Piergiorgio Fanti

Giovanni Fattori: “Assalto alla Madonna della Scoperta”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Stefy

Un mare di ricordi

Lucia

Cara Stefy

Stefy

19 settembre

Costanza Tuor

Il nocciolo della questione

Stefy

Voglio essere rimborsata

Kevin Nako

In ricordo di mia madre

Edoardo Bellanca

La memoria

Paolo Majerù

Il ricordo libero vola…

Paolo Sanzani

Pensieri

Antonio Marco Serra

Ricordi di un lombrico

Augusto Mocella

Il ricordo

Francesca

Ricordare è rivivere il passato

Darietto

Dazzenger

Lucia

Il mignolo storto

Tina Gualandi

Un essere meraviglioso

Patrizia Degli Esposti

Il silenzio dei pensieri

Paolo Sanzani

Le sue parole

Lu Zen pass

Racconto Zen sul ricordo

Mariangela

Emmanuela

Erika

Di ricordi io ne ho tanti

Costanza Tuor

Ape bee abeille abeja biene bi

Luigi Zen

L’indovinello

Luca G.

Il ricordo degli ebrei

Giancarlo Siani

Lo sfogatoio

DEDICATO AD ARIANNA LO SPAZIO DELLA POESIA

 

      Paola Scatola     Tra le tue mani
      Marcella Colaci     Che bello
      Anonimo     Sorridi
      Annarita Baratti     Il mare
      Paola Scatola     I ricordi
      Paola Scatola     Il ricordo
      François Dostuni     Io sono immenso
      Matteo Bosinelli     Sull’orlo del baratro
      Maurizio     San Valentino
      Paola Scatola     Lo ricordo così
      Annarita Baratti     I tuoi occhi
      Maurizio     La libertà è un salto
      Maurizio     Amore platonico
      Annarita Baratti     Oh, Pierrot
      Annarita Baratti     Luna
      Annarita Baratti     Figlia del vento
      Paola Scatola     Il prato verde
      Annarita Baratti     Ninfea
      Jenny     Cosa è giusto
      Marcella Colaci     A Lucio Dalla
      Annarita Baratti     Il faro
INSERTO: RECOVERY E AUTONOMIA
      Gabriele Beghini
      Mariana Parera
    La vita nei ricordi
      Anna Di Santantonio     Come funziona la memoria

Cristicchi

Leopardi: A Silvia

Luca Pasini

Tirocini: aiuto concreto o sfruttamento?

Giuseppe Raucci

La solitudine dei lavoratori

Matteo Bosinelli

Scandagliando

Stefy

Della scozzese avranno paura

Stefy

Fantasmi

Paola Scatola

Appunti del cuore

Simone Riva

La fede, il lavoro, la casa…

DAI GRUPPI DI SCRITTURA
      RTP Casa Mantovani     Mi ricordo…
      C.D. di Casalecchio     Il ricordo
      Gruppo La Vela     Dal diario di bordo
            Si Mo’     Ricordi
            Alberto     Cipollina Birichina
            Rosalia Calabrò     Io senza dio
            ***     Il poster
      UmanaMente     Game over

Claudia Fittante

Il mio tirocinio: ricordo

Stefano Ricci

Nostalgia

Lucia

La storia

Diana Tura

Archivi e memoria

I RACCONTI
Opola Resonive Abbaia al buio
Traumatilik Classe Esperanto
Mauela Ghezzi Dal settimanale delle memorie del signor E. Nigma
Filippo Montorsi Racconti brevi

***

La Posta

Maurizio Rocca

Rendere visibile l’invisibile

Gilda Pappalardo

I Camaleonti

***

La soluzione dell’indovinello

                                                                                                                                                                     
GIOVANNI FATTORI:
“ASSALTO ALLA MADONNA DELLA SCOPERTA”

   Piergiorgio Fanti


 

Quando all’arte si leva il verismo che resta? Il verismo porta lo studio accurato
della società presente, il verismo mostra le piaghe da cui è afflitta, il verismo
manderà alla posterità i nostri costumi e le nostre abitudini.
Giovanni Fattori


Q uesto dipinto, come altre grandi tele di soggetto risorgimentale, venne commissionato a Fattori dallo Stato, previo concorso. L’opera gode di un grande equilibrio compositivo e qua e là presenta brani della migliore qualità macchiaiola. Accanto a questi temi di soldati a cavallo, l'artista predilesse soggetti campestri: vedute di Maremma, bovi aggiogati, cavalli bradi in pastura, pagliai e casolari. I dipinti sono condotti con grande maestria a larghe stesure di colore e a toni intensi.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


Il significato della parola 'ricordo' nel vocabolario Zanichelli è: “richiamo alla mente di fatti, cose o persone”. Detta così, tecnicamente, può apparire come una cosa semplice, naturale, scontata. In realtà è una cosa straordinaria, magica, fantastica. Basta pensare quanti ricordi rimangono impressi nel nostro piccolo cervello, piccolo, ovviamente, per dimensioni. Noi siamo i nostri ricordi, nel senso che il nostro esame della realtà è molto condizionato dalla memoria conscia e inconscia. La maggior parte delle nostre azioni o movimenti avviene in automatico. Quando guidiamo l’auto, ad esempio, non pensiamo: "Adesso do gas, tiro la frizione, cambio marcia". Tutto avviene senza che la coscienza venga reclutata. Ma appena succede qualcosa che rompe l’automatismo, come può essere un pedone che attraversa all’improvviso la strada, la nostra mente si attiva e volontariamente mette in atto tutte le manovre del caso: freno, scalo marcia, sterzo, ripescandole da episodi ed esperienze che abbiamo avuto precedentemente, in questo caso alla guida. Tutto ciò per dire come la memoria agisce e si innesca in modo automatico. Altre volte andiamo a ripescare volontariamente dalla memoria il ricordo di ciò che ci interessa, ad esempio un numero di telefono, una poesia, un episodio, una persona e così via. Un fatto strano è la dimenticanza, l’amnesia. Ricordiamo perfettamente cose passate tanti anni fa e dimentichiamo cose accadute pochi minuti prima. Ma torniamo al discorso ricordo e coscienza del presente. Se, come abbiamo detto, la mente e la memoria sono sempre attive, cosa accade se queste smettono di funzionare? Il panico più assoluto. A me è successo quando ero ragazzino. Ero a slittare col bob, a un paio di chilometri da casa sulle colline di San Lazzaro di Savena. La mattinata era particolarmente fredda e la neve gelata. Insieme al mio amico scendemmo col bob dalla lunga pista ghiacciata. Da subito mi resi conto che stavamo scendendo molto più velocemente del giorno prima. Quando arrivammo sul trampolino preparato da noi, il bob si innalzò a più di un metro da terra per poi ricadere a testa in giù. Battei fortemente il capo. Persi i sensi per una ventina di minuti. Quando mi ripresi mi ritrovai steso sul bob, su cui i miei amici mi avevano caricato, ed ero quasi arrivato vicino a casa. Non ricordavo nulla, chi ero, cosa facevo. Ero anche diventato afasico. Volevo dire alcune cose e ne uscivano altre. Per esempio volevo dire: "Suonate il campanello" e invece dicevo: "Passatemi un bicchier d’acqua". Detta così fa scappare da ridere. In realtà è stato tremendo, soprattutto nella mente di un ragazzino. In questa situazione di terrore essere cosciente ma non potevo interagire… è stato uno dei momenti più brutti della mia vita. Era come se tra me e la realtà ci fosse una campana di vetro trasparente, impenetrabile. I sensi e le azioni erano bloccati. Per fortuna questa situazione è durata solo un paio d’ore e poi s’è risolta da sola, anche se la memoria è rimasta alterata per un paio di mesi. Torniamo però ai ricordi in senso stretto. Io li divido in belli e brutti. La cosa bizzarra è che i ricordi risentono molto del mio stato d’animo. Quando sono di buon umore anche i brutti ricordi sono più accettabili. Viceversa quando sono triste anche i ricordi belli sono più brutti e malinconici. L’ideale sarebbe riuscire a trovare un equilibrio. Ma non è facile. E forse è più bello così. Se fosse tutto quadrato e perfetto come un computer, saremmo tutti uguali, che monotonia! Al fine di vivere meglio la realtà e irrobustire il proprio io, mi sento di consigliare un’operazione che faccio io: accetto i miei brutti ricordi e mi rinforzo pensando a quelli belli, tipo il giorno del mio matrimonio o il lavoro che svolgo. Leggete Il Faro, che desterà in voi l’attenzione sul presente e stimolerà il ricordo che vi farà sentire più vivi e forti.

UN MARE DI RICORDI

   Stefy


I ricordi sono le onde nel mare della nostra mente: trascinano con sé i sentimenti, che abbandonano sulle rive del nostro cuore, dove vanno ad infrangersi. Esse trascinano sentimenti d’amore, tenerezza, rabbia eccetera… Insomma tutti i sentimenti che il nostro animo ha in sé. I sentimenti più leggeri tornano indietro, ma quelli più pesanti, quelli che ci hanno colpito e a volte hanno determinato la nostra vita restano lì, sulla riva del nostro cuore, pronti per essere provati altre volte, come se fosse una selezione naturale. Ci pungono la pianta dei piedi mentre camminiamo lungo questa riva e, a volte, ci chiediamo se sia o no il caso di pulirla. Non si può e non si deve pulirla, perché è proprio nei sentimenti provocati dai ricordi che troviamo la forza di continuare ad andare avanti. Ogni tanto bisogna fermare il nostro cammino lungo questa costa, guardare in basso ciò che ci sta pungendo i piedi per capire che quel sentimento si sta rinnovando, con altre casistiche, ma si rinnova. Biso¬gna guardare i nostri ricordi come lezioni di vita vissuta sulla nostra pelle per fare scelte più ponderate per il futuro e non commettere di nuovo gli stessi errori. Non vivere di ricordi, ma usarli come esempi per costruirci il nostro domani, cercando di non trasformare i ricordi in paure. Paura del dolore, paura di sbagliare, paura della gente ma soprattutto paura di non essere com¬presi. Se no perdi la forza di affrontare il domani, che è sempre lì ad attenderti, e ti blocchi, ti isoli, ti chiudi in te e non tenti neanche di raggiungerlo. I ricordi sono lo specchietto retrovisore per il nostro domani. È andando avanti che si creano i ricordi e tutti i ricordi del nostro passato sono le esperienze che hanno determinato in qualche modo la persona che siamo oggi. Per questo abbiamo bisogno dei ricordi, come il mare ha bisogno delle onde per essere tale, se no sarebbe solo una pozza di acqua salata.

CARA STEFY

   Lucia


La mattina del primo marzo stavo mettendo insieme il brogliaccio del nuovo Faro. Avevo già quattro tuoi scritti e ho sorriso al pensiero che, come al solito, prima della chiusura me ne avresti fatti arrivare degli altri. Quante volte, cercando di darti un limite, ti ho detto: “Stefy, sei un fiume in piena…” e tu: “Ma basta che tu li legga, poi fai come vuoi!”… Eh, sì! Come avrei potuto scartarne qualcuno? Intanto io, ritardataria, non avevo ancora scritto niente e mi facevo frullare in testa qualcosa da buttar giù sul ricordo…Tutto potevo immaginare, cara Stefy, meno che mi sarei ritrovata la sera a scrivere in memoria di te. Te n’eri già andata, in quelle ore, e io non lo sapevo, ti avevo in mente vivissima e, figurandomi già la tua reazione divertita, sceglievo immagini buffe da accompagnare ai tuoi testi. So che ti sarebbero piaciute, perché eri spiritosa, ironica e autoironica, perciò non le cambierò, anche se ora mi sembrano stridenti, al pensiero che non ci sei più. Siamo appesi a un filo, è proprio vero… Incontrarti ha avuto su di me un forte impatto, e non poteva essere altrimenti. Non passavi certo inosservata, con quel carattere intemperante, irruento, passionale, che ti aveva persino plasmato i lineamenti. In un attimo, nella veemenza di un’invettiva o nell’empito di un’emozione, il tuo volto poteva trasformarsi in una maschera tragica: le guance si arrossavano, il mento si protendeva, la bocca si spalancava in un gridare appassionato, e le lacrime sgorgavano a fiotti. Poi, piano piano, il sorriso tornava a illuminarti i begli occhi verdi. Ma le tante tempeste avevano scavato solchi profondi, nel volto, nel cuore. Molto profondi. Come i sentimenti per le persone, che ti restavano care al di là dei litigi, degli strappi, delle separazioni. E come i pensieri che hai regalato a piene mani per le pagine del Faro. Pochi, forse, si rendono conto di quanto coraggio e quanta generosità comporti il mettersi a nudo e dichiarare la propria fragilità rievocando - e quindi rivivendo - grandi esperienze di dolore. Mi mancherai molto, Stefy, ci mancherai. Mi consola il pensiero che nella tua esistenza travagliata stavi vivendo un momento di rivincita, e spero che almeno questo sia stato un buon viatico, nel momento di spiccare il volo da questo mondo.

19 SETTEMBRE

   Stefy


Non posso dimenticare che il 19 settembre sarebbe stato il tuo compleanno. Non posso dimenticarlo perché le persone non si dimenticano, cambiano solo il posto che occupano nel nostro cuore. Non si dimentica chi ti faceva sorridere, chi ti ha fatto piangere per ore intere, chi ti ha fatto battere il cuore. Cambia il modo in cui le vediamo o la realtà ci impone di vederle. Tu sei sempre lì, in un angolo del mio cuore, pronto a saltar fuori ad ogni assonanza con te e il tuo modo di fare. Sei entrato nella mia vita in punta di piedi, sconvolgendola e sconvolgendo le mie idee. Ma sei stato parte della mia vita, per poi un giorno andartene, rimanendo solo un ricordo che occupa una parte del mio cuore. Ti devo mettere in un angolo perché devo continuare a vivere, sicura che in quell’angolo ti troverò sempre.

IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE

   Costanza Tuor


Scrivo di mattina presto, momento che preferisco a qualsiasi altro e che mi fa pensare alla vita come qualcosa che sboccia. Il primo giorno che ho incontrato Stefania ho avuto paura di perdere qualcosa di importante nella mia vita. Oggi dico che spero di aver perso la diffidenza di fronte al riverbero della schiettezza. Essere quello che si è fino in fondo, portare quasi senza accorgersi il proprio stare in mezzo agli altri come un dono, sapere che è così e nello stesso tempo non essere accolti perché agli altri fa paura quella luce, quel colore personale che ci distingue e a volte ci pesa. Qualche volta si incontrano persone a cui non riusciamo a credere fino in fondo, persone che restano sulla nostra soglia per paura di disturbare. Stefania aveva timore di non essere adeguata a certe situazioni, temeva e sentiva quanta vita c’era in lei, ma a volte le succedeva di pensare che il suo modo di manifestarla fosse troppo veemente. A volte, secondo i canoni rigidi di certe visioni del mondo, era difficile collocarla, sembrava sempre prendere spazio, sempre più spazio con quella sua genuina forza vitale. Ti scrivo Stefania perché so che tu sai accogliere la parola quale cosa viva e che è capace di cambiarci. Ti scrivo perché vorrei che tu sapessi che, nonostante le mie ritrosie, ho ammirato il tuo splendere e gli ho voluto bene. Ti scrivo perché so che stai ridendo di gusto e che stai diffondendo sul mondo la tua soffice e bruciante verità. Ti scrivo perché non importa quanto tempo ci è concesso, ma davvero importa il come stiamo nelle cose e mi piacerebbe tanto riuscire a imparare un granello della tua schiettezza e onestà. Ti ringrazio per tutto quello che sei stata nella mia vita. Spero di non perdere nulla. Tutto della tua lettera alla vita è stato offerto e in qualche modo sarà raccolto da chi ti ha conosciuta. Se ti è possibile ora non perderci di vista e dacci qualche spunto quando saremo in difficoltà su quale strada scegliere, indicaci la direzione più diretta che non ci faccia perdere di vista il punto importante, il nocciolo della questione che tu tanto hai amato, quell’incontro con la propria verità personale nel mondo.

VOGLIO ESSERE RIMBORSATA

   Stefy



uando penso ai miei ricordi, vengo investita da una marea di sofferenze che ho passato e che sono diventate per me paure. Paure radicate nel mio animo e che mi hanno fatto diventare quella persona che sono oggi. A partire dalla mia infanzia, dove ero presa in considerazione solo quando facevo i capricci, a un’adolescenza dove i miei interessi erano limitati dalle ristrettezze economiche famigliari, fino alla mia maturità, segnata dai limiti posti dal bigottismo delle persone che mi circondavano e che mi mettevano sotto inquisizione ad ogni mio tentativo di essere me stessa. Se dovessi trovare un oggetto che rappresenta i miei ricordi, questo sarebbe un freno. Perché sono sempre stata frenata quando volevo essere o pensare con la mia testa. E ciò si è trasformata in una profonda paura di essere sbagliata, paura del dolore che ti possono dare le persone. Questi sono i miei ricordi. Un mucchio informe di regole e dettami impostimi dagli altri, che mi hanno impedito di svilupparmi e crescere emotivamente come volevo io. Chissà se posso chiedere i danni? Voglio essere rimborsata per quello che mi hanno obbligato ad essere nel passato, rovinando così la persona che sono nel presente. Ma queste persone si sentono con l’anima candida e non pensano alle ferite sanguinanti che hanno lasciato in me, e che mi fanno male ogni volta che ricordo il mio passato, come sale su una ferita.

   Kevin Nako


Ci han concesso solo una vita / Soddisfatti o no qua non rimborsano mai.

Sono parole di Ligabue, il cantante preferito di mia madre, Stefania Marani. Ma la musica non era l’unica cosa che le piaceva. Amava leggere, scrivere, chiacchierare e confrontarsi con la gente, l’arte e la poesia dell’umanità. In poche parole, amava vivere. Da quando sono venuto al mondo, lei si era rimboccata le maniche e si era messa a fare la professoressa di vita, insegnandomi il bene e il male, l’altruismo e la gentilezza, il male e l’ipocrisia. Ogni giorno tornavo a casa da scuola disfatto e col morale a terra e lei cercava sempre di tirarmi su. Ma non lo faceva solo con me, lo faceva un po’ con tutti, con i buoni e con la gente cattiva. Non per dimostrare di essere superiore agli altri, ma perché voleva cercare di trasformare questo inferno in un luogo di pace e bontà, dove la gente si aiuta e le persone tra di loro si scambiano gesti di affetto. Ogni giorno lottava per questo principio, ma si stava stancando e indebolendo, fino alla tragica giornata della sua mancanza. Ormai che aveva aiutato tutti, si era fatta una casa, una macchina, trovato un lavoro, amici e soprattutto la famiglia… ci ha lasciato. Ora, mamma, adesso che sei nell’alto dei cieli a correre nell’infinito campo di grano assieme alla nonna Augusta, a scherzare con i tuoi amici e parenti, ora che hai trovato il vero paradiso, riposa in pace.

LA MEMORIA

   Edoardo Bellanca


Da poco tempo ho cambiato vita, ho cambiato luogo, ho cambiato abitudini... Ora vivo a contatto della natura, dalla mia finestra vedo il mare, i gabbiani, i cormorani, un cielo immenso... Ora vivo a contatto dei parenti, mia sorella, mio cognato, i miei nipoti, con i loro familiari, il pronipotino di nove anni che gioca sempre, ma poi ti fa le domande giuste, dirette, a cui non puoi sottrarti. Mia nipote attende da un momento all'altro una bimba, ed è questa una chiamata forte alla Vita. Un fratello di mio cognato, da tempo malato, ieri sera è deceduto. Morte e Vita, queste sono le Verità Assolute, queste vivo in modo diretto. E la memoria, il ricordo? Gli amici di ieri? Ci sono tutti, ma si affacciano da un'altra vita... che spero di ricongiungere a questa...

IL RICORDO LIBERO VOLA

   Paolo Majerù


Iricordi sono quasi sempre remoti, i più belli sono quelli che si rievocano insieme ai vecchi amici, con un buon bicchiere di vino. Oppure, con fratelli e sorelle un po' attempati, ci si ricorda quando si era piccoli, adolescenti o già uomini. E quasi sempre si finisce con una bella risata sana. A volte i ricordi sono personali, e quando li si rievoca si finisce con un sospiro, o un grugnito. I ricordi ce li hanno tutti, chi belli, chi brutti! Ma guai a non averne, sarebbe una vita (non vita) senza ricordi, vuota di tutto. Il mio ricordo più bello è stato quando è nato il mio primo figlio, perché mi ha cambiato del tutto la vita. La gioia nel vederlo la prima volta è stata immensa, tanto che mi impediva di allontanarmi anche per un solo minuto da lui. Per professione mi spostavo in tutta l’Italia e mi assentavo da casa anche per mesi. Ma da quando è nato lui mi sono fermato, ho visto il mondo da un altro punto di vista. Io non ero più il centro dell’esistenza, lo era diventato lui. Per assicurargli il futuro migliore mi sono trasferito a Bologna. In questa città da subito non mi sono sentito a mio agio. Pregiudizi culturali mi hanno fatto rimpiangere la mia nativa città. Lentamente mi sono ambientato. La città insieme a me è cambiata ed ora sono in equilibrio con lei. Ora è diventata la mia città, ma quando il ricordo libero vola, il cuore e gli affetti tornano a Napoli… Ciao.

PENSIERI

   Paolo Sanzani


...Un passato andato in frantumi, un futuro impossibile da progettare con l’angoscia di una malattia che ti fa ripiegare su te stesso. Quello che rimane è un eterno presente dove rimanere sospesi, quasi fosse un limbo. Saluti.

...Pessimo invitato il “ricordo”… non si scorda mai!!! Bye.

...Oggetti, sensazioni e odori… Il ricordo è frammento di una memoria che spesso non ci dà scampo e ci presenta il conto…

...Quella tua voce che ripete all'infinito nella sala del CSM... "Hai preso i farmaci? hai preso i farmaci??" oramai risuona nel mio cervello come un mantra... La colpa in parte è sua (genetica), un po' il carattere, fino alla mia indolenza che non mi permette di reagire. Una camicia di forza chimica mi circonda, i riflessi lenti e assopiti, mi consegno alle mani sapienti del medico il quale puntualmente ripete che tutto va bene. Tutto va bene un accidente, la mia vita scorre come un treno verso un binario morto, ma… Tranquillo, tutto è ok.

...Curiosità... Se durante il trattamento sanitario coatto sei privo di coscienza (o parzialmente privo), perché spesso viene chiesto al paziente il ricovero volontario?

