GIOVANNI BOLDINI: “Il giornalaio”
Piergiorgio Fanti
N
ato a Ferrara il 31 dicembre 1842, riceve i primi insegnamenti dal
padre pittore; poi, su suggerimento dello stesso, si iscrive
all’Accademia di Firenze. Ma più che la scuola, lo interessa stringere
amicizia con i pittori ‘macchiaioli’ che gravitano attorno al Caffè Michelangelo,
e si dedica per qualche tempo alla tecnica di‘macchia’. Dopo essersi
recato a Londra, ove ottiene notevole successo, nel 1871 si trasferisce
a Parigi e qui rimarrà tutta la vita, divenendo il ritrattista
prediletto del bel mondo. Col suo istintivo talento e la sua sottile
ironia il pittore ci svela così l’intima decadenza di quella società
cosmopolita e raffinata. Muore a Parigi il 12 gennaio 1931.
Il dipinto intitolato Il giornalaio
può essere diviso in due parti: la superiore ritrae un uomo che sembra
la maschera della fatica, della vita moderna che stravolge e logora;
quella inferiore rappresenta un numero notevole di giornali, che quasi
compongono un’opera cubista o, forse meglio, futurista. Il tutto è
ritmico, convulso come la vita nella Ville Lumière, la grande Parigi.
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EDITORIALE
Fabio Tolomelli
A
nche i sassi parlano. Per mezzo dei nostri sensi ci dicono tante cose. Attraverso la vista ci dicono di che colore
sono; attraverso il tatto quanto sono compatti; attraverso i termocettori la loro temperatura, attraverso le papille
gustative il loro sapore; attraverso le narici il loro odore; se li urtiamo fanno un dato rumore e se ci cascano
addosso ci fanno male. Attraverso la tecnologia poi possiamo scoprirne il contenuto, l'età, le origini, il perché
della forma e tante altre cose. A mio modo di vedere, si comunica sempre, anche quando si crede di non farlo,
perché anche un uomo solo interagisce sull'ambiente che lo circonda. Un uomo, poi, può anche comunicare con sé stesso
(come caso estremo, vedi gli uditori di voci, ma anch’io spesso mi faccio certi discorsi tra me e me). Secondo Wikipedia per
‘comunicazione’ (dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune)
si intende il processo di trasmissione di un'informazione, attraverso
lo scambio di un messaggio elaborato secondo le regole di un
codice. Ma perché comunichiamo? Quando ci relazioniamo con un altro
soggetto è perché abbiamo un bisogno da soddisfare.
Il bambino che non ha ancora appreso il linguaggio piange quando ha
fame. Nell'adulto il tutto è molto più complicato,
perché è mediato da un linguaggio verbale e da uno non verbale, per cui
il messaggio ha un contenuto che va ‘interpretato’
dal ricevente. Può capitare che mentre diciamo una cosa il nostro
inconscio attraverso il corpo ne dica un'altra. Esistono
persone che per talento sono grandi comunicatori e altri che lo sono
meno. Vi sono poi persone che sentono un forte bisogno
di comunicare e persistono anche quando nessuno le ascolta. Ricordo mio
padre che a tavola parlava molto, era un po’
logorroico e quando si accorgeva che nessuno lo ascoltava più, per
reazione aumentava il tono della voce. Vi sono persone
che preferiscono non comunicare e comunicano, attraverso il corpo, che
non vogliono comunicare. La comunicazione cambia
in funzione dal contesto: in chiesa si parla a bassa
voce, con corporeità dimessa e abiti sobri; mentre in
discoteca si urla, abiti aderenti e movimenti in libertà.
Una cosa curiosa è che anche il linguaggio corporeo
viene interpretato in modo soggettivo: il cane quando è
contento scodinzola, mentre quando è arrabbiato solleva
e raddrizza la coda, per il gatto succede il contrario:
forse per questo cani e gatti si azzuffano senza apparente
motivo. Da questo si evince che, poiché il messaggio
deve essere decodificato, occorre, per capirsi, trovare
un linguaggio comune: ad esempio un siciliano e
un trentino difficilmente riusciranno a comprendersi se
parlano entrambi solo il proprio dialetto stretto. Il messaggio
cambia in funzione del rapporto esistente fra
emittente e ricevente: per esempio durante una lezione
scolastica il messaggio è più unidirezionale (dal docente
verso gli allievi) e sarà tra una persona più autorevole
a una di livello comunicativo in posizione di inferiorità.
