli antipodi le une delle altre. Eppure, visto
che sono comunque un’espressione di questo nostro essere uomini, vi è
sempre qualcosa che le collega. Persino il nazista che tornava a casa
dopo il suo lavoro in un campo di sterminio, convinto di aver fatto il
proprio dovere, poteva, come chiunque di noi, abbracciare amorevolmente
la propria figlia, raccontarle una fiaba per farla addormentare e
augurarsi sinceramente per lei un futuro radioso, in un mondo
purificato dalle ‘razze inferiori’. E se siamo convinti e rassicurati
dal pensiero che non potremo mai provare empatia per qualcuno che, come
quel nazista, abbia commesso azioni e nutrito pensieri ai nostri occhi
ripugnanti, allora non abbiamo ancora capito di che pasta sia fatta
l’empatia e quale terribile bestia essa sia. È uno specchio impietoso
che ci fa scorgere, in chi ci sta dinnanzi, noi stessi: se ciò che
costui ha compiuto è, secondo il nostro metro di giudizio, la più
nobile delle azioni, comprendiamo che noi stessi avremmo potuto
compierla; ma anche se ciò che costui ha compiuto è, secondo il nostro
metro di giudizio, la più efferata delle malefatte, anche in questo
caso comprendiamo che noi stessi saremmo stati capaci di compierla.
Perché al di là di ciò che abbiamo rispettivamente compiuto siamo stati
comunque impastati con la medesima farina. Allora il colore della
pelle, la lingua, il credo religioso, il sesso, l’età ed ogni altro
aspetto di colui che ci sta dinnanzi ci diviene indifferente: noi non
siamo lui, ma avremmo realmente e concretamente potuto esserlo, se solo
qualche insignificante condizione al contorno fosse stata diversa. E se
costui invoca il nostro aiuto, negandoglielo rinnegheremo noi stessi!
L’empatia è una bestia orrenda… e meravigliosa.
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LA SOLIDARIETÀ UMANA
MarshaL Monaco BRITFOR
Solidarietà = Rapporto di comunanza tra i membri di una collettività pronti a collaborare tra loro e ad assistersi a vicenda: solidarietà sociale; condivisione di pareri, idee, ansie, paure, dolori ecc.: esprimere la propria solidarietà ai parenti delle vittime.
http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/S/solidarieta.shtml
‘Solidarietà’ è un sostantivo che deriva dalla parola francese
solidarité che ha come suo significato principale una forma di impegno
etico-sociale a favore di altri.
Dati i gravi cataclismi tuttora in atto a livello globale, per il
cambiamento climatico causato dall’attività umana, la solidarietà si
può esprimere nell’intraprendere azioni concrete volte ad arrestare ciò
che potrebbe porre fine all’esistenza del genere umano e della vita
terrestre. La solidarietà da esprimere verso quelle popolazioni che
devono esulare dalla propria terra, a quei lavoratori che hanno perso
letteralmente il contatto con la terra, agli agricoltori che subiscono
il disprezzo di chi ignora il valore della terra, deve imporre
l’attuazione di una politica solidale in toto o globale qual dir si
voglia. Si è solidali con sé stessi e verso terzi, quando si ha a
coscienza che riciclare i rifiuti e fare la raccolta differenziata,
consumare con ponderazione e contrastare l’impatto ambientale
dell’attività economica porta beneficio a tutti, anche quando si
predilige l’energia rinnovabile o si utilizza semplicemente la
bicicletta. Questo tipo di solidarietà è d’aiuto a chi è molto
sensibile all’inquinamento sia esso acustico o ambientale, a chi soffre
di malattie respiratorie eccetera. Ne beneficia la collettività.
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L’ELEMOSINA
Paolo Majerù
C
hiedere l’elemosina: la cosa più indegna per un uomo, e se uno si
sottomette a ciò vuol dire che ha toccato il fondo. Però questo nello
stesso tempo lo rende un eroe civile, perché è ancora vivo: tanti non
ci sono arrivati, togliendosi la vita molto prima.
Ultimamente sono aumentati molto, a Bologna li trovi in ogni angolo o
via principale. Ho fatto conoscenza con qualcuno di loro, ascoltando le
loro storie. Carlo mi ha raccontato che prima era un capo collaudatore
in una fabbrica molto ben strutturata e pensava che non ci fosse il
rischio che la sua ditta potesse fallire. Un ‘bel’ giorno di sei anni
fa si presentò al lavoro e la sua bella e strutturata fabbrica aveva
chiuso i cancelli. Non c’era più nessuno dei titolari e anche la
direzione era chiusa. Carlo per anni aveva cercato lavoro, poi si era
arreso. Avendo un mutuo da pagare, aveva perso la casa; aveva finito le
poche risorse e gli erano rimasti i soldi per pochi giorni ormai. La
moglie e le due figlie si trasferirono per forza maggiore a casa di un
fratello di lei, che gli offrì l’unica cameretta che aveva, ma lui non
se la sentiva più di stare in una stanza con tre donne. E fu allora che
decise di sparire dalla società, dandosi per disperso, cominciando ad
essere costretto, per mangiare, a chiedere l’elemosina. Ma conosco
altre storie simili, anche bizzarre, che in un secondo momento vi
racconterò.
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CALDURE
Luigi Zen pass
Di barzellette ce ne sono di tre tipi o temperature.
Le freddure che lasciano uguali dopo la lettura.
Le tiepidure che innalzano leggermente la temperatura.
Le caldure quelle che fanno ridere bene e che scaldano.
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Secondo le statistiche, fra i cantori i bassi sono i primi
che vanno a fare acquisti durante i saldi,
perché sono attratti dai prezzi bassi.
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IL BENE VIENE DAL BENE
Concy
uesta volta, non so perché, pur dovendo sviluppare un tema che
rappresenta un aspetto importante del mio modo di essere, ho avuto il
blocco da foglio bianco. Per fortuna è accorsa in mio aiuto una
trasmissione televisiva, andata in onda, il 3 di giugno: “Sostieni con
il cuore in nome di Francesco” e più precisamente la testimonianza di
una persona che da tempo usufruisce di una delle mense francescane
presenti su tutto il territorio nazionale. Questa persona durante
l’intervista ha dato un messaggio semplice, ma potentissimo: “Invito
tutte le persone in ascolto a sostituire il verbo possedere con il
verbo condividere”. Il concetto espresso da questi due verbi, a dire il
vero, è stato ed è declinato nella quotidianità, da che ho ricordo, dai
miei familiari e dalla sottoscritta. Mia madre all’interno della nostra
piccola comunità, ha sempre assistito ed accudito, volontariamente,
tantissimi ammalati, anche quelli più gravi e costretti a letto.
Vestito e vegliato altrettante persone passate a miglior vita, inoltre
ha donato ai paesani indigenti, oltre all’affetto, la comprensione,
l’umanità, l’attenzione e l’ascolto anche beni di prima necessità.
Papà, dal canto suo, non ha voluto essere da meno, infatti per portare
avanti la sua attività commerciale, ha quasi sempre assunto operai con
disagi vari (solitudine, etilismo, povertà in tutte le sue accezioni)
così a casa nostra, oltre a noi sette (cinque figli, mamma, papà e i
nonni), c’erano a tavola minimo tre-quattro persone in più. Nel corso
degli anni, tutto questo ha prodotto e si è tradotto in altrettanta
gratitudine, solidarietà, affetto e aiuto nei confronti della nostra
famiglia nei momenti di criticità. Riporto un paio di esempi: Quando
mio padre, all’età di quarantotto anni, ebbe un gravissimo incidente
automobilistico a seguito del quale stette in coma diciassette giorni,
con conseguenze serie per il resto della vita, i Rosciolesi fecero una
vera e propria gara di solidarietà e sostegno sia in ospedale che a
casa, dopo la dimissione. La stessa cosa si è verificata nei confronti
di mia madre, soprattutto negli ultimi cinque anni della sua vita,
molti paesani, che non finirò mai di ringraziare, sono stati presenti e
vicini, attivandosi per offrirle ed offrirci aiuto concreto, conforto
ed affetto.
La mia scelta di lavorare in ambito socio-sanitario ricoprendo un ruolo
di sostegno alle persone svantaggiate, ritengo sia la naturale
conseguenza del mio percorso di vita. Ogni professionista
nell’esercizio del proprio lavoro dovrebbe sempre aver presente che
prima c’è la persona e poi il disagio/diagnosi, essere capace di avere
un rapporto paritetico, di mettersi nei panni altrui, di aiutare
l’utente, in alcuni casi, a riappropriarsi della propria vita, dignità
e competenze, con lo scopo di riuscire ad avere pari opportunità e
cittadinanza attiva. Voglio concludere con questa riflessione generale:
bisogna sempre aver presente che, da un momento all’altro, ognuno di
noi potrebbe ritrovarsi dall’altra parte della ‘barricata’.
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PENSIERO ZEN
Lu Zen pass
L’amore è cieco… ossia ci vede come di notte quando c’è la luna
splendente e le stelle; però, se pian piano cominciasse a vederci come
di giorno quando c’è il sole… Non è più amore.
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CONFUCIO DICEVA
Luca Pasini
Il filosofo cinese Confucio diceva: “Se
in riva al fiume, vedi qualcuno che ha fame, non regalargli un pesce,
ma insegnagli a pescare”. Su questa citazione che ho riportato, baso il
seguente ragionamento sul tema “solidarietà e aiuto”.
Secondo me, essere solidali è giusto, ma ci sono tanti modi per aiutare
qualcuno e taluni sono sbagliati. Ad esempio fare l’elemosina è
assolutamente sbagliato! Viceversa fornire, quando possibile, alla
persona più sfortunata i mezzi perché possa con autocoscienza,
determinazione e secondo le proprie possibilità, provvedere a sé
stessa, è una via maestra. Non sempre la persona in questione è
disposta ad imparare a pescare, volendo ricevere invece direttamente il
pesce. Diventa quindi più che mai sbagliato dargliene, in quanto non le
si farebbe del bene, ma del male, poiché si adagerebbe sui propri
problemi, invece di combatterli.
Concludo portando l’attenzione sul punto cardine dell’argomento: molte
religioni, in particolare quella cattolica, fanno dell’elemosina il
proprio cavallo di battaglia, ma in realtà basta seguire i notiziari
con una certa costanza per vedere che spesso e volentieri ciò serve
solo a riscuotere ingenti donazioni di denaro, volontarie o meno, che
raramente poi vengono elargite ai più bisognosi. Concludo, citando in
merito, l’esempio del cardinale Bertone e dell’attico di sua proprietà,
che pare essere frutto di ottocentomila euro che avrebbero dovuto
essere destinati ai bambini poveri.
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SOLIDARIETÀ E AIUTO
Tina Gualandi
Ci sono tante forme di solidarietà e
tante di aiuto. Ci sono persone generose che fanno del bene senza farsi
sentire o notare (Dalla, Sordi e altri) e altre che aiutano facendo ad
esempio del volontariato. Ci sono persone celebri e altre comuni che
fanno volontariato quando e come possono nei più svariati settori. Mia
sorella quando può va alla Caritas e per anni è stata socia di
un’associazione che si occupa degli spastici. Io ho iniziato a fare
volontariato, dopo la pensione e dopo un periodo critico, nel settore
psichiatrico. Dal 2010 partecipo a un gruppo AMA, “Per un linguaggio
comune”, frequentato da utenti, familiari ed operatori. Poi ho iniziato
a frequentarne altri anche perché stavo meglio, il mio disturbo
bipolare era abbastanza controllato, la mia terapia era addirittura
diminuita e incontrare persone con problemi non mi dava più fastidio.
Da circa due anni sono facilitatrice in un gruppo AMA per persone in
sovrappeso. Siamo in poche (quattro donne), ma ci vogliamo bene, ci
vediamo ogni quindici giorni molto volentieri, parliamo di tutto e di
più, ci scambiamo articoli, informazioni ed opinioni. Speriamo sempre
che arrivino altre persone perché ogni persona in più porta linfa al
gruppo. Anni fa ho anche fatto volontariato insegnando italiano a
studenti stranieri. È stata un’esperienza molto positiva, perché i miei
allievi erano molto interessati ad apprendere e ascoltavano con
interesse (al contrario degli studenti italiani che spesso non erano
mai interessati a quello che insegnavo loro con tutta la mia buona
volontà). Ho anche seguito un corso di formazione per diventare ESP
(esperti in supporto tra pari), ma fino ad ora non ho fatto nulla a
livello pratico.
Il lunedì canto in un coro dalle 18.45 alle 20 e prima vado alla Casa
della Pace (a Casalecchio) – dove cantiamo – un paio d’ore e resto in
segreteria: do informazioni, prendo in consegna le cose per il
mercatino, rispondo al telefono. Da settembre mi sono offerta per fare
l’assistente per il coro. Ecco un’altra forma di volontariato utile e
dilettevole. Fare volontariato è utile agli altri, ma anche a sé stessi
(ecco allora che diventa anche dilettevole) perché c’è uno scambio, si
dà e si riceve, e spesso quello che si riceve è molto più di quello che
si dà. Ultimamente in giro sono aumentati coloro che chiedono aiuto e
spesso ad ogni angolo di strada c’è qualcuno che tende la mano o il
berretto. La cosa è veramente triste. Come si fa ad aiutare tutti?
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I GIORNI DELLA CIVETTA... E ALTRI RAPACI
LETTERA ZEN SULLA SOLIDARIETÀ
Lu Zen pass
P
oiché la solidarietà è già in atto, io voglio parlare in modo breve di
una piccola e importante solidarietà che riguarda il creato, cioè i
rapaci, in particolare le civette che da quando i Comuni hanno chiuso
le case che erano aperte, mi riferisco non a quello che pensate voi, ma
ai cascinali nelle campagne con le pareti aperte, dove veniva
immagazzinato il fieno per le mucche, ora trasformate in abitazioni e
chiuse con le finestre; così tutte le civette, gli allocchi, i
barbagianni eccetera, che andavano a dormire sopra i travi del
sottotetto, sono stati sloggiati. Tutti quei cascinali, trasformati in
biblioteche, asili nido o abitazioni, non hanno mantenuto nicchie o
nidi nelle pareti, quelle più idonee, dove potessero continuare a
vivere i rapaci. La fortuna che a noi arrecano le civette consiste
principalmente nel fatto che diminuiscono il numero dei topi dei quali
si nutrono, i quali fanno danno all’interno delle abitazioni in cui si
introducono, il che comporta un aumento dei ratticidi o veleni per topi
che vengono introdotti nell’ambiente, e si vede anche un proliferare di
gabbie di plastica per topi, che un tempo non c’erano. Termino dicendo
che un giorno ho domandato a un veterinario dell’AUSL se ci poteva
essere una soluzione a questo problema, e lui mi ha risposto: “Che cosa
ci posso fare io?”. Poi mi ha detto: “Ha mai sentito il rumore di un
barbagianni, che ti sveglia di notte?”. Io non ho risposto, perché
sapevo che avrebbero tenuto ben più svegli i topi che si introducono
all’interno delle abitazioni o nel letto.
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DANZA DI ONDE SORELLE
PERCHÉ RIDO SEMPRE A CREPAPELLE
Costanza Tuor
Impara ad amare ciò che desideri ma anche ciò che gli assomiglia.
Sii esigente e sii paziente. È Natale ogni mattino che vivi.
Scarta con cura il pacco dei giorni. Ringrazia, ricambia, sorridi.
Stefano Benni
La verità non si stanzia dalla mia parte, o dalla tua. Io corro il rischio
di affidare agli altri la mia verità nella fiducia che così sarò liberato
dalla mia piccola verità personale, e realizzerò la verità oceanica.
Reb Anderson
S
ono solidale con coloro che non hanno mai avuto vicissitudini
psichiatriche. Queste strane persone si sentono spesso meno sensibili,
meno sensitive, meno capaci di capire le sensibilità particolari di
quelli che hanno attraversato il sacro fiume del dolore psichico. Si
dice che soltanto coloro che possono vantare un’esperienza così
dolorosa siano in grado di essere realmente profondi. Forse non lo si
dice ma molti lo credono relegando i sofferenti in un insieme che non
si interseca mai con il loro. Tuttavia voglio essere solidale con i
cosiddetti normali che stanno a una certa distanza perché ho imparato
che non è il gradiente a fare di una persona una persona sensibile e
vera, ma piuttosto la sua capacità di mettere in circolo la sua vita
come un’onda che parte da lontano per sciogliersi dono sulla riva,
intrecciata al vigore di tutte le altre onde che la precedono o la
seguono.
Mettere a disposizione la propria esistenza all’incontro con chi è
diverso da noi, e spesso tutti siamo diversi tra noi, ci fa
responsabili di alimentare la vita nella vita. La nostra esistenza, e
con essa tutte le sue esperienze dolorose o faticose, diventano così un
punto di riferimento per ciascuno che ne voglia attingere. Crescere e
imparare a riconoscere le differenze, perché in fondo essere quello che
si è a volte significa anche non fare niente, lasciarsi fare dalla
risacca. Ecco il più e il meno di tutto ciò che ci circonda.
Accesi/spenti, in ogni attimo nuovi. Nessuno può essere escluso e
nessuno dovrebbe sentirsi soltanto “più” di qualche cosa. A volte
essere meno è un regalo se sappiamo fare due conti. Sì, sono solidale
con chi non ha mai avuto vicissitudini psichiatriche perché rappresenta
tutto ciò che io non sono stata e per questo mi dona qualcosa di
inestimabile e nuovo da cui posso imparare molte cose che non ho mai
scoperto prima e di cui, soprattutto, ringrazio!
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AIUTO!!!
Lucia
Credo che la mia prima esperienza di
‘aiuto’ (naturalmente escludendo le cure parentali) sia quella che ora
vi racconterò, e che mi capitò intorno ai tre anni. Ne ho un ricordo
molto vivo, proprio fisico, ed è senz’altro uno dei miei primi ricordi
personali non derivanti dalle saghe di famiglia. I miei genitori,
entrambi ottimi nuotatori, in una di quelle giornate estive in cui
soffia lo scirocco e l’Adriatico si riempie di cavalloni, mi infilarono
nella mia ‘ciambella’ bianca e verde e si tuffarono in acqua fra
spruzzi e risate. Mi facevano volare in aria saltando le onde e mi
afferravano a turno, in un allegro gioco, finché a un tratto si
accorsero di non toccare più il fondo con i piedi. Erano finiti in una
buca e, appena l’onda li sollevava, la corrente li sospingeva verso il
largo. Per ciascuno di loro sarebbe stato abbastanza semplice tornare
verso riva, ma la mia presenza rendeva la cosa più difficile. La mamma
non osava lasciarmi andare temendo che venissi trasportata più lontano
e si stancava molto per tenermi in alto e non farmi bere. Fu allora che
il babbo con voce ferma e tranquilla disse: “Non preoccupatevi, non
siamo in pericolo, ma adesso chiamerò aiuto”, e così fece. La parola
“aiuto!” ripetuta a gran voce mi fece un certo effetto, ma non mi
spaventò. Non lontano da noi c’era il bagnino di salvataggio sul suo
‘moscone’ rosso, e in un lampo fu accanto a noi. Fummo issati a bordo e
trasportati a riva senza aver subito alcun danno. Ricordo che il
bagnino, sorridente, chiacchierava con mio padre e diceva: “Ha fatto
bene”. Il babbo, il mio ‘eroe’, uomo di tempra fortissima e di
durissime esperienze di vita, non aveva cercato di ‘fare l’eroe’ e non
aveva avuto paura di sfigurare chiedendo aiuto. L’importante era
risolvere in fretta e senza drammi una situazione difficile.
Riflettendoci ora, penso che in caso di emergenza le regole d’oro siano
appunto quelle che lui seguì in quella circostanza: non sottovalutare
il pericolo, non perdere la testa, tranquillizzare gli altri, chiedere
aiuto.
Avendo ereditato il sangue freddo di mio padre, in genere sono in grado
di affrontare le difficoltà con grinta, o stringendo i denti, a seconda
dei casi. Non mi capita spesso, perciò, di chiedere aiuto: delle due,
sono io che prendo fieramente in mano la situazione. Certo, qui entra
in gioco la mia proverbiale ‘autosufficienza’, ma anche l’orgoglio non
scherza... Non sono molto brava, devo dire, nemmeno a farmi aiutare
nelle fatiche della vita pratica. Tendo sempre a cavarmela da sola e mi
sovraccarico di impegni, anche di quelli che non sarebbero strettamente
di mia pertinenza. La gente, soprattutto in famiglia, contando sulla
mia efficienza, se ne approfitta un po’ troppo. Ma in fin dei conti
capisco che la vera aguzzina di me stessa sono io… Peraltro, specie nei
periodi di maggior carico, mi sono arrivati spontaneamente aiuti
preziosi, a volte dai miei cari, a volte anche da gentili sconosciuti.
Credo che nella vita il sostegno più grande sia l’avere accanto persone
fidate e sincere, che si accorgono da sole di ciò che ti occorre, che
ti coprono le spalle, che sanno comprendere e anche perdonare, che non
ti abbandoneranno mai, qualunque cosa succeda… Qualcuno così c’è stato
per me, e io cerco di essere così, per i miei cari e non solo.