RICORDI DI UN LOMBRICO

   Antonio Marco Serra

In sala di montaggio, alcuni fotogrammi della rievocazione sono lasciati cadere sul pavimento,
altri vengono rigenerati e migliorati, e altri ancora sono combinati sul così abilmente
dalla nostra volontà o dai capricci del caso da creare scene nuove, che non sono state mai girate.
Ecco perché i fatti possono acquistare un nuovo peso e perché oggi
la musica della memoria è diversa da quella dell’anno scorso.
Antonio Damasio, Il sé viene dalla mente

Avete presente il classico matto delle barzellette che invariabilmente si crede Napoleone? Come al solito sarò controcorrente, e dirò che in un certo senso mi identifico con lui o perlomeno lo invidio. In fondo la strada della conoscenza, dal Rinascimento in avanti, ha avuto come costante quella di porre l’uomo in una posizione sempre più marginale. Con Copernico la nostra Terra, e noi con essa, ha perso la sua posizione centrale a favore del sole, poi questo è divenuto un puntino vagante all’interno della nostra galassia, infine questa non è divenuta altro che una delle centinaia di miliardi di galassie che vagano per l’universo osservabile che a sua volta forse non è che una minima parte dell’intero universo. E oggi ci dicono che forse il nostro universo non è che uno nella miriade di universi che costituiscono un enorme ‘multiverso’. Che non sia giunto il momento di affermare con risolutezza che noi non siamo centrali neppure per noi stessi? Perché dovrei essere più affezionato al mio proprio passato che a quello di Napoleone o di un Pinco Pallino qualsiasi?
Iniziamo a dire che noi non ricordiamo affatto ciò che ci è accaduto, come ben sanno gli inquirenti che interrogano i testimoni oculari di un qualche delitto: il rapinatore barbuto che fugge su una spider rossa, di un testimone, si trasforma nel malvivente calvo che fugge su una berlina gialla, di un secondo testimone. E questo a poche ore dagli avvenimenti, figuriamoci a decenni di distanza. Ciò che ricordiamo ha davvero poco a che vedere con un resoconto oggettivo di ciò che è accaduto. È la nostra personalissima storia, e ogni volta che la ripercorriamo col ricordo la modifichiamo un po’. E comunque ciò che ricordiamo, seppur distorto, non è che una minima parte della vita che abbiamo vissuto. La memoria è estremamente selettiva. Ma non siamo neppure bravi a fare questa selezione, altrimenti saremmo in grado di ricordare solo gli accadimenti piacevoli e di rigettare quelli sgradevoli, cosa che ovviamente non succede, pieni come siamo di tristi ricordi e di rimorsi che ci tormentano, per azioni che forse non abbiamo neanche compiuto, ma solo immaginato o sognato. A me sembra che i nostri ricordi siano un’accozzaglia di cianfrusaglie accatastate alla rinfusa, di desolate macerie, di fossili arcaici privi di vita da millenni, di cui potremmo giovevolmente fare a meno, se solo ci riuscissimo. Noi non siamo i nostri ricordi, siamo molto di più o forse molto di meno, ma sicuramente qualcosa di molto diverso. Ovviamente qui non parlo del ‘ricordo’ di come si va in bicicletta o di come si risolve un’equazione algebrica di secondo grado, ciò che attiene all’indubitabilmente utile "impara l’arte e mettila da parte". Qui parlo di quei ricordi con cui costruiamo quello che gli psicologi chiamano il nostro ‘sé autobiografico’, la nostra consapevolezza di essere chi siamo.
Ora, basare ciò sui nostri ricordi è anzitutto molto riduttivo. Ammettiamo pure di adottare una prospettiva biologista, per cui noi ‘siamo’ il nostro cervello, cosa che è tutta da dimostrare, ma anche in questo caso certamente il nostro cervello non può essere neanche lontanamente ridotto alla sola nostra memoria. Ad esempio, il cervello non è costituito solo dalle circonvoluzioni cerebrali, ma anche da quella parte arcaica ereditata dai nostri lontani progenitori… Chissà che incistati lì, da qualche parte, non siano nascosti i ‘ricordi’ di quando eravamo rettili, granchi, lombrichi.
D’altro canto, come scriveva Alda Merini: “Nelle malattie mentali la parte primitiva del nostro essere, la parte strisciante, preistorica, viene a galla e così ci troviamo ad essere rettili, mammiferi, pesci, ma non più esseri umani”. Ma diceva qualcosa di simile anche onald Laing che, nonostante fosse un (anti) psichiatra, era matto il giusto… (Non essendo riuscito trovare il libro in questione, non ho potuto verificare la citazione e ho citato Laing a memoria, per cui è molto probabile, visto quanto ho detto sin qua sui ricordi, che me lo sia inventato di sana pianta!).
Ma perché rinunciare a che i nostri ricordi, dolci o tristi che siano, ci costituiscano? Perché questo sé autobiografico ci confina in noi stessi, separandoci dall’universalità proprio a causa della sua auto affermatività, imponendoci la sua incontenibile brama di essere, di avere, di potere. E ci conduce a una continua necessità di misurarci, per metterci a confronto con gli altri. A mettere in competizione i nostri falsi ricordi con i falsi ricordi di qualcun altro. “Taci, e non misurare te stesso” diceva un padre del deserto. Un sé autobiografico altruista ed empatico è, a mio modo di vedere, auto contradditorio. Un tempo anch’io credevo fosse possibile, ma mi convinco sempre di più che non ci sono scorciatoie. Bisogna cessare di dire: ‘Io’, ‘Io’, ‘Io’, ma: ‘noi’, ‘voi’, ‘loro’ e qualche altra persona che ancora non è stata scoperta (inventata), ancora più plurale della pluralità. Non è per essere o sembrare altruista che dico queste cose, ma per fare un favore a me stesso, perché questo sé, autobiografico per sua natura, ci costringe in strettoie innaturali, in angusti anfratti, che ci fanno trovare impreparati allo schiudersi del Possibile. Perché mai i ricordi che ci costituiscono dovrebbero soltanto essere quelli personali? Io credo che le mitologie degli antichi fossero soprattutto questo: una memoria collettiva, che permetteva di avere ricordi condivisi, non di una singola persona, ma di un intero popolo. Oggi, nonostante tutto quello che si dice sull’omologazione dei valori, niente di simile esiste.
Ma noi abbiamo paura, io per primo, che a mettere in discussione queste modalità mentali, ci mancherà la terra sotto i piedi. Ma dove sta scritto che noi abbiamo bisogno di un fondamento, di ‘tale’ fondamento? Ne abbiamo bisogno solo perché ci siamo convinti di averne bisogno. Ma è inevitabile che noi viviamo sopra l’Abisso: è la conseguenza della nostra finitezza, non possiamo farci niente. Possiamo solo accettarlo e aprirci alle conseguenze, forse meravigliose, che questo comporta, o chiuderci nel nostro sé autobiografico, illudendoci, contro ogni evidenza della vita, che questo possa proteggerci e costituire per noi un solido fondamento. Ma poiché questa nostra costruzione, messa a confronto con le nostre esperienze quotidiane, risulta sempre inadeguata alla bisogna, passiamo il tempo, consciamente o inconsciamente poco importa, a ritoccare i nostri ricordi e ad attribuire loro sempre diversi significati, incuranti del consiglio evangelico di non mettere un pezzo di stoffa nuova sopra un vestito vecchio, altrimenti la toppa nuova porta via il vecchio e lo strappo si fa peggiore, finché della costruzione originaria non resta nulla. Anche se ammetto che questo improbabile vestito arlecchinesco, fatto solo di pezze multicolori accostate a casaccio, possa talvolta avere una sua gradevolezza estetica, vale davvero la pena di sobbarcarci tutto questo improbo lavoro? E in questo vi è un aspetto di tragica ironia: noi sappiamo benissimo che il rinchiuderci in questa manciata di ricordi, non ci ha mai protetto da alcunché: la vita non ci ha mai risparmiato i suoi strali, e però… però continuiamo a illuderci.
L’unica strada è cessare di guardare ai nostri ricordi come a qualcosa di prezioso e unico, qualcosa che ci costituisce così profondamente, che senza di essi non saremmo nulla. E invece, guardandoli con molto più distacco, come qualcosa di neanche veramente nostro, saremmo molto di più. Saremmo ciò che veramente siamo, qui ed ora, nel momento presente. Beh, direi che c’è anche un aspetto giocoso: sai che noia andare sempre a scartabellare tra i soliti stinti ricordi. Non sarebbe più divertente cambiare i ricordi di giorno in giorno? Il lunedì i ricordi di un artista impressionista, il martedì i ricordi di un grande matematico, il mercoledì toccherebbe a un valente musicista… sai che spasso!

IL RICORDO

   Augusto Mocella



Èbene ricordarlo: l’essere umano nasce da un seme dell’uomo che si innesta in un ovulo della donna. Da questa unione si forma un’unica cellula che si moltiplica fino a diventare un piccolo essere che risulta poi la persona che siamo, portando con sé nel corpo e nella mente i caratteri degli avi e tutto ciò che ha contrassegnato la sua vita. Il ricordo è bene rammentarlo è la nostra identità. È ciò che ci riporta al passato per far sì che il nostro presente sia più pieno e cosciente. Infatti se nel nostro presente siamo coscienti anche delle nostre scelte e di ciò che ci ha formato fino a quel momento, viviamo più pienamente la nostra vita. Spesso pensiamo di aver fatto scelte sbagliate nel nostro passato, e nel ricordo non ci scusiamo di quegli errori (i nostri peccati), ma senza di essi forse non saremmo quello che ora siamo. Questo dovrebbe farci accettare i nostri limiti, come è per il fatto che abbiamo le braccia e non le ali e perciò non possiamo volare come gli uccelli. Ma il ricordo oltre a darci una identità, serve anche a farci avere dei bei pensieri. A volte un nome, un odore, un fiore, una musica, ci riportano ad una stagione più felice della nostra vita e questo ci incoraggia a pensare che quel tempo potrebbe ritornare. Senza queste associazioni forse saremmo più tristi.
Il ricordo, la memoria, ci aiutano ad essere noi stessi.

RICORDARE È RIVIVERE IL PASSATO

   Francesca


I n psicologia si parla di memoria a breve e a lungo termine. La prima ha una durata limitatissima. È quella che ci permette di tenere a mente le informazioni più recenti, oppure di memorizzare un numero di telefono, una semplice lista della spesa, o di ricordare, in pochi secondi, un tot di oggetti disposti su un tavolo (questi sono alcuni esempi pratici). Ha una funzione molto simile alla memoria RAM di un computer, dove le informazioni sono continuamente in transito. È come quando una persona legge un libro, ad esempio… La memoria a breve termine è un continuo svuotarsi e riempirsi, esattamente come una scatola. La memoria a lungo termine è la memoria che riguarda tutto quello che sappiamo fare perché lo conosciamo bene, come camminare, muoversi, parlare. Queste informazioni risiedono dentro di noi per un periodo di tempo indefinito. Quello che ricordiamo della nostra vita costituisce la memoria a lungo termine. Questi ricordi hanno durata variabile e non rimangono mai integri. È possibile che un ricordo della nostra vita possa subire delle trasformazioni in base al nostro vissuto, in modo del tutto inconsapevole e pare che subisca l’influenza dell’ambiente che lo circonda. I motivi per cui ricordiamo sono molteplici. Ossia determinati episodi che ci hanno colpito per qualche motivo, sia in positivo che in negativo, lasciano una traccia nella nostra memoria. Certi profumi, luoghi, odori, suoni, paesaggi e volti possono risvegliare ricordi, con una nitidezza di particolari incredibile e ci portano a rivivere frammenti del nostro passato con i sentimenti legati proprio a quel periodo di vita.
A me questo succede spesso e mi riporta alla mia infanzia, all’adolescenza ed al periodo in cui ero più giovane, e mi suscita una grande nostalgia e una sensazione rassicurante di benessere e di calma, quasi di gioia. A livello cosciente in genere si tende a dimenticare o mettere da parte i ricordi legati a periodi più difficili o tristi, o ad episodi traumatici, per proteggerci da un vissuto doloroso o che ci ha dato malessere e preoccupazioni. Ma questi episodi rimossi tornano in qualche modo alla nostra mente, attraverso i sogni per esempio, perché ormai appartengono al nostro inconscio. Anche i ricordi, insieme alle esperienze fatte nell’arco della vita, potrebbero influenzare la nostra personalità, il nostro carattere, e la nostra percezione del mondo e il modo in cui lo si affronta, perché i ricordi rappresentano il modo in cui abbiamo vissuto il nostro passato. Ovvero la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda, e come la si ricorda per poi raccontarla. Ci sono ricordi che ricorrono frequentemente nei nostri sogni e che fanno parte di un passato vissuto in modo intenso, anche negativamente. Il mio per esempio è quello dell’esame di maturità che per me è stato un vero stress, e sogno che lo devo ripetere.
Mi sveglio con un senso di sollievo e liberazione quando mi rendo conto che quell’incubo è già passato. Ma allo stesso tempo penso che questo sogno rifletta una normale e sana preoccupazione verso un futuro incerto, come un esame che si deve affrontare di nuovo, suscitando un senso di angoscia e insicurezza. Infatti si dice che nella vita gli esami non finiscono mai. Ripensare al mio passato e ai bei ricordi che ne ho, mi aiuta ad affrontare meglio un presente difficile e stressante che è il riflesso di una società afflitta da tanti e gravi problemi con la crisi che incombe e la mancanza di lavoro per tanta gente (fra cui io).
In un certo senso i bei ricordi sono come i sogni ad occhi aperti che, alleggerendo le situazioni più pesanti e difficili da affrontare, ci consentono di vivere meglio. L’importante è cercare il lato positivo in ogni circostanza che ci si presenta e tralasciare quello che non ci piace, che è poi la capacità di riorganizzare positivamente la propria vita nonostante le avversità, cosa che viene anche chiamata 'resilienza', un termine che va molto di moda tra quelli che ‘parlano bene’.
Concludo con alcune citazioni che ho trovato su wikipedia che sintetizzano quello che ho scritto e il senso del ricordo.

Chi non ricorda, non vive.
Giorgio Pasquali

I ricordi si interpretano, come i sogni.
Leo Longanesi

I ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia: rimangono limpidi e il torbido resta sul fondo. Non bisogna agitarla, la bottiglia.
Mario Rigoni Stern

Ricordare e dimenticare sono parte dello stesso processo mentale. Scrivere un dettaglio di un evento è non scriverne un altro (a meno di continuare a scrivere all’infinito). Ricordare una cosa è lasciare scivolarne un’altra nell’oblio (a meno di continuare a rievocare all’infinito).
Jonathan Safran Foer

I ricordi non se ne stanno sospesi nel vuoto, isolati e separati da tutto il resto, ma subiscono sempre e comunque l’influenza dell’ambiente che li circonda.
Eureka Seven

Il tempo cambia il volto delle cose, anche dei ricordi.
Licia Troisi

Questo è quello che io intendo quando penso ai miei ricordi.
Grazie per l’attenzione.

DAZZENGER

   Darietto


● Due amici in un ristorante. Il primo: “Sì, prendo una cotoletta” e il secondo: “Io una cotoscritta”
● Sapete chi era l’autotrasportatore più importante dell’Antico Egitto? Tutan-camion.
● Uno chiede all’altro: “Mi scusi, secondo lei il cielo è coperto?”. E l’altro: “Sì, è coperto perché fa molto freddo”.
● Ci sono due bicchieri pieni che salgono in auto. Sapete dove vanno? A Brindisi.
● Di che colore sono le ore? Gialle… Ad esempio: sono già le ore 10:00 (ringrazio Annalisa Cavani)
● Le ore sono solide o liquide? Liquide… Ad esempio: ci vediamo verso le 15:00 (ringrazio Annalisa Cavani)
● Se nella lavatrice metto l’omino bianco con l’accappatoio blu, viene fuori il principe azzurro? (ringrazio la mia mamma)
● Un’estetista manicure è una “che la sa l’unghia”? (ringrazio Giovanni Romagnani)
● Mistero del cibo: A battaglia navale, il prosciutto è C8?
● Sai in quale città vive una ragazza sazia? Stoccolma!

IL MIGNOLO STORTO

   Lucia


...sol chi non lascia eredità di affetti
poca gioia ha dell’urna…
Ugo Foscolo

edi - mi disse - che ho il mignolo storto? È perché la mia famiglia si estingue”.
In effetti, per mancanza di eredi maschi il suo cognome da ragazza non sarebbe stato tramandato. Ma che c’entrava il suo mignolo? Mah! Allora non chiesi spiegazioni, perciò la strana teoria per me è rimasta un mistero. Credo invece di intuire il perché del malinconico fatalismo che spesso si affacciava alla mente di mia madre... Quando suo padre morì, lei aveva nove anni, lui cinquanta, e aveva già seppellito una giovane moglie e una figlia ventenne. Anche la seconda moglie, mia nonna, sarebbe morta giovane: la Disgrazia, insomma, era di casa. E purtroppo non si sarebbe fermata lì: anche mia madre e mio zio non hanno superato la mezza età. Lei, però, nutriva un vero e proprio culto per quella sua famiglia che il destino stava per cancellare e trovò un modo per tenerla in vita ancora un po’ facendola amare a noi bambini. È grazie ai suoi racconti, infatti, che nonni, bisnonni e trisavoli ci sono diventati familiari come se li avessimo conosciuti di persona. Nella nostra fantasia è rimasta una galleria di personaggi quasi fiabeschi, dai nomi antichi e musicali, appartenenti all’aristocrazia del sangue e dell’ingegno e spesso a stretto contatto con la Storia. Spazzati via dal tempo, sì, ma capaci di un sommesso, ricorrente richiamo. Fanno capolino a distanza di anni, da una lapide, un libro, un oggetto personale, una lettera, una fotografia, una citazione, una somiglianza. Letterati, musicisti, pionieri della medicina, che, pur avendo meritato un posto nei libri di storia, vi figurano con biografie sbiadite ed imprecise, a causa delle morti precoci e dell’incuria dei parenti. E le loro donne, intelligenti, raffinate, dotate per le arti, inghiottite dal buio di un’epoca che le relegava tra le mura domestiche e nell’ombra dei mariti. A completare il quadro, i tipi ‘originali’: qualche scialacquatore, qualche collezionista di passatempi, qualche testolina ribelle… buoni per l’aneddotica familiare (e a volte cittadina, come accadde alla prozia Jolanda, che finì nelle storie della Sgnera Cattareina di Testoni per essere andata al fronte travestita da soldato). Tutti comunque pieni di talento, affascinanti, simpatici. Così periodicamente mi ritrovo con la smania di scavare nella polvere di vecchie scatole e nei meandri di archivi e biblioteche, smania rinfocolata, oggi, dal fascino della sterminata nebulosa di internet. È una caccia al tesoro che si svolge come un illogico percorso a zigzag, da una lucina all’altra, così, a caso: un nome che rimanda a un ricordo, un ricordo che suscita un’indagine. Un guizzo chiama, un palpito risponde… E sollevando un velo dopo l’altro avverto la presenza, il calore, di quelli a cui devo la forma degli stinchi e l’emicrania, il senso del latino e l’orecchio musicale, l’impulso a soccorrere e il gusto per gli enigmi… Insomma, quelli che mi hanno lasciato in eredità questa terra, questa vita. Restano solo tracce, come i sassolini di Pollicino sul sentiero, e non so se sto cercando di ravvisare un disegno che mi comprende, un cammino che deve continuare, o semplicemente sto tornando a casa, per non sentirmi sola.

UN ESSERE MERAVIGLIOSO

   Tina Gualandi


Mia madre, morta a cinquantasei anni di ictus cerebrale. Era una mamma affettuosa, una persona generosa, sembrava potesse capire tutto il mondo degli altri perché la sua generosità era infinita. Sapeva rendere le persone speciali, le ascoltava in un modo tutto suo e anche una cosa semplice diventava straordinaria. Un viaggio raccontato a lei diventava unico e irripetibile. Dopo la sua morte tornare da una vacanza o da un viaggio era una tristezza. Quando entrava in una stanza, questa si illuminava. Era luminosa di luce propria, ma se vi erano altre persone, queste si illuminavano anch’esse. Da quando è morta nulla è più come prima. Io non mi rendevo conto di quanto fosse importante per me la sua persona e anche se lei ripeteva spesso che i figli devono farsi la loro vita, la sua morte ha lasciato un tale vuoto che niente e nessuno potrà mai riempire.

IL SILENZIO DEI PENSIERI

   Patrizia Degli Esposti

Abbiamo tutti una memoria che ci permette di assimilare nozioni, emozioni, avvenimenti. Ricordare i versi di una poesia, di una canzone, la trama di un film, il titolo o l’autore di un libro, il nome dei nostri amici e tanto altro ancora. Il nostro cervello raccoglie dati e li archivia in attesa di utilizzarli. Ma dimenticare è la cosa più facile che possa accadere. A me succede spesso di dimenticare piccole cose, di alzarmi per andare a prendere… e non ricordare… Allora torno indietro e ricerco il dettaglio che mi aveva spinto ad alzarmi. “Un posto una cosa, una cosa un posto”, diceva il mio titolare, un aiuto per la memoria e per l’ordine non solo mentale.
Può accadere che la memoria ci faccia lo sgambetto: anche se siamo rimasti in due in famiglia, il ricordo e l’abitudine di un gesto diventa automatico e, se siamo sovrappensiero, apparecchiamo per quattro, perché per anni in famiglia si era in quattro.
Gli anziani spesso hanno una memoria fantastica del passato e tendono a dimenticare quello che fanno nel presente. I ricordi fanno parte di noi, del nostro vissuto, ci accompagnano silenziosi e a volte svaniscono lasciando spazi ampi che rimangono vuoti. La memoria può confondersi, associare avvenimenti e modificarli e, forse, in alcuni casi può essere l’inconscio che affiora, più che la confusione mentale.
Chi più chi meno siamo tutti soggetti a dimenticare qualche cosa, ma spesso ciò è associato a stanchezza mentale, a troppi input che il cervello contiene. La memoria che viene a mancare negli anziani fa parte di patologie che portano a lenta ma progressiva regressione delle facoltà legate all’autonomia. La memoria rimane una parola priva di contenuti a cui non si riesce ad associare nulla.
“Non si riesce a ricordare tutto”, risponde la mia mamma di anni ottantasei, a cui ho chiesto cosa significa per lei la memoria. Poi associa il ricordo al ragù. Ma è un po’ confusa sull’utilizzo del ragù. Ed ecco che parla di una strana moda... e subito dopo accenna ad una famiglia. I suoi ricordi sono come tante tessere di un puzzle che non riesce ad assemblare in modo corretto. Una memoria di tanti avvenimenti, di vissuti, a cui non riesce a dare un filo logico. Esercizi per la memoria? Sicuramente utili. Fino a quando l’ossigeno aiuta non solo il respiro ma anche il cervello. Oltre un certo limite la nostra memoria ci fa tornare bambini, ignari del mondo, senza più esperienza a cui attingere, in attesa di ritornare nel grembo e ad una memoria ancestrale per “formar l’angelica farfalla”...

non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Dante – Purgatorio, X 124-126

LE SUE PAROLE…

   Paolo Sanzani


…le sue parole sono state: volevo farla finita e così ho ingerito due blister di barbiturici.
…lo ammetto, non mi sorprendo più di nulla, in questo ‘ambiente’ di persone chesi fa fuori come bere un bicchiere d’acqua. Ne abbiamo parlato con un amico, il quale sostiene a giusta ragione che la gente ci ‘muore’!!! … passa il tempo, non c’è miglioramento nella qualità della vita e così ‘uno gliela dà su’ senza remore… però!!!

RACCONTO ZEN SUL RICORDO

   Lu Zen pass


Se avessi dovuto studiare per essere ordinato sacerdote… non sarebbe mai accaduto perché sono sempre stato disordinato e… confucio.