E quando si litiga? Spesso si cerca di rendere effettivo
un proprio bisogno, un diritto o una volontà e succede
che i toni si alzano in modo crescente, con fare sempre più
minaccioso fino a che… non ci si mette d'accordo o si finisce
a botte. Un po’ come sta succedendo tra i presidenti di Stati
Uniti e Nord Corea... speriamo nella diplomazia! Comunicare
è bello, ci si conosce, e conoscere è vita, siamo vivi anche
quando siamo soli, l'importante è scoprire, essere curiosi e
apprendere. La forma più bella e piacevole di espressione è
il sesso, la più completa e appagante è l'amore cristiano, per
gli altri e di sé. Per questo leggete e scrivete al Faro: comunicherete
e scoprirete parti o aspetti della vita vostra e degli
altri. Comunicare fa stare bene.
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COMUNICAZIONI SOTTO CONTROLLO
Gabriele Beghini
L
e api rientrano all’alveare e con una sorta di
danza indicano alle compagne dove trovare il
nettare. Le formiche si incontrano, si avvicinano
e sfiorandosi le antenne si riconoscono e
comunicano. Gli uccelli cantano, mostrano colori
appariscenti e compiono evoluzioni per segnalare la
propria presenza o per mostrarsi disponibili all’accoppiamento.
Sono solo alcuni dei tanti possibili esempi di come
gli esseri viventi attraverso il processo evolutivo hanno
adottato soluzioni per comunicare con i propri simili. Colori,
odori, suoni, segnali… tutti, nei limiti delle proprie
caratteristiche, hanno trovato differenti soluzioni, alcune
molto geniali. I più evoluti utilizzano un vero e proprio
linguaggio: i cetacei inviano suoni udibili in lontananza,
ogni tonalità ha un preciso significato. Così come le scimmie
che sono in grado di segnalarsi il pericolo, salutarsi,
gioire, sgridarsi. Rispetto agli altri esseri viventi, grazie ad
una voce modulabile capace di emettere un’ampia varietà
di suoni, noi umani possediamo grandi vantaggi: componiamo
parole dal differente significato che rappresentano
le basi per una comunicazione molto articolata. Così, con
il fondamentale contributo dell’intelligenza, sono nati i
linguaggi, i dialetti e anche soluzioni tecnologiche sempre
più perfezionate che consentono comunicazioni nello
spazio e nel tempo. Il messaggio elaborato dal soggetto
emittente si compone, transita e giunge a destinazione.
Il soggetto ricevente lo recepisce, lo interpreta e lo comprende.
È questo il tipico ciclo della comunicazione, perlomeno
dal punto di vista teorico.
Ma sul piano pratico il processo è sovente perturbato,
tanto che il ricevente può non recepire integralmente,
mal interpretare e soprattutto travisare la comprensione.
Voglio dire che le comunicazioni avvengono non senza
malintesi. Innanzitutto il messaggio potrebbe non essere
sincero, in questo caso siamo in presenza di una dissonanza
voluta fra le parole e la realtà. Ma si dà il caso che
nella comunicazione gli umani si avvalgano anche di altri
strumenti: lo sguardo, la gestualità, il tono della voce, il
modo di atteggiarsi. E sono proprio questi che aiutano a
smascherare il mendace. È facile mentire a parole, lo è
molto meno governare gestualità e sguardo. Chi mente
difficilmente guarda fisso negli occhi il proprio interlocutore
e mostra segni di nervosismo. Tempo fa un esperto
di gestualità analizzò la registrazione video del discorso
di un noto politico il quale faceva pubbliche dichiarazioni
a fronte di un risultato elettorale deludente. A parole si diceva
comunque soddisfatto argomentandone le ragioni in
modo molto abile e anche convincente, ma da una visione
attenta e rallentata del video si evidenziava chiaramente
che tradiva espressioni che smascheravano il disappunto
che goffamente stava cercando di nascondere a parole.
Nemmeno laddove il relatore sia sincero il seppur ricco
linguaggio umano garantisce la piena comprensione. Un
uso improprio del linguaggio e l’omissione di qualche dettaglio
sono frequentemente causa di malintesi. Anche chi
ascolta filtra attraverso una propria impostazione mentale
frutto della propria cultura, della propria ideologia e
delle proprie esperienze. Tanto che nei casi più estremi
potrebbe addirittura non cogliere qualcosa che per altri
è palese, evidente. È per queste ragioni che comunicare
correttamente non è facile. Personalmente ebbi l’occasione
per un breve periodo di occuparmi di manualistica e in
quell'occasione mi resi pienamente conto del problema.