Sono sincera, comunque, se dico che mi è più congeniale dare aiuto che
chiederlo, anche in situazioni molto gravi… È più facile rivendicare
diritti che chiedere aiuto! Chiedere aiuto, paradossalmente, è un vero
atto di coraggio: bisogna vincere la timidezza e il pudore, mostrare la
propria fragilità, accettare il rischio di ricevere un no, e di essere
magari umiliati con critiche, rimproveri, irrisioni, maldicenze, ‘colpi
bassi’ … Infatti, esponendosi in condizioni di inferiorità, si
abbassano le difese, e bisogna solo sperare di essere accolti
benevolmente. Per quanto mi riguarda, superata quella difficile soglia,
non sempre mi è andata bene, ma in qualche caso l’Aiuto con l’A
maiuscola è arrivato, e non finirò mai di ringraziare.
Concludendo, non è facile chiedere aiuto, ma non lo è nemmeno saper
aiutare senza essere importuni, invadenti, indelicati, e senza
costringere l’altro a sentirsi in debito per tutta la vita.
Una grande esperienza per me è stata quella dell’auto mutuo aiuto,
perché dal momento in cui, pur sommersi dalle difficoltà e dal dolore,
si riesce a rivolgere l’attenzione anche ai problemi degli altri, la
prospettiva cambia: ragionandoci insieme si diventa più lucidi e capaci
di combattere. Il passo successivo è tirarsi su le maniche e darsi da
fare per cambiare le cose, a vantaggio di tutti, ma a partire da sé.
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A UNA MANCIATA DI VENTO DA QUI
Giulia Berra
Bombe a una manciata di vento da qui.
Mi interrogo sulle radici di questo dolore trovando poche risposte. Chi
è stato? Noi. Quanto hanno inciso i nostri graffi quotidiani sul volto
del mondo? Quali le nostre bombe che sono esplose in silenzio? Mi
chiedo se la risposta sia nella cultura intesa come educazione. In
quella fame di conoscere che spesso ha chiuso e non aperto. Che molte
volte ha funzionato come non ci si aspettava lasciandoci colti e
incredibilmente distanti. Mi fido molto di chi verrà dopo e cerco di
lasciare il miglior terreno che posso. Guardo i bambini che abitano le
nostre scuole con le loro valigie piene di luoghi, di parole che non
conosco e di storie erranti da ascoltare ad occhi aperti. Vivo ogni
giorno la ricchezza che le culture si regalano e mi sento grata per
questo. Penso alle persone con cui riesco a sentirmi errante, a quelle
per cui sono casa, ai compagni di viaggio incontrati, con cui non ho
bisogno di perdermi nelle parole per essere. Non sono sempre graffi mi
dico.. a volte sono trame meravigliose. Che la risposta non sia nella
spinta che ci rende simili? Nella tensione umana alla forma e alla
distruzione... per riconoscersi e tornare a creare? Bombe a una
manciata di vento da qui e qualche parola nell’aria, perché un’amica mi
ha insegnato che i suoni arrivano sempre.
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LA GIUSTA DISTANZA
Sertralino
L
a giusta distanza. Sento i miei amici de Il Faro
decidere il tema di questa rivista: “solidarietà e aiuto”. E a me cosa
viene in mente? La giusta distanza. Cerco di scacciar via questo
pensiero che mi sembra poco coerente con quello che mi sta attorno, ma,
come accade con i ritornelli di certe canzoni, continua a ronzarmi in
testa un po’ ossessivamente. E allora, tanto vale cercar di capire. Ci
penso un attimo e, pur avendo una memoria non proprio da elefante, mi
si accende una lampadina: La giusta distanza è il titolo di un film che avevo visto al cinema tanti anni fa.
Ma continuo a capirci poco. Perché, sentendo “solidarietà e aiuto”, a
me viene in mente la giusta distanza? Ci ripenso. Penso ai cantanti.
Loro fanno beneficenza. Penso a mia zia, che ha adottato tre bambini
africani a distanza. Questa è una forma di solidarietà e aiuto? Credo
di sì, ma la distanza/prossimità tra chi aiuta e chi è aiutato è
notevole. È molto probabile che il nostro magnanimo cantante non
conoscerà mai il destinatario della sua beneficenza. Come è molto
probabile che mia zia non toccherà mai i bambini africani a cui dà la
‘paghetta’ mensile, non cambierà loro i pannolini, non si sveglierà di
notte se piangono, non guarderà i loro occhi tutte le mattine, non sarà
lì durante i loro primi amori, non potrà abbracciarli alle prime
delusioni.
Il mio amico Luca ha una passione viscerale per il suo barboncino. Lo
barda con un vestitino scozzese, gli dà da mangiare solo cibo di prima
scelta. Scende da casa, si accende una sigaretta e manda un sms alla
sua amante, mentre porta in giro Rufus nei migliori parchi della città.
Luca l’altro giorno mi fa una confidenza. Dice che tutte le volte prima
di uscire guarda dallo spioncino della porta se i suoi vicini di casa
sono sul pianerottolo per non incrociarli. Dice che non conosce i loro
nomi e che non ci tiene proprio a conoscerli. A me questo sembra
strano. Mi intristisce pensare che possiamo amare solo chi ci dà sì una
marea di affetto, ma non ci contraddice. Mi intristisce sapere che Luca
fa di tutto per dribblare i suoi vicini, che se bussano per chiedere un
pizzico di sale fa finta di non essere in casa. Mi intristisce
ascoltare al telegiornale di quella signora anziana della periferia
milanese, trovata morta in casa sua da più di dieci giorni. Per fortuna
pare che tutto questo non metta solo me di pessimo umore. C’è un
signore di origine argentina un po’ più famoso di me a nome Francesco,
che fa sapere: “Vedo che molti hanno un’attenzione esagerata verso i
loro animali, mentre non si curano affatto se i loro vicini di casa
muoiono di fame. No, mi raccomando. Questo non va bene”.
E a me viene in mente di nuovo la distanza.
Quello che temo è che le nostre città diventino come Los Angeles, una
città con gli spazi talmente vasti che le persone non si toccano più.
Quello che temo è che le nostre vite diventino delle monadi leibniziane
“senza né porte né finestre”, in un isolazionismo da impenitenti
internauti. Quello che temo è che passiamo sempre più tempo in
stazioni, metropolitane ed aeroporti, i ‘non luoghi’ moderni come
vengono definiti dagli antropologi. Quello che temo è che in taxi, in
quegli stessi taxi in cui una volta chiacchieravamo incuriositi con il
tassista per scovare la trattoria tipica in cui “si mangia bene e si
spende poco”, ora stiamo ammutoliti con la testa curva sull’ i-phone e
il tablet.
Cosa auspico? Beh, a volte sbattiamo la faccia sulle cose belle e non
sempre ce ne accorgiamo. L’altra volta entro in una casa. La mia
attenzione è rapita da una grande scritta a firma di una piccola donna
indiana a nome Teresa, una che di solidarietà e aiuto qualcosa sapeva.
La scritta recita:
“L’uomo è irragionevole, illogico, egocentrico: non importa, amalo.
Se fai del bene ti attribuiranno fini egoistici: non importa, fa’ il bene.
Se realizzi i tuoi obbiettivi, troverai falsi amici e veri nemici: non importa, realizzali.
Il bene che farai verrà presto dimenticato: non importa, fa’ il bene.
Quello che hai costruito può essere distrutto in un attimo: non importa, costruisci.
Se aiuti la gente, se ne risentirà: non importa, aiutala”.
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ACCAPARLANTE
Francesca
L
a solidarietà è aiutare il prossimo, senza distinzioni di paese di
origine e colore della pelle, aiutare chi soffre e chi per varie
problematiche e vicissitudini si trova ad essere più svantaggiato. La
solidarietà si esplica per lo più nel volontariato, ma anche attraverso
quelle associazioni che operano senza ricevere un profitto e che per
questo si chiamano infatti cooperative sociali senza scopo di lucro,
che danno un aiuto attraverso vari programmi che consentono alle
persone a cui si rivolgono di poter recuperare e reinserirsi nella
società, riprendendosi una propria vita. Queste associazioni, così come
il volontariato, stanno crescendo e ritengo siano il futuro di questa
generazione, e per fortuna che esistono.
L’aiuto secondo me non consiste solo nel gesto di fare la carità dando
un aiuto materiale in danaro, vestiti o altro a chi ha bisogno, ma
soprattutto in un progetto di formazione, che fa sì che i più
svantaggiati possano, attraverso un percorso programmato per loro, per
l’appunto formativo, ritrovare un posto nella società.
Fra le associazioni no profit ne cito una che secondo me è di
particolare interesse: l’associazione CDH, che è un centro di
documentazione sul tema dell’handicap, del disagio sociale, del
volontariato e del terzo settore, operativo dal 1981. Al suo interno
nasce una rivista, HP-Accaparlante, che nel 2013 ha compiuto trent’anni
di vita, ed è una rivista culturale che si occupa di disabilità.
L’associazione dispone di una biblioteca, la più grande d’Italia sui
temi del deficit, dell’handicap e del terzo settore e propone attività
di animazione e formazione, sempre su questo tema, nelle scuole, con
gli insegnanti ed i genitori, perché il punto generale del suo lavoro è
quello di tentare di proporre un cambiamento culturale rispetto al tema
della disabilità e di chi ha delle difficoltà legate al deficit. Quindi
è una proposta culturale formativa, ma anche informativa, perché
attraverso la rivista Accaparlante viene affrontato il tema della
disabilità da un punto di vista differente. Io ritengo che in questo
modo si possano abbassare le barriere del pregiudizio nei confronti di
chi è ‘diverso’, attraverso la conoscenza e l’informazione sul disagio
in senso generale, non solo la disabilità ma anche l’emarginazione
sociale.
Il Centro è al Pilastro, quartiere periferico della città, dove questa
associazione dà la possibilità di accogliere tutti coloro che vogliono
partecipare alle attività formative.
A questo proposito vorrei citare le parole di Roberto Parmeggiani,
direttore di questa associazione, tratte da un video visibile su:
https://www.youtube.com/watch?v=jJyKcpKaV-E
“L’arrivo in questo quartiere è stato per noi una cosa inaspettata
perché abbiamo sentito la vivacità della altre associazioni, delle
persone e dell’ambiente e siamo stati accolti a braccia aperte dai
cittadini ed è stato abbastanza scontato e naturale intessere relazioni
e quindi incontrare le altre associazioni, il quartiere nella sua forma
più istituzionale e i cittadini stessi che hanno cominciato a
frequentare questa associazione. Il progetto si chiama ‘Pilastro social
rating alta accessibilità accogliente’, e mette al centro il tema della
accessibilità nelle sue più svariate sfumature per cui la accessibilità
fisica ossia la possibilità di entrare negli spazi in un luogo, in un
locale come in una struttura pubblica, ma anche la accessibilità intesa
come relazione, cioè la capacità di non fermarsi davanti a barriere
quali il pregiudizio, la paura del diverso ma anche la possibilità di
creare relazioni realmente inclusive. Concretamente prevede l’incontro
fra diversi cittadini di diversa estrazione sociale e di diverso tipo
che si incontrano e lavorano insieme prima in una parte di formazione
poi in una parte più operativa per mappare sul territorio
l’accessibilità sul quartiere intendendo con questo sia luoghi chiusi
come locali, bar ma anche sedi delle associazioni, sia spazi aperti e
cioè i marciapiedi, i parchi i luoghi dove le persone vivono o
potrebbero vivere meglio se lo spazio fosse più accessibile. Questa
mappatura valuterà l’accessibilità del luogo non per darne un giudizio
di valore ma semplicemente per offrire all’interlocutore che può essere
la persona che lavora nel locale o l’amministrazione stessa, che potrà
dare alcuni elementi anche per poter poi intervenire e rendere più
accessibile quel luogo Lo si fa con un gruppo integrato perché
l’accessibilità parte anche dalla nostra capacità di interagire ed
integrarsi con gli altri. Alla fine del progetto questi dati verranno
utilizzati per implementare una banca dati che è accessibile attraverso
un sito nel quale il cittadino può entrare per valutare e vedere se
quel luogo è più o meno accessibile. Si interseca molto bene con il
progetto Pilastro 2016 perché appunto al centro c’è il tema dello
spazio fisico del quartiere e c’è il tema della cittadinanza attiva
cioè alla partecipazione attiva dei cittadini alla iniziativa. Non è un
servizio che viene dall’alto, ma nasce dal cittadino che per primo vive
i luoghi e gli spazi e può valutare in modo più oggettivo quando un
luogo è accessibile o meno. Il gruppo che si formerà può essere
composto da chiunque ha il desiderio o la voglia di mettersi in gioco
in questo specifico progetto. È prevista la partecipazione di cittadini
del quartiere di tutti i tipi, quindi può essere il giovane che magari
è molto per strada e vive gli spazi aperti e ha voglia di sperimentarsi
nel fare questa attività, ma può essere anche il pensionato oppure la
persona con disabilità che vive più direttamente il tema
dell'inaccessibilità ad alcuni luoghi, come possono essere negozianti o
professionisti che comunque sono interessati a dedicare una parte del
proprio tempo a fare un’analisi di questo tipo da un punto di vista
loro, ossia del commerciante o del professionista. Quello che si può
fare è entrare direttamente in contatto con noi. A marzo del 2016
abbiamo fatto il primo incontro nel quale hanno radunato il gruppo per
poter raccontare nel dettaglio il progetto iniziando l’attività di
condivisione, di autoformazione e per prepararsi a uscire in strada.
Ne ho parlato perché penso sia un ottimo esempio di quello che io intendo per solidarietà e aiuto.
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SOLIDARIETÀ
Edoardo Bellanca
H
o cominciato a comprendere cos’è la solidarietà quando avevo circa
trentacinque anni. Ero reduce da un gravissimo incidente che mi aveva
fatto rimanere disteso in un letto, totalmente ingessato, per vario
tempo. Quando a poco a poco avevo ripreso ad alzarmi e poi a camminare
ed ero estremamente contento… caddi invece in un esaurimento
gravissimo, che mi costrinse ad un ricovero ospedaliero. Fu durante
quella degenza, in provincia di Brescia, che una infermiera mi chiese
se ero disposto a fare un viaggio a Lourdes. Fui dimesso dopo qualche
tempo, tornai a Bologna e passarono vari mesi… Non ci pensavo più, a
quella promessa. Poi, un giorno, mi arrivò un incartamento per partire
come barelliere con l’Unitalsi di Brescia. Non ero credente, la mia
fede dell’adolescenza era scivolata via senza che me ne accorgessi. Ma
avevo dato la mia disponibilità e d’altronde non avevo problemi con i
malati, dato che lo ero stato anch’io… Non mi tirai indietro. A Lourdes
mi fecero fare vari servizi come barelliere, anche alle piscine, con
malati di varie nazionalità, sebbene non mi reggessi ancora molto bene
in piedi, infatti alle piscine aiutavo solo quelli che venivano alle
vasche con le loro gambe… Li aiutavo a immergersi e a rialzarsi. Al
ritorno a Bologna, ricordo che pensai: “Perché anche a Bologna non può
essere come a Lourdes, che ci si aiuti l’un l’altro?”. E fu in quel
preciso momento che nacque in me un germe di solidarietà.
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DAZZENGER
Darietto
● “Caspita ho un sonno che adesso vado a letto”. “Io invece non ho sonno e vado a scritto”.
● Sapete come si chiamano i maschi delle mucche? Mucchi. ●
A scuola un ragazzo viene interrogato e l’insegnante gli chiede:
“Allora, sai chi sono i Macedoni?” e lui titubante risponde: “Sì, gli
chef che preparano la macedonia”.
● Sapete chi è una persona romantica? Una persona vissuta nella Roma Antica. (ringrazio la mia mamma)
● Sapete cos’è un pappagallo? Una persona affamata che si pappa un gallo.
● Un barbone dice a un ragazzo: “Tu dai a me un euro… Io ceceno”. Il
ragazzo gli risponde: “Beato te che ci ceni, io non ci faccio manco
colazione”. (ringrazio Massy)
● Sai perché quando torni a casa, fai il remake di un famoso film? Perché vai via col venti. (ringrazio Massy)
● Due persone ignoranti s’incontrano. Uno chiede all’altro: “Mi scusi,
qual è la targa di Bologna?”. E l’altro gli risponde: “Bo!?”.
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SOLIDARIETÀ E AIUTO SENZA FRONTIERE
Mariangela
Ricerca su siti internet effettuata presso il Centro Diurno San Biagio
T
ra le tante associazioni umanitarie la più grande e degna di lode è Medici Senza Frontiere.
L’associazione è nata nel 1971 da un gruppo di medici e giornalisti
francesi. È una associazione privata internazionale che annovera in
gran parte medici e operatori sanitari, ma è aperta anche ad altri
professionisti che siano utili alla sua missione. Tremila operatori
internazionali, tra cui trecentotrentotto italiani, lavorano negli
angoli più remoti dei sessanta paesi in cui Medici Senza Frontiere
opera, intervenendo in tutti gli scenari di crisi senza discriminazione
di etnia, religione o ideologia politica. In qualità di volontari, sono
al corrente dei rischi presenti nelle missioni che compiono, e si
astengono dal reclamare per sé o per altri aventi diritto compensi
diversi da quelli che l’associazione sarà in grado di fornire loro. I Medici Senza Frontiere
operano per salvare vite umane, forniscono assistenza medica di
emergenza alle popolazioni colpite da guerre, epidemie, malnutrizione o
catastrofi naturali. Intervengono per curare le persone vittime di
discriminazione o escluse dalla assistenza sanitaria. Le loro attività
mediche comprendono la gestione di ospedali, cliniche e centri
nutrizionali, chirurgia di guerra e routinaria, lotta alle epidemie e
supporto psicologico per le vittime di traumi.
La sicurezza dei pazienti e del loro personale viene prima di qualsiasi
altra cosa. Per quanto sia impossibile eliminare del tutto i rischi,
lavorano molto sui protocolli di sicurezza e il loro personale è tenuto
a rispettare scrupolosamente le misure che vengono indicate. Prima di
iniziare un nuovo progetto e anche durante il suo svolgimento valutano
regolarmente rischi e minacce. Le misure vengono definite in funzione
del contesto. Il divieto all’uso e al porto di armi all’interno delle
loro strutture è una delle norme principali e serve a garantire la
sicurezza del loro personale e dei loro pazienti. Feriti o malati, ma
sempre disarmati, tutti possono beneficiare delle cure mediche, anche
coloro che partecipano ai combattimenti.
Neutralità e indipendenza sono essenziali in contesti di guerra, i Medici Senza Frontiere
non si schierano con nessuna della parti in conflitto. Offrono cure
mediche sulla base dei bisogni che identificano. La loro indipendenza
deriva dalle loro risorse finanziarie che nelle zone di conflitto
provengono esclusivamente da donazioni private.
Le guerre tra paesi diversi o conflitti interni possono avere gravi
conseguenze. Molti scappano e chi resta, spesso non ha accesso alle
cure mediche. Anche pazienti che hanno bisogno di cure mediche di
routine come nel caso di complicazioni nelle gravidanze o malattie
croniche come il diabete o ipertensione, si trovano senza strutture e
personale in grado di fornire loro le cure necessarie, ma i medici e
gli infermieri di Medici Senza Frontiere provano di intervenire con l'assistenza medica e sanitaria. L’operato di Medici Senza Frontiere
si è dimostrato indispensabile anche quando eventi naturali come
terremoti, tsunami e uragani in pochi minuti riescono a seminare morte
e distruzione fra intere popolazioni. Migliaia di persone possono
rimanere ferite o traumatizzate dalla perdita di familiari, amici o
delle proprie case. Spesso viene a scarseggiare l’acqua potabile e i
trasporti sono limitati o inesistenti. Rispondere rapidamente segna per
molti la differenza fra la vita e la morte.
Il terremoto del 2010 ad Haiti è ad oggi la più grande risposta a una emergenza mai realizzata da Medici Senza Frontiere.
La catastrofe ha ucciso 220.000 persone lasciandone un milione e mezzo
senza casa e distruggendo il 60% delle strutture sanitarie, inclusi due
ospedali dell’associazione. I Medici Senza Frontiere hanno
lavorato in ventisei Centri Sanitari, incluso un ospedale gonfiabile
allestito in quello che era un campo da calcio. In dieci mesi hanno
curato 350.000 pazienti, eseguito 16.000 operazioni chirurgiche e nei
primi tre mesi di epidemia di colera hanno curato il 60% dei casi
diagnosticati in tutto il paese! Inoltre hanno risposto all’emergenza.