EMMANUELA

   Mariangela


I ricordi sono come le onde del mare, vanno e vengono, possono essere piacevoli e non, essi sono le nostre radici. Il passato ci narra quello che siamo stati, chi siamo, da dove veniamo e che percorso abbiamo concluso, ci aiuta a non ripetere gli stessi errori e ci protegge da incontri o strade intraprese che ci hanno fatto soffrire. Senza ricordi siamo nulla, possiamo pensare a persone che per i vari traumi subiti non ricordano più nulla di loro e del loro passato, una condizione terribile che li priva della loro identità e della speranza nel futuro. Il ricordare ci riconduce a realtà negative o positive come i luoghi vissuti, persone amate, eventi o fatti che ci hanno coinvolto ed è a questo proposito che porto alla vostra attenzione questo episodio: erano gli anni Sessanta, uscita dal collegio coronai il mio sogno d’amore, ero giovane e desiderosa di avere una famiglia tutta mia, quella che io non avevo mai avuto. Ben presto con il matrimonio la mia famiglia cominciò a crescere, nacquero Fabio, Adriano ed Emmanuela, trascorsero anni felici ma anche con tanti sacrifici, perché la famiglia era numerosa e le entrate a volte scarseggiavano. Ottenuta la licenza media, Emmanuela decise di cercare un’occupazione, cominciò con lavori saltuari, col tempo trovò una sistemazione stabile come commessa presso una gioielleria della città, volenterosa e diligente, così era. Ebbi la gioia di vederla diventare adulta e felicemente fidanzata ad un giovane serio propenso al matrimonio, che lei tanto desiderava! Dopo una convivenza di alcuni anni decisero di fare il grande passo, quello del matrimonio. Si avvicinava il tempo del fatidico sì, stabilita la data cominciarono i preparativi per la grande occasione. La scelta dell’abito bianco e la preparazione religiosa, in seguito ci sarebbe stata la scelta delle bomboniere, del ristorante dove consumare il pranzo di nozze, delle partecipazioni da inviare a parenti ed amici e della località dove recarsi per il viaggio di nozze, mancavano cinque mesi e tutto si sarebbe realizzato, soddisfacendo così il mio desiderio di vederla sposa. Non fu così, un incidente stradale la strappò a me e ai suoi cari, aveva solo trent’anni. Fu un dolore atroce, che al solo pensiero prova ancora a riemergere, benché siano passati molti anni e nonostante io cerchi di vivere una vita serena, sostenuta dall’affetto dei miei due figli. Spesso mi sono chiesta il perché di questo, la risposta che ora mi do è questa: a volte la vita ruba gli affetti più profondi e procura ferite difficili da rimarginare, ma devi essere disposta ad accettare tutto, purtroppo. Un evento, questo che vi ho narrato, che ha lasciato nella mia mente un solco profondo e indelebile, ma il tempo, la relazione con gli altri e soprattutto il supporto psicologico da parte di operatori qualificati, mi hanno permesso di ottenere la forza per elaborare il lutto e considerare i ricordi come fonti di esperienza a cui attingere ogni volta se ne presenti l’occasione.

DI RICORDI IO NE HO TANTI

   Erika


Ricordo ad esempio che da bambina ho sempre amato molto la natura e gli animali; quando ero a casa da scuola ero come in un mio paradiso, mi rifugiavo nella natura che mi circondava… e per me annoiarmi era impossibile.
Un altro ricordo molto profondo è questo: mi sarebbe piaciuto tanto stare in mezzo alla gente e andare più spesso al ristorante coi miei genitori, ma purtroppo questo non era possibile perché loro lavoravano molto in casa, alle prese con la ristrutturazione; avevo pochi amici e invidiavo le persone che erano spesso in giro e mi ricordo che quando passava un corteo di sposi ero tanto dispiaciuta di non essere in mezzo a loro; lavorando con l’immaginazione organizzavo dei matrimoni a cui partecipavo insieme alle persone che immaginavo io, e questi erano i momenti più belli della mia vita… C’erano infatti i personaggi di Licia e i Beehive che erano miei amici; ancora adesso questi personaggi li ho nel cuore. Posso dire quindi che ho molti ricordi di tante situazioni immaginarie che mi hanno aiutato a crescere.

APE BEE ABEILLE ABEJA BIENE BI

   Costanza Tuor


Il ricordo più vecchio che ho riguarda uno specchio che compariva aprendo un’anta di un armadio a muro bianco. Ho sempre pensato che fosse strano che il mio primo ricordo fosse legato a una casa e non a una persona. E non proprio a una stanza ma invece a un passaggio. Poi ho guardato meglio dentro di me e mi sono accorta che quella casa con il suo passaggio stretto era di una persona che ho tanto amato. Amato in quel modo assurdo in cui i bambini molto piccoli amano. Non saprei nemmeno usare le parole, ma hanno a che fare con la fiducia e l’allegria. Ci sono persone che entrano nella nostra vita per diventare degli spartiacque che ci aiutano per sempre a discernere, cercare, stupirci e guardare. Mia zia è la pietra miliare della mia vita e mi ha lasciato in eredità il corridoio di una casa con un immenso armadio a muro che contiene uno specchio. Una casa come tante ma che ora, chissà perché, si trova nel palazzo che ospita il Centro per l’Impiego della mia città. È strano perché, da che io ricordi, il lavoro è sempre stato un mio cruccio e purtroppo non sono mai riuscita a capire per quale lavoro io fossi nata! Così collegando in modo del tutto personale e arbitrario l’eredità di mia zia e il mio cruccio mi viene in mente che io venni a sapere quasi per caso da mio padre che il primo impiego di mia zia fu quello di ricercatrice, studiava le api. Ed era felice! Le api sanno da che parte stare e conoscono bene qual è il loro lavoro. Dicono che se morissero tutte le api del mondo non ci sarebbe salvezza per il pianeta e io ci credo. Per cui credo che mia zia, per qualche anno della sua vita, abbia contribuito alla salvezza del mondo con il suo lavoro di piccola ape bee abeille abeja Biene bi!
Ape operaia? Non saprei, di politica ce ne intendiamo poco in famiglia e lei forse meno di tutti. Comunque credo che mia zia Diana fosse un’importante e fragile ape ventilatrice, operaia forse sì, ma specializzata, esposta alle stagioni e a tutto quello che contengono senza avere troppe protezioni come sua sorella, tutte le sue sorelle. E come tutte le sue sorelle cercasse le soluzioni migliori e innovative per tenere fresco l’alveare. Di lei ricordo principalmente i racconti che mi sono stati fatti e una sola parola - buonanotte - con un bacino, mentre mi rincalzava le coperte. E mi regalò un libro, questo sì lo ricordo, ma l’ho perduto fra i tanti che mi sono capitati tra le mani, sparsi nelle librerie delle varie case che ho abitato. Tuttavia la cosa che so per certo è che quel libro era ambientato in un luogo simile alla savana, con tanti, tutti gli animali. Persone? Non lo so, quello non lo ricordo. So solo che mia zia è morta trentanove anni fa e io avevo da poco compiuto sei anni. Da allora per me la lettura e la scrittura misurano la distanza di una stanza/passaggio nella mia vita quotidiana. Che strano pensare che quella stanza lunga e sottile sia appollaiata proprio sopra al Centro per l’Impiego come sul cucuzzolo di una montagna. Un avamposto interrogativo! Speriamo che prima o poi questo fatto bizzarro sciolga la sua incognita suggerendomi un’abilità lavorativa in cui poter spendere le mie energie e piccole sapienze, perché anch’io un giorno possa esser un’ape bee abeille abeja Biene bi, operaia nel mondo!

IL RICORDO DEGLI EBREI

   Luca G.


I l tema di questo numero del Faro è il ricordo, e io ho cercato qualcosa di attinente all’argomento di cui parlare. All’inizio ho pensato al ricordo inteso come ricordo di una persona cara o di un personaggio famoso che è morto, ma mi sembrava un po’ troppo ovvio. E poi, che senso ha scrivere un memoriale breve, un ricordo in onore di qualcuno morto di recente, se poi te lo pubblicano dopo tre o quattro mesi, che è il lasso di tempo che impiega a essere pronto un numero del Faro? È vero che il ricordo di qualcuno che è morto e che ha segnato la tua vita vale per sempre, non si cancella mai, ma se scrivi a fine dicembre un memoriale dedicato a Carrie Fisher che appare quattro mesi dopo, in un momento in cui magari è morto un altro vip, per esempio un attore ancora più rappresentativo, il memoriale dedicato alla Fisher potrebbe finire per essere dimenticato, trascurato. Avevo anche pensato al proverbio “Ricordati che devi morire!”, ma anche quest’idea l’ho voluta scartare, perché è una frase che ti ricorda una grande verità, che ha un qualcosa di universale, ma è anche una frase usata a scopo ironico (vedi il film Non ci resta che piangere), e io non me la sento di analizzarla o di comprenderne le origini. Un altro spunto è il fatto che io ricordo tante, tantissime cose della mia vita, ma ho voluto scartare anche quest’idea, perché preferisco di gran lunga considerare un’altra eventualità, quella di raccoglierle in un libro. Tante sono le cose che potrei raccontare, tanto che se dovessi scegliere una di esse per l’articolo, mi ritroverei con l’imbarazzo della scelta: un periodo del mio percorso scolastico, il rapporto con un coetaneo o un parente, l’amore platonico per un’attrice sono solo alcuni esempi. Del resto, la maggior parte degli scrittori attingono sempre (o quasi) dalla loro vita, o da un momento importante di essa, per un loro libro o un racconto.
Raccontavo di queste mie idee a un amico, un ex collega di lavoro, spiegandogli che questi spunti per parlare del ricordo, per quanto buoni fossero, mi sembravano banali. E lui mi ha suggerito un altro tipo di ricordo, quello degli ebrei.
Sul momento non ho detto nulla, però sono rimasto incuriosito, e ho ripreso in mano un libro che ho dovuto comprare quand’ero alle medie, L’amico ritrovato di Fred Uhlman. È la storia di due adolescenti che frequentano lo stesso liceo: Hans, un ragazzo ebreo figlio di un medico, e Konradin, un giovane conte, discendente di un’antica famiglia tedesca. Ambientata nella Stoccarda degli anni Trenta, vede Hans essere incuriosito dal conte, di cui poi diventerà amico grazie alla passione in comune per la numismatica. Più di una volta Hans ospita Konradin a casa propria, ma curiosamente Konradin lo fa entrare in casa sua solo quando i genitori non ci sono. Hans sospetta che non sia una coincidenza quando nota una foto di Hitler in una stanza della villa dell’amico, che qualche tempo dopo finge di non riconoscerlo a teatro e alla fine gli confessa la verità: la madre è componente di una nobile famiglia polacca che odia gli ebrei, e per questo Konradin non ha voluto presentarlo ai genitori. Quando il padre di Hans realizza che il nazismo è destinato a prendere definitivamente il sopravvento in Germania, decide di mandare il figlio in America. Prima di partire, Hans riceve una lettera di saluto da Konradin, il quale confessa di credere in Hitler. Alla fine del romanzo, molti anni dopo, un Hans ormai adulto riceve una lettera, una richiesta di fondi da parte del suo vecchio liceo. Scorrendo una lista di ex studenti della sua generazione, scopre che fine hanno fatto durante la guerra, e in questo modo ‘ritrova’ l’amico di tanto tempo prima: Konradin è stato giustiziato perché implicato nel complotto per uccidere il dittatore. Prima della narrazione vera e propria del libro, c’è un’introduzione piuttosto lunga che mi ha spiegato in maniera esauriente il motivo per cui gli ebrei sono da sempre considerati dei ‘diversi’, di cui mi ha detto qualcosa anche il mio ex collega. Leggendo altri libri sulla condizione degli ebrei nel periodo del primo dopoguerra, prima e dopo che Hitler divenne cancelliere del Reich, si può evincere che gli ebrei sono stati ritenuti responsabili di tutto quello che c’era di negativo in Germania (come la sconfitta nella prima guerra mondiale e la crisi economica), quindi gradualmente privati della possibilità di consumare beni di prima necessità, di entrare nei negozi, di lavorare, dei loro diritti insomma. E che sono stati etichettati con il secondo nome di David per gli uomini e Sarah per le donne, e una stella a sei punte cucita sui vestiti. Infine coloro che non hanno pensato di fuggire in tempo o non sono riusciti a farlo, sono stati arrestati e deportati. Durante la seconda guerra mondiale, furono sei milioni gli ebrei uccisi nei lager.
Per ricordare la Shoah, così è chiamato l’olocausto ebraico, è stata istituita la Giornata della Memoria, fissata il 27 gennaio, giorno in cui le truppe sovietiche aprirono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz liberandone i prigionieri. Lo scopo è, attraverso il ricordo dell’olocausto, di impedire che ci siano in futuro altri orrori come quelli perpetrati allora. Eppure alle volte io ho l’impressione che venga sortito l’effetto opposto, quello di ispirare questi orrori, tanto che ancora oggi ci sono paesi dove si fanno persecuzioni e pulizie etniche. Ecco quindi una forma di ricordo di cui senza volerlo ho preso a parlare.
Ma viene spontaneo chiedersi come mai proprio gli ebrei siano stati presi di mira. E non solo durante il nazismo, anzi, da sempre! Posso provare a spiegarlo, attingendo da quanto mi ha spiegato il mio amico, che mi ha spiegato in che forma gli ebrei hanno esercitato il ricordo. Consultando un atlante, si può evincere che gli ebrei sono pochini, dato che l’unico paese in cui l’ebraismo è la religione predominante è Israele. Inoltre al giorno d’oggi, quando incontri un ebreo non ti accorgi che è tale, non lo riconosci, non balza subito all’occhio se non glielo chiedi. Ma in realtà il mondo di ebrei ne è pieno, e non c’è niente di male, checché ne pensino alcuni estremisti. Col tempo gli esseri umani sulla Terra si sono moltiplicati: per raggiungere il miliardo ci sono voluti 200.000 anni, ma ne sono bastati appena 200 per passare da uno a sette miliardi. Una parte degli attuali sette miliardi di abitanti sono di religione ebraica, ed è davvero una piccola parte, circa 14 milioni, di cui otto residenti proprio in Israele. Ai tempi in cui c’erano i faraoni, molto prima di Gesù (anche lui ebreo), gli uomini sulla Terra erano giusto qualche migliaio, e gli ebrei erano ancora meno: già da allora gli ebrei praticavano una religione, parlavano una lingua, usavano una moneta, avevano una cultura tutta loro, che li identificava e in qualche modo li isolava da tutti gli altri. Forse tutti voi sapete bene che gli ebrei presenti in Egitto e ben tollerati dai tempi di Giacobbe furono schiavizzati dal faraone, come si vede per esempio nel cartone Il principe d’Egitto del 1998 e in I dieci comandamenti del 1956. Gli ebrei furono ridotti in schiavitù e i loro figli maschi sterminati, per paura che potessero moltiplicarsi e fare una rivoluzione. In seguito, come dice l’Antico Testamento, Mosè liberò gli ebrei, aprì le acque del Mar Rosso e li accompagnò attraverso di esso per poi raggiungere il deserto della terra promessa, la Palestina. Tutto questo è noto a chi ha studiato la religione, ma non sono fatti storici documentati con certezza assoluta. Invece è un fatto storico che nel 70 d.C. gli ebrei si ribellarono ai Romani, con la conseguenza che l’imperatore Tito inviò le sue truppe a Gerusalemme, che venne conquistata e devastata. In particolare venne distrutto il Tempio, che per gli ebrei era il principale luogo di culto. Da allora cominciò la diaspora: gli ebrei furono costretti a lasciare la loro terra ed a emigrare, andando a stare nelle varie terre del mondo conosciuto, nella speranza che quelle nuove terre potessero consentire loro di vivere in pace. Da allora, pur abitando in questi altri paesi, gli ebrei hanno sempre mantenuto la loro cultura, praticato la loro religione, parlato la loro lingua, commerciato con la loro moneta. E ovviamente hanno anche convissuto con la paura di qualche persecuzione. I nazisti non hanno inventato il cosiddetto 'antisemitismo', termine che noi usiamo per intendere la discriminazione degli ebrei, l’hanno solo portato all’estrema esasperazione. Anzi, questa discriminazione è stata estesa e praticata verso tutti quelli ritenuti ‘diversi’ e quindi pericolosi: oppositori politici, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, comunisti (da cui tra l’altro gli ebrei prendevano spesso le distanze perché in molti erano affermati in campo borghese ed erano contrari al comunismo).
Ma l’antisemitismo verso gli ebrei c’è sempre stato. La precisazione è necessaria, perché 'antisemitismo' è un termine improprio, dal momento che gli ebrei non sono l’unico popolo proveniente dalla famiglia semitica (da Sem, uno dei figli di Noè): semitici sono anche Fenici, Babilonesi, Assiri, Arabi. E guarda caso, proprio la lingua araba è simile all’ebraico. E qui torna la domanda: perché gli ebrei sono sempre stato un bersaglio delle popolazioni, più degli Arabi? Nel corso dei secoli, cristiani e Arabi musulmani hanno avuto conflitti religiosi e scambi commerciali e culturali, ma non hanno mai convissuto a lungo nello stesso territorio. Al contrario, gli ebrei sono sempre stati in mezzo alle popolazioni europee da quando hanno dovuto lasciare la Palestina. In mezzo, ma non mescolati, poiché vivevano in quartieri separati dal resto della popolazione, anche in virtù del fatto che si rinchiudevano, per così dire, nella loro religione, che a differenza di quella dei Romani, era monoteista. Ed è a questo punto che emerge la questione del ricordo vero e proprio. Da quando si sono sparsi in Europa, gli ebrei hanno formato comunità isolate dagli altri, ma allo stesso tempo connesse fra loro, e hanno sempre mantenuto vivo il ricordo del loro passato, della loro storia, delle loro origini. E questo proprio perché tutte le comunità ebraiche avevano l’intenzione di ricordarsi a vicenda che erano tutte componenti di un solo e unico popolo, un popolo senza una propria nazione dove dimorare. Le persecuzioni subite erano allo stesso tempo causa ed effetto di questo loro intento. Infatti le persecuzioni li rendevano bisognosi e desiderosi di ricordarsi del loro passato, anche recente: e sortivano anche l’effetto di mantenerli diversi dagli altri.
I rabbini, i sacerdoti della religione ebraica, che ha una letteratura e dei rituali ben precisi e a volte complicati, non si limitavano a fare catechismo ai giovani, facevano anche da maestri di scuola. Di conseguenza, i giovani ebrei si sono ritrovati a dover allenare le loro facoltà intellettive, sempre di più, di generazione in generazione.
Nel medioevo, in un’epoca in cui non c’era la tolleranza religiosa e le persecuzioni verso i ‘diversi’ erano più di prima una minaccia costante, gli ebrei capaci di leggere, scrivere e far di conto erano di gran lunga più numerosi dei cristiani alfabetizzati. Anzi: dato che avevano mantenuto tutte le caratteristiche del loro paese d’origine, gli ebrei hanno dovuto imparare le lingue dei paesi dove si erano trasferiti e a cambiare le monete. Quando parlavano e commerciavano tra di loro, gli ebrei usavano la loro lingua e la loro moneta, ma quando si relazionavano con gli altri, dovevano saper parlare e usare la lingua e la moneta altrui. Questo li ha portati ad abituarsi a tradurre e convertire le lingue e le monete degli altri popoli con la loro e viceversa. E di conseguenza, gli ebrei hanno preso a fare da interpreti, da banchieri, e anche a fare altri mestieri nell’ambito del commercio. Qualcuno di loro divenne anche ricco. Non tutti, certo. Ma una cosa è sicura: fin da ragazzini gli ebrei venivano abituati ad apprendere e ricordare alla perfezione i loro riti e i loro testi sacri. Le facoltà intellettuali molto sviluppate degli ebrei hanno loro consentito con il tempo di diventare anche ottimi artigiani e a svolgere bene le varie funzioni pubbliche, come quella di medico. E ovviamente, di mantenersi aggiornati nel saper tradurre le lingue e convertire le monete, proprio perché avevano un cervello molto allenato. Queste loro capacità consentirono ai popoli cristiani di avvalersi dell’aiuto degli ebrei per i loro scambi, e li portarono a rispettarli e tollerarli.
Gli ebrei divennero sempre più integrati in campo lavorativo, ma rimasero chiusi nella loro religione, pur mostrando (ogni tanto, per alcuni di loro) un po’ di apertura mentale. Infatti, pur capendo e rispettando le religioni altrui, non si convertirono. E questo comportò loro sempre grossi problemi. Già erano loro precluse attività come funzioni pubbliche, il possedimento di terre, l’uso delle armi. Inoltre bastava un cambiamento di governo, lo scoppio di una guerra, un banale incidente per causare gravissimi guai agli ebrei, che vedevano i loro quartieri saccheggiati e incendiati da fanatici cristiani.
Una persona si giudica perché è fatta con un carattere suo, non per via della sua religione. Purtroppo ci sono stati (e ci sono) dei prevenuti che per un motivo o per l’altro incolpano un ebreo, o uno di religione diversa, fomentando o risvegliando l’odio verso di loro. Attaccato un ebreo, potevano esser coinvolti anche tutti gli altri. Se saltava fuori un ebreo disonesto, o un non ebreo che voleva lucrare sugli ebrei, o approfittarsi di loro, c’era il grosso rischio che gli ebrei della comunità locale venissero tutti etichettati ed emarginati, se non costretti a scappare in un altro paese e sottoposti a omicidi, incendi e saccheggi. Cose che a ben guardare purtroppo succedono ancora adesso in altri punti del pianeta, a danni di altri popoli. Insomma, l’odio col pretesto religioso non è caratteristica solo di chi se la prende con gli ebrei.
Dall’inizio del Cinquecento le comunità ebraiche furono confinate nei ghetti, quartieri riservati apposta per loro, non per privilegio ma per isolarli ancora di più. Dovevano ottenere un lasciapassare per entrarne e uscirne, e mai dopo il tramonto. Inoltre, quando emersero le monarchie (come la Francia, l’Inghilterra, la Spagna) fu imposto di convertirsi al cristianesimo. Alcuni ebrei si convertirono, altri finsero soltanto di convertirsi correndo grossi rischi. Altri ancora preferirono emigrare verso l’Europa orientale. La Russia, la Polonia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria erano territori arretrati e feudali, dove non c’era un governo stabile, capace di controllare uniformemente la loro terra. E anche se le persecuzioni e i rischi rimanevano, gli ebrei poterono tranquillamente continuare a praticare la loro religione e parlare la loro lingua. Qualche tempo dopo le cose nell’Europa occidentale migliorarono un po’ dal punto di vista economico e civile, e parte degli ebrei approfittarono della momentanea apertura di idee per rientrare in quei paesi che avevano lasciato. Col passare dei secoli, gli ebrei mantennero sempre le loro facoltà intellettive ben allenate, e quando ci fu la rivoluzione francese, che abbatté ogni differenza di carattere religioso e sociale, i ghetti furono aboliti e gli ebrei si ritrovarono anche a coprire incarichi e professioni che i loro avi potevano solo sognare: avvocati, funzionari, dirigenti, politici, professori. Alcuni ebrei finirono addirittura con l’assimilarsi spontaneamente agli abitanti delle terre dove abitavano, diventando cristiani senza esserci costretti. Altri rimasero semplicemente ebrei, altri ancora divennero laici, liberi pensatori. Nell’Europa Orientale, invece, gli ebrei si assimilarono poco, proprio perché i paesi dove stavano erano arretrati. Isolati dal resto della società, gli ebrei orientali stavano nei ghetti, o in villaggi in piena campagna detti shtetl. Essi parlavano la lingua del paese dove risiedevano e lo yiddish, un misto di ebraico, tedesco e slavo. Agli inizi del ventesimo secolo, ci furono i pogrom, episodi in cui la popolazione scaricava il suo malcontento sugli ebrei e sulle minoranze in genere. Questi episodi di saccheggio, violenza, incendi, omicidi non venivano fermati dalle autorità, anzi, venivano appoggiati proprio perché risultava utile ai governanti che si scaricasse il malcontento su una valvola di sfogo piuttosto che verso di loro.
Intanto si era sviluppato nel continente il nazionalismo, che sfociava spesso e volentieri nel razzismo. Per il Tedesco, il Francese era un nemico, e viceversa. L’ebreo invece, per quanto assimilato potesse essere, era considerato pur sempre un diverso, un nemico generale e basta. E quindi le persecuzioni, le discriminazioni tornarono a essere un problema attuale. È questo il periodo in cui Hitler iniziò a seguire e coltivare le idee che aveva già sentito da giovane. Idee che vedevano gli ebrei stabilirsi nei vari paesi, cercarsi un lavoro, affermarsi socialmente come borghesi e venire quindi visti come intrusi, addirittura come una minaccia, come qualcuno che impediva ai ‘locali’ di lavorare. Un po’ come quando certe persone al giorno d’oggi si lamentano che gli immigrati vengono in Italia e ci tolgono il lavoro e le case.
Idee che con l’avvento del nazismo sarebbero diventate sempre più forti e convincenti, e che non solo videro gli ebrei presi di mira, ma anche gli immigrati e altri individui ritenuti ‘diversi’, tutti arrestati e internati nei lager. Fu proprio nel periodo del nazionalismo che un ebreo assimilato, il viennese Theodor Herzl, ebbe l’idea di fondare il sionismo, termine che deriva da Sion, il nome del monte su cui è costruita Gerusalemme e nome usato in poesia per indicare la città di David. Il sionismo è un concetto che consiste nell’invitare gli ebrei a recarsi in Palestina, la terra che dovettero abbandonare dopo l’occupazione di Tito, per fondarvi uno stato tutto loro. Gli ebrei dell’Europa Orientale furono entusiasti della cosa, perché le condizioni in cui vivevano non erano affatto migliorate. L’idea non fu però condivisa da altri ebrei interpellati, anzi, quelli che risiedevano nell’Europa Occidentale la ritenevano un’idea folle. C’è persino un momento in L’amico ritrovato in cui il padre di Hans discute con un sionista dicendogli che trova assurdo che gli ebrei si diano da fare per tornare in Palestina. Sarebbe come se l’Italia reclamasse il diritto di occupare e possedere la Francia solo perché un tempo era colonia romana.
E poi all’epoca la Palestina era un territorio che stava sotto il dominio turco, abitato soprattutto da musulmani e Arabi. All’inizio gli ebrei dell’Europa Orientale iniziarono a dividersi, alcuni andarono in Palestina, venendo anche finanziati dai loro compagni occidentali che comunque non seguirono il loro esempio. Ma con l’avvento del nazismo, il numero di ebrei che andarono in Palestina aumentò sempre di più. Certo, ci furono quelli che si rifugiarono in Inghilterra, in America, o nei territori che col passare del tempo furono anch’essi occupati dai nazisti, ma c’è da considerare pure gli ebrei che andarono in Palestina durante e dopo la seconda guerra mondiale, e che ricevettero solidarietà da tutto il mondo, tranne che dai Palestinesi arabi, che si sentivano privati della loro terra e che richiedevano l’aiuto dei paesi arabi vicini, specie da quando nel 1919 la Palestina era stata tolta alla Turchia e affidata temporaneamente all’Inghilterra. Molti ebrei non tornarono più in Germania, come il protagonista de L’amico ritrovato, non solo perché non riconoscevano più la terra in cui erano nati e cresciuti (le città erano state rase al suolo dai bombardamenti), ma pure perché continuarono a esserci persone che odiavano gli ebrei e perché sentivano che avrebbero provato forte disagio tra il loro popolo, provando pure repulsione per gli orrori che erano stati commessi. Nel 1948 venne istituito lo stato d’Israele, il cui simbolo è ovviamente la stella di David, ben riconoscibile nella bandiera bianca con due strisce azzurre sopra e sotto. Ma da allora, la vita degli ebrei non fu affatto rose e fiori. Anzi, proprio perché i Palestinesi locali si sentivano defraudati del loro territorio, che avevano occupato e considerato come loro casa da secoli, cominciarono a esserci conflitti sanguinosi con gli ebrei. Basta consultare i testi di storia recente, anche solo di fine ventesimo secolo, per rendersene conto.
Non dimentichiamo poi che ebreo non è sinonimo di Israeliano. Non tutti gli Israeliani sono ebrei, anzi ci sono Israeliani cristiani, Israeliani musulmani e persino Israeliani drusi, un misto di islam e cristianesimo i cui componenti si trovano soprattutto in Libano. E allo stesso modo, non tutti gli ebrei sono Israeliani. Anzi, ancora oggi si può dire che ci sono ebrei sparsi dappertutto: se andate in un qualunque paese europeo, o negli Stati Uniti, o in un altro paese anche non americano, è possibile trovarvi una comunità di ebrei. E lo ripeto, checché ne pensino estremisti, seguaci del neonazismo, neofascisti, o altri razzisti, non c’è niente di strano e non c’è niente di male. Noi esseri umani siamo tutti uguali, pur essendo fisicamente e culturalmente diversi siamo tutti discendenti da un unico ceppo, ed è stupido che ci siano religioni in competizione tra loro. Anche se purtroppo ci sono gruppi di fanatici che affermano di combattere e uccidere in nome del loro Dio, come l’Isis.