Un manuale deve essere chiaro, esplicito, deve offrire al
lettore le informazioni giuste al momento opportuno e soprattutto
non lasciare spazio ad errate interpretazioni. Un
collega esperto che ricorderò sempre con piacere mi aiutò
tantissimo. Una sua frase mi è rimasta scolpita: “Quando
scrivi un manuale mettiti nei panni di chi lo leggerà”.
Apparentemente è ovvio, forse si dà per scontato, ma poi
così scontato non è quando si tratta di metterlo in pratica.
Significa far sì che il lettore abbia tutti gli elementi per
capire e non offrire alcun appiglio al rischio di fraintendimenti.
Soprattutto è quando si affrontano temi giuridici
che si impara a dare un giusto peso alle parole. Nel diritto
e nella giurisprudenza le parole sono come i numeri nella
matematica, non esistono sinonimi. Sostituire un termine
cambia il risultato finale. Ad esempio: “possiedo una bicicletta”
e “sono proprietario di una bicicletta” sono due
affermazioni che nel linguaggio comune potrebbero voler
dire la stessa cosa, ma che dal punto di vista giuridico
hanno un significato differente. La bicicletta infatti potrei
possederla senza esserne il legittimo proprietario, perché
mi è stata prestata, per esempio. Talvolta la comunicazione
giunge travisata per effetti distorsivi dovuti a
vari passaggi fra le persone. È il caso delle organizzazioni
complesse e gerarchiche. Militari, aziende o altre strutture
umane risentono in modo particolare di questo problema.
Ma anche nella vita di tutti i giorni, fra vicini di casa,
conoscenti, passanti, un messaggio può scemare, amplificarsi o travisarsi transitando di bocca in bocca. Nella
società umana la comunicazione è talmente importante
che sul tema esistono veri propri corsi universitari, oltre a
seminari di vario livello e tantissimi libri.
Quando fui incaricato di fare da tutor nei corsi per neoassunti,
lessi per l'occasione una pubblicazione molto bella
scritta da un esperto di comunicazione. Interessante
come suggeriva l'uso del tono della voce, della gestualità,
lo sguardo verso tutti i presenti e altre tecniche.
È chiaro che un insegnante, anche se improvvisato, deve
mostrarsi in un certo modo per conquistare l'interesse
per la materia. Tutto ciò indipendentemente dai contenuti.
È risaputo che al frequentante, al termine di un corso,
resta solo una parte delle nozioni trattate. È fisiologico
che una parte si perda comunque, ma la percentuale di
ciò che resta è in funzione dell’interesse, quindi del coinvolgimento.
Chiaro che se l’insegnante si propone come
un buon comunicatore il risultato finale del corso può
essere molto più proficuo che nel caso contrario. È vero
che alcuni possiedono doti innate di grandi comunicatori,
altri lo diventano, altri non ce la possono proprio fare.
Nel passato i grandi leader erano principalmente talenti
innati, comunicavano in modo efficace e credibile senza
sforzo. Ora la comunicazione si può studiare. I politici e
i manager si creano per così dire ‘in laboratorio’. Cioè si
insegna l'uso delle pause, il giusto tono della voce, la gestualità
e l’uso di frasi opportune. I cosiddetti ‘truismi’
rappresentano affermazioni sempre verificate, una sorta
di tautologie, che creano le condizioni per conquistare il
pubblico che ascolta. Un po’ alla volta fanno cadere le
nostre barriere difensive inconsce. L’attenta analisi dei
discorsi dei politici ‘comunicatori’ mette in luce come l'intercalare
di truismi, pause e frasi di impatto apre la strada
a messaggi forti dal chiaro effetto ipnotico. In questi termini
lo studio della comunicazione efficace non si ferma
a garantire la comprensione, ma punta ad assumere il
controllo sul pubblico che ascolta. Perfino la pubblicità si
avvale di tecniche simili. Ad esempio, qualcuno avrà forse
notato che alcuni spot pubblicitari stranamente si ripetono
a distanza di pochissimo tempo? Non è un errore, è
una tecnica. Si basa sulla conoscenza del funzionamento
del cervello umano il quale apprende meglio quando
un messaggio si ripete frequentemente in un breve lasso
di tempo. Una sola volta difficilmente si registra, se
ripetuto probabilmente sì. Una chiacchierata sul tema
della comunicazione non può esimersi dal menzionare
gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione. In
poco più di tre decenni siamo passati dalle lettere scritte
su carta ai telex, ai fax, alla comunicazione via computer
e alla telefonia cellulare fino a formare una grande rete
globale interconnessa. Il tutto con un utilizzo sempre più
ricco di multimedialità, cioè di immagini, audio e filmati
di qualità. Ciò ha rappresentato un grande progresso
nella comunicazione offrendo molte possibilità in più. Per
contro stiamo perdendo riservatezza. I gestori di mail, dei
social network e dei motori di ricerca (strumenti dai quali
non possiamo più esimerci) dichiarano apertamente che
utilizzano i cookies, che raccolgono informazioni e che le
comunicano a società per fini statistici e commerciali. Se
non ci va bene dicono che possiamo recedere! Cioè non
utilizzare lo strumento? Se invece vogliamo continuare
a comunicare dobbiamo accettare di essere ‘monitorati’!