Alla fine degli anni ’90 come in altri paesi, in Italia è stata presa
la decisione di aprire una missione. L’organizzazione si è resa conto
che le stesse persone curate dalla loro organizzazione a migliaia di
chilometri di distanza in altri continenti si trovavano anche qui in
Italia e in Europa molto spesso in condizioni di estrema precarietà e
bisogno! Dal 2002 Medici Senza Frontiere è stata presente in
contesti particolarmente delicati come gli sbarchi a Lampedusa, tra i
lavoratori stagionali nel sud Italia e all’interno dei centri per
migranti in diverse regioni. Nel 2015 hanno realizzato circa 3340
visite mediche all’interno del C.P.S.A. a Pozzallo e hanno garantito un
servizio di supporto psicologico per richiedenti asilo dei centri di
accoglienza straordinaria della provincia di Ragusa. Inoltre in caso di
naufragio sono stati presenti agli sbarchi con quindici interventi di
primo soccorso psicologico nei porti di Augusta, Pozzallo, Catania,
Palermo, Lampedusa, Messina, Agrigento e Taranto, durante i quali hanno
assistito 2500 persone sopravvissute ad eventi traumatici durante il
loro viaggio in mare. Un servizio di primo soccorso psicologico è stato
ugualmente garantito a Roma presso il Centro Baobab e la tendopoli
della Stazione Tiburtina, principali punti di transito per migranti e
richiedenti asilo che si trovano nella città come tappa per il loro
viaggio verso l’Europa del nord.
Nel 2016 gli arrivi non saranno minori se si considera che solo nei
primi tre mesi dell’anno le persone arrivate sono equivalenti a quelle
giunte durante lo stesso periodo nel 2015. Nonostante questo afflusso Medici Senza Frontiere
continuerà il lavoro con la popolazione migrante, in Sicilia come in
altre regioni italiane, attraverso diversi progetti già in corso o di
prossima apertura. In tanti anni di lavoro l’esperienza ottenuta ha
dimostrato che la mancanza di cure uccide più di guerre e catastrofi
naturali.
Medici Senza Frontiere si è dimostrata meritevole di un alto
riconoscimento non solo per aver prestato soccorso ma anche dalla
volontà di testimoniare e denunciare le crisi dimenticate dai media
internazionali, gli abusi e le violenze che si stanno verificando
nell’indifferenza dell’opinione pubblica internazionale, le
inadeguatezze del sistema degli aiuti e la sempre più frequente e
pericolosa strumentalizzazione degli aiuti umanitari per fini utilitari
o politici. Per questi motivi nel 1999 Medici Senza Frontiere è stata insignita del premio Nobel per la Pace.
Un sincero ringraziamento va a questa associazione per la solidarietà e
l’aiuto prestato ai bisognosi con l’augurio che possa continuare ad
operare nel migliore dei modi anche se esistono ancora difficoltà e
pericoli.
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‘LIQUIDARIETÀ’
Darietto
Solidarietà? No, grazie… Preferisco
‘liquidarietà’! Con questo termine desidero intendere i ‘liquidi’, cioè
i soldi. Nella mia esperienza, purtroppo, ho visto la solidarietà usata
come strumento, da parte di gente malvagia e strafottente, per
riempirsi le tasche di soldi a svantaggio delle persone che ne hanno
veramente bisogno, come i bambini in Africa o coloro che necessitano di
cure per determinate disabilità.
L’aiuto? Ancora peggio! Negli ambienti di lavoro, non si sa nemmeno
cosa sia la collaborazione e il lavoro di squadra, si taglia sulla
sicurezza, come se fosse un giocattolo da portar via ad un bambino
indifeso e le morti sul lavoro, infatti, non si possono nemmeno contare
sulle dieci dita delle mani. Inoltre, c’è molto menefreghismo e
indifferenza, che portano le persone a non aiutare i loro pari. Per
esempio ho visto, con orrore al TG che mentre una ragazza veniva
stuprata, la gente che passava in automobile (e si vedeva benissimo ciò
che stava succedendo) non si fermava per darle una mano o almeno
trovare un metodo per allontanare, con l’astuzia, quegli uomini.
Poi, in programmi televisivi interessanti dove la gente si confronta
alla pari con i politici, questi ultimi è come se avessero una barriera
protettiva di sicurezza: a loro non accade nulla e penso che se invece
capitasse che un loro parente venisse derubato, o che una loro figlia o
nipote venisse stuprata, il loro pensiero cambierebbe radicalmente. Dà
fastidio vederli sorridere alla gente in TV e vedere le persone
incazzate nere, perché tali personalità politiche non fanno nulla per
la sicurezza e quindi non sono per nulla solidali con la gente che non
è loro pari: loro sono in un mondo ben più lontano (anche se abitano
sulla Terra) e, se fosse una piramide, starebbero in cima, mentre la
gente comune starebbe alla base.
I politici hanno solo ‘liquidarietà’ e l’hanno tra di loro, aiutandosi
tra parenti, amici e amici di amici. Ad esempio, il vitalizio che può
essere di 7000 € al mese, è una ‘liquidarietà’ tra politici che si
parano il c#§o, mentre il povero pensionato si prende solo 500 € al
mese e non riesce a vivere decentemente con dignità: e il politico
nemmeno si vergogna di questa cosa! È indecente! Solidarietà? Ma va là!
Nel campo religioso cristiano, Gesù in una parabola dice di aiutare gli
altri, ma vedo molta gente andare a Messa, come alcuni miei parenti, e
poi quando è ora di aiutare qualcuno si voltano dall’altra parte e ho
avvertito, peggio ancora, senso di razzismo. Mi chiedo quindi: Gesù e
Dio hanno insegnato questo? Non credo proprio… Loro sono l’incarnazione
del Bene e non del Male, quest’ultimo è rappresentato da Satana (o
Diavolo o Belzebù, come volete); infatti, un giorno, parlando con i
miei genitori, ho scoperto persino che i mafiosi (gente estremamente
malvagia) vanno a frequentare la Messa. I mafiosi, guarda caso,
maneggiano molto con i soldi. Concludendo, secondo me, le due categorie
- politici e mafiosi - vanno a braccetto con la ‘liquidarietà’. Basta
infatti guardare i vari TG, nei quali spesso, abbiamo modo di ‘beccare’
qualche nuovo ‘birichino’ politico che si trova invischiato nella mafia
e/o altre porcate varie: ma guarda un po’!?
Sono invece rarissime le persone veramente solidali che aiutano altre
persone, anche a distanza (come i bambini in Africa) perché veramente
pure di cuore.
Con tutta questa disonestà, menefreghismo e ‘liquidarietà’, dove andremo a finire? Sono veramente preoccupato…
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LO SFOGATOIO
La vita continua
Ma che c… faccio? Sempre dietro a piangere e non concludere niente. Se
mi vedesse così Robby, mi direbbe: “ Che due c…. che fai venire!”, e se
ne andrebbe. Ma il mio dolore è grande e mi porta a cercare dappertutto
parole di conforto, che alla fine son sempre le stesse, fino ad
arrivare alla psichiatra, che mi dà una pastiglia in più, che mi
rincoglionisce solamente, non allevia il mio dolore. Così, dopo tre
giorni che prendo questa pastiglia, mi rendo conto che è il momento di
prendere in mano la mia vita, come direbbe lui, e me la faccio
togliere. La mia pace passa anche attraverso il dolore che provo per la
perdita di Robby e dovrò abituarmi ad averlo come un ricordo, senza
lasciarmi cadere nell’oblio. Non posso fermarmi solo perché non c’è
più! Lui faceva parte della mia vita, ma non era la mia vita. Mi dovrò
costruire una vita senza la sua presenza, prendendo coscienza che una
parte di quella che sono la devo a lui. Bene o male Robby non se n’è
andato, ma rivive in certi miei atteggiamenti che lui ha fatto
diventare così. E non mi rimane che dire che la vita continua, e la
vita è tutta una prova. La sua morte è una di queste, che devo cercare
di superare, uscendone vittoriosa e avendo sempre nel cuore il suo
ricordo e il suo affetto. Mi aspettano tante cose da fare per costruire
la mia vita, e non posso fermarmi anche se il dolore mi rallenta. Ora
ho preso coscienza che non posso annebbiare il dolore nelle pastiglie,
perché il dolore è un’emozione che fa parte della vita e dobbiamo
viverla come ogni emozione. Mi dico che la vita continua anche se la
grande Signora ha deciso di mettere fine a quell’attesa estenuante…
È stato terribile saperti teoricamente morto, ma non lo eri! Ora sono
serena per te che non dovrai più soffrire e non ti aspetta dell’altro
dolore. Piango! Piango per me, che so che mi manchi e mi mancherai! Che
ora ho un pezzo vuoto di me che tu mi hai colmato e continuavi a
colmare, anche solo con il pensiero della tua presenza nella mia vita.
Ma dicono che ci si abitua a tutto! Sarà dura, ma mi dovrò abituare
alla tua mancanza terrena e pensare che il tuo spirito è ancora accanto
a me a proteggermi e, a volte, prendermi in giro! Ti ho visto dentro la
bara! Avevi lo sguardo sereno come quando ti addormentavi finito di
fare l’amore! Ti ho stretto le mani e dato un ultimo bacio sulle
labbra. Ma non sei “la bella addormentata” e non ti sei risvegliato! E
le mie lacrime continuano a sgorgare al pensiero che non sei più
accanto a me. Di te mi rimane la tua foto e tanti ricordi, sia belli
che brutti. Momenti di due vite che si sono intrecciate tra loro, due
che non hanno saputo stare insieme, ma che non riuscivano a fare a meno
l’uno dell’altro. Ora dovrò imparare a fare a meno di te! Tenerti in un
angolo del mio cuore come un caro ricordo di un pezzo importante della
mia vita. Mi manchi! Mi manchi! Ho finito le lacrime e il mio dolore ne
richiede altre per sfogarsi! Vorrei urlare contro il cielo, ma so che
il cielo non c’entra niente con quello che ti è successo! Devo
calmarmi, se no vado giù di testa! Devo farmi forza, so che tu lo
vorresti, anzi, conoscendoti, mi prenderesti già in giro, per tutto il
pianto che faccio. Ora devo nascondere il mio dolore dietro la
quotidianità per poter continuare la mia vita e dirti “Arrivederci,
amore mio!”.
Stefy
Il mio isolamento
È
durato parecchio tempo che non so quantificare. Ciò che so, ora che
vivo, è che vegetavo. Dormivo, tanto, mangiavo poco, male e schifezze.
Non leggevo, non ascoltavo la radio, non curavo né la mia casa, né la
mia persona. Non guardavo nemmeno i giornali, perché alzarmi dal letto
mi costava una fatica immensa. Andavo in bagno per fare ciò che non
potevo evitare, non mi lavavo, non mi tagliavo le unghie, mi cambiavo
se proprio dovevo uscire, raramente. Non tiravo su le tapparelle perché
la luce mi dava fastidio e mia sorella, ogni volta che veniva a
trovarmi, non smetteva di sgridarmi, perché la casa puzzava di fumo,
perché non avevo lavato i piatti, perché avevo i capelli sporchi. Lei
mi sgridava e diceva: “Ma dove vuoi finire?!?” ed io la guardavo e
basta. Non riuscivo ad aprir bocca, non sapevo cosa dirle. La mia casa,
che è colorata e piena di luce, anche perché abito al terzo ed ultimo
piano, mi sembrava grigio-nera. Era come se volessi vedere all’esterno
lo stesso colore che c’era dentro di me. Quando sono vestita di nero
tutti dicono che sembro più magra, o meno grossa e mi piace il nero, ma
in questo periodo oltre ai colori, tutti i colori, mi piace moltissimo
il bianco, probabilmente perché è un colore che per anni non esisteva.
Anche perché mi ricordava il periodo del coro di San Petronio; noi
donne dovevamo essere bianche sopra e nere sotto (nelle liturgie) nei
concerti tutte in nero. L’insieme era bellissimo e sembravamo tanti
cherubini. Io che vivo perennemente o quasi con la radio accesa per
ascoltare musica o i programmi proposti, non l’accendevo perché era
solo rumore. Il mio cervello era continuamente al lavoro, occupato o da
pensieri che non avrei dovuto avere o da ‘chiodini’ continui e
martellanti. Mi davo tutti i nomi possibili e immaginabili (cretina,
stupida, imbecille) e mi sembrava di non aver mai fatto nulla di buono
nella mia vita. Arrivavo a sera senza aver fatto nulla; a volte di
notte non dormivo perché avevo sonnecchiato di giorno; ero presa da
attacchi di fame atroci e se avevo finito le provviste di mia sorella e
non ero andata a fare la spesa, o ordinavo una pizza, se ancora potevo
farlo, o ….sono arrivata a mangiare la pasta quasi cruda, una vera
schifezza, e anche delle patate che ho dovuto buttare. Le mie agende in
quegli anni sono finite tutte nella spazzatura, alcune nemmeno nella
carta da riciclare. Quella che ho conservato ha intere pagine vuote,
completamente vuote. Il mio commento a quel periodo è: “povera
bestia!”.
Tina Gualandi
Più smile meno slide
Le lettere frizzanti tambureggiano i tasti digitali. Gocce di elettricità sullo schermo.
Zampillano le faccine... sceglietene una che vi rappresenti. Matt’immagini
quante espressioni possono avere le emozioni. Fuggi forse scrivendo di
una realtà che non ti rispecchia, o, forse, semplicemente non ti
aspetta.
Giovanni Romagnani
Bar. Tra domeniche del non e lunedì di ripresa
Giornata strana, di confine. Si cerca il massimo dai ricordi della settimana, malinconie non espresse.
Caffè in cucina, senza banco. Non costa ma mi costa.
Una fine del millennio, probabilmente.
Joe
Sentimenti
Disprezzo e belligeranza sono sentimenti che si provano quando pensi di
aver perso del tempo che nessuno ti restituirà mai più… ma ti assorbono
energia ed è molto preziosa…
Saluti…
Paolo Sanzani
Vedere ed Essere
Guardare vuol dire sognare
mentre Vedere vuol dire Essere.
Don Joe
Stigma
Quando lo Stigma è in testa ad un Primario, nella fattispecie del
reparto psichiatrico del Maggiore, "Paolo Ottonello", per noi Utenti
c’è poco da fare se non ascoltare. Cosa che vi invito a fare scaricando
il link qui sotto.
E non c’è più niente da fare, perché quando cara Psichiatria Primaria
mi rompi, io Ti scrivo che mi De Rompi. E di argomenti ne ho sempre di
più, anche in latino. De Rompibus.
https://soundcloud.com/radiokairos/signore-e-signori-il-welfare-e-sparito-martedi-14-giugno-2016-2
Giovanni Romagnani
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Da quando leggo il Faro, lo trovo molto interessante. È scorrevole,
attuale e molto vario. Conosco molte persone che scrivono sul Faro. Ci
siamo conosciuti a distanza di anni, in centri diurni, poliambulatori,
gruppi di auto mutuo aiuto, gruppi di teatro… Ci sono persone che
cercano di aiutare ad affrontare la vita quotidiana, a risolvere
problemi, a trovare lavoro, nuovi amici, nuovi amori, a fare gite,
viaggi, feste, ad andare al cinema o a teatro, a fare mangiate insieme…
Cercano di aiutarsi a vicenda per poi formare un gruppo unico,
ampliato, per conoscersi meglio e intensificare i rapporti. A me piace
molto farne parte. Ciao, amici del Faro!
Andrea Capuzzi
Cari Lucia, Antonio, Francesca, Dario, Tina eccetera... vi ringrazio
per il vostro grande senso di umanità nei miei confronti. Nella
sensibilità dimostratami per la vicenda vissuta ultimamente e
nell’avermi permesso di frequentare il ‘circolo’ del Faro, un ambiente
stimolante per ogni attitudine che si trova in ogni persona. Questo
ambiente mi distoglie dal dolore che provo ancora e mi stimola ad
impegnarmi di più per il mio futuro e scoprire cose di cui avevo solo
sentito parlare.
Grazie per la vostra grande pazienza e umanità che avete con me!
Con affetto
Stefy
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UN REGALO SPECIALE
Matteo Bosinelli
I
o credo che far giocare una persona che sta male (o, viceversa, se si
sta male personalmente), può essere un gran regalo in termini di
solidarietà e fratellanza. Di seguito riporto una partita a scacchi
giocata con un caro amico (di cui non dico il nome per privacy), che
rafforzò la nostra amicizia.
NB : la partita è già stata pubblicata su un numero del Faro di quattro
anni fa, ma con numerosissimi miei errori di trascrizione, che qui ho
corretto (spero bene!).
Bosinelli -- (.... ) (Bologna, 1982)
1) e4 c5
2) d4 cxd4
3) c3 Cf6
4) e5 Cd5
5) cxd4 d6
6) Ac4 Cb6 7) e6
( mossa originale, ma di cui esiste la confutazione:
7) CxAc4
8) Da4+ Cc6
9) exf7+ Rxf7
10) DxCc4+ d5
11) Dd3 Cb4
e avrei perso lentamente la partita.)
7) … Axe6
8) AxAe6 fxAe6 9) Cf3 Cc6
10) Cc3 Dd7
11) Cg5 e5
12) d5 Cd8
13) Db3 g6
14) Ce6 CxCe6 15) dxCe6 Dc6
16) Ae3 Dxg2
17) Cb5 Tc8
(se : 17) … Dc6; 18) Tc1 e vince.
Se invece 17) … Dd5;
18) Cc7+)
18) Cxa7 DxTh1+
19) Re2 Dd5
20) CxTc8 Dc4+
21) Re1 DxCc8
22) Tc1 Dd8
23) AxCb6 Da8
24) Db5 scacco matto
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Il Progetto “Rete dei Gruppi di Auto Mutuo Aiuto Area Metropolitana” AUSL di Bologna
Daniela Demaria
C
orreva l’anno 2003 quando un gruppo di cittadini e di operatori
dell’Azienda USL, interessati se non già impegnati in iniziative di
mutualità, sedevano insieme in un corso di formazione su questo tema.
Cominciava a prendere corpo un progetto, nell’ambito dei Piani per la
Salute previsti dall’allora Piano Sanitario Regionale, con l’obiettivo
di promuovere e facilitare gruppi di Auto Mutuo Aiuto mettendo in rete
quelli già esistenti nel territorio.
È iniziata, così, una integrazione molto vitale fra realtà di base e
spesso spontanee come i gruppi A.M.A. e le istituzioni sanitarie e
sociali. Non un›azione calata dall›alto, ma un›attività di stimolo alla
diffusione della cultura e della metodologia A.M.A., nonché di
coordinamento e di rete tra i diversi gruppi, in termini di supporto,
organizzazione, confronto e scambio di pratiche ed esperienze.
Il progetto in questi anni è cresciuto e si è sviluppato, a oggi i
gruppi in rete nell’Area Metropolitana sono più di 100 e riguardano
nove aree tematiche: disagio psichico, problematiche di dipendenza,
deterioramento cognitivo, problematiche relazionali, comportamenti
alimentari, problematiche di disabilità, genitorialità, malattia
organica, lutto. Ciascun gruppo è composto da un minimo di tre a un
massimo di quindici persone, portatrici del bisogno o loro familiari.
Esistono anche gruppi chiusi per alcune situazioni protette: tra
detenute in carcere, tra donne che hanno subito violenza e vivono in
strutture chiuse.
Questo il percorso e la storia dei gruppi A.M.A. ma per rendere al
meglio l’idea di cosa siano e quanto possano essere significativi,
‘passo il testimone’ a chi il gruppo lo ‘vive’ poiché sono consapevole
che le parole dei partecipanti siano più efficaci. Mi sembra utile
sottolineare l’importanza e il contributo ‘umano’ che condivisioni
personali possano dare ai momenti di promozione dei gruppi A.M.A. e
quanto sia necessario far sentire la propria voce e quella di chi non
può parlare.
Il ‘condividersi alla luce del sole’ è un atto di coraggio che i
partecipanti ai gruppi fanno per dar voce al disagio, per condividere i
propri vissuti. Non mi stancherò mai di ringraziare le persone che mi
accompagnano nel percorso di promozione dei gruppi perché mi offrono
l’opportunità di vivere insieme momenti intensi. Ogni volta che ascolto
le loro parole torno a casa con l’aumentata consapevolezza che la
condivisione sia una forza che accomuna tutti, che emozionarsi,
piangere, ridere insieme dovrebbe essere un diritto acquisito
dell’essere umano e che la speranza aumenti là dove sia possibile
sperare insieme!
Ogni volta si manifesta quella che io amo definire ‘la magia dei
gruppi’. Ascoltare le loro narrazioni mi ricarica (e questo per un
operatore è sicuramente un privilegio)... La loro forza di volontà e
determinazione mi rigenerano e sentirli parlare è per me ulteriore
conferma dell’importanza dei gruppi A.M.A. e, di conseguenza,
dell’importanza del promuoverli soprattutto con
narrazioni/testimonianze come quelle che seguono, consegnate
direttamente a me e pubblicate sul fascicolo relativo al decennale del
progetto AMA…
Chiudo dicendo che se tutto questo è possibile, se le parole sono semi
che possono donare speranza anche a una persona sola, se il gruppo
aiuta a far tornare il sorriso e anche la risata a chi pensava di non
poterlo più fare, perché non continuare a farlo? Per me personalmente
l’incontro con i partecipanti ai gruppi è sempre un momento personale e
professionale importante.