IL RICORDO E LA RESA

   Giancarlo Siani


Io Rosaria C, vedova dell’agente V, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso.
Rivolgendomi agli uomini della mafia (...) sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono:
io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio... di cambiare...
loro non cambiano... se avete il coraggio... di cambiare, di cambiare, loro non vogliono cambiare loro...
di cambiare radicalmente i vostri progetti, progetti mortali che avete (...) “Padre perdona loro perché
loro non lo sanno quello che fanno” (...) Non c’è amore, non ce n’è amore, non c’è amore per niente…

Chi non ricorda queste parole all’indomani della strage di Capaci? È questa per me la più fulvida immagine dello strazio e della disperazione di una persona. Ma, come dice chi sa scrivere, cominciamo dall’inizio. L’inizio, caro Faro, è una notte tra Natale e Capodanno del 1977, in cui venivo alla luce in un travagliatissimo parto. Primo tra i cugini, con lo stesso nome di mio nonno Giancarlo, allora ancora in vita. Il ricordo dei primi anni di vita è ormai fievole. Ricordo poco. Ricordo Redici, un piccolo paesino in cui andavo d’estate ed in cui stavo benissimo. Andavo sempre a casa dei miei cugini, una casa aperta. Ho imparato ad andare in bicicletta, prima con due rotelle, poi una e poi via. Un mare profondissimo e bellissimo. Una sabbia grossa e chiara, una rete da pallavolo, un tavolo da ping-pong, i gelati e la canzone di Braccio di Ferro. Tutto questo a un certo punto si interrompe. Mio padre decide che l’estate non la trascorreremo più lì, ma in un villaggio. Un villaggio molto diverso da Redici. È un villaggio in cui tutti (o quasi) tranne noi sono parenti tra di loro. Un villaggio chiuso da due cancelli alle due estremità. Un villaggio a strapiombo sul mare con un panorama mozzafiato... Già, il fiato... lì ho cominciato a perderlo. Lì è successo il patatrac. Lì è successo di essere il capro espiatorio di tutto il villaggio, oggetto di scherno e derisione quotidiana per anni e anni tutte le estati. Tanto da arrivare ad odiarla questa maledetta estate. Lo chiamano adesso ‘bullismo’. Prima un nome neanche lo aveva. A tredici, quattordici anni questa è un’esperienza devastante. Non sapevo con chi parlarne, mi vergognavo. Ero un ragazzino triste ed effeminato e sempre attaccato alla gonnella di mammà. Bersaglio ideale per branchi apparentati e non. La situazione era realmente pesante, difatti una volta ricordo che mio padre me ne parlò. Mi chiese se avevo avuto rapporti omosessuali con qualche ragazzino del villaggio, perché in quel caso saremmo “dovuti scappare subito”. Sì, mio padre, la persona in cui in genere ci si rivolge per esser protetti da fanciulli, era sì preoccupato, ma mica tanto delle vessazioni e dei soprusi che subivo quotidianamente. Bensì della vergogna di eventuali contatti con qualche altro ragazzino. Contatti che, oggi lo tranquillizziamo, in quel villaggio non sono mai avvenuti. Lì comincia una lunga storia di sofferenza psichica. Una sofferenza indicibile. Psicologi e psicoterapeuti. Il primo a sedici anni a Roma. Mi chiedi perché dalla Calabria andavo a fare terapia a Roma? Perché papi è uno stimatissimo psichiatra calabrese (sì caro Faro, hai capito bene, uno psichiatra, addirittura ha diretto un Csm) e non si fidava (o si vergognava?) a suo dire di nessun collega in tutto il sud Italia. Di nessuno, ad eccezione di sé stesso. Non più di un anno fa feci una seduta chiave di psicodramma. Mettevo in scena il rapporto che avevo con lui in quegli anni. Ma a un certo punto, quando sulla scena mio padre apriva l’agenda per fissare un appuntamento al suo studio con me, suo figlio, incastrandomi tra due pazienti e con frasi tipo: “L’unica possibilità che ho è mercoledì alle 16”. Lì le altre pazienti teatranti sono diventate bianche come dei cenci. Lì ho cominciato a capire perché tanti blocchi e un mare di confusione. Ora comincio a rendermi conto che quando ero un ragazzino impaurito e massacrato dai coetanei e mi sono rivolto a mio padre, lui ed il suo ego smisurato mi hanno dato il colpo di grazia. Ricordo il giorno del mio quindicesimo compleanno in cui ero ad un livello di depressione insopportabile e lui incazzato nero mi ha portato in giro per la città in cui mi sfidava: “Dai vediamo adesso quello che vuoi per il tuo compleanno”. Ma appena provavo a far finta di interessarmi a qualcosa non andava bene, perché in realtà dovevo pensare a ciò che pensava lui. E poi con quella depressione naturalmente non hai un desiderio, neanche mezzo.
Lo so, Faro, che ti stai chiedendo se ho anche una madre. La risposta è sì. Una madre che mi ha dato (e tolto) tanto. Una madre che, così mi raccontano, quando muovevo i primi passi aveva un’ansia stellare. Una madre con una storia familiare difficilissima. Orfana di padre all’età di dodici anni, i fratelli psicotici. Una che ha dovuto imparare tutto da sola. Pardon, non proprio sola. Aggrappata con le unghie e con i denti a mio padre, verso il quale ha sviluppato una dipendenza patologica. Una madre che nei momenti più difficili ha sempre detto: “Vai, vai, vai da tuo padre. Che ti dà anche i farmaci. Mica fa il contadino, è un grande psichiatra”. Una madre che quando ho avuto difficoltà pratiche si è sempre fatta in quattro per me. Ma una madre che durante i ripetuti stupri psicologici che mio padre ha attuato nei miei confronti, ha colpevolmente taciuto. A suo dire mia madre non ha “mai potuto contare su di me”. Certo i ricordi sono soggettivi. Probabilmente quando l’ho sempre accolta in Toscana durante gli anni dell’ Università stavo sognando. Quando nel 1999, in forte crisi nel rapporto con mio padre, è venuta ospite subito prima di separarsi, forse la mia fervente attività onirica non si era ancora fermata. E ancora avrei mille e mille esempi. Lo scorso luglio mia nonna materna spira. Cerco di far qualcosa per mia madre. Organizzo il viaggio per tornare in Calabria, le compro un piccolo regalo, le scrivo degli sms, le scrivo un’e-mail, le allego una canzone. Bastano pochi minuti e mio padre, con il quale mia madre è separata da vent’anni, sa già che le ho scritto un sms e un’e-mail, sa già cosa le ho scritto, sa già che le ho allegato una canzone e sa già che canzone ho allegato. L’ autonomia, grande sconosciuta.
Ultimamente ricevo un’e-mail da mia madre, che si presta a farsi dettare (dalla sua casella di posta elettronica) degli sms privati che avevo mandato in passato a mio padre. Un’e-mail con dei caratteri/font differenti, quindi chiaramente un copia e incolla. Un’e-mail in cui si presta a scrivere per conto di mio padre: “Vorrei sapere che cosa è per te un padre”. Non più di un rigo più avanti si legge: “Vorrei sapere che cosa è per te una madre”. L’autonomia, grande sconosciuta. Ho avuto molto spesso in passato un atteggiamento morbido nei confronti dei miei genitori, che ringrazio per tutto il sostegno economico che continuano a darmi.
Ho avuto un comportamento morbido con mio padre. Quando è apparsa in famiglia la sua storica compagna, sono stato il primo ad accoglierla a braccia aperte, perché mi sembrava un gesto di civiltà. L’ho accolto qui a Bologna in tante, tante occasioni. Anche quando, appena uscito da un ricovero, gli chiesi ingenuamente: “Papà, tutti mi chiedono perché tu con la posizione che hai, non mi hai mai dato un aiuto lavorativo in Calabria”. E lui ha risposto candidamente: “Ma io non ho piacere che tu ritorni in Calabria, se torni tu, devo andare via io”.
E siamo arrivati ai ‘nostri giorni’. Un anno fa circa esco da un lungo ricovero in una residenza psichiatrica. Una residenza con personale eccellente in cui mi sono battuto per mesi pur di cominciare con loro un percorso di cura. Non è stato semplice stare lì dentro. Ma ancora meno semplice è stato da allora in tutte, e ribadisco tutte le telefonate con mio padre, sentirsi dire: “Tu non lavori, non vuoi fare un cazzo”. Questo nonostante tirocini, collaborazioni, gruppi e corsi. Non sarà che forse chi ha una sofferenza psichica ha delle belle difficoltà nella continuità professionale? Ma, come dice mia madre, “tuo padre è un bravissimo psichiatra”. Quindi di sicuro hanno ragione loro. Avrà ragione di sicuro mio padre, quando nelle mail insiste con infinita eleganza nel ricordarmi che mi offre “45 euro al mese di abbonamento di Sky”, che tra l’altro è un suo regalo. Forse, con altrettanta eleganza, dovrei fargli presente che per coprire un debito del fratello, zio Taddeo, ogni mese elargisce somme ben più cospicue di “45 euro al mese di abbonamento Sky”. Ma a zio Taddeo è concesso un po’ tutto in famiglia. Zio Taddeo è uno scaltro delinquentello di provincia, di quelli che non possono intestarsi nemmeno un paio di mutande perché protestato ovunque. Ma mio padre stravede per lui, di undici anni più piccolo. Anzi forse al mio posto nelle foto di quando ero bambino insieme a mio padre, dovrebbe essere inserito zio Taddeo. Ma sì, in fondo c’è da capirlo. Zio Taddeo è sposato, ha due figlie ed è addirittura nonno. E soprattutto non è omosessuale.
Caro Faro, forse non mi crederai, ma non sono più incazzato con i miei genitori. Non sono più incazzato con mio padre. Perché il rancore lega, anzi incatena. Ma non c’è più spazio per chi vuole continuare a danneggiare. Non c’è più spazio per chi vuole continuare a denigrare. Non c’è più spazio per chi esprime disistima a ogni piè sospinto. Non c’è più spazio per chi non ha mai realmente avuto una posizione autonoma. Non c’è più spazio per un’arroganza infinita. Eh sì, caro Faro, nel rapporto con i miei mi sono definitivamente arreso. E comunque li ringrazio. Li ringrazio per tutto il sostegno economico che mi continuano ad elargire. Li ringrazio per aver dovuto imparare da solo a capire che esistono i centri per l’impiego e i forni a microonde. Li ringrazio per aver dovuto imparare da solo come fare la domanda di disoccupazione. Per questo, caro Faro, quando i miei genitori avranno degli acciacchi di salute (speriamo il più tardi possibile) il mio sostegno non mancherà loro mai e poi mai. Se e quando avranno bisogno di una badante, mi impegnerò a scegliere la più referenziata, simpatica ed onesta. Per tutto il resto auguro ai miei genitori buona vita. Il più possibile lontano da me.

Tra le tue mani

   Paola Scatola


Spesso ricordo te
e le tue mani:
ma mi piaci tu
o il tuo essere virile?
L’amore geme…
Ma cosa mi tiene
con te?

Che bello

   Marcella Colaci


Che bello essere qui
ad aspettare il viaggio
di luna piena
nei tuoi occhi.
Vedere, sentire
assaporare, respirare
il tuo respiro
la tua voce calda
le tue braccia
il tuo petto
ansimando
dentro un mare di emozioni.
Che bello sarebbe
prolungare l'attimo
cospargersi di poesia
e perdere ogni cognizione di tempo.
La strada è pulita
dalla pioggia
la via verso te
è palpitazione
incrocio di sentimento
e passione.
Che bello io e te
in un oceano di labbra schiuse
dipanando lontananze
eludendo rancori
biasimando eterno amore.

Sorridi

   Anonimo


Un sorriso non costa nulla e produce molto
Arricchisce chi lo riceve e non impoverisce chi lo dona
Non dura che un istante ma nel ricordo può essere eterno
Nessuno è così ricco da poterne fare a meno
Nessuno è così povero da non meritarlo
Creatore di felicità in casa, negli affari è un sostegno
È un segno sensibile di un' amicizia profonda
Un sorriso dà riposo alla stanchezza
Nello scoraggiamento rinnova il coraggio
Nella tristezza è consolazione
È l'antidoto naturale a ogni pena
È un bene che non si può cambiare, né prestare né rubare
Perché ha valore solo nell'istante in cui si dona
Se poi incontrerete chi l'aspettato sorriso a voi non dà
Siate generosi e regalate il vostro
Perché nessuno ha bisogno di un sorriso
Come colui che agli altri non sa darlo.

Il mare

   Annarita Baratti


Il mare con le sue
acque gelide.
Le barche che vanno nella notte,
con la luna accesa
per far entrare
i suoi raggi nel mare.
Il mare nella notte sembra
irrorato dalla luna.
La luna sembra capace
di abbracciare il mare.

I ricordi

   Paola Scatola


Cessa d’amarmi
cessa d’essere mio.
Cessa d’essere un uomo
solo mio.

Il ricordo

   Paola Scatola


Quel bimbo
era mio padre
ed in lui
ho sempre creduto.

Io sono immenso

   François Dostuni


Essere una vita e un cuore grande.
Oggi io sono un mare immenso,
le mie onde sono sogni,
nessuna prigionia può cambiare ciò,
il mare non si può intrappolare,
onda dopo onda cambierò il profilo della scogliera.

Cancellerò le ceneri del passato,
a costo di divenir tempesta,
con i suoi venti capaci di spazzar via tutto.
François tornerà ad essere un fiore
e in primavera sboccerà in una rosa rossa
con i suoi petali cosparsi di rugiada,
e il suo profumo,
saprà di qualcosa di nuovo.

Una barca che veleggia seguendo una rotta,
quel timone da tener saldo tra le mani
per dirigere in un porto sicuro da raggiungere.
Presto guarderò in terra ove vedrò le mie orme
su di una spiaggia bianca.
Ogni sogno lo terrò stretto tra le mani e
il vento porterà aria nuova.

Vi sarà un sole alto nel cielo,
che mi scalderà il viso.
Sì un sorriso, ci sarà un sorriso.
La fine dei giorni di pioggia e sul mio viso,
non più lacrime ma sale,
quel sale portato dalla brezza del mare.

Tornerò ad essere una vita e un cuore grande senza spine.
Tornerò ad aver le ali slegate,
come quei gabbiani che spiccano il volo.
La libertà è qualcosa che mi appartiene,
la libertà di vivere, di amare,
di viaggiare,
di sognare, di andare venire e volare.

Sull’orlo del baratro

   Matteo Bosinelli


Vada avanti con il suo dolore,
la seguo io,
disse allora il Dottore.
Vada avanti e non disperi:
l’accompagno io,
in questi viottoli stantii e neri.

Sarà un viaggio forse non breve,
andremo, insieme, incontro
a tempeste, ghiaccio, lampi e neve.
Ma vedremo anche il sole, splendente,
forse, alla fine, prima del niente.

San Valentino

   Maurizio


Che bello essere qui
Un amore
per amare
una donna
...un fiore.

Sulla terra
dentro l'acqua
sopra il monte
là nel bosco.

Oltre il tempo
dietro il cielo
senza spazio
fuori il mondo.

Con passione
con il cuore
con il sangue
dell'amore.

Lo ricordo così

   Paola Scatola


Lo ricordo così
come il mio bambino.
Lo ricordo così
come la cosa più importante
che avevo.

I tuoi occhi

   Annarita Baratti


Con i tuoi occhi bellissimi
incanti tutte le donne.
I tuoi occhi sono
uno spettacolo.
Quando li apri
tutti rimangono stupiti.
I tuoi occhi fanno sognare.
Di qualsiasi colore siano
i tuoi occhi sono sempre belli.

La libertà è un salto

   Maurizio


La libertà è un salto
che ti proietta in una
dimensione irreale.
All'Aquila Reale
in volo nell'aere
ti fa assomigliare,
o ad un pesce regale
che ama scandagliare
i fondi del mare.

Amore platonico

   Maurizio


Il desiderio
di bagnarsi
con la pioggia
che scende
dal corpo
d’un cielo
di donna.

Sentirne
l’intenso
profumo
custodito
nella scorza
e… dentro
il melograno.

Rimirare
lo specchio
di segrete
voglie
impresse
nella venustà
di occhi puri.

Ascoltarne
l’insistente
silenzio
percepito
quale scoppio
di passioni
d’amore.

È il momento
del piacere
vago
vissuto
con tenerezza
sulle ali
del vento.

Oh, Pierrot

   Annarita Baratti


Con quella gocciolina
di lacrima sul viso
hai conquistato
ogni persona,
grandi e piccini.
Sei dolce, bello,
fragile e delicato.

Luna

   Annarita Baratti


Luna nascente.
stella cadente.
Luminosa
vivente
interessante.
Stella che gira
nell’infinito.
Nel cielo
campo aperto
per ammirare
l’universo.

Figlia del vento

   Annarita Baratti


Figlia del vento
nube di pioggia
acqua che scende
dal cielo.
Vento che soffia
tra gli alberi.
Acqua
di fiume
che scorre.
Popolo agguerrito
che ha vinto.

Il prato verde

   Paola Scatola


Volevo amare solo te.
Poi ho capito
il tuo senso del pudore:
quel prato verde
era il ricordo di una bambina.

Ninfea

   Annarita Baratti


Fiore bellissimo
colorato
che vive in un giardino
acquatico.
Ti fa emozionare
sognare
sbalordire
dalla sua bellezza.

Cosa è giusto

   Jenny


Giusto o non giusto noi lasciamo
Giusto o non giusto noi dormiamo
Giusto o non giusto noi ci danniamo
Giusto o non giusto ci rassereneremo o chissà
Ma cosa è davvero giusto?

A Lucio Dalla

   Marcella Colaci


La sentinella del mattino
fa capolino,
la luna birichina
va via
senza stonature,
non ci sono mai state
stonature
nella tua vita.
Piazza Grande invade la città
e appari da supporto
inequivocabile
berretto e clarinetto.
Via a passo lento
finito il cammino
resta la bella e amata
tua Bologna a portarti in grembo
da quel 4 marzo del '43.
Mai solitario,
morivi
ma
non dentro.

Il faro

   Annarita Baratti


Il faro nella notte
si accende.
Il mare
riporta le sue onde
a riva.
Le temperanze.
L’aria è fresca e umida.
Tutto ciò che lo circonda
è lì tra terra e mare.






La vita nei ricordi

   Gabriele Beghini (autore) e Mariana Parera (collaboratrice)

Iricordi sono tracce del passato lasciate dagli eventi. Registrazioni che si formano dentro di noi e che possiamo in vario modo recuperare, riproporre ed elaborare. Ricordiamo persone, voci, suoni, immagini, luoghi ed episodi.
Il cervello è un complesso elaboratore il cui funzionamento non è ancora del tutto noto alla scienza. Raccoglie grandi quantità di informazioni. Apparentemente solo una parte di esse vengono registrate. Evidentemente in modo più o meno conscio attribuiamo importanze variabili, tanto da lasciare che qualcosa si perda o, al contrario, far sì che qualcos’altro, a cui teniamo particolarmente, si scolpisca permanentemente dentro di noi. In realtà non è esattamente così: talvolta anche gli eventi lasciati cadere nell’oblio possono risorgere, si tratta di un argomento ampiamente trattato dalla psicoanalisi. Alcuni ricercatori sostengono che il nostro cervello abbia potenzialità straordinarie che sappiamo sfruttare solo in piccola parte. In questo senso, anche se l’esito non è sempre garantito, con tecnica adeguata e un certo impegno potremmo ricostruire un ricordo che crediamo perso, ad esempio l’arredo di una stanza vista una volta sola tanto tempo fa. Talvolta però capita che il ricordo sia alterato da effetti distorsivi consci o inconsci. Pare che il medesimo evento, ripescato più volte dai meandri della nostra memoria sia suscettibile di alterazioni. Probabilmente dettate dalle trasformazioni dello stato, dalla condizione o della personalità dell’individuo. Un ricordo di un evento vissuto da bambino può subire un processo di elaborazione nel corso del tempo. Nel divenire adulto il soggetto lo rivede da altra angolazione, fino a trasformarlo sostanzialmente. Qualcosa di spaventoso può perfino diventare divertente. Ci sono processi di cui nemmeno ci rendiamo conto. Delle persone del nostro passato, ad esempio, tendiamo a ricordare solo le cose belle o solo le cose brutte: probabilmente è il risultato di un meccanismo di autodifesa, o forse della nostra scarsa obiettività. La nostra mente filtra e deforma. È così che alcuni personaggi del passato di dubbia fama, che hanno fatto guerre e compiuto crimini, sono diventati un mito. Nel ricordo collettivo eventi significativi hanno contribuito a dipingere un personaggio come da ammirare, tanto da distorcere gli eventi reali e far sparire le atrocità. Poi ci sono ricordi che si perdono, sovrascritti da qualcosa che consideriamo più importante o che vengono semplicemente abbandonati. Questo capita a quello che studiamo. Le nozioni normalmente si dimenticano. È raro che si ricordino nomi e date ad esempio. Di quello che si studia restano i concetti, resta il metodo, resta la capacità di ricostruire le nozioni con una semplice ricerca. È curioso come sfogliando un vecchio libro di scuola questo ci appare straordinariamente familiare, ritroviamo le immagini, tornano chiari i concetti. È la prova che nulla si è veramente perso, probabilmente era semplicemente archiviato in modo un po’ disordinato. Il modo in cui la memoria si crea, si trasforma o si recupera rientra in un campo della medicina in cui non è agevole addentrarsi. L’attuale stadio di conoscenza, a quanto pare, non è neppure in grado di dare spiegazioni a tutto. È un campo complesso, nel quale la ricerca sta lavorando e dal quale ci si aspettano grandi progressi in futuro. Sarebbe interessante sapere se e in che modo i ‘ricordi’, sotto la forma di informazione genetica, si possono trasmettere tra individui per mezzo della discendenza. L’istinto, che umani e animali portano con sé senza che nessuno della stessa specie debba insegnare nulla, è forse il risultato dei ricordi che gli avi hanno trasmesso? E che dire dell’anima? Questa misteriosa entità intangibile e immortale può forse conservare ricordi e trasmetterli attraverso la reincarnazione? Sono temi molto ardui da affrontare, abbondantemente trattati da studiosi seri e appassionati, ma che difficilmente ottengono dalla scienza ufficiale appoggio e riconoscimento. Ma torniamo ai ricordi propriamente detti e al relativo mantenimento e recupero. Oggi possiamo contare sull’aiuto della tecnologia. Ad esempio, accendiamo il computer e riguardiamo le fotografie di una vacanza di qualche anno fa: rivedere le immagini permette di rinfrescare i ricordi, di rivivere quei momenti.
Probabilmente è utile tener vivi i ricordi belli, farne tesoro, riviverli con la immaginazione, mantenerli o ricrearli nella realtà. E non dimenticare i ricordi brutti, ma elaborarli, trarne insegnamento, costruire uno scudo difensivo affinché non ci possano nuocere. I ricordi fanno parte di noi, siamo il prodotto delle nostre esperienze e del nostro passato. Alcuni sono talmente importanti da produrre gioia nel rievocarli. Quante volte ci si siede attorno ad un tavolo con vecchi amici a raccontare per l’ennesima volta episodi divertenti? Talvolta anche un po’ esagerati dalla nostra immaginazione... Anche quando siamo soli ‘rimandiamo indietro il nastro’ e ripercorriamo il passato. Ci può anche servire per trovare giustificazione a qualcosa che ci ha fatto male o semplicemente per godere di un momento piacevole o di una soddisfazione. Avanzando con gli anni il nostro fisico si trasforma e si riducono le nostre possibilità nel presente, tanto che in questi casi rivivere il passato potrebbe essere di conforto. Sappiamo che i ricordi producono effetti nei nostri stati d’animo. Alcune patologie degenerative possono influenzare negativamente i processi della memorizzazione o della rievocazione. Frequente è la perdita della memoria nel breve termine, fino ad arrivare ai casi più gravi di oblio pressoché totale. Un genitore anziano non riconosce più il figlio? Tempo fa in un film una frase mi colpì e l’ho fatta mia. Un figlio diceva: “Mia madre non mi riconosce più, ma io la riconosco ancora, questo è l’importante”. Aggiungerei: chi può dirlo? Forse apparentemente non mi riconosce più, ma dentro di lei, anche se non riesce ad esprimerlo, il ricordo c’è ancora. Come viviamo passato, presente e futuro? Forse non è una regola per tutti, ma si dice che i giovani vivono prevalentemente nel futuro, dicono: “Un giorno farò...”, gli adulti vivono il presente e gli anziani il passato. I ricordi ci accompagnano per tutto il corso della vita, costituiscono il tesoro delle nostre esperienze e, probabilmente, aiuteranno chi verrà dopo di noi a non commettere i nostri errori o a migliorare i nostri successi!








Come funziona la memoria

   dott. Anna Di Santantonio
psicologa, psicoterapeuta, UOSD Disturbi del neurosviluppo programma integrato disabilità e salute sociale


La memoria è la capacità dell’individuo di mantenere le informazioni acquisite nel tempo per poi poterle riutilizzare e relazionarsi al mondo e agli altri. Si compone di tre aspetti fondamentali:
● la codifica, che corrisponde allo stadio in cui l’informazione al suo arrivo viene codificata dall’organismo;
● la ritenzione che è l’immagazzinamento dell’informazione sensoriale e permette di conservarla nel tempo;
● il recupero, che si riferisce al modo in cui l’informazione precedentemente immagazzinata viene estratta da un sistema.
Vi sono tre macro-componenti della memoria: registro sensoriale, memoria a breve termine (MBT), memoria a lungo termine (MLT) [Figura 1.].
Il primo magazzino è deputato alla registrazione dell’informazione sensoriale e si differenzia tra memoria iconica, (che trattiene gli stimoli visivi) e memoria ecoica (che trattiene gli stimoli uditivi) a seconda della modalità di informazione che viene registrata. Successivamente l’informazione, conservata per 1-2 secondi nel registro sensoriale e filtrata dall’attenzione, può decadere o passare al magazzino della MBT, il quale ha capacità limitata (7±2), per un breve periodo di tempo (30 sec).
La MBT comprende un sistema di elaborazione e ritenzione dell’informazione che viene definito memoria di lavoro (Baddeley, 1974), fondamentale per lo svolgimento di tutti i compiti cognitivi coinvolti nel ragionamento, nella soluzione di problemi, nella comprensione e nell’apprendimento. A differenza della semplice MBT la memoria di lavoro associa al mantenimento passivo dell’informazione una componente esecutiva, deputata al controllo e all’organizzazione di comportamenti complessi.
L’informazione conservata nella MBT, viene trasferita nella MLT, che è un magazzino in grado di contenere un numero elevato di informazioni, con una capienza molto estesa (forse illimitata) e per tempi estremamente lunghi. È un sistema complesso in cui operano diverse forme di elaborazione delle informazioni e della conoscenza.
Nel contesto della MLT, distinguiamo fra memoria esplicita e memoria implicita.
La memoria esplicita è coinvolta nel richiamo e nel riconoscimento intenzionale di esperienze (memoria episodica) e di informazioni (memoria semantica) (Moscovitch et al., 2009). La memoria implicita o procedurale si riferisce invece ad ogni tipo di apprendimento di cui non si abbia ricordo cosciente, non traducibile verbalmente se non per approssimazioni faticose, che si manifesta in una facilitazione in compiti di tipo motorio, percettivo e cognitivo (Squire, 2010). La memoria procedurale è la memoria di come si fanno le cose e di come si usano gli oggetti [Figura 5].
In genere i deficit della memoria dichiarativa si osservano nel contesto di una compromissione più diffusa delle funzioni cognitive, sia come esito stabilizzato di pregressi eventi cerebrolesivi (ad esempio traumatismi cranio-encefalici, stroke ischemici o emorragici, sofferenza diffusa dell’encefalo su base ipossica o infiammatoria) che come componente di un deterioramento progressivo delle funzioni cognitive nelle sindromi demenziali su base degenerativa (ad esempio malattia di Alzheimer) o vascolare.
Invece un danno selettivo delle strutture che formano il network neuronale responsabile dei processi di memoria dichiarativa produce quadri di amnesia pura (cioè senza la simultanea presenza di altri deficit cognitivi). Tale quadro clinico è relativamente raro, osservabile in alcuni casi di ipossia cerebrale, di encefalite da herpes virus, di sofferenza cerebrale da carenza vitaminica, di lesioni occupanti spazio nella regione diencefalica, di stroke lacunari nelle regioni anteriori dei talami (Kopelman, 2002).
Lo scopo della riabilitazione della memoria è quello di restituire al paziente un modo per ricordare. La riabilitazione della memoria ne sfrutta la multicomponenzialità. Siccome capacità mnestiche distinte sono supportate da aree cerebrali distinte, spesso una lesione cerebrale danneggia un sistema di memoria lasciandone intatti altri. Durante la riabilitazione, le capacità mnestiche preservate faranno da supporto a quelle compromesse, vicariandone entro certi limiti la funzione, e permettendo un modo alternativo di ricordare.
Gli approcci alla riabilitazione dei deficit della memoria dichiarativa possono essere raggruppati in tre categorie:
a) Metodiche finalizzate al rafforzamento delle capacità residue di apprendimento, si basano sull’ipotesi che sia possibile ‘rieducare’ la memoria, rendendo quindi il paziente amnesico in grado di ridurre il proprio disturbo attraverso un miglioramento della qualità di codifica delle informazioni in entrata.
b) Addestramento all’uso di ausili esterni, concepiti come una sorta di ‘protesi cognitive’, per ovviare alla ridotta funzionalità dei processi di memoria fisiologici. Vi sono vari tipi di ausili esterni. I più semplici e meno dispendiosi sul versante delle risorse cognitive coinvolte, sono i pager che permettono al paziente di ricevere messaggi che segnalano il compito da fare e quando questo deve essere fatto. Ausili esterni di utilizzo più complesso sono invece i diari e le agende (sia in versione cartacea che elettronica) che richiedono che il paziente si ricordi di inserire lui stesso le informazioni per attività future e di consultarli al fine di eseguire le attività stabilite a tempo opportuno. Infine, vi sono gli electronic aids to daily living per aiutare persone con disabilità cognitive varie (tra cui deficit della memoria) ad accedere, utilizzare e controllare apparecchi elettronici per il conforto, comunicazione e sicurezza personale, in modo da garantire a queste stesse persone di rimanere nella propria casa nonostante la disabilità.
c) Metodiche finalizzate all’insegnamento di informazioni e/o procedure utili per l’effettuazione di specifici compiti (domain-specific knowledge). Tale approccio scaturisce dalla convinzione che, soprattutto nei pazienti con sindromi amnesiche particolarmente gravi, non sia possibile ripristinare né direttamente né per mezzo di strategie alternative un autonomo apprendimento di nuove informazioni. Viene individuato un obiettivo più realistico nel tentativo di fornire a questi pazienti, per mezzo di specifiche metodiche, un insieme di conoscenze e/o abilità procedurali atte a migliorarne l’adattamento alle richieste ambientali.
Il principio riabilitativo su cui si basano tali metodiche è errorless learning (EL) (Baddeley, 1992), secondo il quale affinché un paziente amnesico possa apprendere e ritenere informazioni sufficientemente accurate, l’apprendimento deve essere esente da errori, non potendo il soggetto accedere alla propria memoria episodica dichiarativa per auto-correggersi.





A SILVIA di Giacomo Leopardi

G iacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798. Tra le bellissime poesie composte durante un suo soggiorno a Pisa, scrisse A Silvia. È in quel periodo che il poeta parla molto di ricordi, di illusioni, di giovinezza perduta, e ne avverte intensamente il fascino. Nella figura di Silvia egli ritrova il dono più bello dell’adolescenza, l’attesa trepida e suggestiva dell’amore. Si rivolge a Silvia (identificabile forse in Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta ventunenne nel 1818) e le chiede se ricorda ancora il tempo nel quale passava dall’adolescenza alla giovinezza, portando in cuore i sogni di un avvenire felice. Le stanze silenziose e le vie d’intorno risuonavano del suo canto mentre era intenta al lavoro. Era maggio pieno di profumi, e il poeta, interrompendo talvolta i suoi studi, si affacciava al balcone della casa paterna, ascoltando il dolce canto della fanciulla e contemplava le vie illuminate dal sole, il colle e il mare; nessuno avrebbe potuto dire che cosa sentiva nel cuore, che pensieri soavi, quali speranze e quali sogni sentiva sorgere dentro di sé. Ora pensando a quei momenti così felici un sentimento angoscioso lo opprime e torna a dolersi della sua sventura. Ma perché – si chiede- la natura non mantiene ciò che promette, e inganna i suoi figli? Silvia, colpita da un male inguaribile moriva prima che l’inverno inaridisse le erbe, senza poter vedere il fiore della giovinezza. Poco dopo anche le dolci speranze del poeta si sarebbero spente: a lui il fato non concesse di godere la giovinezza. Per questo egli rimpiangeva le tante speranze disilluse e l’infelice sorte dell’umanità... Quando conobbe il mondo nella sua realtà, anche la speranza scomparve, indicando come ultimo rifugio la fredda morte e una tomba ignuda. Anch’io, come il poeta, forse troppo spesso ricordo la mia adolescenza, ricordo persone che purtroppo non ci sono più, come i miei nonni, mio cugino, la nostra amica Stefania. Capisco quindi i sentimenti del poeta che parla di una persona che amava. Altre volte ricordo fatti come l’incontro con mio marito, e quando ho questi pensieri mi diverto molto. Razionalmente però penso che, anche se è molto difficile, bisogna vivere il più possibile il presente ed essere contenti per le certezze odierne.

 

TIROCINI
AIUTO CONCRETO O SFRUTTAMENTO?

   Luca Pasini


V orrei parlare in questo mio breve articolo, della mia impressione da tirocinante.
I cosiddetti ‘tirocini’ vengono visti dai più come un aiuto dell’azienda USL verso le persone che devono inserirsi o formarsi sul mondo del lavoro, oppure che hanno un qualche tipo difficoltà fisica o psichiatrica. Non entrerò nel merito delle dinamiche che portano a questi tirocini, poiché non me ne intendo abbastanza e spesso i motivi per cui uno li fa cambiano da persona a persona e a seconda del tipo di tirocinio in questione.
Ciò di cui voglio qui trattare sono le regole lavorative che determinano i contratti: esse sono retrograde e prive di diritti. A mio parere le condizioni di lavoro dei tirocinanti fanno concorrenza (sotto alcuni aspetti) a quelle dei lavoratori italiani di fine Ottocento e inizi Novecento. Gli unici tre lati positivi rispetto a questi ultimi sono il monte di ore lavorative decisamente più basso, un’assicurazione sugli infortuni e un ambiente di lavoro molto più protetto, ma tanti sono i fattori negativi della faccenda. Passo prima ad illustrarli, poi a dimostrare che i tirocini sono anticostituzionali.
Innanzi tutto le paghe sono molto basse: con un orario di circa quattro ore al giorno, lavorando per cinque giorni alla settimana un tirocinante in media prende duecentocinquanta euro, decisamente molti di meno di quanti ne prenderebbe un vero lavoratore con le stesse ore di lavoro. Spesso ciò viene giustificato con la mancanza di fondi da parte dell’AUSL, ma io ritengo che le aziende in cui tali tirocini hanno luogo dovrebbero provvedere loro stesse a stanziare almeno altri duecentocinquanta euro in aggiunta a quelli dell’AUSL. Del resto i tirocinanti svolgono determinati compiti per le suddette aziende, che tra l’altro sono profumatamente pagate annualmente dall’AUSL, incassando 4.000 euro annui per ogni tirocinante che prendono.
Una mancanza ancora più grave è l’assenza del trattamento di malattia: se stai male e non vai a lavorare perdi la giornata e la paga, non hai quindi alcuna tutela economica.
Ultimo, ma non ultimo: tutti coloro che lavorano hanno diritto a ferie pagate, ma a noi tirocinanti ciò è negato.
Tutti questi dati di fatto mi portano ad accusare i tirocini di tutti tipi (d, c, ecc.), come contratti assolutamente anticostituzionali.
Passo ad illustrare le prove di questa mia accusa:
L’articolo 36 della Costituzione Italiana dice che:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
L’ultimo comma dell’articolo aggiunge:
“Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziavi”.
Se voleste avere maggiori informazioni per quanto riguarda il lavoro, tutti gli articoli oltre l’1e il 4, sono descritti nel titolo terzo della costituzione, i cosiddetti 'rapporti economici' che vanno dall’articolo 35 al 47.
Voglio aggiungere che è un diritto dei tirocinanti il versamento dei contributi sulla pensione.
Non posso non concludere con uno degli articoli fondamentali della nostra costituzione, ossia l’articolo 4:
“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

LA SOLITUDINE DEI LAVORATORI

   Giuseppe Raucci Associazione ADCU Bertinelli


I l Lavoro… misterioso enigma rappresentativo dei giorni nostrani – nazionali.
L’occupazione è stata fonte di ispirazione, nascita e diffusione per circolari, leggi, decreti legge, manovre economiche, riviste, quotidiani, periodici, enti, movimenti sindacali e numerosi libri. Apparentemente la somma di questi elementi della nostra società contemporanea farebbe pensare alla circostanza sistemica che quando un individuo o gruppi di persone restano senza occupazione entrano in un meccanismo di tutela attraverso il quale non si resta da soli… Nulla di più errato!
Certo è innegabile che qualche piccolo ammortizzatore sociale esista, ma crediamo senza dubbio di smentita che sia solo una goccia d’acqua in un arido e vasto deserto. Ma come trovarlo il suddetto miracoloso miraggio – oasi lavorativa!? Partiamo, per esempio, dai centri per l’impiego ubicati sulla nostra penisola: alcune statistiche ci dicono che gli operatori che vi lavorano siano circa 10.000 e che i soggetti che riescono attraverso questo apparato istituzionale a ricollocarsi nel mondo del lavoro sia di poco superiore al 2% degli iscritti totali, che hanno dato, come da prassi, dichiarazione di immediata disponibilità all’attività lavorativa. Indubitabilmente l’introduzione del lavoro temporaneo, disciplinata dalle legge M. Biagi 2003 ha nel corso del tempo fatto venire meno la funzione sociale dei Centri per l’impiego: il lavoro ad interim fu auspicato anche come forma di liberalizzazione del mercato del lavoro, in regime di libera concorrenza, circostanza che ci veniva indotta anche da norme statutarie europee (art.82-86) del trattato della comunità economica. Malgrado ciò, e nonostante il numero dei ricollocati nel mondo lavorativo – attivo attraverso l’indotto interinale sia di poco superiore al doppio dei ricollocati tramite tradizionale centro impiego, rimane una quota insufficiente a far fronte alle legittime e bibliche aspettative degli inoccupati di lungo e breve periodo. Appare pacifico, del resto, che anche l’attuale contesto sociale abbinato alla poca valenza sindacale non sia fonte di aiuto e di riferimento per chi si trova senza occupazione e soprattutto per tutti quei soggetti che si trovano a dover affrontare vertenze collettive magari di delocalizzazione o motivate da presunte o reali spending review aziendali – statali. Ma come si è arrivati alla crisi di rappresentanza del movimento sindacale? La domanda è di quelle da un milione di dollari e le risposte potrebbero risultare esteriormente frutto di scontata retorica, non per noi di ADCU Bertinelli evidentemente. Appare innegabile che i tempi del boom economico italiano, anni Cinquanta/Sessanta, sono lontani milioni di anni luce, ma è proprio alla fine di predetto arco temporale, negli anni Settanta/Ottanta, che si collocano le più rilevanti lotte operaie dello scorso secolo. Nelle maggiori città industrializzate del Nord Italia, a Milano, Genova e Torino, vi furono laboratori che fecero da volano per molte altre città del bel Paese. In suddetto contesto si misero in luce i consigli di fabbrica, luogo ideale per confrontarsi su salario, orario di lavoro, e punto di riferimento per le organizzazioni sindacali. Il rispetto per il diritto e la dignità personale furono rivendicati con forza e determinazione dagli stessi lavoratori con scioperi massicci, molto spesso ad oltranza. Oggi tutto ciò per certi versi appare arcano, illusionistico e utopistico anche per evidenti responsabilità sindacali che hanno perso, tranne per rare eccezioni, i geni della conflittualità e rivendicazione, un tempo intrinseci, base e nucleo del loro stesso DNA. La solitudine dei lavoratori, titolo anche di un libro del 2012, si fa poi fitta come un banco di nebbia quando è espressione di iniziativa di lotta al sistema ricatto – paura singola o di iniziativa di pochi singoli o gruppi di persone. I datori di lavoro, ma anche taluni comparti dei sindacati confederali, non di rado complici, hanno puntato tutto il loro sistema verticistico sulla sottile linea della paura: o si fa così o si rimane a casa senza un euro in tasca. C’è poi chi, nonostante tutto ciò, con coraggio e determinazione va avanti contro tutto e tutti per la propria dignità, per lo stesso rispetto di sé stessi e dei propri principi e ideali. Ebbene, se tale condizione avversa al sistema potere si verifica, le conseguenze per il singolo sono spesso devastanti, si viene colpiti, isolati e molto spesso ammoniti dagli stessi sindacati che dovrebbero tutelarti e rappresentare le tue istanze e i tuoi naturali diritti personali. Si viene, inevitabilmente, ostacolati e combattuti per fare un esempio da significare agli altri: colpisci chi si ribella per educare tutti gli altri e indurli al silenzio e alla condizione della rinuncia.

Scandagliando…

   Matteo Bosinelli


Ricordo di un sogno
Un sogno che non scorderò mai nella mia vita, risale a quando avevo sei, sette anni.
Nel sogno, vedevo l’intero golfo di La Spezia (sulle cui colline allora vivevo) e, sovrapposta a questa visione, come un’enorme immagine cinematografica semitrasparente ‘incollata’ al golfo, un volto di bambina più o meno mia coetanea, con lisci e lunghi capelli castani. A lei mi rivolsi dicendo: “Siete ebrea?” e lei mi rispose: “Sì”; e il sogno finì, lasciandomi per diversi giorni un senso di tenerezza difficilmente esprimibile. Il sogno è indecifrabile con strumenti psicoanalitici, perché è oscuro cosa pensassi allora della popolazione ebraica. Ugualmente incomprensibile è perché davo il ‘voi’ ad una coetanea (devozione, rispetto?). Plausibile l’ipotesi è che la bambina fosse una mia cuginetta, dal viso simile alla ‘sorellina’ del sogno, che proprio in quegli anni fu adottata ed entrò cosi nella vita di tutto il mio parentado e... nei miei sogni. Suggestiva, infine, è l’ipotesi ‘magica’, e cioè che si trattasse di una premonizione che mi annunciava l’esistenza di una presenza femminile con la quale scambiare tenerezza e affetto, come... in un sogno.

In ricordo di Marino
Uno dei primi ricordi che ho di Marino è in un ristorante bolognese. Fece ridere a crepapelle me e i miei fratelli, giocherellando con le zollette dello zucchero per il caffè. In queste gag era un autentico ‘maghetto’. Inutile dire che fu come un padre per me dopo il mio esordio psicotico: ero a Bologna e quindi lontano dalla famiglia, che era a La Spezia. Marino è morto nella notte fra il 4 e il 5 febbraio 2013, tenendo per mano la moglie. Ha lasciato molto, anche una figlia molto simpatica e allegra, con la quale proseguirò il suo cammino.