Narrazioni e testimonianze
Ho perduto in brevissimo tempo mio marito, mio
padre e i miei nonni materni. Improvvisamente la mia vita è stata
stravolta e ho perso gli affetti, i riferimenti importanti, le mie
sicurezze. Stavo malissimo, mi sentivo lacerata con un dolore acuto che
non mi lasciava tregua. Faticavo a dormire e a compiere le più semplici
attività giornaliere come alzarmi da letto, mangiare, vestirmi. Vedevo
il mondo che mi circondava era orribile e decisamente ingiusto. Non
trovavo un senso a ciò che era accaduto alla mia famiglia. Anche molti
‘amici’, dopo i primi momenti, si erano allontanati trovando difficile
frequentare una persona come me, così piena di problemi. La
disperazione e la solitudine erano insopportabili e mi hanno spinto a
cercare una via d’uscita … così ho frequentato un corso sull’Auto Mutuo
Aiuto. È stata una bellissima esperienza. Mi si è aperto un mondo
nuovo. Con loro ho capito che i gruppi erano il modo giusto per
aiutarmi a superare i miei lutti, le mie angosce.
Dal 2005 ho pensato insieme ad alcune amiche di avviare un gruppo
A.M.A. per persone colpite dal lutto. L’esperienza è stata molto
importante per me, ho avuto molti e continui benefici. Nel gruppo mi
sento compresa dagli altri. Noi condividiamo gli stessi problemi, siamo
degli ottimi compagni di viaggio, possiamo parlare liberamente senza
giudicarci. Non mi sento più in angoscia come prima perché so di non
essere sola. Ciò che mi ha colpito nei gruppi A.M.A. è che applicano un
principio di solidarietà che va controcorrente rispetto al marcato
individualismo della nostra attuale società. Ogni giorno imparo
qualcosa dagli altri e do qualcosa: è un bellissimo scambio che mi
orienta ad essere una persona migliore.
Stare in un gruppo di Auto Mutuo Aiuto è un’avventura che consiglio a tutti.
D.
Oltre 20 anni fa non esistevano i gruppi di Auto Mutuo Aiuto. Posso
dire che per me è stato particolarmente difficile affrontare la
malattia mentale di un mio familiare quando parenti e amici si
allontanavano e la famiglia rimaneva sola.
In seguito, appoggiandomi ai servizi di Casalecchio, ho avuto l’aiuto
di operatori del settore. Da un incontro con altri familiari da oltre
nove anni è nato il gruppo di Auto Mutuo Aiuto di cui faccio parte.
Ritengo che sia particolarmente utile incontrarsi e condividere le
varie esperienze per affrontare meglio la sofferenza e ritrovare forza
e fiducia. “La vita non è aspettare che passi la tempesta ma imparare a
ballare sotto la pioggia” (Gandhi).
una mamma
Sono una mamma adottiva di due bimbe colombiane. Il
nostro avvicinamento ad un gruppo di Auto Mutuo Aiuto per genitori
adottivi è avvenuto contemporaneamente al nostro inizio nel cammino
istruttorio con i servizi sociali. Inizialmente la nostra
partecipazione era molto silenziosa, amavamo ascoltare tutte le coppie
nelle loro esperienze positive e negative per farci una sorta di
pacchetto d’esperienza per come poi comportarci in futuro con il nostro
bambino. Poi, piano piano, abbiamo cominciato a sentirci a nostro agio
ed a partecipare anche noi con tutti i nostri dubbi le nostre ansie e
tante tante domande sul complicato mondo dell’adozione. Spesso il
gruppo ci ha sostenuto e abbracciato in momenti di sconforto. Durante
un colloquio di giudici andato male per un probabile abbinamento in
Italia, durante l’attesa interminabile della chiamata che non arrivava
mai dalla Colombia, durante le pressioni e l’ignoranza che dovevamo
combattere tutti i giorni da parte di parenti, amici e conoscenti che
non capivano mai quando era ora di stare in silenzio, senza fare troppe
domande. Non ci sentivamo soli…
Grazie a questa grande esperienza che abbiamo e stiamo vivendo, io e
mio marito abbiamo collaborato con i servizi sociali per creare un
gruppo A.M.A. nel nostro territorio ... gruppo ancora attivo e vivace!
P.
Cari Amici, le nostre strade si sono incrociate
perché tutti siamo coinvolti dal dispiacere, procurato dalla malattia
di un nostro caro (il deterioramento cognitivo), difficile da
affrontare in solitudine. Durante questo percorso, si sono verificati
altri eventi, in diversi momenti ho pensato di ritirarmi, poi è stato
come l’attrazione di una calamita, la necessità di continuare a vedervi
e condividere con voi i miei pensieri. Grazie anche alla vostra
pazienza e comprensione, adesso posso affrontare con più serenità il
domani. Conserverò nel futuro un ottimo ricordo dei nostri incontri. Vi
auguro di proseguire i vostri percorsi con tanta forza. Grazie Amici
del gruppo, grazie Daniela.
Con affetto
P.
Trovarsi completamente spogli sotto una pioggia ghiacciata, fragili,
indifesi, sbilanciati sopra un baratro, investiti da un grande soffio
di vento freddo; c’è un uragano dentro di te... No, è un fuoco, è una
grande fiammata che ti avvolge e non ti lascia mai, mai … E tu bruci,
bruci, senza poter far nulla... Qualcosa ti ha colpito. Ma sogni o sei
sveglia? È proprio a te che sta capitando tutto questo? Non hai più
tregua. Non hai più pace. Non hai più vita. Si è ammalata tua figlia.
Ammalata di mente. Un male che ‘non si vede’. Il male che ‘nessuno
vede’ . Quindi è o non è? Persino i tuoi amici, i tuoi stessi parenti
dubitano che ciò sia reale. Ma tu sei lì e lo vedi bene. Anche se non
sai ancora cos’è. Impotente. Sola. Senza aiuti. Soffri con lei, per
lei; non sai che fare. E da quel momento nulla è più come prima. Ma
com’era prima? Tanti dubbi, tante nubi nella tua testa, tanti ricordi,
tante battaglie e tante sconfitte... Sei assolutamente sola davanti a
una montagna enorme. Che ti viene addosso. Pezzo dopo pezzo, se non
reagirai, quei massi si staccheranno e ti seppelliranno con la tua
disperazione e ... con tua figlia e la sua malattia. Con queste poche
righe ho cercato di esprimere il mio stato d’animo all’esordio della
malattia mentale di mia figlia. Dopo un paio d’anni d’inferno più o
meno ‘autogestito’ ho trovato, casualmente, sul mio cammino uno
strumento che si chiama Auto Mutuo Aiuto. Una mia amica mi ha
presentata ad una persona facente parte di un gruppo A.M.A., una
persona che mi ha dedicato il suo tempo per qualche ora e ha saputo
catturare la mia attenzione per condurmi all’interno del gruppo (perché
non è sempre facile, anzi). Un gruppo che oggi vedo come un grande
abbraccio allargato; anche se i miei incontri si sono diradati e lo
frequento con meno costanza in realtà non l’ho mai più lasciato. L’ho
introiettato al punto da non dimenticare i volti e i dolori di tutti
coloro che ne hanno fatto e ne fanno parte. La differenza tra la
disperazione e il senso di solitudine e il sentirmi attirata in questo
cerchio di solidarietà dove mi sono sentita subito capita (dunque
questo dramma non stava capitando solo a me) è stata immediata. Era
come se fossi sbarcata su un pianeta dove avevo finalmente trovato i
miei simili; potevano capirmi, capire il mio linguaggio, un linguaggio
comune, perché in comune abbiamo qualcosa: un dolore grande, la
malattia di un familiare che non si sa come affrontare, come gestire.
Sappiamo tutti di che cosa stiamo parlando quando accenniamo ad un
comportamento, ad un atteggiamento del nostro malato, ma soprattutto
sappiamo cosa stiamo provando. E il punto è: come venirne fuori? Come
aiutarlo? Come migliorare le proprie condizioni quotidiane e quelle del
nostro malato? In questa ‘palestra’ che è il gruppo A.M.A. si imparano
delle ‘tecniche di resistenza’ o a volte di vera ‘sopravvivenza’,
semplicemente ascoltando. Ascoltando gli altri e donando la propria
esperienza agli altri. Ed è una ‘palestra’ (anche se è riduttivo il
termine rende l’idea) dato che ci vuole costanza e anche allenamento e
anche fatica a volte. È una palestra – dicevo – che serve per ‘tenersi
in forma’ perché, purtroppo, siamo e saremo sempre impreparati di
fronte a esperienze del genere, come il vedere e vivere l’ammalarsi di
un figlio. Le istituzioni, la medicina e gli utili e necessari apparati
che conosciamo non ti spiegano comunque mai ciò che ti sta capitando
dal punto di vista psicologico in quei momenti. Semplicemente perché
non hanno mai provato. Mentre una persona di un gruppo A.M.A. sì.
Perché se è lì con te ha il tuo stesso problema. Sta vivendo la tua
stessa disperazione. In questo cerchio si impara a donare il proprio
‘sapere’ per esperienza e ad attingere al ‘sapere’ dell’altro. Io sono
entrata nel gruppo A.M.A. nel marzo del 2006; sono passati tanti anni.
Mi sono sentita molto sostenuta e stimata dal mio gruppo. E quando
penso a queste persone che mi hanno dato tanto affetto e per le quali
provo tanto affetto anch’io (e spero lo abbiano sentito) penso alle
loro storie, ai loro dolori, ai lori figli
e familiari ammalati. Li ho tutti nel cuore e ogni loro sofferenza è
stata ed è un po’ anche mia… è una sensazione che si prova nel gruppo,
forse per portare via un po’ del loro peso, del grande fardello che
portano. E nello stesso tempo mi sono sentita un po’ alleggerita del
mio ‘carico’, depositando nelle loro mani, che si tendevano generose,
il mio dolore in tanti momenti così devastanti che ci sono stati nel
nostro faticoso e difficile cammino. Come tutte le cose spontanee e
quindi non imposte, il gruppo A.M.A. è uno strumento anche ‘curativo’.
È una scelta importante ed impegnativa. È un arricchimento e un aiuto
per sé e di conseguenza per il familiare ammalato. Voglio esprimere
gratitudine immensa per l’aiuto vero che ho ricevuto sempre dal mio
gruppo A.M.A. e che credo abbia avuto un peso nel nostro percorso
familiare.
R.
AIUTO
Pensavo di essere rimasta ormai sola,
con la mia sofferenza...
ma poi una mano tesa,
un abbraccio,
una parola di conforto,
uno sguardo dove negli occhi ho rivisto la stessa sofferenza...
Fa che non sia più una grigia giornata d’inverno,
c’è uno spiraglio di sole...
È la luce delle persone che come me cercano la speranza,
la condivisione,
senza pregiudizi,
senza maschere... ormai spogli…
Grazie perché ora non sarò più sola…
F.
Sono entrata nel gruppo nel 2005, grazie
all’indicazione dello psichiatra che ha in cura mio figlio. Ero
distrutta e soprattutto non accettavo la malattia di mio figlio. Grazie
ad un percorso doloroso ed intenso la mia vita ha ripreso un senso e se
pur con difficoltà, ho accettato la malattia. Il gruppo non ti fornisce
la soluzione a tutto, ma il poter parlare liberamente senza reticenze
di tutto quello che sconvolgeva la mia vita, l’ascoltare le esperienze
degli altri (o più’ specificamente le altre perché siamo più donne che
uomini presenti alle riunioni) è servito tanto. Io definisco il posto
in cui ci si trova la ‘stanza dei segreti’, è chiaro che è garantita ad
ognuno la riservatezza, ed alle volte si esce da lì tanto provati da
tutto ciò che si dice che si ha solo voglia di tacere e meditare.
Perciò posso dire che per me l’Auto Mutuo Aiuto è stato ed è tuttora
molto importante, perché attraverso la condivisione sono nate delle
belle amicizie e con il nome stesso del gruppo ho ritrovato una parola
che non avevo più, la ‘speranza’, speranza di accettare, speranza di
capire, speranza di migliorare la mia se pur difficile vita! In questa
società così indifferente, in una vita così dura, ben vengano i gruppi
di Auto Mutuo Aiuto.
una mamma
Il mio incontro con l'A.M.A. Credo che tutto sia iniziato
nel 2010 quando nel mio CSM ho visto una locandina che parlava dei
gruppi A.M.A.. Ho chiesto informazione, ma mi è stato detto che non
c’era niente di adatto a me. Leggendo il dépliant che mi ero presa, ho
letto di un gruppo dal titolo accattivante ‘Per un linguaggio comune’ e
un recapito telefonico. Ho telefonato, ho parlato un po’, ho fatto
delle domande e mi sono sentita dire che il gruppo si incontrava ogni
settimana dalle 18 alle 20, che potevo andare a conoscerlo e poi ero
libera di decidere se restare o meno. Sono andata e… ancora oggi vado
ogni volta che posso. Dal gruppo ho iniziato vari percorsi interessanti
e coinvolgenti. Quando sono entrata nel gruppo A.M.A. avevo già
iniziato a stare abbastanza bene, ma l’incontro con il gruppo, la
conoscenza di tante persone interessanti e positive e fare tante cose
con loro mi ha aiutata a stare ancora meglio, a sentirmi utile, ad
avere quasi tutti i miei pomeriggi impegnati e a sentire la mia vita
interessante. Credo che l’Auto Mutuo Aiuto sia un’esperienza
utilissima, perché oltre a mettere in contatto persone che condividono
lo stesso problema, si fonda sulla convinzione che il gruppo racchiuda
in sé la potenzialità per favorire un aiuto reciproco tra i propri
membri che risultano ‘esperti per esperienza’.
T.
Che cosa mi aspettavo dall’Auto Mutuo Aiuto quando
ne sentii parlare per la prima volta? Non lo sapevo, ma la disperazione
mi indusse a provare. A causa della malattia di un mio familiare, che
si stava consumando in una sofferenza indicibile che non trovava
sollievo in nessuna cura, anche il resto della famiglia era devastato.
Al primo incontro dell’Auto Mutuo Aiuto eravamo cnque persone, tutte
piene di dolore, di sensi di colpa, di mancanza di fiducia, senza
speranza. Insieme a loro ho imparato a parlare: parlare della mia
situazione e dire cose che a nessun parente o amico avevo mai
raccontato, perché col silenzio si pensa di proteggere un figlio in
difficoltà dal giudizio degli altri che non possono capire. Ho imparato
ad ascoltare e ho trovato un ascolto attento e partecipe perché tutti
avevamo avuto le stesse drammatiche esperienze e provato le stesse
emozioni. Ho trovato la solidarietà del gruppo che è diventato molto
numeroso ed ha aiutato e sostenuto tante persone.
Parlare della propria sofferenza consente di mettere ordine nel
tormento che lacera il cuore, nel rovello che invade la mente, consente
di definirne i singoli aspetti: il senso di colpa, il desiderio che
tutto possa tornare come prima, l’impotenza ad aiutare la persona
malata, la difficoltà della relazione, la solitudine... La condivisione
delle esperienze, il confronto dei nostri comportamenti con quelli di
altre persone che hanno lo stesso problema consente di vedere che
esistono altre possibilità di agire, induce a sperimentare altre
strategie, in modo e in misura diversi, secondo le proprie forze.
L’Auto Mutuo Aiuto insegna a guardare dentro sé stessi, a credere che
il cambiamento sia possibile, a riaccendere la speranza.
Quando sono riuscita a cambiare qualche cosa di me anche intorno a me qualche cosa è cambiata.
G.
L’Auto Mutuo Aiuto funziona e non mi stancherò mai di poterlo
condividere... a me personalmente ha salvato la vita. Ho imparato a non
confondermi con il branco e a valorizzare la mia diversità.
M.
PERCHÈ IL GRUPPO: si entra in un gruppo A.M.A. perché, qualunque
sia la situazione di disagio che ci spinge, si pensa che si troveranno
persone che hanno attraversato o stanno attraversando la nostra
esperienza e che ci potranno comprendere. Perché la pressione
psicologica diventa tale da farti cercare un aiuto.
LE ATTESE: si pensa di poter alleviare la solitudine perché, nel
nostro caso, quando c'è una malattia grave (un tumore) che comporta
terapie pesanti con effetti pesanti, la famiglia non riesce a
supportarti completamente e spesso siamo anche noi a non volere gravare
troppo sul compagno, sui figli, sui genitori. Si spera di trovare delle
risposte anche piccole. Si attende di essere confortati.
LE RISPOSTE: in un gruppo A.M.A. trovi CONFORTO E CONTENIMENTO.
Puoi dare sfogo alle tue ansie, alle tue angosce sapendo che verranno
comprese, perché le altre le hanno vissute. Una paura verrà
sdrammatizzata, altre accolte nella loro giusta misura. Non avrai paura
di piangere e spesso uscirai sollevata.
La dimensione gruppale è un abbraccio mai soffocante perché sei tu a
decidere quando partecipare, quanto raccontare, quanto esporti e, al
tempo stesso, il gruppo conterrà le tue emozioni con il suo affetto e
la sua comprensione e potrà anche darti la forza per andare avanti e
lentamente riuscire a ricostruire il tuo mondo frantumato, la fiducia
nelle tue risorse. Nel gruppo ho trovato sostegno, conforto, confronto,
solidarietà, spesso complicità, una grande vitalità insieme alla
consapevolezza estrema della fragilità di ognuna di noi. Il gruppo
attraversa momenti di grande sofferenza e dolore per la nuova malattia
di un'amica, la morte di una compagna, ma le maglie si tendono per
farsi più fitte e reggere. E al contempo si sa ridere e apprezzare
moltissime piccole e meno piccole cose. Il gruppo diventa un organismo
unitario molto coeso e ricco delle esperienze e dei caratteri di ognuno
dei suoi componenti. Il gruppo facilita un percorso di empowerment che
è il riappropriarsi delle proprie energie, delle proprie capacità e
tirare fuori magari talenti dispersi nel tempo, soffocati dalla vita.
Non è probabilmente un caso che nel 2006 dal gruppo sia nata
un'associazione, per restituire una parte di quell'affetto che ci aveva
accolte e per portare al di fuori del gruppo chiuso le competenze che
in quel gruppo si erano scoperte o riscoperte.
P.
SAPERE CHE CI SIETE Credo che tutti conosciamo bene una
delle belle immagini che l’Auto Mutuo Aiuto rimanda: il CERCHIO. Quando
le persone arrivano presso la sede indicata per gli incontri, si
siedono una accanto all’altra formando un CERCHIO. All’inizio è
predisposto cercando le sedie opportune per il numero di persone
attese. In seguito si aggiungono nuove sedie per accogliere i nuovi
arrivi e il CERCHIO mano a mano si allarga. Nel tempo capita che pure
si restringa IL CERCHIO… ma sempre molti sono i visi che vi si
affacciano, che vanno e vengono e lasciano un pezzetto della loro vita,
una traccia di cui sono testimoni importanti, spesso dolenti, ansiosi,
ma anche reattivi e determinati e sempre accolti, ascoltati,
ricambiati… Oggi, 29 novembre 2013, nella sede di Viale Pepoli, in un
incontro plenario, si è ricordato il decennale della partenza del
progetto “rete dei gruppi A.M.A. Area metropolitana” AUSL di Bologna.
All’arrivo le sedie predisposte mi sono sembrate poche e quasi mi è
dispiaciuto; al centro una pianta desertica che testimoniava la
‘resilienza’. Tenuta senza acqua a lungo, questa si appallottola in
un’apparenza priva di vita; sembra rinsecchita, ma si riapre e si
ravviva quando viene posata su una ciotola con un poco di acqua, come
Daniela aveva curato di fare prima degli arrivi. Dopo un quarto d’ora
l’evento ‘magico’ si è realizzato di nuovo attraverso l’unica magia
possibile: l’impegno e la tenacia umani, la capacità di ‘resilienza’,
la voglia di andare avanti ad occhi aperti: il CERCHIO si è allargato.
Dapprima da dieci a quindici, poi a ventidue, a trenta e a più di
quaranta persone e c’è stato spazio per tutti, finché gli ultimi
arrivati hanno dovuto sedersi in doppia fila. Chi manca? Ci si è
chiesti a un certo punto. Gli uomini! Ha notato uno dei due uomini
presenti, facendo sentire la propria voce. Ricordare l’inizio ha
significato per me ricordare la ‘posa delle prime pietre’ da parte di
alcuni operatori e di compagni o genitori di persone con disagio
psichico … fu molto commovente. In quel punto iniziale, seguito dalla
presentazione dell’esperienza AMA di Trento e dal desiderio di
riprodurre l’esperienza a Bologna, compresi che non sarei più stata,
anzi non saremmo più stati soli di fronte a molti turbamenti personali
o in famiglia, se colpiti dagli inciampi della vita; in futuro avremmo
potuto trovare accoglienza tra persone che stavano vivendo esperienze
simili alla nostra e quindi saremmo stati sostenuti da una maggiore
‘sicurezza sociale’. Di certo ci si doveva rimboccare le maniche. E in
molti l’hanno fatto se dieci anni fa partirono tre gruppi e ora se ne
contano a Bologna e dintorni ben ottantatré. E molte altre esperienze
ci sono state, nel frattempo terminate. Non ho voluto mancare, dieci
anni dopo quella ‘posa delle prime pietre’, proprio per riconoscenza e
per affetto. CI SIETE, e io? Ci sono, per quanto ho potuto nel tempo e
per quanto potrò in futuro. Quanti siete nel gruppo ‘Sempre Insieme’?
Ha chiesto a Simonetta una partecipante … a volte otto, a volte
quindici, ha risposto, ma in tutto siamo circa cento. E svolgiamo
un’attività silenziosa, correlata al bisogno delle partecipanti, nel
momento pre o post-operatorio, nel momento della depressione … SAPERE
CHE CI SIETE! In qualche modo, con le fatiche e le preziose diversità
che ognuno porta, siete capaci di restare in sella … vorrei esserci per
il ventennale per misurare altre e molte energie vitali …. È un augurio
e una speranza.
Vi voglio bene!
A.
Solidarietà: un senso di responsabilità su larga scala
Edgarda Degli Esposti
presidente della Consulta contro l’esclusione sociale del Comune di Bologna
L
e diseguaglianze ci rendono infelici. Gli individualismi bloccano la
nostra crescita personale e di conseguenza sociale, civile, culturale.
Nella certezza che nessuno di noi è ‘un’isola’, occorre trovare una
strada che faciliti le relazioni, che crei legami, scambi, reciprocità,
fra tutti gli esseri umani a qualunque provenienza razza sesso
nazionalità essi appartengano. Costruire ponti e non muri come ci
suggerisce la più grande autorità religiosa morale culturale del nostro
tempo, Papa Francesco, significa aprirsi, accettare l’altro l’altra,
viverli come un’opportunità di crescita, scambiare, far scorrere l’
energia in modo bi-direzionale da un ‘polo’ all’altro e viceversa.
Perché reciprocità può sempre esserci anche quando la disparità di
condizione di status è di per sé un fatto oggettivo. Questo per noi è
l’accezione più alta più della solidarietà intesa come un senso di
responsabilità su larga scala, in cui ognuno ognuna vive gli altri,
chiunque essi siano, come una parte essenziale e costruttiva della
comunità alla quale dare, ma anche attingere cultura saperi usanze
tradizioni, quando questi provengano da altre parti del mondo e modi di
essere di sentire di comunicare, quando si tratti di persone che
mostrano qualche disagio o fragilità.
Certo però che solidarietà e aiuto, senza nulla togliere alla loro
qualità di espressione ‘nobile’ dell’animo umano, poco possono quando
si tratta di variare significativamente il quadro sociale e politico
della comunità di riferimento. Qui allora mi viene in mente l’idea
forza che ha segnato la mia vita e il mio agire negli ultimi
trent’anni. Per dirla con il titolo di allora: strategia dei diritti
etica della solidarietà. Che significa esattamente questo: riconoscere
in primo luogo alle persone, a tutte le persone, diritti civili,
sociali, di cittadinanza non a parole, ma diritti codificati e
soprattutto agibili, facilmente fruibili, ‘utilizzabili’, senza
complicazioni e/o fatiche. Contenere questa azione, che deve essere
tenace inarrestabile a moto continuo, perché le trasformazioni sociali
sono soggette ad un continuo dinamismo, sotto un’egida precisa: quella
della solidarietà come modus di pensare agire vivere. Solidarietà
dunque come sfondo come senso comune come orizzonte e nel contempo come
baricentro della nostra azione individuale e collettiva, solidarietà
come condicio sine qua non della coesione sociale, indispensabile per
tenere aggregate e quindi solide sicure al riparo da insanabili
lacerazioni le nostre comunità. In tutti questi anni strada ne è stata
fatta tanta basti pensare a quanto sia diffuso e capillare
l’associazionismo. La Consulta contro l’esclusione sociale del Comune
di Bologna conta oltre cento associazioni, ma il registro delle
iscrizioni della ex provincia ci parla di oltre quattrocento
associazioni, tutte che, seppur con finalità diverse e molteplici campi
di azione, si muovono sul terreno dei diritti e sotto l’indiscussa
egida della solidarietà umana sociale civile. Un esempio concreto che
vorrei citare è il progetto ‘Bologna accoglie’, che investe oltre
sessanta associazioni e tanti enti gestori (cooperative sociali, onlus
eccetera) che attraverso un lavoro in rete si stanno cimentando in una
pluralità di progetti che investono Bologna e l’area metropolitana,
tesi a coinvolgere attivamente i giovani richiedenti asilo e protezione
internazionale in veri e propri ‘patti di volontariato’, previsti da un
protocollo regionale ad hoc fra Anci, Terzo settore e sindacati. La
Regione Emilia Romagna ha svolto un ruolo di primo piano investendo
risorse e mantenendo solidamente la regia in tutto l’iter dell’accordo.
L’esperienza è cominciata da qualche mese, verifiche da parte nostra e
dell’Istituzione ‘Serra Zanetti’, che è stata in campo fin dalla prima
ora, dal lavoro di co-progettazione, se ne fanno costantemente, quindi
senza enfasi si può affermare prove alla mano che siamo sulla strada
giusta. Certo il cammino è appena cominciato ma la traiettoria è
quella: dei diritti e della solidarietà perseguiti insieme, società
civile con le sue organizzazioni e la pubblica amministrazione nelle
sue diverse e plurime articolazioni. Del resto diversamente non
potrebbe essere se non a discapito dei risultati: per essere efficace
la strada dei diritti e della solidarietà deve vedere un cartello di
forze molto esteso in cui l’attore pubblico deve fare la propria
insostituibile parte sollecitando sostenendo promuovendo valorizzando
l’azione di tutti gli attori sociali in una concezione di sviluppo
pieno della sussidiarietà così come ci suggerisce il titolo V della
nostra costituzione.
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L’ ASSISTENZA A BOLOGNA
Diana Tura Responsabile della Sala Studio dell'Archivio di Stato di Bologna
Il profilo di una città è definito
oltre che dagli aspetti politici, economici e demografici, anche dalla
rete dei ‘servizi’ che in essa operano in aiuto a categorie di persone
che necessitano di assistenza. Alla fine del Medioevo a Bologna il
panorama della carità e dell’assistenza, che si era configurato nei
quattro secoli precedenti, aveva raggiunto una notevole complessità e
si articolava in una molteplicità di istituzioni e di forme che
rispecchiavano momenti diversi della storia civile, culturale e
religiosa della città. In linea di massima l’origine di queste
istituzioni è da ricondursi a persone o a moventi legati alla
religione; in tutto l’Occidente cristiano la nascita delle ‘opere
assistenziali’ è legata inizialmente agli istituti religiosi; a Bologna
fra il XII e il XIII secolo presso i monasteri benedettini vi erano
ospizi per pellegrini, viandanti, infermi e trovatelli; altri ordini
religiosi o cavalleresco-ospitalieri, nati durante le crociate con lo
scopo di assistere i pellegrini, istituirono luoghi di raccolta e di
assistenza all’interno della città. A questa organizzazione
ecclesiastica in seguito si affiancò un’assistenza laica, costituita
dalle confraternite, gruppi di cittadini organizzati in difesa di
alcune categorie di persone con la finalità di mutuo soccorso,
ospitalità, assistenza e carità. Tali associazioni, dopo un primo
periodo di diffusione nel XII secolo, si erano consolidate nel XIII
secolo, per arrivare fra il XIV e il XV secolo ad un controllo
pressoché assoluto di alcune funzioni civili, come ad esempio la
gestione ospedaliera, che in quell’epoca non si occupava solo di
malati, ma anche di bambini abbandonati, di pellegrini e di condannati.
Numerosi dunque furono gli enti di assistenza e di beneficenza che a
Bologna, dal XIII al XVIII secolo, si configurarono come istituzioni
stabili, quasi sempre di lunga durata e di rilevanza cittadina:
ospedali per ammalati e per alloggio di viandanti e pellegrini,
orfanotrofi e ‘conservatori’ di fanciulli e fanciulle, ospizi e
ricoveri per vecchi, per donne ‘pericolanti’, cioè in condizione di
perdita o rischio dell’onore, per mendicanti.
Le forme di assistenza presenti in città erano molto articolate e
coprivano l’intero ciclo della vita: neonati abbandonati, adolescenti
poveri, ragazze ‘in pericolo d’onore’, vedove, donne il cui matrimonio
era, per qualche ragione, fallito e che si trovavano in situazioni di
rischio per la loro reputazione, orfani, benestanti impoveriti: per
ognuna di queste categorie esistevano specifici istituti assistenziali,
per accedere ai quali erano necessarie specifiche e diverse qualità. Ad
esempio per accedere all’Opera dei poveri vergognosi il povero doveva essere un nobile o almeno un benestante decaduto, per accedere all’Opera pia dei mendicanti
era necessario che il mendicante fosse residente da alcuni anni in
città. Anche per accedere ai ‘conservatori’, agli ‘orfanotrofi’ o alle
‘case’ erano richiesti particolari requisiti oltre a quello della
cittadinanza. Per esempio le ragazze che entravano al Conservatorio del Baraccano, oltre ad altri numerosi requisiti, dovevano avere “onestà, bellezza e salute”.
Nel corso del XIV secolo dall’unione di alcune di queste confraternite
nacquero gli ospedali di Santa Maria della Vita e di Santa Maria della
Morte, che acquisendo altre confraternite dettero inizio a un processo
di progressiva centralizzazione dell’assistenza, che nel XV secolo
cominciò ad essere gestita da pubbliche autorità. Al vertice delle
istituzioni assistenziali bolognesi vi erano gli ospedali per gli
infermi, di cui Bologna era particolarmente ricca in virtù dell’antica
tradizione medica dell’Università; nel ‘700 gli ospedali erano
essenzialmente otto: gli ospedali della Vita e della Morte, i più
antichi e grandi, facenti capo alle due corrispettive
arciconfraternite; l’ospedale di S. Orsola, specializzato
nell’assistenza degli incurabili, l’ospedale di S. Antonio abate dei
Fatebenefratelli o “Sportini”, l’ospedale Azzolini o della Maddalena,
l’ospedale del SS. Salvatore o dei poveri abbandonati, l’ospedale della
SS. Trinità o dei convalescenti e l’ospedale di S. Giobbe,
specificatamente destinato alla cura del morbo gallico o ‘male
francese’ o ‘male di S. Job’, in pratica la sifilide, comparsa a
Bologna alla fine del XV secolo. Molti di questi ospedali chiusero fra
la fine del Settecento e l’Ottocento e le loro competenze confluirono
negli attuali ospedali Maggiore e S. Orsola, istituzioni che conservano
ancora l’alto prestigio dell’antica attività ospedaliera di Bologna.
Di tutta l’intensa attività assistenziale del Medioevo e dell’età
moderna non è rimasta solo una gloriosa memoria, ma anche una ricca
eredità: edifici storici e possedimenti vari, collezioni d’arte e
un’abbondante documentazione, questa forse meno conosciuta, conservata
in vari istituti cittadini. Gli archivi ospedalieri bolognesi e quelli
delle istituzioni di carità ed assistenza, che con gli ospedali hanno
avuto vicende storiche comuni, hanno avuto percorsi molto complessi,
non solo a Bologna ma in tutta Italia. Ciò fu conseguenza del fatto che
la maggior parte di queste istituzioni nacque nel corso dell’età
medievale e moderna dalla libera iniziativa di singoli benefattori o di
associazioni private, e solo a partire dalla seconda metà del secolo
XVIII esse furono assoggettate al controllo pubblico. Nel corso
dell’Ottocento, prima e dopo l’unità d’Italia, iniziò un processo di
accorpamenti degli enti ospedalieri e degli enti di carità e
assistenziali, che portò alla costituzione delle IPAB (Istituzioni
pubbliche di assistenza e beneficenza). Recentemente vi è stata
un’ulteriore riorganizzazione disciplinata dalle Regioni, con la
creazione delle ASP (Aziende pubbliche di servizi alla persona), enti
pubblici senza fini di lucro, dotati di autonomia statutaria,
gestionale e patrimoniale. A Bologna si sono costituite inizialmente
tre ASP , “Giovanni XXIII” (2006), “Poveri Vergognosi” (2007) e
“Irides” - Istituzioni Riunite Infanzia, Disabilità e Sociale (2008),
confluite infine in un’unica ASP, l’azienda Pubblica di Servizi alla
Persona Città di Bologna (2014).
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IL PIACERE DI LASCIARE UNA PIZZA SOSPESA
L’Aurora dalla sua panchina
Da Piazza Grande, Giugno 2016 (redazione@piazzagrande.it)
Viene da Napoli l’usanza di lasciare un
caffè pagato al bar, chiamato caffè sospeso, sospeso in attesa di
essere gustato da una persona che evidentemente ha qualche difficoltà
economica. Ieri sera per televisione hanno fatto vedere che a Bologna
due pizzaioli napoletani, nella loro pizzeria da asporto, hanno messo
in pratica questa usanza tutta napoletana, trasferita pari pari a
Bologna. A essere sospesa questa volta è la pizza. Sono orgogliosa che
la mia città abbia intrapreso questa bella usanza, speriamo che questa
iniziativa venga copiata da tutte le pizzerie. Mi hanno spiegato che i
titolari fanno un prezzo speciale per le pizze sospese, circa quattro
euro. Un volontario porta le pizze disponibili al dormitorio dove sono
sempre molto gradite dagli ospiti. È stato chiesto se una persona che
desidera una pizza sospesa può prenderla. Certamente. Per noi sarà un
piacere. Che bello! Offrire qualcosa di appetitoso, buono da mangiare.
Una soddisfazione per chi offre e per chi la riceve, molto più
gratificante che allungare due euro a una persona all’angolo della
strada. Tante piccole cose potrebbero essere sospese, se a qualche
fornaio venisse in mente di offrire una mandorlina di crescente coi
ciccioli, io per esempio la gradirei molto volentieri. Un po’ di
generosità fa bene al cuore, un vecchio detto bolognese recita: “poco
ma volentieri”. Tutto può essere sospeso: un limone, una mela, una
matita, un quaderno. Per ora siamo felici che siano arrivate le pizze
sospese, vogliamo che Bologna si faccia onore in questa gara di
solidarietà, non sai chi ti ha offerto la pizza, ma, in un certo senso,
sei grato verso tutta la città che in forma anonima ti offre quel poco
che può. Un granello di sabbia in un deserto, che però ti fa capire che
non sei solo nelle difficoltà. La gioia è immensa, appagante. Tempo
addietro ho cucinato un tegame di trippa e fagioli per gli amici
dell’Happy Center, l’hanno tanto gradita, i piatti parevano lavati
tanto si erano impegnati col pane a fare la scarpetta.
Quando c’è un’iniziativa positiva, ben venga, sono la prima ad esserne contenta.
UNA PAROLA TERREMOTATA
Testo originale pubblicato su unaparolaalgiorno.it: http://unaparolaalgiorno.it/significato/S/solidarieta
S
olidarietà: rapporto di fratellanza e di assistenza reciproca che unisce i membri di un gruppo. Attraverso il francese: solidarité; derivato dal latino: solidus solido.
Si parla dei doveri di solidarietà prescritti dalla Costituzione; si
parla di persone solidali con chi ha subìto un’ingiustizia; si parla di
una persona che con te, nel momento di difficoltà, si è mostrata
solidale. Per chi si domandasse se ci può essere un legame fra
geometria e sentimenti umani, voilà. La solidarietà è il sostegno
reciproco, al modo in cui ogni parte di un solido è retta e tenuta
salda da tutte le altre: nessuna si ritrova sola nel vuoto. La
solidarietà è quindi la compattezza del corpo sociale, il suo essere
massiccio, e ci spiega che la forza di un corpo sta nella sua coesione.
Coesione che si esprime innanzitutto nella mutua assistenza, in una
fratellanza che scaturisce dalla coscienza di far parte di un uno.
Quando non ci curiamo di qualcuno che sta male o è in difficoltà -
càpita - ecco che nel solido si apre una crepa: una sola, una crepa da
nulla. Ma di crepa in crepa il corpo si indebolisce, le fenditure si
allargano fino a renderlo fragilissimo, incoerente, che perde pezzi,
fra i quali ci siamo anche noi. Il modo in cui questa parola viene
usata ci dice che è l’aiuto il cemento del corpo in cui viviamo, il
venirsi incontro nella partecipazione di un destino comune in cui
nessuno dovrebbe essere lasciato indietro o dimenticato: una società
solidale è una società solida. (E pare che sia un valore di un certo
rilevo, da qualche milione di anni a questa parte).
Se fossimo in mare avremmo detto: siamo tutti sulla stessa barca.
Qui possiamo dire: siamo tutti sulla stessa terra, i cui tremori
distruttivi capitano ora qui ora là. La percezione - non
necessariamente consapevole - di una comunanza di condizione e di umana
precarietà è il fondamento della solidarietà che abbiamo sperimentato.
Solidarietà che dovrebbe alimentare la nostra convivenza anche lontano
dai terremoti.
Questa è una “parola terremotata”, frutto di una collaborazione con
l’associazione LaCà, nata dopo il sisma in Emilia. Col loro aiuto
cerchiamo di capire come alcune parole si sono trasformate dopo il
terremoto e come si possono rinnovare. Il testo in corsivo è un loro
diretto contributo.
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LA CITTÀ DELLA GIOIA di Dominique Lapierre (1985)
L
a città della gioia (1985),
di Dominique Lapierre, è un romanzo francese ambientato a Calcutta
negli anni Settanta. Il romanzo si articola sulla vita di tre
personaggi: il primo è Hasari Pal, contadino costretto a emigrare a
Calcutta a causa di un evento climatico avvenuto nel suo paese e
passato così da un grave tipo di povertà a un altro. Egli è così
disperato da essere pronto a vendere il proprio sangue per poche rupie
ma questo non è sufficiente, e neppure lavorando come ‘uomo cavallo’,
cioè guidatore di risciò, riesce risolvere i suoi problemi
economico-familiari. Il secondo personaggio è Paul Lambert, un
missionario francese che decide di vivere la sua vocazione tra i più
poveri dei poveri. Questa figura è molto importante per quanto riguarda
la solidarietà verso i poveri della bidonville di Calcutta, dove il
romanzo è ambientato. Comprendendo che uno dei problemi principali è la
mancanza di assistenza medica, va alla ricerca di un dottore che possa
fornirla agli indigenti. Quello che mi ha colpito di più di questo
personaggio è che la sua intenzione di aiutare i poveri è cosi forte
che vuole immedesimarsi in loro e nella loro povertà, vivendo nella
miseria come loro. Il terzo personaggio è Max Loeb, un giovane medico
statunitense, figlio di un importante cardiologo, che dona un anno
della sua vita professionale per aiutare gli indigenti. La cosa che più
mi ha colpito è che gli abitanti dello slum, pur non avendo quasi nulla
fanno grandi feste per ringraziare Dio e sono solidali gli uni con gli
altri nel darsi aiuto. Consiglio la lettura per l’attenzione e la
dovizia di particolari sulla policromatica realtà indiana.
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Vattene angoscia
Daniela Mariotti
Vattene angoscia
sparisci
domani
non ti voglio
vedere!
Prego prego...
con gli occhi.
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Non è fuggito il tempo
Patrizia Bianchi
Non è fuggito il tempo
dell’umano incontro.
Vedo mani stringersi
nel silenzio della sera,
anime alla ricerca d’amore.
che nel tenero abbraccio
dell’ultimo raggio di sole
chiedono aiuto,
o gesti di solidarietà.
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E tutto va
Daniela Mariotti
E tutto va
verso il basso
dove spero
di vedere sorgere
un sole tenero
che non bruci
il mio canto
e torni la speranza e…
dal mio cammino
interrotto
nasca la luce.
Oh, estetica,
reggi la mia mano
fino
ad un lieto
sogno.
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Così il tempo grande
Daniela Mariotti
Così il tempo grande
che raccoglie
anche il mio ricovero.
Io sono piccola
e invoco la serenità
della parola
sfuggita.
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Guardo il tramonto
Daniela Mariotti
Guardo il tramonto
di un solo giorno
che se ne va
con il suo bordo
di rosa lasciandomi
in silenzio
perfetto.
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Mia
Piergiorgio Fanti
Tu sei per me
la più carina del mondo
e un amore a tutto tondo
ti lega a me.
Tu sei per me
la più simpatica del mondo
e un amore un po’ giocondo
ti lega a me.
Tu sei per me
la più ironica del mondo
e un amore rubicondo
ti lega a me.
Tu sei per me
come un sole splendente
e un amore colmo di calore
mai si ripiega, muore.
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Prendo spunto da lei
Marcella Colaci
Prendo spunto da lei.
Manca il mare
eppur la vedo la spiaggia
mancano affetti
eppur li sento nel cuore
godo di una pace
eppur non mi sento piena
vedo i colori
eppur vesto di nero.
Cosa sia questa stagione
impressa nella memoria
altra stagione
andata a nascondersi,
cosa sia la natura
che manca eppur mi avvolge…
Qualcosa mancherà sempre?
Qualcosa sarà sempre
nell'incognita del destino avvolta?
Prendo spunto da lei
violetta tenue
che malgrado il cemento
sboccia
tenerissima nei suoi piccoli petali
eppur perfetta.
Con lei mi fermo e lo stupore
di essere malgrado il tempo
senza mare né spiaggia né affetti
mi prende e mi ammonisce di imperfezione,
da lei deduco la mia intemperanza
e mi dico che sboccerà altra vita
sboccerà malgrado il cemento,
se non ci sarà tempo sarà solo
quella parte del destino
un riaffiorare di imbecillità,
senza la naturale ragionevolezza
e, povera me, senza colore.