In ricordo di Rosa Maria
È veramente doloroso quando scompare una persona cara con la quale si aveva instaurato, faticosamente e col tempo, un positivo rapporto in evoluzione. Talvolta, non riuscendo inconsciamente ad accettare la scomparsa, capita di pensare di mandarle un sms, una mail, una lettera, salvo poi recuperare la realtà, rendendosi conto che ciò non è, purtroppo, più possibile. Rosa Maria era una donna eccezionale, per lungo tempo da me denigrata o per lo meno ignorata, alla quale , appunto, col tempo mi avvicinai con molta timidezza ed un po’ di paura (ma di cosa?). Era una donna saggia e profondamente buona, la quale con mia grande sorpresa mi disse una volta di non essere stata una buona madre. Poco efficace fu la mia reazione e il tentativo di farle cambiare idea. Rosa Maria è morta: rimane di lei tutto quello che ha dato (molto), e la sua figliolanza, a me molto cara. L'ultima volta che l'ho vista, in ospedale, ci fecero delle foto, che non vedo l'ora di vedere: purtroppo, oltre al ricordo, è tutto quello che ho di lei.

DELLA SCOZZESE AVRANNO PAURA

   Stefy


ccomi qua, eccomi qua! Della scozzese avranno paura!”… Così dice il mio personaggio in Fantasmi di Luigi Pirandello, regia di Nanni Garella. Il mio personaggio c’è riuscito benissimo a spaventarvi… e la follia vi fa paura? Chi non si è spaventato, è venuto a teatro a vedere la nostra compagnia di Arte e Salute con pietosa soddisfazione, ammirando quanto può fare l’arte nella malattia psichiatrica. Ma lì ci sono i nostri animi, che la malattia non è riuscita a schiacciare. Non siamo diavoli redenti grazie all’arte teatrale! Il nostro animo è come il vostro, persone ‘normali’. È questo quello che la compagnia vi vuole far capire. Siamo ancora capaci di sentire ogni curva emotiva che trasmette l’arte e tutto ciò che ci circonda. Per i nostri disturbi ci sono le medicine che dobbiamo prendere, ma guardateci come persone normali che vogliono esprimere la propria sensibilità recitando. Quando fate una recensione, non ricordateci come pazienti psichiatrici. Anche se ci dite che siamo dei ‘cani’ a recitare, non vi preoccupate! Sopportiamo la critica senza avere bisogno del calmante per le crisi di nervi. Siamo come voi, ma con il coraggio di metterci in gioco e non nascondere le nostre fragilità! Con un ironico controsenso, voglio concludere questa mia lettera: “Ci fate andar ‘giù di testa’ quando ci ricordate solo come pazienti psichiatrici e non come attori! Siamo come voi, né più né meno!”

Fantasmi

   Stefy


I eri sera c’è stato il debutto di Fantasmi di Pirandello, regia di Nanni Garella. Che emozione! La sala era piena e gli scrosci degli applausi finali interminabili.
E tutti mi dicevano che ero stata brava! Mi sembrava un sogno, una cosa irreale… Ciò che facevo, finalmente, veniva considerato. Sono talmente abituata a sentirmi dire che ciò che faccio è una stronzata, che mi pareva quasi che si fossero messi tutti d’accordo per prendermi in giro. Tra il pubblico c’era la Zanzarina e ho dovuto chiedere a lei e alla Tina se questi complimenti erano veri. Sono talmente abituata a tener china la testa e a fare il mio dovere di madre e di casalinga (per poi sentirmi dire che lo faccio pure male) che ora, che sto alzando la testa e le cose che faccio e mi appassionano vengono apprezzate, mi sembra strano. Questi sono i miei ‘fantasmi’ che albergano in me! L’inquisizione della gente che mi circonda, l’essere obbediente come un cagnolino ai loro schemi, rinunciando alle mie passioni e ai miei interessi. Eh, sì! Ognuno ha dentro di sé i propri fantasmi, che lo accompagnano e lo perseguitano durante il corso della vita. Bisogna solo trovare il modo di liberarsene e lasciare così la nostra mente e i nostri sogni liberi di vagare ed esprimersi, senza che anche questi si trasformino in fantasmi. Fare in modo che quando un nostro sogno o desiderio non si realizza completamente non resti lì, a stagnare in noi, ma scorra via come un fiume, che con le sue acque ci ripulisce dai rancori e dai rimorsi. Abbiamo un mondo dentro noi e dobbiamo fare in modo che possa uscire e mostrarsi, non restare sul fondo, trattenuto dal peso delle miserie della realtà che ci circonda. Lasciarlo volare fuori e capire che siamo migliori di quello che sembriamo.

APPUNTI DEL CUORE

   Paola Scatola


... Oggi mi sento di averti accanto, ma lo so, ci sarò quel giorno che mi verrai a trovare. Se ti dicessi che t’amo più di ieri mi basterebbe anche la tua sola essenza d’animo, ma così… cosa penso, cosa faccio anch’io, se non mettere “lontani uno dall’altro cosa faremmo” … tutto così e via. Vado lontano da qui, e a me basti così. Vado lontano da chi come me soffre e si dispera come me: ama.

... Se il tempo passa così, breve e torrido, io per sempre, amore, ti aspetterò, così mi consigliano, in te con tutto l’amore e la passione che c’è in me. Vedo nei tuoi occhi l’amore per me e così ti dico di andarmene via e ti vorrei con me per sempre: mano nella mano. Ti vorrei, Lucia, ma sei lontana ora da me. Il cielo oggi è limpido, ma mi manchi tu: mamma, così sei andata via con il babbo in Andalusia dove ti sei sposata... ci andrò anch’ io.

... Il desiderio di te mi fa paura, ma ho il piacere di comunicarti che si implora la tua presenza qui. Come gemelli ci amiamo, come gemelli. Come amarti di più... Non vorrei ma se potessi dovrei capirti ed amarti ancor di più. Volevo sapere come mi piace essere tua e invece no, mi piace chiamarti amore. Se amore vuol dire amici, siamo e saremo ancora amici. Ti volevo mio, ma sei anche… ti volevo sempre ancora mio, caro Augusto, ti amo molto, ti amo tantissimo. Ti avrò tantissimo, sei mio o suo? Se capissi… che mi piaci, ti vorrei sempre accanto, ma non posso dirti sempre sì, ci sono anche gli altri. Caro amore mio, ti scrivo per dirti che sei il mio tesoro caro, così ti narrerò la mia piccola storia che si chiama vita!

... Strano ma vero che sei un ricordo: ma ci penso io a chiamarti ancora ricordo. In me c’eri, ora non ci sei più. Ci sono io, solo io. Strano ma ci sono io. Qui con te, vado via con la fantasia. La mia casa è l’amore tuo, un dolce ricordo. Sei la mia casa. Il ricordo sei tu, il mio tesoro sono io. Lo strano ricordo d’addio.

Sono con te perché mi ami, ma io amo te perché sei così bellamente tranquillo. Quando mi parli ti ricordi di me più che dei tuoi dolori.

... Sono così come mi vedi, sono così come mi senti tra le braccia: ti amo perché sei pacifico e ossessivamente altruista.

... Sono un po’, lo so, quasi assente nel discorso, ma posseggo qualcosa che gli altri non sanno: l'onestà e la spontaneità.

LA FEDE, IL LAVORO, LA CASA
Riflessioni e propositi

   Simone Riva


U na solida fede esemplare è un buon punto di partenza per chi vuole combattere momenti di depressione o altre malattie mentali, come i disturbi o la schizofrenia. La spiritualità si dimostra molto importante perché ci dà qualcosa o qualcuno in cui credere, una speranza nella vita, e inoltre una ritrovata pazienza. Qualcuno forse può andare in una chiesa perché non ha un posto dove stare, o per visitare una nuova congregazione, si può credere anche solo per essere più forti; in ogni caso non sarebbero da tollerare certi fondamentalismi cristiani o di altre religioni che noi al momento non abbiamo ancora conosciuto bene, e forse non conosceremo mai. Anche studiare e nutrire la mente è qualcosa che ci può rendere meno fragili e dire di no a certe pratiche sbagliate come bere vini o altro del genere. Studiare è un sacrificio, ma ci può dare molte soddisfazioni, una salita di livello, una riuscita nella vita, forse oltre che nel lavoro, nella vita sociale, familiare; bene, anche questo è un aspetto in cui la spiritualità ci può aiutare. Un piccolo aiuto ce lo danno anche i farmaci, a noi un po’ diversi o depressi o paranoici. Inoltre vi è la possibilità di aiutare qualcuno, che ci può dare una marcia in più sotto questo profilo, aiutare gli altri per aiutare sé stessi, un po’ come fanno i nostri ESP, utenti esperti del Centro di Salute Mentale. È un bene che si esamini di tornare alla preghiera per avere una maggiore forza d’animo, un ritrovato umore buono, e anche una certa potenza per tornare a fare le attività che si facevano un tempo, cioè ritrovare un buon equilibrio, un buon fondamento su cui costruire la nostra cultura. Certo, bisogna stare attenti ai fondamentalismi, non va bene per niente che alcuni usino la spiritualità o la religione per i loro loschi fini, come fa qualcuno che grida “Allah akbar” nel compiere un attentato, come quel terrorista che è stato ucciso proprio qui in Italia, nel Milanese, per cui dobbiamo ringraziare che giustizia sia stata fatta dai nostrani poliziotti in una situazione di questo genere. Bisogna ricordare che quel musulmano per finta ha ucciso diverse persone con quel maledetto Tir, oltre ad alimentare un clima di panico senza ragione.

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E… che io non riesca mai a fare un lavoro per il pubblico impiego, no dico, i lavori che ho provato per il privato si sono rivelati delle fregature, devono stare sul mercato, non mi piacciono molto, non mi danno più fiducia. Vorrei lavorare ad esempio come uno di questi ATA o qualche altro concorso di cui non sono a conoscenza. Poi vorrei davvero tanto studiare all’Università di Bologna, ci sono sconti per invalidi, vorrei davvero tanto farcela a trovare un buon impiego nel pubblico, ma non è solo quello… Vorrei anche star lontano da fregature varie o fregare qualcuno. Vorrei darmi da fare nel lavoro, forse il mio atteggiamento è un po’ equivoco, ma credo davvero che questi privati abbiano poche risorse per pagare e se le hanno è perché le chiedono allo stato, di conseguenza… E una casina comunale, no? Non sarebbe buono? Anche una macchinina city car dell’Atc, ma a me andrebbe anche bene una bella biciclettina… o una casetta ERP, si può essere felici anche avendo una vita normale che non viene a costar troppo… Anche l’attività, sportiva, si può fare con qualche gruppo che non vuole solo soldi, o anche qualche gita, ricominceremo pure a fare piano piano, perché per me le gite organizzate costano troppo… Grazie… Pensieri delle 22.00 di notte…

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Ci sono situazioni in cui bisogna mantenere la calma, come quando la macchina della nonnina si rompe. In quei casi bisogna contare sull’aiuto di tutti, in quel caso di due operatori che mi sono venuti a prendere, fortunatamente, in mezzo alla via Emilia, ché ero rimasto a piedi proprio con quell’automobile. Già, la nonna aveva avuto un piccolo incidente, d’altronde è comprensibile che alla sua età abbia qualche problemino a guidare, specialmente con un braccio che le duole, più il bacino. Poi vi è da aggiungere che alla sua età i riflessi non sono più quelli di una volta, Castenaso è cambiata, tante cose sono cambiate, nessuno si azzarda più a darti un passaggio, ma neanche chiederlo, se una volta si poteva perché tra Castenaso e Budrio ci si conosceva tutti, ora no! Vabbè che la nonna sarà utile per tante cose, perché per cucinare e tenere dietro alla casa, lo fa con cura quasi maniacale, come tutte le anziane della zona di Bologna...
Ho un altro episodio da raccontarti, l’altra sera mi si è prodotto proprio sotto il naso una piccola irritazione sotto la narice del naso, si è aperta, un buchino piccolissimo, che faceva molto, ma molto sangue. Allora dopo vari tentativi di fermarlo da solo e aver chiamato la simpatica Guardia Medica, decido di recarmi al più vicino ospedale. Lì è aperto solo il Pronto Soccorso di cui ormai sono divenuto un habitué, mi ci reco praticamente sempre quando sto male, o al cuore, o per i dolori provocati dalla mia emotività. Insomma, al Pronto Soccorso questo medico mi dice, forse per rassicurarmi, che non si tratta di un caso da Pronto Soccorso. La cosa mi causa una certa rabbia anche perché le avevo fatto notare che erano tre ore che perdevo sangue e lei badava a dire che non era niente. Per fortuna, un po’ di tampone e la ferita si è chiusa, e anche quello è passato.
Stasera bistecca di pollo, mix di verdure e un po’ di pane per festeggiare che comincia la dieta! Partiamo dal peso incredibile di 110 kilogrammi, vediamo se riusciamo a perderne un bel po’, mettendoci camminate e un bel po’ di palestra, magari proprio quella del fisioterapista vicino a casa dove i casi un po’ differenziali li seguono meglio che in una palestra, dove spingono di più non avendo dei problemi di salute. Già camminate, perché oltre a quelle del CSM del sabato, si aggiungono quelle del Comune di Castenaso ogni due settimane. Bella iniziativa, all’insegna del benessere: mi ci voleva proprio. E poi chissà un’attività sportiva in un’associazione magari per disabili... Mentre sempre proseguo col mio piccolo lavoro part-time, se me lo fanno fare… È interessante fare una divisione tra i bisogni primari (mangiare, dormire, bere) e i bisogni in più che tutti, o almeno tutti, si costruiscono per avere una vita migliore. Come avere un senso nella vita, che secondo me è molto più di avere una meta o un obiettivo; avere obiettivi è importante, molto, per tutti, bisogna pensare essi siano raggiungibili, pensare anche come fare per raggiungerli, quindi pianificare; tornare allo stadio questa domenica potrebbe essere un ottimo esempio di obiettivo; perché se uno si è spaventato una volta per troppa gente molesta, non è detto che ritrovi lo stesso ambiente o anche se lo ritrova può comunque farsene una ragione e starsene buono buono da una parte. Ajjh, ma l’anno prossimo non mi fregano, l’abbonamento me lo faccio in tribuna, poi da Vip, già... Anche con queste attività sportive per i disabili non mi devo far fregare, le devo fare, stare insieme ad altri è bello, è importante, è parte del nostro vivere, della nostra vita, del nostro sano benessere. C’è anche un coro molto importante a Marano, vicino proprio a casa, dove ogni mercoledì si ritrovano per cantare musiche classiche. Mi farebbe bene per uno che è sempre stato un po’ rinchiuso in sé, anche stare in mezzo agli altri è un motivo di scoprirsi. Avere un senso nella vita, come avere una casetta, una compagna, un lavoro normale, una scuola, non mi sembra una gran pretesa, anzi mi sembra di aspirare a una vita piuttosto normale, già. Chissà che io non vi riesca.
Alla mia età però ci vorrebbero già otto ore di lavoro, anche di più, poi palestra, poi scuola che non mi può mancare, come partecipare a convegni o altro, messo in gioco dal Comune, che è comunque un’opportunità di aprire la mente, non come viaggiare, già, ma sempre un segnale di apertura mentale, un segnale di volersi mettere in gioco, far parte della società, bene, far parte di una cavolo di comunità che spende risorse ed energie per lavorare, ma anche per avere una vita spirituale e familiare, anche per questo è importante sviluppare una certa spiritualità, un certo rapporto con la fede, è fondamentale per la gente, è quella che ti risolleva.
Bisogna prendere le medicine, igienizzarsi a puntino, mettere anche un po’ di gel in testa per fare i capelli un po’ a spazzola, fare un po’ il personaggio, poi bisogna anche fare in modo di farsi scivolare addosso certe cattiverie, perché le parole scappano, non sempre vogliono offendere, anzi spesso vogliono motivare: cercar di star meglio è un po’ il senso che ci siamo messi in questo percorso alla ricerca di una migliore qualità di vita e di benessere spirituale.

MI RICORDO

   LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani


Ho un ricordo…


Con i miei amici Giovanni, Paolo e Sauro, con i quali ho intrapreso un viaggio da Bologna a Berlino in autostop, a due a due in auto a chiedere passaggi. Abbiamo attraversato il confine con l’Austria e abbiamo cambiato la moneta dalla lira al marco. Dormivamo in sacco a pelo nei self-service e a Berlino abbiamo alloggiato in casa occupate. Questo è successo prima del crollo del muro.

Stefano Gardini


Ricordo bello


Ricordo
bello
appassionante
mistico
divertente
memoria
fantasia
istrionico
egocentrico
ego
io
super-io
visioni mistiche
cattolici e buddisti
nel sonno
in dormiveglia
da sveglio
viaggio
in mezza Europa
in treno…
Costa Azzurra
Marsiglia
Parigi
Andalusia
Per il mio 19° compleanno.

Werther Riban


Flash


Foto, mente, impressione, memoria…
Infanzia, adolescenza, età adulta..
Regressione, malattia…
Mi viene in mente questa poesia:
“Felicità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama…”

Giorgia Bolognini

IL RICORDO

   Centro Diurno di Casalecchio di Reno


I ricordi possono essere sia buoni che cattivi, oppure positivi o negativi.
Ingrid Bergman diceva: “Per vivere bene ci vuole una sola cosa: avere poca memoria”. Io, dannatamente, ne ho fin troppa. E questo mi crea problemi perché ricordando il passato si può fare una certa previsione di come potrebbe essere il futuro; io posso molto facilmente prevedere il mio futuro… E non è quasi mai una bella sensazione. Spesso ricordo i litigi con mio padre, quando avevo circa quindici o sedici anni; erano a volte piuttosto pesanti, arrivavamo a scontrarci anche fisicamente, a trascendere diciamo così… Mi ricordo chiaramente le motivazioni: c’era una forte acredine tra me e mio padre… Lui era forte ed autoritario; oggi con me e con mia sorella cerca di controllarsi, mentre con mia madre ci sono tuttora un forte attrito e un forte rancore.
Lorenzo



Lo vivo e lo temo al tempo stesso. Il ricordo per me è come un carosello di sensazioni e immagini liete e tristi; considerando la tendenza prevalente del mio spirito a lasciarmi soggiogare dall’impero del pessimismo, risulta evidente che il ricordo può facilmente generare in me momenti malinconici e poi di conseguenza scatenare reazioni incontrollate e inconsulte. Mi avvalgo del ricordo (cioè del passato), sia esso positivo o negativo, per affrontare, mentre vivo il presente, il pensiero del futuro.
Giovanni





S iamo un gruppo di cittadini che si riunisce nel secondo e quarto lunedì di ogni mese da più di un anno per riflettere su alcuni temi a partire da esperienze legate al disagio psichico. L’intenzione è quella di non restare prigionieri di un desiderio di normalità cercando di arricchire le nostre capacità di relazione. Noi del Gruppo Ama la Vela pensiamo che lavorare insieme sia un’esperienza importante e profonda, per poter sentire e toccare da vicino realtà a volte difficili e tuttavia ricche di potenzialità. Stiamo valutando come Gruppo Ama la Vela la possibilità di avere uno spazio dove fare le nostre attività affinché i nostri aderenti possano attingere a risorse comuni oppure proporre contributi innovativi.

RICORDI

   Si Mo’


... Non ricordo come è successo, ma ero lì. Ricordo che il nonno mi chiedeva di chiamare mia madre. Ricordo la sua grande mano sul telefono coperta dal sangue che sgorgava dall’occhio. Ricordo che la nonna mi ha sempre detto che ha perso un occhio per costruirmi un gioco.

... Non ricordo quando l’ho dimenticato nemmeno quando è ritornato in me. Quando ero piccola andavo con i nonni in una grande casa in montagna: c’erano due sorelle bellissime, una dai capelli rossi dolce e gentile, una mora, dura e scontrosa. Non ricordo come l’ho saputo La ragazza dai capelli color fuoco si è tolta la vita, così direbbero oggi. Recentemente mia madre mi ha chiesto se me lo ricordavo. Le ho detto di sì, sperava non lo ricordassi.

... Una semplice patata… Nonno e bambina davanti a casa si facevano scaldare dal sole. Le grandi mani del nonno offrivano alla piccola una patata bollita con un poco di sale sopra. L’uomo ricordava la prigionia in guerra e la fortuna di sopravvivere grazie a qualche buccia di patata. Da allora una patata bollita non mi è più sembrata semplicemente tale.

“...arriva Bianchini la commedia dei cuscini!...” diceva il nonno alla bambina, nel covile del grande lettone. “Noooh! -sbiascicava la bambina- sto solo riposando gli occhi!!!....zzzzzz...”

CIPOLLINA BIRICHINA

   Alberto


C’era una volta una Cipollina birichina che si perse una mattina. Tanto cercò la strada che diventò una gattaccia! Un topolino grande come un fiammifero gli faceva compagnia ed andarono nella foresta degli gnomi... Così Cipollina e il topo Fiammifero incontrarono tre gnomi: Pomodoro, Pistacchio e Mandarino. Stavano aprendo una botola e, dopo, una scala portava alla festa dei bei sogni. Uno per esempio era che non sarebbero più esistiti i rompiscatole, ma solo gli aggiustascatole... Lo gnomo Pistacchio sognò di fare una corrida con un fagiano strano, che veniva da lontano, la folla vociava e mangiava popcorn, ma il fagiano si addormentò e lo gnomo su una nuvoletta se ne andò... Lo gnomo Pomodoro si fece dei guanti d’oro, con i quali trasformava ciò che toccava: quando sfiorò un pesce palla, questo diventò una stella effervescente, che lo gnomo bevve e cosi il naso diventò una lampadina, grazie alla quale fece amicizia con la lucciola Lucrezia... Lo gnomo Mandarino si fece un bicchiere di vino ed entrò nel mondo degli spaziali, viaggiò fino a Plutone, poi tornò nella foresta, a chiacchierare con una lepre lesta... La lucciola Lucrezia vagava e lampeggiava, arrivò dal tiranno dei tappi e se voleva la birra doveva diventare sua suddita per aprirla, allora gli tirò un sasso su per il naso e disse: “Adesso stappati te!”... Cipollina andò nel paese dei fiori parlanti, un papavero altissimo la prese in giro e così Fiammifero si arrabbiò e scaturì una puzzetta esplosiva, boom! L’aggiustascatole temeva l’apriscatole ed anche la strega Muchacia, che era una vera ‘scassamaroni’, un giorno aggiustò anche una casa e ci invitò Cipollina per un tè di banane. Arrivò lo gnomo Pomodoro, che voleva caramelle e allora gli diedero una frittata di cioccolata e tutti insieme cantarono e bevvero piwo… Cipollina e Fiammifero andarono al mercato del pollame, c’era un tacchino che voleva fuggire, allora rincitrullirono il mercante e aprirono il recinto, il tacco scappò ed arrivò la guardia che li inseguì sino al tramonto... Cipollina voleva una luna tutta per sé e Fiammifero gli disse che non si poteva, allora lei cercò nel bosco un funghetto magico e lo diede al lupo, la luna cadde nel bosco e Cipollina se la prese, e partì con Fiammifero per andare in Scozia... Lo gnomo Pistacchio si era innamorato di una gnometta chiamata Rapetta, allora Cipollina gli diede una rosellina da regalarle, Pistacchio era timido e allora Fiammifero gliela portò e così lei ci stette e i due gnometti si misero davanti al mare a darsi i bacetti...

”IL RICORDO”
Io senza Dio

   Rosaria Calabrò


C Io senza Dio,
ché Dio stava per morire,
tra centrali nucleari
e bombe... Ci risvegliammo
in tempo, tra le sue
e nostre lacrime,
nel centro del commercio
d’ogni cosa..





GAME OVER

   Associazione UmanaMente



È arrivato il momento di salutarci.
Il laboratorio di scrittura dell’associazione UmanaMente ha terminato la sua attività, iniziata nel 2010. Quasi da subito si era stabilito di collaborare con la rivista Il Faro. A voi della redazione va pertanto un ringraziamento speciale per aver ospitato molte nostre produzioni letterarie.
È stato bello vedere nero su bianco nostre emozioni, pensieri, opinioni ed esperienze… Il periodo natalizio ha sancito con tanti festeggiamenti la fine di un percorso, ma certamente anche nuovi inizi che alcuni del gruppo vedono possibili, come la nascita di Gesù bambino, avvenuta in una mangiatoia tra il bue e l’asinello.
Vi auguriamo un buon proseguimento ed un buon lavoro. Arrivederci.

Per voi della redazione e per tutti i lettori de Il Faro il nostro regalo: le poesie che seguono sono state realizzate con una tecnica di scrittura creativa di gruppo, estrapolando il titolo dal testo di una famosa canzone che ogni partecipante ha scelto come regalo da fare a un amico.

Autori:
Antonio, Davide, Ion, Maurizio, Nadia, Oriano, Tiziana, Stefano G, Stefano P. con il contributo della dr.ssa Elena Pasquali, psicologa e psicoterapeuta conduttrice del laboratorio.

IL MIO TIROCINIO: RICORDO

   Claudia Fittante
      studentessa del Liceo Laura Bassi di Bologna


C he cosa è la salute mentale? Teoricamente con l’espressione salute mentale si fa riferimento ad uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni... Dentro a questa definizione c’è il mondo, c’è una realtà piena di sofferenza, angoscia, disperazioni e insoddisfazioni, ma c’è anche tanta voglia di ricominciare e soprattutto la voglia di essere riconosciuto dalla società come tutti gli altri e non come 'malato mentale'. Alla società quest’ultima parola fa molta paura e fin dall’antichità era cosi.
Ho deciso di intraprendere questa esperienza perché volevo provare un qualcosa di nuovo, un qualcosa di particolare; poiché avevo già avuto esperienza con i bambini, bellissima e interessante, ma volevo di più, volevo provare un qualcosa di diverso; inizialmente ero un po’ spaventata da questa esperienza, perché da quanto ci avevano raccontato sarebbe stata molto forte e pesante quindi sentendomi ancora non abbastanza matura e troppo sensibile su alcuni aspetti ho cominciato a fare dei passi indietro, ma dopo un po’ di tempo il mio interesse nei confronti di questo mondo nuovo ha prevalso sulle mie incertezze. Mi ricordo ancora il primo giorno, ero agitatissima, appena sono entrata all’interno della struttura mi sentivo totalmente spaesata ma allo stesso tempo curiosa, successivamente la nostra referente ha cominciato a parlare e mi sono tranquillizzata… Ha cominciato a spiegare come si svolgevano le attività e in generale ci ha spiegato che cosa fosse la psichiatria e con chi ci saremmo dovuti confrontare; nella seconda parte dell’incontro abbiamo parlato con un esperto nel campo che ci ha spiegato quanto sia importante il lavoro, perché esso in un certo senso dice tanto sulla persona e per gli utenti del DSM è fondamentale averlo per sentirsi pari a tutti gli altri. Tutto il resto della settimana l’ho trascorso all’interno della Cooperativa Arcobaleno di Bentivoglio: è stata un’esperienza a dir poco travolgente, ha cambiato totalmente il mio modo di vedere la realtà delle cose e mi ha aperto gli occhi su un mondo che mi aspettavo diverso. All’interno di questa struttura ho conosciuto persone con disturbi psichici, che nel giro di tre giorni, sono entrate dritte nel mio cuore per la loro spensieratezza, per la loro semplicità e per il loro modo di essere, seppure a volte strano, allo stesso tempo magnifico; la prima frase che ho detto, sin dal primo giorno, dopo aver passato un po’ di tempo con loro è stata: “si sta meglio qui dentro che fuori” perché all’interno di quella struttura, ognuno è come è, non esistono pregiudizi e non esistono prese in giro, cose che invece fuori esistono. Ho disegnato e ho pitturato, poiché all’interno della cooperativa sono presenti diverse attività: la ceramica, il mosaico, la pittura, il disegno eccetera, ma soprattutto ho parlato con loro, ho ascoltato le loro storie; emozionanti, ma anche tragiche, piene di rabbia e di dolore, ma anche simili. In alcune storie mi ci sono addirittura ritrovata e ho capito che in realtà basta veramente un niente per cadere in certi disturbi, quindi in poche parole potrebbe succedere a tutti di vivere alcune situazioni spiacevoli e di essere talmente fragili da abbattersi e cadere in depressione, psicosi o altre malattie mentali. La cosa che mi ha sbalordito di più è stato il rapporto che avevano con Mariangela, era come una mamma per loro, li ha tirati fuori da un vortice e li ha salvati, ha evitato loro di cadere in un buco nero e restarci per sempre; grazie a lei, grazie alle sue attività e ovviamente grazie ai professionisti accanto a lei, le persone che 'vivono' all’interno della cooperativa pian piano stanno riuscendo ad andare avanti e a farsi una vita propria. Una cosa mi ha sorpreso, mentre parlavamo con loro a un certo punto gli abbiamo fatto una domanda: “Voi lascereste mai l’Arcobaleno?”. E a questa domanda tutti hanno risposto di no, perché quello era il loro posto, il loro rifugio e lo conoscevano anche molto bene; non volevano andare via; molto probabilmente anche per paura, paura del mondo esterno alla cooperativa, paura dell’ignoto, ma soprattutto paura di non essere accettati.




NOSTALGIA

   Stefano Ricci
       (da LiberaLaMente, dicembre 2012)


Iricordi, spesso, deformano la realtà. Succede che i luoghi dell’infanzia, rivisti da adulto, appaiano più piccoli e 'normali'. Accade di non ritrovare più i sapori gustati anni prima in un qualche locale che ricordavi diverso. Per non parlare dei compagni di scuola rivisti dopo tanti anni! In parte sarà per gli inevitabili mutamenti del tempo, ma molto dipende anche dal fatto che tendiamo a 'mitizzare' il ricordo. Più che l’oggetto, il sapore o l’immagine ricordiamo l’emozione da essi suscitata e su quella costruiamo la nostalgia d’un mondo che esiste più nella nostra immaginazione che nella realtà. Io, che ho dovuto girovagare per diversi luoghi durante la mia infanzia e giovinezza, ho sempre provato il desiderio di tornare a ricercare le tracce del mio passaggio, scontrandomi il più delle volte con profonde delusioni. Piano, piano ho imparato a non provare nostalgia per un passato così labile e indefinito. Mi sono ritrovato, invece, a vivere una sorta di nostalgia un po’ particolare che si potrebbe definire: la nostalgia delle strade diverse. Non si tratta di semplici rimpianti per scelte giudicate 'sbagliate' a posteriori: sono tutto sommato contento della vita che mi è capitata. Si tratta, più che altro, della 'curiosità' di conoscere come si sarebbe modificata la mia esistenza se, nei momenti cruciali della vita, avessi scelto l’altra opportunità: una scuola diversa, un lavoro diverso, un amore diverso… o, più semplicemente, se il destino mi avesse condotto in una città diversa da quella in cui il lavoro di mio padre mi aveva portato. In definitiva, ho nostalgia di ciò che non ho vissuto.

LA STORIA

   Lucia


Historia vero testis temporum, lux veritatis,
vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis
Cicerone, De Oratore, II,

Per cercare di comprendere un mondo passato e provare a raccontarlo, occorre prima di tutto sapersi mettere in sintonia con chi è vissuto in quei tempi lontani, immergendosi a fondo fra reperti, documenti, testimonianze. Purtroppo la selezione preliminare la fa il caso, perché qualcosa si conserva e qualcosa si perde per sempre. Ci vuole quindi tempo, pazienza e anche un po’ di fortuna, per vagliare l’esistente e raccogliere ciò che autentico, veritiero e utile per la ricerca. Inoltre, per confermare le proprie intuizioni e non sfondare porte aperte, bisogna consultare con cura tutta la bibliografia al riguardo… Il colpo d’ala della mente, insomma, deve essere accompagnato da tanto umile e scrupoloso lavoro. Questo ai miei tempi insegnavano i docenti di storia all’università. Oggi i computer e internet offrono grandissime possibilità agli studiosi, che possono reperire ed elaborare documenti con grande rapidità e senza spostarsi da casa, ma la vera ricerca va fatta come allora, con cura e senza fretta. Non è proprio come fare “copia e incolla” con gli scritti altrui, sbrigativo sistema che mi sembra molto diffuso oggidì…
Ma a che serve studiare la storia? Un diffuso assunto, che si rifà a una riflessione di Cicerone poi propugnata da Tito Livio, sostiene che la storia sia ‘maestra di vita’. In effetti, partendo dal presupposto che certe situazioni possano ripetersi ciclicamente (corsi e ricorsi storici), l’aver studiato come sono andate le cose in passato potrebbe aiutare ad evitare guai analoghi nel presente… In realtà nei fenomeni sociali le parti in causa sono molteplici e le situazioni complesse: ciò che si presenta oggi può ricordare qualcosa del passato, ma non è mai perfettamente identico. Inoltre purtroppo la maggior parte della gente, a quanto pare, non è granché disposta ad imparare dagli errori di chi l’ha preceduta, e preferisce sbagliare in proprio… Del resto è normale: i giovani considerano i consigli degli anziani antiquati e anacronistici, e non hanno neppure tutti i torti. Ecco quindi scaturire spesso, nel constatare l’ennesima aberrazione umana, l’amara considerazione che la storia non insegna proprio nulla!
Altro luogo comune piuttosto diffuso è che ‘la storia la scrivono i vincitori’… Una certa parzialità in effetti si nota, soprattutto dopo le guerre o le rivoluzioni (argomenti che la fanno da padrone nei libri di storia), i viventi però, o almeno i posteri, possono farsi ‘avvocati difensori’ dei vinti, e rivedere, o addirittura capovolgere, le interpretazioni dei fatti. Dalle diverse voci a confronto può forse scaturire qualcosa che si avvicina alla ‘verità’.
Un lettore avveduto dovrebbe esser consapevole del fatto che la storia non è mai una narrazione oggettiva, ma cambia a seconda del punto di vista di chi la racconta. Uno storico ‘onesto’ comunque dovrebbe almeno essere ‘trasparente’, cioè dovrebbe rivelare, non solo le fonti a cui ha attinto, ma anche le proprie chiavi di lettura e le proprie ideologie. Nessun individuo pensante, infatti, può essere esente da preconcetti legati alla sua formazione culturale e all’ambiente in cui vive. Per esempio la storia è influenzata della geografia, ossia ha un taglio diverso a seconda della parte del mondo in cui viene narrata. La storia narrata dagli Italiani è diversa dalla storia narrata dai Francesi, comprese le vicende che vedono coinvolti entrambi i popoli.
A maggior ragione la storia narrata dagli Occidentali è diversa da quella narrata dagli Orientali o dagli Africani. Oggi però, nel mondo interconnesso e globalizzato, i punti di vista di popoli geograficamente molto distanti possono essere rapidamente messi a confronto: speriamo che questo aiuti l’umanità a comprendersi meglio...
La narrazione storica ha valore civico e grande peso politico, infatti non solo non è affatto neutrale, ma muovendosi a sua volta come parte attiva nella storia in fieri, può contribuire fortemente a promuovere mutamenti di rotta.
Io penso che studiare e tramandare la storia sia un po’ come coltivare una pianta prendendosene cura a partire dalle sue radici. In pratica si tratta di mantenere vivo il ricordo del percorso svolto da chi ci ha preceduto con la dedizione che si deve a un lascito prezioso da far fruttare e trasmettere ai posteri.
Mi piace la famosa metafora di Bernardo di Chartres: “Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose e più lontano di quanto vedessero questi ultimi”. Anche se la visione del percorso umano come un continuo progresso non mi convince del tutto, penso comunque che dobbiamo moltissimo alle generazioni che ci hanno preceduto ed è nostro dovere non lasciarle sprofondare nell’oblio. Solo c’è un problema: la memoria, sia quella individuale che quella collettiva, va continuamente mantenuta viva, altrimenti fa presto a svanire. Personalmente, avendo per natura poca memoria, sono abituata a fare affidamento soprattutto sull’intuito e sulla prontezza nei collegamenti logici, rinunciando praticamente a tenermi allenata su quel fronte un po’ carente. Le interrogazioni di storia, ricordo, per me erano terribili: tutti quei dati e quelle date da ricordare… E gli esami universitari, con programmi praticamente enciclopedici, mamma mia! Col passare degli anni, dedicandomi ad altro, ho abbandonato quasi del tutto l’antica consuetudine con gli studi umanistici, di conseguenza… nebbia fitta! L’unica consolazione che mi resta è il vecchio detto: “la cultura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto”… Svanite le nozioni, rimane in genere almeno la capacità di orientarsi, consultando appunti, libri, e siti internet col dovuto senso critico, per rintracciare le informazioni che servono. Certo, il ricordo più vivo dei lunghi studi fatti resta la famosa domanda a cui non si è saputo rispondere all’esame di maturità. Quella no, non si scorda mai.

ARCHIVI E MEMORIA

   Diana Tura
      responsabile della Sala Studio dell’ Archivio di Stato di Bologna


Archivi e memoria formano un binomio inscindibile. Gli archivi costituiscono la memoria scritta di una nazione, di un ente, di una società, di una famiglia, di una persona; tale binomio si trova spesso associato nei titoli di iniziative che hanno al proprio centro gli archivi, i documenti, le pergamene, le carte e che mirano alla ricostruzione della memoria di un paese, di un territorio, di una storia. Iniziative che contribuiscono alla ricostruzione del rapporto della società con il proprio passato attraverso la scoperta di documenti talora intatti ed inviolati e quindi ancora muti, che più che ricordo vivo, sono una memoria potenziale, che svela i propri contenuti soltanto quando i documenti sono consultati, letti, interpretati. Gli archivi sono un’inesauribile fonte di intrecci e storie da raccontare, a cui spesso si ricorre per rintracciare chi si è perduto, per riannodare i fili di una memoria familiare o comunitaria quasi dimenticata. Archivi che conservano per la maggior parte documenti scritti per esigenze pratiche, per lo svolgimento di attività quotidiane sia pubbliche che private, ma che conservano anche altri tipi di documenti, scritti volontariamente per raccontare storie personali. In particolare gli archivi di notai, di conventi, di famiglia e parecchi archivi del Novecento spesso conservano memorie, diari, appunti frammentari di persone che hanno vissuto momenti tragici come guerre, esodi di popolazioni, persecuzioni razziali e politiche. Il ricorso alla scrittura autobiografica, cioè allo scrivere di sé, della propria vita, dei propri ricordi, della propria memoria contribuisce a lasciare dietro di sé una traccia, producendo così anche una possibilità di condivisione e di consapevolezza con i posteri. Questo genere di documentazione, oltre ad avere il valore di ricordo, offre stralci della vita di persone, dei luoghi e dei tempi in cui hanno vissuto, inserendo così la memoria, il ricordo individuale in quello collettivo. E così fra i documenti d’archivio troviamo cronache scritte da notai, in cui fra i dati autobiografici e familiari si inseriscono riferimenti agli eventi cittadini e talora anche nazionali, negli archivi privati troviamo diari di personaggi di spicco che raccontano i loro viaggi, la loro vita privata e sociale, i loro pensieri...
La memoria collettiva dunque non è costituita solo dai documenti prodotti da uffici, tribunali, organi di governo ed altre istituzioni, per lo più conservati negli Archivi di Stato, ma anche da scritti autobiografici, come è testimoniato dall’Archivio dei diari, fondato nel Comune di Pieve Santo Stefano, inizialmente per rispondere all’esigenza di memoria di un intero paese, distrutto completamente durante la guerra, poi per conservare tutti i documenti di autobiografia e di memorie personali in forma di scrittura.

ABBAIA AL BUIO

   Opola Resonive


Energia negativa, energia negativa mi circonda, mi guardo attorno, ma non vedo niente, buio, buio completo. Cerco di aggrapparmi a qualcosa che mi circonda; sento il vuoto sotto di me, ho paura di muovermi... Ma perché ho voluto seguire il consiglio di quell’amico, se così si può chiamare, visto che mi ha spinto verso il buio completo. Non riesco più a vedere niente, buio, ho paura, uno sguardo di terrore rivolto verso il niente. Dove sono finito, non ricordo, ero con loro che mi hanno portato via da casa fino alla fine! Loro ti vogliono male falsi amici, false speranze, illusioni, solo illusioni... Non voglio morire adesso, forse è giunta l’ora, ma non ditemi che me lo meritavo, non penso, meglio, così finisce la sofferenza. Se mi ricordassi il mio nome, non ricordo, ho le mani legate dietro la schiena, è buio non vedo... Scorre il mio sangue sul pavimento, sono ferito, decisamente ferito alle testa. Ho sete, molta sete... Ho fame, molta fame...
Dove sono tutti quelli che mi vogliono bene? Li cerco, ma non riesco a vedere niente, solo ricordi annebbiati, ricordi di una vita felice interrotta da un grande odio, dimostratomi da qualcuno che non conosco, che mi invidia. Brutto sentimento, corrompe le persone, rendendole nemiche, ostili, si sentono superiori, ma non riescono ad accettarsi, ad essere felici con sé stesse...
Io sono morto, quasi morto, c’è qualcuno che mi sta cercando? Non posso urlare, sono imbavagliato, muto, cieco, ma non sordo; sento il rumore di uno scorrere d’acqua vicino a me, il fruscio del vento sulle foglie, belle immagini in una situazione così negativa... Sono in una stanza al buio, in un bosco o qualcosa del genere; solo, solo la solitudine mi accompagna! Piango, anzi oramai non riesco più a piangere, non sono sicuro di nulla. Silenzio, rumori di natura, ecco che sento un suono chi sarà mai?
Sono venuti per finire ciò che avevano iniziato, sono giunti per uccidermi... La morte mi fa paura? Vorrei morire in fretta senza soffrire se si può...
È notte o giorno, non riesco a capirlo, uno sguardo dentro, penso di essere solo.
I ricordi iniziano a tornare, chi sono? Cosa faccio lì? Adesso ricordo! Sono stato rapinato, spogliato, legato da un gruppo di estremisti che desiderava uccidermi per l’articolo che ho scritto sul giornale. Difficile esporsi senza rischiare, ma il rischio vale? La libertà prima di tutto, dando anche la vita... Lo penso anche adesso, se mi vorranno uccidere... Eccomi qua... Ho freddo, tira vento fuori, chissà dove sono, i minuti passano i pensieri peggiorano. Sento un rumore, forse questa volta è qualcuno dei criminali, ma sento un abbaiare lontano che si avvicina sempre di più. Ecco il rumore di passi e la porta che si apre... Delle voci amiche sono giunte a liberarmi..
Questa volta la libertà non mi è costata la vita, ma quanti per averla hanno rischiato; molti sono morti. Voglio sempre e comunque la libertà di vivere felice, onesto e rispettato...