Ma la violetta vince,
sarò come lei vittoriosa?
Sarò, malgrado tutto, viva?
Durerà una stagione
ma il seme è lì pronto a vivere
pronto a rigermogliare perfetto
e dentro me basterebbe cosa
per poterlo esporre al vento
e poterlo amare, ammirare
del suo coraggio.
Viva la vita che torna a baciarmi
malgrado tutto.
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Sarò buona
Marcella Colaci
Sarò buona
sarò buona come il pane
sarò fresca di rugiada
e camminerò
nei deserti di memoria
imparando ad amare
non solo me stessa
ma prima me stessa
divenendo nella forza
non solo bellezza.
Sarò non solo buona
con me stessa
ma guerriera
imparerò a difendermi
con destrezza
userò la forza
non solo dell'amore
e sarò principessa.
Castello la mia casa
forgerò la mia sapienza
e colorerò
la strada di gioie
fino a prediligere
la tua alla mia anima.
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Estetica
Daniela Mariotti
Se nessuno
piangesse alle porte
del cielo, se nessuno
avesse quello sguardo
smarrito potremmo
passeggiare serenamente.
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Uno che non vale soltanto per due
Eghos Giz
Mani intrecciate e cuori palpitanti
Tasselli di un puzzle, dopo qualche incertezza vedi
si incastrano alla perfezione
Poi, tutte quelle frecce parallele, lo stare fianco a fianco fa puntare
sguardo e direzione sempre avanti
Sapere di questo e pure di quest'altro
Non saperne e pure
desiderare di esserne parte - questo binomio
così istintuale e talmente lontano,
relativamente lontano?
Dal posto in cui si trova, il punto più alto
gira intorno tutto lo sguardo, grigio che ricopre
e certo, qualche puntolino sporadico
di colore - come sprazzi
Aguzzate la vista, tutte Voi
Giovinezza, Esperienza, Tempra d'Animo
e fategli sapere
Dove può trovarli (...) Anywhere Town
Quando può trovarli (...) nel frattempo
Chi può trovarli (...) e quanti sono
Come può trovarli (…) non solo un mezzo
Sopra a tutto il
Perché - conoscenza sostanziale delle cose
conoscenza sostanziale delle cose
E questo binomio - vi è questo e pure quest'altro
a braccetto insieme
un equilibrato passo a due
tandem tutt'altro che faticoso
alla fine
Ma così lontano
e così raggiungibile
il percorso per
Arrivare a questo Binomio.
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Tutto qui
Paola Scatola
Sono sola:
tutto qui
ma ci sei
tu con me
in alcuni
momenti
sei con me
arriva
presto
sono tua.
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Con il cielo
Daniela Mariotti
Con il cielo
cercai gli occhi
cercai
gli
occhi
vibranti
come una
volta
chiedo
pietà
chiedo
misericordia
al vasto
cielo che
non dimentica
cercando
pace per tutte
le anime.
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E basta
Paola Scatola
Vieni con me e basta,
non lasciarmi più
ed è così
che ti vorrei
sempre con me
perché
ti voglio
bene.
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Dei miei figli
Daniela Mariotti
Dei miei figli
intravedo
il futuro.
E mari lontani
portano
mille fiori
dall’inebriante
profumo.
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Ho bisogno del mondo
Marcella Colaci
Ho bisogno del mondo
come ho bisogno di salutare la luna
dispiace la lontananza
di ogni cuore
dispiace il crudele egoismo del cielo
ad aver solo per lui
la bellezza
dispiace dover lasciare le parole
che solo scritte riescono a scaldare
a fermare la mente nel tempo imperfetto
eppur perfettissimo nel suo scandire il tempo.
Ho bisogno del mondo
di tutte le anime pure, lievi, generose
assetate d'amore.
Ho bisogno del mondo
che dietro ad ogni battito di ciglia
sa contenere il battito d'ali e volare
oh sì, l'immaginario
lo attraversiamo incoscienti
poi si manifesta e tollera ogni ombra
cercando luce.
Ho bisogno del mondoooooooooooooooo.
Vile il tuo petto e la tua lingua
vile l'indifferenza
il dramma dell'inumana storia
che da sepolta risorge
solo se accompagnata al pane.
Smetti di saziarti mondo
smetti di pensare alle viscere
e risorgi di acqua, di povertà, di salute
acqua di cristallo pura come anima
povertà di spirito per risorgere
salute per eludere la morte.
Ho bisogno del mondo
e scrivo di lui e di me
ma di lui non oso offenderlo
non oso
malgrado la bieca invidia del creato
che sereno nasce, muore e non chiede
ma prima muto
poi di lotte fiero fa rincasare le membra
povere membra
sempre in lotta per non soccombere
alla lingua di figli morsi dalla fame
figli buoni e cattivi
buoni se il seno è stato dolce
cattivi se il seno amaro non ha sfamato la bocca
figli, ancora i figli
a sentenziare su madri e padri.
Quanto ho bisogno del mondo
come figlia e madre
come orfana
come donna
seppur non vorrei il seno
responsabile di tanto amore
lo denudo e in pancia creo l'universo
il mondo.
Ne ho bisogno, ma è lì
proprio lì carne e sapore
viscere e sale, seno, figlia, madre
sono io il mondo
siamo il mondo
e siamo uno per l'altra, per l'altro
siamo la luna e satelliti
l'universo.
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Il tintinnio dell’amore
Matteo Bosinelli
È passato tanto tempo, ormai,
quando ti dissi:
"amami e vivrai".
Eri fuggita subito molto lontano,
pur prendendomi timidamente per mano.
Sai, è ora lucida la mia follia:
sto cercando la comune parola,
ma averti per ora non posso,
perché purtroppo sei ancora troppo 'sola'.
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Aiutami amore tu
Paola Scatola
Aiutami ancora tu
sei con me
un piccolo
aiuto
vorrei da te
ed è qui
che ti vorrei
con me
per un aiuto
un piccolo
aiuto.
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LA NOTTE DI NOTE
Giovanni Romagnani
feedback a: romagnani.gio@gmail.com
Una scintilla nel buio
Per me
la libertà era guaranà. Imbottito di guaranà passavo notti insonni,
alla radice delle mie nevrosi, radice quale il guaranà è. Poi una
scintilla nel buio, apparì e sparì, e trovai questa canzone qua, e
tutto mi fu chiaro.
Franco Battiato - No U-Turn
Per conoscere
me e le mie verità
io ho combattuto
fantasmi di angosce
con perdite di io.
Per distruggere
vecchie realtà
ho galleggiato
su mari di irrazionalità.
Ho dormito per non morire
buttando i miei miti di carta
su cieli di schizofrenia.
https://www.youtube.com/watch?v=o9XHfHu8ZKI
Perché non mi piace la televisione
Torno a un tema a me caro e a un autore che amo. Francesco “Franco”
Battiato. E al suo verso “ l’odore domina sovrano”. È questo il punto.
La televisione è estetica e asettica, al Borotalco. Non si sente la
puzza dei piedi! E invece, l’olfatto, che credo stimoli l’ipotalamo, è
importantissimo. Pensate al cibo. Un conto è osservarlo, un altro
sentirne la fragranza. Buffo che si sponsorizzino i profumi con le
immagini. Belle ragazze o muscolosi maschi per fragranze od essenze che
vedi e non senti. Il richiamo al negozio di profumeria è automatico.
Lì il macho non c’è, ma almeno c’è il flacone. Per cui ben vengano
eventi sui cinque sensi, come quelli organizzati dalla dottoressa Elena
Pasquali, perché il vivere più UmanaMente passa anche da lì, non
semplicemente dal vedere, ma anche dal Sentire.
Dettagli
Ho
detto a Radio Kairos (105,85 FM) che il mondo deve ritrovare il
silenzio: il suo mare interno. In alcuni casi la sua Marea. Come può
uno scoglio arginare il mare, anche se non voglio torno già a volare.
Ma in fondo lo scoglio ci vuole, la differenza, nell’incontro/scontro
dei flutti, si fa apprezzare. E così le difficoltà. Danno sale. Fanno
bruciare le ferite, ma ce le ricordano. Poi si può vivere o niente,
incazzarsi, perdere o ritrovare Arcangelo Corelli, ma quando perdiamo
il desiderio di immaginare la fantasia, il terzo occhio si apre,
mettendo in luce i rincoglioniti.
Grazie Franco!
https://www.youtube.com/watch?v=tfqwo73wjVU
Franco Battiato, Oceano di Silenzio.
Le aquile non volano a stormi
Ho visto un filmato in cui Lele Mora parlava in un orto a Exodus con don Mazzi.
Premetto che ho seguito molto poco l’intera vicenda di Gabriele Mora,
ma ho comprato un libro, che non ho ancora letto, in cui il signor Mora
parla della sua esperienza in carcere. Ho già scritto che ho provato la
detenzione psichiatrica.
So cosa vuol dire essere chiuso in un reparto, non so cosa vuol dire
essere chiuso in una cella. Per cui le nostre esperienze sono diverse.
Ci accomuna la privazione temporanea di libertà. La sua vicenda mi
ricorda quella di Sergio Cusani durante tangentopoli. Su questo non
aggiungo altro.
Mi ha colpito il dialogo che ho sentito: Gabriele Mora dice a don
Mazzi, che stimo ma non amo - a tratti lo trovo demagogico - che l’
orto in cui lui lavora deve diventare un giardino. Come lo dovrebbe
diventare il, da tutti noi ambito, vecchio Stivale.
Che ha davanti a sé una delle isole che da sempre ho desiderato visitare, la Sicilia.
L’ho vista, anni fa, dallo stretto di Messina, ma non sono andato di
là. Celebrata da Franco Battiato e Manlio Sgalambro nel cofanetto
dvd-cd Niente è come sembra.
Giuseppe Girotti in Città Sognate
parla della fessura tra causa ed effetto. Lì vola l’Aquila, spirito le
cui emanazioni, in rarefatte zone del pensiero, affinano la nostra
disposizione a vivere e valutare.
https://www.youtube.com/watch?v=PfVsrAZpSoI
Franco Battiato - Le aquile non volano a stormi
Rewind: per una volta Vasco ha avuto fretta.
Bisogna tornare indietro, è vero.
Con Canzoni per me Vasco l’ha fatto, con grande coraggio.
Bisogna però rimanere lì ed iniziare con Rewind, non finire.
A Imola nel ‘98 c’ero.
Commosso.
E ho colto l’atmosfera strana e rarefatta fra la decima e l’undicesima canzone.
“È una canzone molto vecchia…”
Jenny è pazza + Sally.
(Vasco)
Sono andato di là.
Far Arden Azzurro.
Marea.
Vasco le ha introdotte così.
Con quel pizzico di esitazione che solo un artista vero sa avere.
In quel momento senza Amici.
Solo con il suo complesso, la sua band.
Stavo per piangere, ha dichiarato dopo.
Le canzoni sono nel sangue della mia vita.
Lì davvero il paradiso non esiste, finalmente.
E non c’è bisogno di ballarci su.
Piove nella giungla, ed è un rumore, né bello né brutto, semplicemente qualcosa che interrompe.
Ti riporta indietro.
Ti fa riavvolgere.
Mi aiuto con le illusioni.
E le emozioni che non sai nemmeno di darmi, almeno sono le mie.
Nessuno mi toglierà mai Imola, nemmeno il riavvolgimento lento del nastro.
Fine prima parte.
Vasco
In fondo il Dipartimento è uno Stupido Hotel.
Jò
***
Dedicato alle Città Sognate da Giuseppe Girotti a cui ambisco anch’io. Grazie Beppe! Ed alla tua fantastica fessura tra causa ed effetto.
https://www.youtube.com/watch?v=E8jo7DBxaos
Franco Battiato, L’ombra della luce.
Bonus track
Giuseppe Girotti, Uomo distratto.
https://www.youtube.com/watch?v=03QKCR1bY9U
***
Città Sognate, album di PNL - Psichedelica.
Tra le mie città sognate, c’è anche la tua. Ritmo sincopato, eros, richiami Doors. C’è di tutto.
Album apparentemente onirico, ha un elegante richiamo alla terra,
all’interno della quale la fessura tra causa ed effetto permette forse
di arrivare a Ixtlan. Per scrivere direttamente all’artista:
giuseppe.girotti@gmail.com
***
Scrive Norberto Bobbio in Destra e Sinistra
che forse, se girassimo le spalle al Parlamento, la destra sarebbe a
sinistra e la sinistra a destra. Io personalmente resto in bilico, mi
limito a dire per quello che sento e leggo, che questa canzone di
Francesco Battiato detto Franco è sempre attuale. https://www.youtube.com/watch?v=gfHpWwWu-qY
Franco Battiato - Povera patria.
***
Dedicato al mitico Teatro degli Orrori,
conosciuto grazie alla ferma ed acuta determinazione di Paolo Coceancig.
https://www.youtube.com/watch?v=BEenOPJ8OtQ
Franco Battiato - L’esodo
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UN TAVOLO DI LAVORO SUGLI INSERIMENTI LAVORATIVI - IPS
Mario Mazzocchi (7)
R
ecentemente, l’Associazione Nessuno Resti Indietro (1) ha aperto col Dipartimento di Salute Mentale un tavolo di lavoro sull’IPS (Individual Placement and Support,
ossia Supporto al Collocamento Individuale). L’IPS è uno dei quattro
Percorsi di inserimento lavorativo previsti dal DSM: tirocini
formativi, tirocini inclusivi, corsi di formazione e, appunto, l’IPS.
Mentre gli altri percorsi, almeno di norma, non aprono la strada a veri
contratti di lavoro, l’IPS è finalizzato proprio a questo:
- c’è una fase iniziale di ricerca e preparazione, ossia di
orientamento nella ricerca, ricerca effettiva di occasioni di lavoro,
preparazione del curriculum e dei colloqui di lavoro eccetera; in tutto
questo, l’utente fruisce di un supporto individualizzato da parte
dell’operatore IPS;
- tutto ciò dovrebbe terminare con un autentico contratto di lavoro,
durante il quale la persona può comunque ancora ricorrere al supporto
dell’operatore IPS ad esempio per colloqui di verifica; in questo
senso, può dirsi che anche la fase del lavoro vero e proprio rientra
ancora nel percorso IPS.
Ma l’IPS, durante la prima fase di ricerca e preparazione che abbiamo
descritto, non prevede alcuna indennità di partecipazione, diversamente
dai tirocini, sia formativi che inclusivi (2). Una soluzione del
problema la si potrebbe vedere nella possibilità, per chi intraprende
l’IPS, di poter intraprendere contemporaneamente anche un tirocinio,
ovvero di poterne continuare uno già iniziato. Ma questo non è previsto
dalla metodologia IPS: chi lo intraprende non può contemporaneamente
fare un tirocinio; anzi, se già ne sta facendo uno, prima di
intraprendere l’IPS deve sospenderlo.
In questo senso si sostengono, da parte del DSM, sostanzialmente due tesi:
- affinché l’IPS possa raggiungere il suo fine, ossia un contratto di
lavoro, occorre che la persona dedichi alla fase di ricerca e
preparazione almeno qualche ora al giorno per diversi giorni alla
settimana; ciò non sarebbe compatibile con un contemporaneo impegno in
un tirocinio, che generalmente prevede a sua volta circa venti ore alla
settimana, almeno se si vuole arrivare a un’indennità di 200 o 250 € al
mese;
- più in generale, si sostiene che il modello IPS deve essere applicato
così com'è, perché è stato sperimentato che così funziona.
In realtà, a proposito della prima tesi, può osservarsi quanto segue.
Già da tempo, e giustamente, il DSM combatte quella mentalità
assistenziale e tutelante, molto radicata, che ben si riassume nella
parole “so io quel che è meglio per te”, cercando di promuovere invece,
almeno nell’ambito dei percorsi di inserimento lavorativo, il
“protagonismo responsabile dell’utente” (3). Ma, dando per scontato che
l’utente non possa essere in grado di fare due cose insieme, quel “so
io quel che è meglio per te”, scacciato dalla porta, rientra dalla
finestra, travestito da “io so che non ce la fai a fare due cose
insieme”.
Semmai, a nostro giudizio, consentendo a una persona di intraprendere
contemporaneamente due diversi percorsi, si rischia di togliere posto
ad altri in uno dei due o in entrambi. Si prospetta allora un’altra
ipotesi da proporre e discutere col DSM. Per i soli utenti che non
possono rinunciare a un tirocinio e soprattutto alla relativa indennità
per motivi economici e di conseguenza restano esclusi dall’IPS, si può
ipotizzare un gettone di presenza alla fase di ricerca dell’IPS,
quantificato intorno ai 200 o 250 €, cifra cui ammonta l’indennità di
partecipazione di un tirocinio di circa venti ore settimanali, gettone
da erogarsi a due condizioni:
- attestazione, tramite ISEE o documento equivalente, di una situazione
economica che non può fare a meno di un’erogazione, in forma di
indennità di partecipazione o altro (4);
- sottoscrizione di un patto, fra l’utente e l’istituzione (5), secondo
il quale l’utente deve impegnarsi nella fase di ricerca del lavoro come
in un lavoro. Val la pena di rilevare che la sottoscrizione di un patto
in questi termini potrebbe essere considerata anche in tutte quelle
situazioni in cui l’utente in IPS non percepisca il gettone di
presenza. È vero che in queste situazioni non c’è il rischio che
l’utente percepisca una cifra di denaro pubblico senza il corrispettivo
impegno nel percorso IPS, ma è anche vero che un utente che non si
impegna nel percorso IPS toglie il posto ad altri, considerato che le
risorse umane, ossia le persone incaricate dell’IPS presso i CSM, sono
limitate.
Secondo la metodologia IPS, è l’utente che decide di intraprendere il
percorso e non spetta a nessun operatore del CSM di selezionarlo o
indirizzarlo, o almeno così dovrebbe essere (6). Allora, se giustamente
si lascia all’utente la titolarità della scelta, si devono anche
esigere da lui comportamenti responsabilmente conseguenti a questa
scelta.
NOTE
1 Nessuno Resti Indietro è un’Associazione di Promozione
Sociale iscritta al Comitato Utenti, Familiari e Operatori (Cufo) del
Dipartimento di Salute Mentale. Da quest’anno collabora con la
redazione de Il Faro nel quadro dei Progetti Prisma (Promuovere e
Realizzare Insieme la Salute Mentale Attivamente).
2 Più raramente i corsi di formazione prevedono un’indennità ed
è, comunque, più bassa di quella prevista dai tirocini, formativi o
inclusivi.
3 Queste parole hanno dato il titolo al penultimo workshop sugli Inserimenti Lavorativi.
4 Pur con il seguente limite: l’ISEE attesta una situazione
relativa, più che al singolo, al nucleo familiare, almeno se la persona
ancora convive coi genitori. Chi è figlio di persone benestanti rischia
dunque di essere escluso dal beneficio economico, benché anche una
persona in questa situazione abbia bisogno di strumenti, anche
economici, per autonomizzarsi dalla sua famiglia.
5 Da parte dell’istituzione, il firmatario del patto potrebbe
essere uno degli operatori di quella mini équipe che dovrebbe aver
elaborato con l’utente il suo progetto individualizzato.
6 Di fatto poi le cose vanno spesso diversamente. Siamo al
corrente di molti casi in cui chi partecipa all’IPS è stato selezionato
e indirizzato dal CSM o dalla mini équipe, anche perché gli opuscoli
informativi che erano stati approntati in coincidenza del penultimo
workshop sugli inserimenti lavorativi, “Protagonismo e responsabilità
dell’utente negli inserimenti lavorativi”, non sono ancora nella
disponibilità degli utenti, almeno per quel che ci risulta. Ne potrebbe
derivare, come caso limite, che venga informato sull’esistenza dell’IPS
solo quell’utente che è già stato selezionato per l’IPS stesso.
7 Presidente di Nessuno Resti Indietro.
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IL MONDO NON POTRÀ MAI FARNE A MENO
LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani
Dopo il verbo “amare” il verbo “aiutare” è il più bello del mondo.
Anonimo
L
a solidarietà e l’aiuto sono dei temi troppo importanti e questa volta
il gruppo di Narrativa si è trovato in serie difficoltà nel parlare di
questo tema. Nessuno di noi riusciva a mettere insieme dei pensieri che
potessero spiegare cosa sia per ognuno la solidarietà e l’aiuto e tutti
convenivamo nell’affermare solo che il mondo non potrà mai farne a
meno.
Ad uno di noi, Maurizio, è venuto in mente che alcuni musicisti
contemporanei hanno provato con testi e melodie ad esprimere ciò che si
prova e si pensa dinanzi a questo tema grande che tocca la parte più
interna e 'umana' di ciascuno. Abbiamo provato a fare un elenco dei
brani che ci venivano in mente e 'ritagliato' delle frasi che sentivamo
rappresentative:
Il mondo che vorrei - L. Pausini
“…Come si fa a rimanere qui
Immobili così
Indifferenti ormai
A tutti i bimbi che
Non cresceranno mai
Ma che senso ha ascoltare e non cambiare…”
Si può dare di più - Tozzi/ Morandi/Ruggeri
“…E se parlo con te
e ti chiedo di più
è perché te sono io
e non solo tu. […]
come fare non so
non lo sai neanche tu
ma di certo si può
dare di più.”
L’amico è - Dario Baldan Bembo
“…È l’amico è
il più deciso della compagnia
e ti convincerà a non arrenderti
anche le volte
che rincorri l’impossibile
perché lui ha
l’amico ha
il saper vivere che manca a te
ti spinge a correre
ti lascia vincere
perché un amico punto e basta è.”
Imagine - John Lennon
Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world
Mi fido di Te - Jovanotti
“..Rabbia stupore la parte l’attore
dottore che sintomi ha la felicità
evoluzione il cielo in prigione
questa non è un’esercitazione
forza e coraggio..”
Abbiamo analizzato i testi delle canzoni e da questi sono scaturite le seguenti osservazioni:
Non è semplice ascoltare le richieste di aiuto. A volte siamo troppo
concentrati su noi stessi, badiamo a noi e non al nostro prossimo...
Anche a quello più vicino.
Luciano
La condivisione è importante… l’uomo è un essere sociale ed il discorso
sull’autonomia mi sembra esasperato ultimamente. È una bugia
l’autonomia, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che sia solidale con noi
e ci comprenda anche quando non chiediamo aiuto.
Alessandro
Io ho tanti amici, ma quelli importanti sono pochi e li sento spesso al
telefono anche se non posso vederli spesso... Sono quelli che mi
spingono ad essere una persona migliore, sono quelli che mi aiutano…
Elisa
I sintomi della felicità… Li cerco talvolta e non li trovo… Ma lo
sguardo di qualcuno che mi accetta mi fa star bene e mi aiuta, questa è
solidarietà per me.
Davide
Componimento di gruppo sulle parole dell’aiuto e della solidarietà
Ascolta non passare indifferente.
Non si sa come aiutare,
ma la disponibilità ad esserci
non deve mancare.
Incoraggia chi è indifeso,
un sorriso spesso è tanto atteso.
Dona ciò che puoi,
la vita, prima o poi, restituisce tutto
può sollevarti anche dal periodo più brutto.
Immagina un mondo solidale:
se lo immagini, si può avverare.
La felicità non è un sintomo lontano,
arriva, basta tenderle la mano.
I Narrativi
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SOLIDARIETÀ E SALUTE
Centro Diurno di Casalecchio di Reno
● Essere solidali con gli altri può essere un aiuto per farci stare
meglio; fare dei favori agli altri può essere un bene per la nostra
salute.
● Noi dovremo essere capaci di accettare e ospitare nel nostro paese
gente bisognosa che proviene dal Vicino Oriente e principalmente dalla
Siria perché quello è un paese in piena guerra civile. I Siriani sono
molto bisognosi di attenzioni.
● La solidarietà ha un grande valore nel sostenere chi è cagionevole della propria salute.
● La solidarietà per me è aiutare il prossimo e questo ci aiuta a far stare bene di salute.
● La solidarietà è riuscire a cambiare i giorni di chi stai aiutando e
riuscire a colorare di un colore intenso i giorni più grigi.
● La solidarietà la intendo come una forma di aiuto ad altre persone;
la salute la intendo come stare bene, a proprio agio con il corpo.
● La solidarietà è fare in modo che la gente che soffre per problemi di
salute possa rendere effettivo (almeno in parte) il detto latino mens
sana in corpore sano.
● La solidarietà non è comprare a chi ha fame un pesce ma insegnargli a pescare.
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E GLI ANZIANI? CHE DIRE…
Associazione UmanaMente
Il laboratorio di scrittura di UmanaMente questa volta ha preferito
lavorare su un tema diverso: “La terza età”. L’argomento, senz’altro
molto interessante, è stato però già affrontato in passato sul Faro. In
accordo con gli autori pubblichiamo una selezione dei testi prodotti,
privilegiando quelli che comunque presentano attinenza col tema di
questo numero: “Solidarietà e aiuto”.
Brainstorming sulla terza età
Oriano: quando si parla di terza età per me si parla soprattutto
della saggezza degli anziani e dei consigli che possono dare ai più
giovani.
Stefania: a me viene in mente mia nonna e la coerenza di quello
che aveva detto e fatto nella sua vita. Aveva detto: se devo rimanere
ferma in un letto la faccio finita e quando le hanno diagnosticato un
tumore l’ha fatta finita, preparando anche tutti i mucchietti di
risparmi da lasciare ai parenti.
Marco: associo il periodo della terza età alla pensione. Penso
ai pensionati autosufficienti e a quelli che invece hanno bisogno di
un'assistenza dignitosa non solo in terza età, ma anche in quarta età.
Penso poi alla terza età che possono avere i pazienti psichiatrici.
Maria: gli anziani, se ancora in buona salute possono dare una grande mano ai figli se hanno dei bambini per l’educazione.
Oriano: mi ha colpito quello che ha detto Stefania perché ho
conosciuto persone che hanno avuto lutti in famiglia e anziani che
l’hanno fatta finita anche perché prendevano pensioni da 200-300 euro
al mese.
Stefania: a me è venuto in mente che mia nonna mi ha educato e
cresciuto, che mi ha insegnato a cucinare, mi ricordo che mi faceva
dipanare la lana dei materassi. Quando era primavera si andava a
raccogliere radicchi selvatici nei campi che io scambiavo per
piscialetti. Per tenermi buona mi faceva tirare la sfoglia.
Marco: mi hanno messo grande tristezza gli interventi degli
altri: problemi di salute, di reddito ed equilibrio mentale. La terza
età come un periodo di problematiche e come un epilogo brutto della
vita.
Antonio: invecchiare non è un male, ma un bene perché i vecchi
possono essere un bene per i giovani affinché non commettano delle
sciocchezze. Posso chiedere consigli agli anziani saggi e attraverso il
loro aiuto maturare e scegliere una buona strada. È però vero che
esistono anche anziani già morti e apatici. Dipende da cosa hanno fatto
nella vita e se sono riusciti a raggiungere la maggior parte dei loro
obiettivi, altrimenti saranno solo anziani depressi.
Stefania: se in terza età hai già raggiunto tutti gli obiettivi allora diventi apatico.
Cristian: non è vero. Scopo della terza età è l'accettazione della morte.
Stefano: errare humanum est, perseverare autem diabolicum...e
“Chi dice ma, cuore contento non ha, però chi ma non dice, non è
felice”... Io spero solo di arrivarci alla terza età.
Nadia: molto spesso arrivare alla terza età vuol dire imparare a
convivere con il corpo che si degrada, con le malattie, anche quelle
peggiori come l’Alzheimer e il Parkinson.
Diana: anche a me piacerebbe arrivarci un giorno alla terza età.
Il mio pensiero è che ho un gran rispetto degli anziani perché da loro
puoi imparare molte cose. Occorre rispetto e anche pazienza. A volte la
loro mente può essere come quella di un bambino e occorre pazienza per
stare con i bambini che però danno molta gioia.
Giovanni: penso al senso del tempo nella terza età, al fatto che
rallenti, che pensi di più e agisci di meno. Occorre analizzare
Giovanni Pascoli e la sua raccolta di poesie Myricae che ha ben svelato
il senso del tempo nel rapporto con la natura. Leopardi nella poesia
Ginestra descrive la nascita del fiore del deserto dopo la morte
portata dalla colata lavica del vulcano. Dalle ceneri nasce una nuova
vita.
Francesco: sarebbe interessante vedere da un punto di vista storico come è cambiato il ruolo dell’anziano nel corso della storia.
Marco: mi trovo d’accordo con il discorso del degrado del corpo.
La vita è dura e non si sa quando finirà. In terza età si fa un
bilancio di quello che si è fatto e di quello che non si è riusciti a
fare
IL RUOLO E LA VISIONE DELL'ANZIANO NEL CORSO DELLA STORIA
Francesco
D
iventar vecchi oggi è un destino comune alla maggioranza delle persone.
Si nasce, si cresce, si invecchia, si muore. Non è andata sempre così:
nei tempi passati ed anche nel passato più recente a raggiungere l’età
adulta non erano in molti e l’età media della vita era di molto
inferiore a quella odierna. L’aspettativa di vita da fine Ottocento ad
oggi si è raddoppiata.
L’immagine che si ha dell’anziano cambia di tempo in tempo, di luogo in
luogo ed oscilla tra la visione del vecchio come un peso o come un
detentore di saggezza e sapienza. Così, se ad Atene egli è escluso dal
governo e nessun aiuto è previsto da quella formidabile democrazia per
chi raggiunge quell’età, a Sparta la società dei guerrieri sceglie la
gerusia quale assemblea che detiene il potere più alto dello Stato,
formata, come indica l’etimo stesso della parola, da anziani. Anche
nell’antica Roma questa ambivalenza di vedute continua a sussistere
lasciando spazio a posizioni contrapposte. Seneca insiste sulla
‘giovinezza’ dello spirito per affrancarsi dal decadimento fisico ed
individua nella filosofia lo strumento per custodire tale qualità,
Cicerone invece stronca la vecchiaia come il peggiore dei mali.
Nel Seicento e nel Settecento la frequenza e la diffusione delle
epidemie in Europa, insieme alle pessime condizioni igienico-sanitarie
ed alla povertà determinarono le condizioni per una vita media molto
bassa, intorno ai trent’anni, con la conseguenza di avere società
estremamente giovani. È di allora la consuetudine di tenersi a fianco
una figlia nubile che accudisce l’anziano, il quale conserva il suo
potere mantenendo la proprietà dei beni o garantendosi con dettagliati
contratti la propria assistenza prima di cedere ai figli i propri beni.
Con l’Ottocento, dopo la rivoluzione industriale, si ha un allungamento
della vita media ed un’esplosione demografica che porta l’Europa dai
centottantasette milioni di inizio secolo ai trecento milioni del 1870.
Si assiste così alla comparsa dei primi ospedali e degli ospizi. Chi
svolge un ruolo primario nell’assistenza è solamente la Chiesa e
qualche organizzazione di carità, gli stati con i loro governi sono del
tutto assenti.
L’ideologia del Ventennio fascista assesta un ulteriore colpo
all’immagine ed al ruolo dell’anziano: il mito della giovinezza
preclude ogni suo possibile apporto alla vita sociale.
Dopo la seconda guerra mondiale la diffusione del benessere introduce
un sempre maggior numero di anziani fino ad arrivare alla situazione
odierna in cui il numero di over cinquanta ha superato quello dei
giovani sotto i cinquanta: siamo in una società in cui l’anziano non
può essere più relegato in un ruolo secondario e marginale.
TERZA ETÀ
Signora vuole sedersi? A volte quando
mi trovo in autobus mi sento rivolgere questa frase da qualche giovane.
In quel momento mi sento a disagio, perché la persona che l’ha
pronunciata ha ‘visto’ la mia vecchiaia (ne ho quasi sessantotto, di
anni), ma io, a parte il mio involucro, non mi sento vecchia e i miei
occhi sono sempre giovani: vedono sempre allo stesso modo. In quanto
all’invito sono contenta che ci sia ancora qualcuno ben educato. In
questi tempi siamo in molti ad essere anziani e molti con problemi
economici. Per fortuna ci sono delle associazioni no profit che qualche
aiuto lo danno ed anche le chiese fanno la loro parte. Quando si va in
pensione i nostri figli ci affidano i loro bambini, così si
alleggerisce il loro fardello lavorativo, anche se dopo, magari, dicono
che li viziamo. Poi penso anche che i nonni vengono ripagati dai
nipotini con le loro tenerezze e che gli anziani hanno bisogno di
tenerezze. La vecchiaia, purtroppo, proprio quando potremmo stare bene,
qualche volta ci regala qualche malattia insanabile tipo l’Alzheimer o
un tumore, oppure essendo vicino al ‘capolinea’, alla morte, ci
lasciamo turbare l’umore pensandoci su.
A volte arriva a casa un opuscolo da un centro sociale che allieta la
vita degli anziani con varie iniziative quali cene, pranzi, balli,
teatro e tutto con prezzi modici. Anche l’iscrizione costa poco. Io,
tempo addietro, iscrissi me e mio marito a questo centro senza andarci
mai, perché lui non ne volle sapere, mentre a me avrebbe fatto piacere
farne parte. Oltre ai balli, cene eccetera, si fanno anche delle gite
turistiche. Certamente tutto questo, anche se ci sono prezzi bassi, non
è accessibile a chi ha problemi economici.
Maria Carmela
Spenderò poche parole per quel che
riguarda gli anziani. Dal sessantesimo anno di età, età in media per la
pensione, gli anziani che cominciano in quel periodo ad essere tali, si
sentono felici, perché hanno coronato la vita lavorativa e vedono i
figli che con le loro famiglie crescono e prolungano la loro progenie
coi nipoti. Mah! In realtà i problemi non finiscono e così nuove
difficoltà si profilano all’orizzonte! Studiai, quando ero
all’Università che esistono varie tappe nella vita di ciascuno (che si
definiscono con le varie età), quella della vecchiaia è l’ultima prova
tra quelle che si sono succedute appunto durante la vita. In questa, a
mio avviso si dovrebbe cominciare ad accettare l’idea della morte e, a
ciascuno il proprio ‘credo’; non nel rifugiarsi in questo, ma a
liberarsi dai pensieri che hanno da sempre serrato la mente e il corpo
con mille affezioni. Sono gli interessi, le passioni, che sprigionano
questa libertà che può (e molto probabilmente lo farò), continuare ad
aiutare sia loro che le loro famiglie, nondimeno le loro posterità.
Così la memoria storica di ciò che avranno conseguito con il loro
operato non si perderà nella discendenza e continueranno a rivivere
anche dopo la loro morte! Per saper morire bisogna saper vivere. Così
sia.
Cristian
uando
si parla di ‘terza età’, si pensa alla parte senile della nostra vita,
non a un’età specifica e si pensa che sia composta da saggezza, perdita
di vitalità e carica di tutti i malanni che ci ha donato la nostra
vita. Ma non è così. Nella senilità ci si può ritrovare il tempo per
fare le cose che in gioventù non ci è stato concesso di fare, con più
saggezza e stimolo per la conoscenza, senza farsi confondere dalle cose
che ci circondano. All’inizio del secolo scorso si pensava all’anziano
in casa a riflettere saggiamente sul suo passato ed a educare i nipoti
con il rigore che i genitori non riuscivano a dare, ma ora quando si
parla di anziani si pensa al nonno che va a prendere i nipotini a
scuola, dopo un pomeriggio passato in compagnia di altri anziani in
qualche centro sociale, che partecipa alle gite organizzate da
quest’ultimo e va a ballare in compagnia degli amici. Non lo si guarda
più come persona inerme, ma come persona attiva che ha trovato il modo
di dar sfogo alla sua diversa vitalità con vari interessi. Gli anni
della senilità vengono vissuti dall’anziano con le doti che ha
acquisito con l’esperienza nel tempo della gioventù. Con più calma,
comprensione e profondità. È in questa sua profondità, maturata nel
tempo, che si ritrova l’accettazione verso la società che lo circonda,
diventandone parte integrante e attiva e dimostrando che ha ancora
molto da dare e forse anche più, vista l’esperienza e la saggezza.
L’età senile si può quasi considerare come la fase in cui il nostro
essere si va a completare grazie all’esperienza e la saggezza
acquisita, affrontando la vita con calma, senza l’irrequietezza della
gioventù, l’inesperienza dell’infanzia e le ingiurie degli anni. Le
persone che sanno dar valore agli anziani sanno che in loro non trovano
un peso morto, ma una persona attiva che ha dentro di sé un ‘libro di
saggezza’ da cui imparare ad affrontare la vita. Chi non li sa
apprezzare capirà poi quale ‘tesoro’ ha avuto a fianco senza dargli il
giusto valore. La loro saggezza, moralità, esperienza e la capacità di
non farsi togliere i sogni e le speranze dal tempo che passa, mostra la
loro forza interiore. Ma quando noi giungeremo a quell’età avremo la
stessa forza interiore? Questa nostra vita frenetica non ci permette di
riflettere su come saremo noi in età senile. Avremo ancora dentro di
noi l’energia vitale che ci porterà a vivere giorno dopo giorno con
saggezza ed esperienza? Sapremo far tesoro delle esperienze che viviamo
quotidianamente per gli anni che ci aspettano, in cui possiamo
permetterci di prendere la vita con il suo giusto ritmo, senza doverle
correre dietro? Sapremo colmare il nostro essere di quella cosa che in
gioventù abbiamo cercato avidamente e che riusciremo a trovare solo con
il tempo, in età senile? E quando giungeremo a quell’età, non per
questo ci lasceremo andare, ma rallenteremo il nostro ritmo per
riflettere su quanto tempo ci abbiamo messo per raggiungere quella
saggezza semplice che in gioventù pensavamo fosse tanto complessa. Ma è
semplice, ed allora diamo ragione ai nostri nonni, quando ci dicevano
che la vita è una cosa semplice. Non ha bisogno di tanti giri di parole
per essere spiegata. In vecchiaia veniamo ‘illuminati’ da questa
semplice verità, che ci fa vivere i nostri ultimi anni con serenità,
affrontando i giorni che passano con saggia calma, prendendoli senza la
frenesia del mondo di oggi.
Stefy
In passato, quando ancora lavoravo
fuori casa, le rarissime volte che pensavo alla mia terza età non lo
facevo certo con pessimismo. Pensavo al tempo libero che avrei avuto
tutto per me. Immaginavo di fare qualche viaggio specialmente
all’estero. Una volta domandai a una signora una località che le era
piaciuta in assoluto, lei mi rispose: San Pietroburgo. Così mi fece
nascere la voglia di andarci. Qualche viaggio poi l’ho fatto, ma non in
quel luogo. Sono stata ad Aosta, all’isola d’Elba, a Padova e a
Venezia, così non ho speso troppi soldi. Ho impiegato un po’ di tempo
anche a ricamare, a tentare di realizzare dei lavoretti con la pasta di
sale, a leggere qualche libro. Il tempo che è passato dalla gioventù
alla terza età mi è sembrato lunghissimo e me lo sono goduto. Il lavoro
e la mia famiglia mi hanno gratificata tantissimo. Molte volte si sente
dire da qualcuno che la vita è breve, che è ‘un’affacciata alla
finestra’, ma per me non è stato così. Ultimamente non sto bene in
salute, ma spero di arginare al più presto il disturbo che ho, anche se
in passato qualcuno mi ha detto: “Signora, non cerchi di arrampicarsi
sugli specchi”. Forse se avessi dei nipotini avrei un motivo in più per
cercare di guarire.
Maria Carmela
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DAL DIARIO DI BORDO DELLA VELA
La vela si confonde nei flussi ventosi
della realtà e così procede per adesso come una candela al vento, le
rotte che portano ai nostri sogni sono da ricercare e quando saranno
svelate le percorreremo con fermezza e coscienza dell’unicità della
nostra esperienza. Più che impegnati in un mare tempestoso barca ed
equipaggio sembrano essere ancora fermi e si preparano per varare la
barca e salpare. Qualcuno si attarda nella vita del porto e questo
oltre a rappresentare il disagio e la sofferenza della situazione
attuale è anche un luogo 'misterioso'. Questo perché teatro di circoli
viziosi di esistenze al margine della vita a terra. Quindi
rappresentiamo quest’ultima come la normalità, il porto come
interfaccia tra situazione di disagio e normalità e la vela e il mare
come il percorso liberatorio che intendiamo seguire. Sono interessanti
sia la promiscuità che l’operosità di questo porto in attesa del mare
che sarà instabile e cangiante come le nostre esistenze.
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Dall’ennesima esperienza di day hospital o ricovero: lo stesso
sentimento di VUOTO, di abbandono. Il bisogno di FARE insieme e non
solo PARLARE ha accomunato e riunito nel 2014 di nuovo un gruppo: ci si
era già provato nel 2011 purtuttavia e nonostante le porte chiuse, il
gruppo vive, si estende e si realizza in esperienze mutualistiche, di
condivisione di tempo, amicizia e risorse, scambio di esperienze, di
informazioni, l’accompagnarsi ed aiutarsi… e la valorizzazione
individuale… Durante il 2015 da altre simili esperienze di autogestione
del disagio psichico provengono altre persone interessate ad allargare
la sfera relazionale.
Il confine che si delinea tra esperienza di disagio e ambito
psichiatrico è il limite all’autorealizzazione, intesa come superamento
della disistima e dell’isolamento con tutte le variabili di intensità e
complessità. La consapevolezza dell’unicità e particolarità del
percorso da intraprendere ha portato alla necessità di un confronto e
un interscambio gestibili attraverso un’ottica di gruppo. Così il
gruppo si allarga e si restringe, alcuni entrano a farne parte, altri
li perdiamo, ma non li dimentichiamo… Nel 2016 ci formalizziamo in un
gruppo di auto mutuo aiuto (AMA) il nome è La Vela,
anche se prima siamo un’esperienza di umana mutualità. Quindi non ci si
riunisce solo in incontri quindicinali pianificati per l’intero anno in
sala Roncati, nell’ex manicomio...