CLASSE ESPERANTO

   Traumatilìk


Stavo seduto al tavolino del solito bar sbirciando il giornale di un signore seduto al mio fianco. Sulla pagina di cultura e tempo libero notai un articolo riguardo una visita guidata presso l’Istituto Tecnico Guccini-Johnson, proprio la scuola superiore che ho frequentato per cinque anni della mia triste, fumosa, ma irripetibile adolescenza. La visita era in occasione degli esami di maturità ‘Classe Esperanto’. Mi chiesi da quanto tempo potessero aver creato ‘Classi Esperanto’ senza che nessuno ne avesse parlato per televisione o sui giornali, ma forse la notizia mi era semplicemente sfuggita. Non sapevo molto riguardo l’esperanto, solo che era una lingua universale, futurista, creata apposta per far comunicare tra di loro tutte le persone della Terra in pace e senza barriere linguistiche, ma credo che tranne che in qualche sporadica realtà, il progetto non abbia mai decollato in modo significativo.
Avevo varcato per l'ultima volta il cancello dell’Istituto Tecnico Guccini-Johnson, praticamente trent’anni, fa per vedere i risultati della mia maturità: 38/60, un risultato piuttosto mediocre, ma visto che qualche compagno di classe mi dava addirittura per ‘segato’, avevo accettato il 38 come fatto compiuto cercando di dimenticare in fretta la frustrazione… Arrivato a casa cercai il sito web della scuola per informarmi. La visita era per il venerdì seguente; dalle dieci alle quattordici, per un gruppo al massimo di venti persone, gratuita, portare il pranzo al sacco... Pranzo al sacco? Ma non sarà mica un trekking... Boh... Una volta all’interno c’era il bar... Riguardo alle ‘Classi Esperanto’, e a cosa fossero più precisamente, però non trovai quasi nulla. Questo mi insospettì un poco, ma poi, pensando che comunque avrei potuto visitare il piccolo museo e i laboratori, mi iscrissi on line, mi misi tranquillo, e sprofondai nei ricordi.
Non so perché, o come, ma i ricordi più vivi e vegeti sono quelli della pausa e della ricreazione. Alla campanella scattava la furiosa corsa al bar per accaparrarsi un pezzo di crescente, magari con la mortadella, di certo una delle cose più buone al mondo.
Poi l’agognata sigaretta, sempre che la si avesse, altrimenti andava naturalmente ‘scroccata’. Lo scrocco delle ‘paglie’ era considerata una vera arte a cui tutti si dedicavano, anche chi aveva il pacchetto nuovo nella borsa. Io ero un mediocre anche nell’arte dello scrocco delle sigarette, ma fortunatamente ho sempre avuto qualche buon amico, e credo di non essere mai rimasto senza. Nella nostra classe durante la ricreazione ci dedicavamo a fare musica, cosa di vitale importanza in un Istituto Tecnico nel cui programma non era prevista, ma siccome nessuno si sarebbe mai sognato di portare strumenti musicali in classe, noi imitavamo chitarre elettriche, sassofoni e tromboni, usando le nostre voci. Ognuno poteva così scegliere e scambiare a piacimento lo strumento che gli pareva con estrema libertà. Il pezzo forte era Oh When the Saints Go Marchin’ In. Sembravamo una vera orchestra dixie con assoli e controassoli di basso, fiati e banjos da far paura. Nel repertorio spiccavano anche I Can’t Get No Satisfaction, ed Eptadone degli Skiantos. Adrenalina pura, credetemi. Io avevo anche il compito di chiamare i finali prima che venisse screditata la prestazione o che qualcuno si sentisse male per l’eccesso di endorfine. In quel periodo però l’attività ricreativa più diffusa nell’ala Tele-Elettronica era il cosiddetto ‘Calcio-Vivo’. Il ‘Calcio-Vivo’ era un’evoluzione dello sport del Calcio così come tutti lo conosciamo, ma senza l’uso della palla. Il gioco poteva iniziare in qualsiasi momento, bastava avvisare a voce: “Calcio-Vivo?” e il match cominciava. Da quel momento si era tutti in gioco, tutti contro tutti, nessuno escluso. Lo scopo del gioco era quello di ‘atterrare’ un compagno qualsiasi colpendolo direttamente alle gambe (da qui il nome ‘Calcio-Vivo’). Non c’erano molte regole. Erano permessi solo colpi bassi, e l’attacco da ‘dietro’, anche di avversari ignari della partita. L’unico fallo punibile era la rottura di un osso, suggerito lasciare lividi, ma vietato calciare rappresentati dell’altro sesso. Io che non svolgevo quasi mai parte attiva nel gioco, venivo spesso atterrato a sorpresa senza pietà. Per dodici minuti il largo corridoio di Tele-Elettronica diventava una specie di bowling umano con il coinvolgimento di almeno dodici classi di studenti entusiasti. Purtroppo un giorno, naturalmente per sbaglio, venne atterrato un professore che insolitamente passava da lì, e fu così che il ‘Calcio–Vivo’ venne messo ufficialmente al bando dalla presidenza.
Il venerdì della visita guidata arrivò presto. Dopo colazione andai al market per farmi preparare due panini con la mortadella, li misi nello zaino, e presi il bus verso la città. Mi presentai nel piazzale del Guccini-Johnson in perfetto orario e notai subito un piccolo gruppo di persone di cui una sorreggeva una bandierina verde.
Doveva essere la guida. In fretta e con una certa emozione raggiunsi il gruppo. Mi sentivo elettrizzato, ero lì per incontrare nuove persone, ma soprattutto per fare un viaggio nei ricordi. La guida era una graziosa signorina sulla trentina, piuttosto alta, ci stringemmo la mano e lei si presentò come Alice.
Non feci a meno di notare che ai piedi portava un paio di ballerine verdi, come la bandierina. Mentre Alice faceva l’appello mi persi un attimo a guardare le facce degli altri visitatori…RAFFAELE... “Presente!” Risposi d’istinto. Contai in tutto dodici visitatori, come gli Apostoli, e mi chiesi in quale paese Alice ci avrebbe portato. Mi stava anche scappando da ridere, ma cercai di rimanere serio. Ci venne consegnato un braccialetto di plastica, naturalmente verde, con il caldo consiglio di non perderlo, e la visita iniziò. A passo lesto varcammo il largo cancello fermandoci un istante davanti alle vetrate dell’entrata.
Ebbi l’impressione di ricordare esattamente dove erano stati affissi i risultati della maturità della mia classe. Lo stesso posto dovevano venivano affissi i manifesti degli scioperi studenteschi e le assemblee di istituto. Tutte le mattine andavo a scuola pregando di trovare indetto un nuovo sciopero o un’assemblea, e l’Onnipotente, sicuramente impietosito, ogni tanto mi accontentava, e questo è il motivo per cui lungo le strade si trova scritto “Dio c’è!”. Pregare e sperare, sperare e pregare. Sperare di prendere sei e pregare di essere interrogati domani. Studiare non era strettamente necessario, l’importante era sopravvivere, come nella giungla, e in questo Dio non può che essere di aiuto. Entrammo nella scuola, cercai di individuare dove stava la segreteria, ma non ci riuscii, di certo era stata spostata.
Nel frattempo la nostra graziosa guida procedeva lesta sventolando la sua bandierina, ma senza dire nemmeno una parola, e il che iniziava a sembrarmi piuttosto strano. I volti degli altri visitatori invece mi parevano immotivatamente entusiasti. Salimmo le scale e arrivammo all’imbocco proprio della mia ala “Tele- Elettronica”, ma qui i ricordi rimasero stranamente assopiti, non vidi nulla di particolarmente familiare. Intanto Alice finalmente riprese l’uso della parola: “L’aula dove sono in corso gli esami di maturità ‘Classe Esperanto’ è questa alle mie spalle, mi raccomando cercate di fare silenzio”, ed entrammo.
Quello che apparve alla mia vista è talmente incredibile e surreale che all’istante pensai ci fosse sotto il trucco di un illusionista. L’aula aveva la dimensioni di uno stadio, tipo Camp Nou di Barcellona per intenderci, una cosa da togliere il fiato. Ma come è possibile far stare una roba di queste dimensioni all’interno di un’aula? E oltretutto senza che si possa notare nulla dall’esterno? E praticamente in centro città? Non mi seppi dare risposta. Sulla sinistra dell’enorme aula c’erano decine di file di banchi raggruppati in almeno una dozzina di classi, dove evidentemente si stavano svolgendo gli scritti di differenti materie. Altre numerose file di ragazzi incolonnati verso altrettante cattedre, mi fecero dedurre che contemporaneamente si stavano svolgendo anche gli orali. Sulla destra si potevano vedere anche i laboratori. Vapori colorati uscivano da centinaia di ampolle diretti verso il cielo, ologrammi uscivano da schermi di personal computer, piccoli robot agitavano le braccia e scuotevano la testa, stampanti 3D partorivano animali mitologici a grandezza naturale, e anche altro, ma tutto non riesco a ricordare. Ricordo però che l’atmosfera era fantasticamente allegra e rilassata, nulla a che vedere con la tensione marmorea ed estremamente competitiva che si respira mediamente agli esami di maturità nelle nostre scuole. Pensai che se ci fossero stati anche i laboratori quando feci gli esami io, sicuramente avrei preso un voto migliore, ma è andata come è andata, meglio guardare avanti. Alice, la guida, era sulla mia destra, continuava a non spiccicare parola e ad agitare la bandierina verde, come per salutare. Mentre ero ancora rapito dalla visione di quello spettacolo mi accorsi anche della musica in filodiffusione. Credo che in quel momento andasse in onda un’allegra canzone di Jovanotti, niente di più adatto al clima, credetemi. Istintivamente il mio sguardo salì verso l’alto come per individuare la posizione degli altoparlanti. Mi accorsi così che la cosiddetta aula aveva un soffitto alto almeno una cinquantina di metri o forse anche più, il che mi provocò un forte senso di vertigini che cercai di controllare. Di fronte a noi, su di una trave di ferro posta lungo tutta la larghezza dell’aula, all’altezza di una ventina di metri stavano seduti, senza alcun dispositivo anticaduta, decine e decine di allegri ragazzini che si godevano lo spettacolo dall’alto divertiti. Mi fecero ricordare i Putti affrescati nelle nostre chiese. Mentre cominciavo a pensare che non poteva esserci più niente ormai di cui meravigliarsi, mi accorsi che al posto della parete di fronte a noi non c’era nulla, cioè c’era l’esterno, ossia il panorama. I panorami naturali sono una delle poche cose che riescono ancora a meravigliare l’essere umano, più che la tecnologia o i viaggi spaziali, proprio perché sono naturali, opera di Dio, ma quel panorama aveva qualcosa di soprannaturale, qualcosa al di là dei sogni. Rimasi a dir poco sbalordito e sconcertato quando vidi che al di là dell’aula c’era il mare.
Protestai sarcastico verso Alice: “Dottoressa, qui di fianco al Guccini-Johnson non può esserci il mare. Il mare qui in città non c’è mai stato! Non lo avrà mica portato qualcuno, no?”… “Raffaele, di cosa si preoccupa, è tutto a posto mi creda- replicò lei civettuola- stia tranquillo, respiri, non aveva mai visto il mare?”. Sinceramente l’avrei presa a calci. Poi sentii sulla faccia delle goccioline d’acqua, ed era acqua salata. Le onde si frangevano alte su di una lunga fila di scogli al limite dell’aula-stadio, alzando alti vapori d’acqua come quelli in prossimità delle grandi cascate, tipo Azul per intenderci. Lo spettacolo non era comunque finito. In mezzo al mare apparve un’enorme isola montuosa con due grandi picchi, e prima che riuscissi a far notare alla guida che qualche istante prima l’isola in questione non c’era, Alice agitò la sua bandierina dicendo: “Andiamo!”.
L’isola appariva lontana e vicino allo stesso tempo. Ci spostammo verso la destra dell’aula diretti ad una mastodontica funicolare. Alla vista di quell’ecomostro mi indignai profondamente: “Non sarà mica normale che per raggiungere un’isola distante almeno dieci o venti chilometri venga costruita una funivia a una sola campata, potrebbe essere pericoloso no? Non sarebbe meglio usare una barca o un traghetto, come si fa nei paesi civili?”. “RAFFAELE?!-disse lei- Qui a disposizione abbiamo solo la funivia, quindi non mi dica che avrebbe preferito un bel ponte, no?”. Mi colpì nel segno perché, ripensandoci bene, in effetti la funicolare rispetto all’impatto ambientale non era sicuramente la cosa peggiore. In non più di cinque minuti raggiungemmo l’isola. Il vasto piazzale della cabinovia era frequentato da famigliole festanti con tanto di arzilli nonni al seguito, tutti impegnati in varie attività, dal frisbee alle bocce, fotografia, pic-nic, aquiloni, gruppi di lettura, teatro e barzellette. Conquistati un paio di tavoli liberi ne approfittammo per consumare il pranzo al sacco. Mentre digerivo il mio panino, la visione di quella moltitudine festante cominciò a perdere quel significato di idilliaca e significativa positività di cui mi ero beato prima. Ebbi l’impressione di essere davanti ad un lungo, interminabile e melenso spot televisivo. Come se si stesse rivelando l’aspetto nascosto di ciò a cui assistevo. Mi sganciai dai miei stessi pensieri solo al momento in cui mi scappò un sonoro rutto brutale. “Salute!” Era l’augurio di un signore seduto di fronte a me. Mi scusai. Lui si presentò allungando la mano; “Io sono Marco, piacere!”. “Raffaele, molto piacere”, risposi, e ci stringemmo la mano amichevolmente. “Cosa pensa dello spettacolo?”, mi chiese. “Beh, appurato che sotto non ci sia nessun trucco da illusionista e che non sto sognando, mi pare una cosa incantevole, ma non so, forse per colpa della digestione ora mi sembra tutto un po’ troppo irreale. C’è qualcosa che non mi convince”.
“In effetti –rispose- si ricorda la storia della Torre di Babele? Un tempo gli uomini parlavano tutti la medesima lingua, collaboravano meravigliosamente e non c’erano guerre, se lo ricorda?”. “Mah, sì, forse qualcosa ricordo... forse non esattamente però...” risposi. “Gli uomini, invece che spargersi per la Terra a diffondere il messaggio divino, come Dio aveva loro comandato, decisero per sfida di costruire una torre. Alta come il cielo”. “Come il Ponte!”, feci notare.
“O come il Muro. Solita storia! -replicò lui- Dio decise di punire quell’atto di superbia creando le diverse lingue. Così gli uomini non si intendevano più l’uno con l’altro, iniziò la confusione totale, la costruzione della torre venne abbandonata e loro furono costretti a spargersi per la Terra come il Signore aveva comandato”. “Una specie di antipasto d’Apocalisse”, dissi io. “Sì, ma non degustato saggiamente a quanto pare. Comunque è stato così che ci siamo pigmentati diversamente, abbiamo sviluppato diversi linguaggi, abbiamo diverse religioni, abbiamo creato innumerevoli arti, ma non abbiamo imparato ancora a convivere con i nostri umanissimi difetti...”.
“Ancora una volta l’Onnipotente ha dimostrato la sua competenza” , dissi io, e mentre stavo per gridare anche: “Viva le diversità, abbasso il pensiero unico!”, il mio sguardo cadde su Alice, che ci stava ascoltando. Notai che nonostante l’allegra brezza marina la bandierina verde era completamente afflosciata.
Al rientro, sulla cabinovia, provai però una certa malinconia, come al rientro dalle vacanze. Non avrei mai più visto uno spettacolo del genere, ne ero certo.
Nel piazzale della scuola Alice si congedò con affettuosi ringraziamenti: “Signore e Signori vi aspetto in autunno per la visita alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e per l’inverno in programma abbiamo l’Accademia Elfi e Fattucchiere… Mi raccomando non dimenticate il pranzo al sacco!”. Salutai calorosamente il Signor Marco: “Ci vediamo a Lettere e Filosofia!”. “Ci conti! -rispose lui- Alla dogana tra il sogno e la realtà!”. “Quindi servirà il passaporto?”, domandai. “Assolutamente! –Rispose- E non si dimentichi le marche da bollo, mi raccomando!”.

DAL SETTIMANALE DELLE MEMORIE DEL SIGNOR E. NIGMA

   Manuela Ghezzi


Li vedo sempre seduti uno di fronte all’altro, il loro tavolo è l’unico con la tovaglia color crema, in quel bar dall’aria caratteristica nella piazza più nascosta e dimenticata della città in cui vivo. Sono amici di vecchia data, probabile che siano cresciuti insieme, che abbiano lavorato nello stesso posto, che abitino persino nello stesso signorile palazzo. Il signor Esaponente porta occhiali dalla montatura ogni giorno diversa, eccetto la domenica in cui preferisce le lenti a contatto. Il signor Esponente ama vestire con colori pastello e ha un minuscolo orecchino al lobo destro. Hanno entrambi un’aria distinta ma anche positivamente eccentrica. Uno ama sorseggiare tè, rigorosamente Earl Grey, l’altro predilige il sapore del karkadè; accompagnano sempre il tutto con pasticcini di pasta di mandorle. Parlano molto, senza fretta, il tono colloquiale e spontaneo al quale mi piace prestare orecchio. Questo pomeriggio le loro parole vengono fuori a metà, hanno un suono fisico e spirituale al tempo stesso. Parlano di ciò che rimane all’interno: di passi compiuti, sapori e odori ancestrali, visioni e incontri come mai prima di allora, e i gesti consapevoli, oppure istintivi. Dicono che però tutto questo è anche fuori, grazie a ciò esistono la condivisione e il contrasto che fanno l’esperienza. Che fanno la reminiscenza. Immaginano di un possibile nuovo incontro con tutte le persone che sono state di passaggio, con quelle rimaste magari per più tempo, periodo breve o lungo, va da sé; si divertono a fantasticare di un’osservazione distaccata o parziale, delle parole che non scambieranno più. E io procedo nello scrivere, perché i locali situati nella scatola cranica più di tanto non riescono a contenere. Rimuovono, a un certo punto. Ma niente piuma alla Dylan Dog, siamo oltre gli anni Duemila. Continuano dicendo che occasionalmente, dal punto di vista emozionale, sopraggiunge (oppure assale?) in loro l’intenso negativo – ma può essere anche positivo, molto più spesso però è negativo - anche se non sembra, visto che non lasciano trapelare nulla. Il rimpianto è forse la loro memoria tetra? Altre riflessioni personali sovvengono: meglio avere brutti ricordi o l’assenza graduale dei medesimi, includendo senza scampo anche quelli più piacevoli? È guardandosi negli occhi e sorridendo che affermano: domani darà modo di aggiungere nuovi cimeli nei ripiani dei nostri magazzini mnemonici. Per accrescere la nostra piccola storia. Per noi. Per quelli che ci seguiranno. Tutto ciò che è dietro di noi diventa un ricordo. Può essere piacevole oppure spiacevole, leggero o pesante, considerevole oppure accantonato. Può essere che venga determinato come ricordo ciò che ci ha portato a cambiare atteggiamento o modo di pensare e di vedere le cose, ciò che fa vibrare la vita e la coscienza anche dopo passato del tempo; questo è quello che mi viene da pensare al momento. Ma può essere che mi giungerà come nuovo e inascoltato e mai considerato, quando più avanti scorrerò le vecchie pagine e gli occhi si fermeranno su queste parole vergate. D’altronde ognuno è sé stesso nel ricordo.

RACCONTI BREVI

   Filippo Montorsi


Comastro

…e quello cos’è?... un Puto ke piscia… -Ione-
Comastro era un tipo strano, s’interessava di poco e di niente (beata ignoranza)… però di Putti e Puttane, lì scherzava veramente poco… qualcosa anke sulle religioni –forse- ma il suo primo interesse -a pensarci bene- era proprio l’universo femminile… Sante, Puttane, Maestre, Casalinghe, Suore, Cameriere, Calciatrici, Igieniste, Traduttrici, Infermiere etc. etc. Insomma tutto ciò ke passeggiava in giro con due occhi all’altezza del suo sguardo, altri due + morbidi all’altezza del suo cuore, e uno -VITALE- all’altezza del suo ‘piripicchio’… per lui era materia di Indago e di Ricerca e di Scrup… (bona Filo… abbiamo capito) ok, ok, insomma ne era diciamo… INCURIOSITO (ok). In via della Salute stavano quasi tutti male, quasi tutte le ore di quasi tutti i giorni, di quasi tutte le settimane, di quasi tutti i mesi… di… (quasi quasi vado a farmi un Americano e invio agli amici e non il mio “a cosa stai pensando” così com’è) …quegli anni lì. Comastro… NO (!) lui -si dice- grazie all’alimentazione Macro Floreale e a quell’aria nordica che ancora teneva nei polmoni, era l’unico ke stava sempre benino, bene, benessum… (!!!)… Fino a quando per purissima SFIGA non la incontrò… era di origini nordiche anche lei… Tallin -credo- o giù di lì… e ke cazzo ci facesse proprio in quel giorno lì… di quell’ora lì… di quel lì… lì… lì… li mortacc… LO SA solo Arturone il custode del cimitero che amava fumare fuori, sotto alla grande Croce di Ferro, battuta -dopo- e ‘rosolata’ -prima- da un fabbro di Malacappa venuto dal Piemonte x motivi suoi. Sì sì dev’essere la catena, è una bici un po’ stronzina… -rispondeva parco parco- …sarà il tempo sa com’è… -continuava sempre più chino-… La GIUNONICA sembrava non capisse… “No problem! I’m HERE!”… Lo raccolse con dolcezza al seno… e lo lanciò con colore forma e vigore di là della siepe e delle more in amore… non parlarono x quasi due ore… e non si videro per tutto il resto… Comastro, purtroppo x noi, e sinceramente –non so- x lui… cambiò tanto tanto da quella sera… ma la bici è ankora là… con la catena scesa e il lucchetto arrugginito… c’è Arturone –x fortuna- ke ogni tanto ci butta un occhio… quando alla sera l’afa sembra quasi nebbia e i ragazzi –leggeri e scalzi- si rincorrono dietro alle mietitrebbia..




Oro e argento

I nostri amori luccicano al buio come ori e argenti… infischiandosene della viscosità di attimi prima… come il vischio fuori stagione o le ciliegie a dicembre… gli odori e i profumi rimangono per il loro tempo… non so che tempi affronteremo domani… ma conosco solo un po’ di più i ritmi del tuo cuore… e intanto fumo un’altra sigaretta mirando al tuo ombelico… chissà che non abbia inventato un nuovo sistema di gravidanza o l’ennesimo anticoncezionale… ma non sono mai stato bravo nel tenere la direzione e poi il fumo misto ad aria si sparpaglia tutto intorno… non vale… fosse una big babol chissà… forse sarebbe diverso… ma sarebbe anche poi tutta un’altra storia.




Johnny Radicchio

I nostri amori luccicano al buio come ori e argenti… infischiandosene della viscosità di attimi prima… come il vischio fuori stagione o le ciliegie a dicembre… gli odori e i profumi rimangono per il loro tempo… non so che tempi affronteremo domani… ma conosco solo un po’ di più i ritmi del tuo cuore… e intanto fumo un’altra sigaretta mirando al tuo ombelico… chissà che non abbia inventato un nuovo sistema di gravidanza o l’ennesimo anticoncezionale… ma non sono mai stato bravo nel tenere la direzione e poi il fumo misto ad aria si sparpaglia tutto intorno… non vale… fosse una big babol chissà… forse sarebbe diverso… ma sarebbe anche poi tutta un’altra storia.




Merlo Frigerio

I nostri amori luccicano al buio come ori e argenti… infischiandosene della viscosità di attimi prima… come il vischio fuori stagione o le ciliegie a dicembre… gli odori e i profumi rimangono per il loro tempo… non so che tempi affronteremo domani… ma conosco solo un po’ di più i ritmi del tuo cuore… e intanto fumo un’altra sigaretta mirando al tuo ombelico… chissà che non abbia inventato un nuovo sistema di gravidanza o l’ennesimo anticoncezionale… ma non sono mai stato bravo nel tenere la direzione e poi il fumo misto ad aria si sparpaglia tutto intorno… non vale… fosse una big babol chissà… forse sarebbe diverso… ma sarebbe anche poi tutta un’altra storia.




Frank

Spezzami il cielo Frank, non ce la faccio più, fai qualcosa ma spezzamelo…
Ci ho provato Andy, te lo giuro sui miei jeans… Non riesco…
La Paura –sono riuscito- ma il Cielo è troppo duro per i miei gusti…
Si guardarono la fronte, un leggero mugolio, ripresero a zoppicare; sempre un po’ spaiati ma nella mano… il Giallo di quegli alberi era irregolare.




Petronilla e Palazia

Petronilla e Palazia giocavano con i loro aliti. Erano nate orfane, vissute vergini anche se morte vedove. Si spogliavano –solo- davanti ai loro specchi… non specchi d’acqua e neanche di vetro, specchi di carne, specchi di sudore, specchi di odore di cose lontane… Petronilla e Palazia forse sei Tu forse sono Io… forse sono solo dentro il sogno di un insonne.




Nata di 25

Occhi di luna lacrime di sabbia cuore di marmellata di luglio… strappami ancora un sorriso –vero- fallo per te –e basta- non amarmi per quello che sono… sarebbe troppo… inquadrami, piuttosto idealizzami ma continua a sognarmi –così- di nascosto… nata di 25 continua a lavare i tuoi specchi. Un bacio.




Carissimi, sono Maurizio Rocca e ho avuto modo di conoscervi nel corso del seminario italo - brasiliano tenutosi a Bologna. Per consentirvi di identificarmi, specifico che ero il silente n° 2 della discussione "rendere visibile l'invisibile". Ho scritto una breve riflessione sulla discussione che vi allego. Se lo ritenete utile pubblicatela. Altrimenti amici come prima. Prometto che vi seguirò e che con il passaparola cercherò di invitare amici e operatori a seguirvi.
Cordialmente, Maurizio.




RENDERE VISIBILE L’INVISIBILE

   Maurizio Rocca
    direttore del distretto sociosanitario di Catanzaro, ASP di Catanzaro


D al 20 al 24 febbraio a Bologna si è tenuto il 6° workshop internazionale del Laboratorio Italo - Brasiliano dedicato alle pratiche innovative in tema di cure primarie. Particolarmente interessanti sono state le riflessioni emerse sul tema del rendere visibile l’invisibile. Due i filoni che hanno caratterizzato la discussione. Il primo, che definirei ‘culturale’, centrato sull’identità comunitaria, e sulla riscoperta dei geni delle tradizioni e delle storie delle differenti comunità, ormai repressi, resi invisibili quindi, dai tensori dell’omologazione. Il secondo, che qualificherei ‘del prendersi cura’, focalizzato invece sul rendere visibili, conferendo quindi diritto di cittadinanza, a bisogni invisibili, non garantiti cioè da risposte ed in quanto tali invisibili, posti al di fuori dal recinto delle garanzie di cittadinanza. La circostanza più straordinaria è che la discussione aveva luogo in un ex manicomio, il Francesco Roncati di via Sant’Isaia, simbolo di quell’operazione di invisibilità che storicamente è stata perpetrata per ghettizzare, porre cioè al di fuori dal diritto di cittadinanza, la follia. Diverse sono state le esperienze narrate, ma tutte comunque accomunate dai valori del cercare chi non arriva e dell’andare verso, e finalizzate a dare cittadinanza a diritti di salute negati, a dare voce ai silenzi assordanti della solitudine e della marginalità. Il tema visibilità - invisibilità è, in altri termini, il tema universalismo - universalismo selettivo, cittadinanza - non cittadinanza. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale, nato sotto gli auspici di una tutela universalistica della salute, fondava la sua logica sull’equazione: risorse funzione diretta dei bisogni. Oggi l’equazione si è diametralmente ribaltata: bisogni funzione diretta delle risorse disponibili. Il recinto che accoglie il diritto di cittadinanza erige così nuovi muri a difesa del condizionamento finanziario del nuovo universalismo che diviene sempre meno inclusivo e rende invisibili persone a cui quel diritto viene negato. E i ‘nuovi folli’, resi invisibili dalla negazione del diritto di cittadinanza, non sono semplicemente persone dalla pelle di colore diverso dalla nostra, ma sono anche i nostri vecchi, artefici di quel sogno di universalismo che a piena voce rivendichiamo.

I CAMALEONTI

   Gilda Pappalardo


Quando si ammala un figlio, due coniugi si separano e l’egoismo dell’uno si rivolge agli interessi e l’altro all’amore vero.