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INSIEME NEL BENE O NEL MALE
Stefy
S
ono in sala d’aspetto del reparto oncologico e sto aspettando che
finisca la flebo per alimentarti. Era solo a metà! Ho fatto perfino in
tempo a fare la spesa! Ma a che serve se poi tu non riesci a deglutire
il cibo. Tutto è iniziato che sembrava una semplice gastrite. E giù a
curare questa gastrite che non passava mai. Poi la dottoressa ha deciso
di farti fare una gastroscopia e lì hai avuto la tremenda diagnosi:
tumore all’esofago. hai iniziato così a fare tutte le analisi del caso
ed è risultato maligno. L’unica cosa ‘buona’ è che è fermo lì. Ma con
il passare del tempo fai sempre più fatica a deglutire e lo stomaco ti
fa sempre più male. Così ogni giorno veniamo qui in ospedale a fare le
flebo per alimentarti e quelle antidolorifiche, in attesa che venga
decisa la data per estirpare questo ‘essere maligno’ che ti succhia la
tua linfa vitale. Ne abbiamo passate tante insieme, con il nostro amore
che faceva da collante a tenerci uniti e ora che potevamo essere sereni
e avevamo raggiunto il nostro equilibrio, arriva il destino a mettere
alla prova il nostro volerci bene, nel bene o nel male. Questa cosa non
la vivi solo tu che ce l’hai addosso, ma anche io e con angoscia,
perché non posso farci niente, se non piangere di nascosto da te per
non farti soffrire di più. Questa cosa mette alla prova tutto: la
nostra pazienza, la nostra forza, la nostra comprensione uno per
l’altro, ma soprattutto la voglia di combattere uniti, come sempre.
Ecco! Hai finito e adesso mi raggiungi con il tuo sorriso che vuol
sfidare la morte! Mi dai un bacio e ironicamente mi dici: “Ecco, amore,
anche per oggi ho già mangiato!”… Sorrido alla battuta, per quel tuo
modo di prendere questa cosa con una punta di leggerezza. Ci avviamo
verso l’uscita, che domani sarà un’entrata, finché non decideranno cosa
fare. Ma comunque sempre insieme…
Dopo due mesi ti hanno operato e tolto quell’ ‘essere maligno’ che era
cresciuto dentro te. Ma sono avvenute delle complicazioni e ti hanno
dovuto rioperare. È da due settimane che ti tengono in coma
farmacologico e i dottori dicono che non ti possono più operare, perché
moriresti sotto i ferri. Così hanno deciso che ti terranno in coma
farmacologico, fino a che il tuo corpo non cederà alla morte. Ma dimmi:
come posso fare ad abituarmi alla tua morte? Dopo una vita passata
insieme, la ‘grande signora’ ci separerà! Ho vissuto questa vicenda con
sentimenti gravi e più ti aggravavi, più i miei sentimenti si facevano
pesanti. Ora devo solo attendere la conferma della tua morte. Quando
sono venuta a trovarti in ospedale e ti ho portato il libro di Terzani,
Un altro giro di giostra, eri sereno. Spero che sia un altro giro di
giostra anche per te. Un giro in cui non cadrai vittima dell’alcolismo
e non farai gli errori che hai fatto in questa vita. Che sia per te
migliore di quello che hai passato. Io, intanto, cerco di adeguarmi
alla tua mancanza e mi addolora non poterti vedere un’ultima volta.
Questa situazione mi riempie di angoscia e dolore che non so
descrivere. Le mie lacrime sono talmente tante che non riescono a
sgorgare dai miei occhi e l’urlo di dolore che vorrei fare mi si è
fermato in gola. Ho sempre lo sguardo triste e neanche i falsi sorrisi
riescono a mimetizzarlo. Di noi due ricordo i momenti felici. La nostra
non è stata una storia superficiale, perché ci sono stati i momenti di
gioia e i momenti di tristezza, vissuti sempre insieme, senza mai
lasciarci. Mentre il dolore perfora il mio cuore come mille chiodi,
ripenso a quando ci siamo conosciuti sull’autobus e io mi ero fatta
male a una mano. Tu, sorridendo, mi hai detto: “Ti do un bacino, che ti
passa il male” e poi mi hai invitata a sedermi accanto a te. Abbiamo
legato subito e ci siamo scambiati il numero di cellulare. Poi dopo
vari incontri, sono venuta a vivere con te. I momenti felici e poi le
discussioni. Quel tuo tenermi sul tuo petto, abbracciati, finito di
fare l’amore, contenevano tutto l’amore che c’era tra noi. Quando ero
ricoverata mi telefonavi quasi tutti i giorni e quando mi sei venuto a
trovare, in clinica, non riuscivamo a lasciarci, e hai rischiato di
perdere l’autobus. Come ti piaceva il mio modo di cucinare! Sono queste
le cose che voglio ricordare di noi, non le discussioni. Tanto già so
che mi devo abituare all’idea che ti perderò e potrò solo ricordarti
così come eri, testardo, impulsivo e spericolato nel vivere, ma capace
anche di tanta tenerezza. Ma sempre con quel sorriso sulle labbra.
Siamo stati sempre insieme, nel bene o nel male, nulla ci ha separati. Solo ora la ‘grande signora’ ci verrà a dividere.
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SOLA AL SOLE
Opola Resonive
E
ra sola, poverina, non riusciva a vedere niente, sulla spiaggia sotto
il sole, accecata da tanta luminosità, così decise di trasferirsi nel
suo capanno dove aveva preso casa per questa vacanza sull‘isola,
circondata solo da palme e sabbia. Erano anni che desiderava andare a
vivere in mezzo all’oceano, dove non l‘avrebbe disturbata nessuno.
L‘isola era disabitata, perciò aveva portato con sé le provviste di
cibo per un mese, dopo di che sarebbero passati a prenderla.
Era sola, nessun essere umano, sola al sole. Perché voleva fare
un‘esperienza così drastica? Forse perché non riusciva a girare per la
sua città natale, dove viveva, senza essere fermata dal suo pubblico,
che l‘amava profondamente. Era una cantante di successo. Per questo che
aveva pensato di trasferirsi per un periodo limitato in un posto
isolato, aveva comunque un telefono satellitare col quale rimaneva in
contatto quotidianamente con la sua famiglia, un marito e due figlie
già adolescenti, che avevano condiviso questo suo desiderio.
Voleva scrivere una canzone sulla solitudine, uno sguardo verso la
propria interiorità, un conoscersi meglio per amarsi di più... Scriveva
sempre canzoni d‘amore, ma la sua casa discografica le aveva chiesto di
cambiare con un argomento molto impegnativo.
Ora lei è sola, riparata nella capanna, sta suonando la chitarra, pensa
che anche se non riuscirà nella realizzazione di una canzone
all’altezza delle aspettative, il ricordo di questo periodo rimarrà
impresso nella sua vita. Lei ama vivere, lei ama la natura, l‘isola è
piccola, non c’è gente che mormora, non c‘è nessuno, si guarda attorno
vede solo la spiaggia, il capanno e l‘oceano sconfinato. L‘isola è di
venti metri quindi è molto piccola e fa parte dell‘arcipelago delle
Figi.
La famiglia sta a Los Angeles in America, sono parecchie ore di volo...
Ora chiama casa, tutto bene, marito e figlie; il mondo va avanti anche
senza di lei, meglio così, pensa, tutti siamo importanti ma nessuno è
indispensabile! Uno sguardo alla vita quotidiana, ma ecco passare
davanti un serpente velenoso! O no? Forse dovrebbe essere spaventata,
ma che gusto c‘è? Se non ci sono altri abitanti sull‘isola, nessuno la
può sentire. Un serpente? No, solo un ramo... Tutto il sole che ha
preso deve averle fatto uno strano effetto… forse un’insolazione, o un’isolazione
(sola sull‘isola). Parole, a chi? Pensieri che scorrono veloci come la
pioggia che quando cade nelle isole viene portata dai cicloni
tropicali, ma non è la stagione.
Provviste molte, non morirà certo di fame, ha un piccolo generatore che
le fornisce l‘energia elettrica per le luci e per il congelatore. Fa
caldo! Ma è lì per abbronzarsi, o cosa? Cosa farà? Pensa ad amare la
natura e le piante... Sull‘isola non le pare ci siano animali, neanche
insetti, in particolare le odiatissime zanzare!
Corre il tempo veloce fra notte e giorno, giorno e notte. Decide di
chiamare casa, poi si riperde nel nulla, o il nulla ormai è diventato
tutto per lei. Paure, pause, si alternano tristezza, solitudine, amore,
per chi? Dolore? Psicoterapia? Cura, lotta contro un destino che le
pone davanti sempre ostacoli e il superarli è un suo grande desiderio.
Desiderare, convincersi che si riesce a superare tutto con pazienza,
perseveranza, costanza e fiducia. Che ore sono? Ho chiamato casa oggi?
Ha chiamato, ma non riesce a ricordarlo. Uno sguardo profondo su sé
stessa, una luce, il sole le dà luce, tanta luce e calore, ormai è
cotta, bella vacanza, ma non riesce a comporre, non ha scritto niente,
pensa, pensa...
"Amore cortese a cui nulla sfugge", i pensieri si rincorrono, è
difficile rimanere soli; un pensiero profondo la coinvolge, questa
esperienza ha accresciuto l‘amore per la sua famiglia, un legame forte
che la rende più sicura. Amici! Ha bisogno di amici, quanto tempo è
passato? Un mese... Ormai è finita! Si sono susseguiti tanti pensieri
che l‘hanno convinta a non sentirsi costretta a cercare sempre il
meglio, ma ad essere sé stessa, con rispetto verso gli altri. La
solitudine non è una malattia, ma un momento che fa parte della nostra
vita. Rincorrere gli altri va bene? No, percorrere il tragitto assieme,
ma non farsi trascinare... Vuole accettare gli altri come sono, senza
cambiarli.
Vacanza finita, la vengono a prendere: canzoni scritte, zero... amici
conosciuti sull‘isola, zero... feste, zero... profonda conoscenza di
sé, dieci... conoscenza del sole, dieci... Sola al sole, ma con tanti
pensieri.
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MISSIONE SPECIALE
Onirilìk
Erano le undici di sera e mentre me ne
stavo tranquillo sul mio letto a leggere, sentii bussare alla porta:
“Raffaele, posso entrare?”. Era la voce del dottor Marcheselli, il
primario di villa Montebianco, un uomo sulla sessantina dall’aspetto
piuttosto comune. Sin dal primo incontro, avuto qualche settimana
prima, mi avevano colpito i suoi modi estremamente affabili e gentili.
Dopo la stretta di mano, cosa che analizzo sempre nei dettagli perché
considero molto indicativa del carattere e dello stato d’animo delle
persone, chiese se potevo dedicargli qualche minuto del mio tempo.
Disse che era piuttosto soddisfatto di come stavano procedendo le cose,
e mi disse di stare tranquillo, perché tutto stava andando davvero
benone. Emanava un non so che di orgogliosa soddisfazione, a mio parere
immotivata, che mi mise un po’ in ansia… beh, tutto benone sembrava un
po’ eccessivo, e dirmi di stare tranquillo in genere è proprio la
maniera migliore per farmi innervosire. “Tutto ok?”, chiese
Marcheselli. “Ok”. risposi. ”Posso fare entrare il dott. Ottone?”. “Ah,
prego” dissi io.
Il dott. Ottone era il vice primario, luminare della scienza in
questione, sempre elegante ed eccentrico. Il dott. Ottone era
considerato uno dei migliori nel suo campo, una specie di luminare.
Quando mi capitava di incontrarlo non mancava mai di condividere
amichevolmente la sua variopinta cultura, con simpatia e semplicità.
Una cosa strana era però che mentre la stretta di mano di Marcheselli
era sempre forte e rassicurante, quella di Ottone era stranamente un
po’ troppo flaccida e freddina. A volte poteva inquietare un po’.
Il problema comunque non era questo. Il mio problema era sapere cosa
volevano da me questi due alle undici di sera. Cosa fanno, il turno di
notte? Pensai a qualche noia in arrivo.
Dopo esserci accomodati Ottone, saltando ulteriori convenevoli, iniziò ad illustrarmi la questione.
“Dunque - disse - è pervenuta qui a villa Montebianco la richiesta da
parte del Ministero della Difesa, di valutare se tra gli ospiti ci
siano delle persone dotate innanzitutto di forte integrità morale,
spiccata personalità, sensibilità acute, capacità di analisi visiva
ampia e rapida, udito ipermetrico e anche un briciolo di coraggio che
non guasta mai; il tutto per una missione speciale. Qui a villa
Montebianco, ne abbiamo individuate due e una sei tu, cosa ne pensi?”
Mi sembrava di aver ascoltato la Clerici che fa la lista degli
ingredienti per fare un pasticcio di patate! Missione speciale?
Ministero della Difesa? Oh, ma io sono pacifista, antimilitarista, odio
le armi, e sono anche stato riformato per insufficienza toracica! Io
sono qui per riposare, altro che missione speciale! Mentre cercavo le
parole per esprimere un gentile rifiuto il dottor Ottone riprese: “Il
corpo della Marina Democratica Mineraria ha individuato sul fondale del
Mar Giallo il barattolo di vetro 4 stagioni de luxe, dove è rinchiusa
una bambina di sei anni scomparsa qualche tempo fa in misteriose
circostanze. La bimba fortunatamente sembra sia in ottima salute. Lo
scopo della missione è riportarla a terra almeno entro l’inizio
dell’anno scolastico. Il motivo per cui l’esercito sta cercando dei
civili per questa missione, purtroppo non lo sappiamo, e questo è
tutto. Raffaele, cosa ne pensi?”
Una bambina RINCHIUSA IN UN BARATTOLO? In fondo al mare? Ma cosa mangia
in un barattolo? Cosa beve? Cosa respira? Ma soprattutto dove vanno a
finire le sue pupìpupì?
Era così tutto sorprendentemente surreale che iniziai a pensare fosse
una burla, o una specie di iniziazione goliardica di Villa
Montebianco... boh… certo sarebbe un peccato che la bimba perdesse il
suo primo giorno di scuola, pensai.
Marcheselli appariva rilassato e come sempre molto sicuro di sé. Lo
sguardo di Ottone invece mi ricordava quello di uno che si è
dimenticato di innaffiarti le piante mentre sei in vacanza e aspetta
una qualsiasi forma di perdono. Capii che era tutto una cosa seria.
“Raffaele, se decidi di accettare ti potrò rivelare gli ultimi
particolari della missione, la scuola inizia fra due giorni, quindi
purtroppo non ci sarà tempo per l’addestramento che comunque non è
strettamente indispensabile. E come hai sentito niente armi o cose del
genere, è una missione umanitaria!” Il pensiero di come potesse stare
una bambina chiusa in un barattolo di vetro da sola in fondo al mare mi
commosse profondamente, quindi accettai, era in gioco una vita e il suo
primo giorno di scuola.
“Dunque - riprese Ottone - come ti ho detto siete stati scelti in due,
tu e Christoff, lui per la sua esperienza da sub, tu per le tue qualità
pindariche”. Christoff era un ragazzo sulla trentina di origine
tedesca, ma residente a Savona. Esperto di pesca subacquea, era stato
scelto pare anche per motivi socio-fisico-riabilitativi. “Per motivi di segretezza Christoff partirà con il peschereccio Alba Viola
si immergerà nel punto designato dalla Marina Democratica Mineraria, ma
siccome non siamo sicuri che avrà sufficiente riserva di ossigeno per
raggiungere l’obiettivo, in contemporanea tu verrai lanciato dal
dirigibile Long John”.
“Lanciato cosa? Da un dirigibile? Ma sarà un sommergibile, no? Lo sanno
anche i bambini che il dirigibile vola e sott’acqua ci va il
sommergibile, no?... O qualcuno ha capito male, oppure ci sarà stato un
errore di trascrizione!”.
Il dott. Marcheselli, che fino a quel punto era stato in silenzio,
intervenne rassicurante. “Raffaele, tranquillo, nessun errore, anche se
sembra strano, è proprio un dirigibile. Abbiamo scelto te perché siamo
certi che con il tuo quoziente pindarico-percettivo la missione avrà
successo”. Questi qua sono tutti fuori di testa pensai, ok per le
capacità pindariche, ma il dirigibile vola alto, e può anche
incendiarsi. Insomma è obsoleto, ma ormai avevo accettato. Quella notte
dormii poche ore, ma profondamente.
Mi risvegliai riposato e stranamente in ottima forma. Quando in sala
caffè incontrai Christoff, ci scambiammo un gioioso sorriso e una forte
stretta di mano, come due amici che non si vedono da tanto tempo. Il
suo sguardo non celava l’orgoglio di essere stato scelto per un
incarico così importante e delicato, ma non scambiammo nemmeno una
parola sulla missione, bevemmo un caffè e dopo una sigaretta, parlammo
di come era andata la notte, dei nostri malanni e dei Jefferson Airplane. Insomma delle cose di sempre.
Sul Long John
faceva un freddo cane, il rumore dei motori era assordante, il rollio
al limite del rigetto di stomaco. Eravamo solo io ed il pilota. Ricordo
che l’interno del Long John era completamente spoglio, non
c’era la benché minima presenza di attrezzature per lo svolgimento di
una missione speciale. Niente tute da sub, maschera o pinne, o martelli
per rompere il vetro, nessuno mi aveva detto come si doveva svolgere la
missione, ma non ero preoccupato, avrei seguito l’istinto, come Alce
Nero. Mentre sentivo che passava la sensazione di freddo, rallentava
anche il flusso dei miei pensieri. In una frazione di secondo mi
ritrovai sul fondo del mare. Un ambiente fantastico, stupefacente,
indescrivibile. Calma e armonia regnavano. Stelle e cavallucci marini
abbondavano. Tranquilli pesciotti cicciuti sguazzavano tra castelli di
corallo e ciuffetti di posidonie, il tutto immerso in una limpidissima
e luminescente acqua giallina, tipo Venoruton per intenderci, bollicine comprese.
Il barattolo era lì, poggiato delicatamente sul fondo sabbioso. La bambina con i capelli dorati sembrava serena e tranquilla.
Quando in sala caffè rividi Christoff ci salutammo a pacche sulle spalle, caffè e sigaretta.
Non parlammo dei dettagli della missione speciale, ma come al solito di come era andata la notte, dei nostri malanni, di Alvin Lee e di Richie Havens.
Christoff continuò sempre a dire che quello non poteva essere un
dirigibile, perché il dirigibile vola! È il sommergibile che va
sott’acqua!
Lo sanno anche i bambini!
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IL FUTURO DI LUISA
Maria Chiara Reitani
L
uisa era stanca, ogni qualvolta pensava alle sue opere vedeva davanti a sé un gran tavolo da cucina…
Le giornate erano lunghe soprattutto per lei che era una donna
sensibile, che guardava dentro di sé e che era insoddisfatta di tutto
quello che faceva. La vita era stata dura. Si era sposata tardi e aveva
due figli che erano la sua grande soddisfazione. Ora erano grandi e
conducevano una vita autonoma. Andavano a trovarla spesso, passavano
lunghe ore a conversare. Erano momenti felici e insostituibili. La
donna passava intere giornate a riflettere sulla sua vita, Era maggio
inoltrato e Luisa andava spesso in campagna a ritemprarsi. Faceva
lunghe passeggiate. Era contenta di quello che la vita le aveva donato,
aveva molti passatempi, amava scrivere racconti.
Cosa le riservava il domani? Spesso si era posta questa domanda senza
darsi una risposta. Andava avanti, con coraggio e determinazione. Il
futuro non le faceva paura ma la spronava a migliorarsi. Era stanca, ma
felice per quello che aveva costruito nella sua vita.
I giorni passavano inesorabilmente e questo l’angosciava, tutto le
faceva paura ma non si arrendeva. Era una donna forte e volitiva. Non
si arrendeva davanti alle difficoltà. Questa era la sua forza e la sua
determinazione.
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OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI
La galleria virtuale,
http://arteirregolare.comitatonobeldisabili.it, è stata progettata e
realizzata dagli artisti irregolari riuniti nel Collettivo Artisti
Bolognesi, assieme al Comitato Nobel per i Disabili, con il sostegno
del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Usl di Bologna. Agli
artisti del Collettivo, e acoloro che saranno ospitati in futuro, la
galleria offre uno spazio virtuale nel quale dare visibilità alle
proprie produzioni ed uno strumento per entrare in contatto diretto con
il pubblico e gli eventuali acquirenti. Le opere, infatti, sono tutte
in vendita e saranno gli autori a trattare direttamente gli aspetti
commerciali del proprio lavoro, acquisendo o rafforzando così, anche in
questo ambito, le loro capacità e competenze.
Ho iniziato a dipingere tardi, per
merito di mia madre, che un giorno, vedendomi annoiato, mi ha regalato
un pennello e dei colori. Tramite la pittura ho subito provato la
piacevole sensazione di vivere in un mondo parallelo, quasi un uscire
dalla quotidianità per ritrovarmi in un mondo tutto mio!
Sicuramente non riproduco paesaggi, cerco invece di esprimere le mie
sensazioni in quadri semplici che potrebbe fare un bambino.
Spero che i miei dipinti vi possano piacere, sono praticamente come
miei figli, ognuno con caratteristiche diverse, ma col medesimo
stile...
Fly
I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Fly
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