Mai capitato di cercare su internet informazioni su un
prodotto, ad esempio un elettrodomestico attraverso un
comune motore di ricerca? Se successivamente si apre
un social network magicamente appaiono banner pubblicitari
sull’elettrodomestico che avevamo cercato, è una
coincidenza? È semplicemente la prova che il sistema
economico e il mondo della comunicazione stanno diventando
sempre più integrati. E ci sono forti interessi
in gioco. Strumenti e tecniche di comunicazione offrono
al potere economico e politico la possibilità di gestire e
governare le informazioni in modo sempre più efficace.
Cliccare un ‘mi piace’ su un social network non è esente
da conseguenze. Se comunico agli amici che ‘mi piace’ il
motocross il mio nome finirà in una lista e nei giorni successivi
mi appariranno banner pubblicitari inerenti il motocross.
Il ‘mi piace’ è una comunicazione che permette
agli operatori di marketing di elaborare liste di potenziali
acquirenti di prodotti o ai politici liste di simpatizzanti.
Evidentemente la comunicazione diviene sempre meno
riservata e sempre più gestita. Ai gestori dell’informazione
offre opportunità di raccogliere grandi quantità di dati
che rappresentano un tesoro da rivendere al sistema economico
e politico. Personalmente ritengo ci siano motivi
di preoccupazione. In un mondo in cui ci sono alcuni abili
comunicatori che possiedono pericolosi strumenti di indottrinamento,
le informazioni, che sono sempre più facili
da raccogliere e tendono a concentrarsi in mano a pochi
potenti, possono essere a loro volta strumentalizzate per
orientare l’opinione delle masse? Ciò non può forse rappresentare
una situazione pericolosa per l'integrità della
società e per la democrazia? Siamo in presenza di rischi?
È possibile che la comunicazione subisca manipolazioni
e che il libero pensiero venga sapientemente veicolato?
Probabilmente i rischi saranno minori se si mantiene una
pluralità di operatori nel settore comunicazione, se nel
mondo dell’information technology continueranno a coesistere
più sistemi operativi, più motori di ricerca, più
social network. Se al contrario, in mancanza di adeguate
tutele, proseguirà per questa via il fisiologico meccanismo
di concentrazione, ci troveremo in una sorta di democrazia
spuria in cui si potrà continuare a comunicare
liberamente ma sotto la mano invisibile di un ‘grande fratello’
globale che controlla, decide e manipola.
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PARLARE O COMUNICARE
Patrizia Degli Esposti
L
e parole servono a comunicare. Tutti nasciamo
con l’istinto della comunicazione: da
neonati comunichiamo con il pianto o con
il sorriso. Crescendo impariamo a parlare,
ma… a volte siamo costretti a cercare ‘parole
per spiegare le parole’. Viviamo in un’epoca in
cui le forme di comunicazione sono tante. Internet,
il cellulare, il computer ci permettono di comunicare
in qualsiasi momento della giornata e con chiunque.
Possiamo comunicare da terra ad una sonda spaziale
e viceversa.
Meraviglioso, strabiliante. Eppure spesso non riusciamo
a comprenderci veramente. Interpretiamo le
parole dando loro un valore che spesso parte dal nostro
modo di sentire o vedere, dalla nostra cultura o
esperienza. Per una corretta e giusta comunicazione
penso sia necessario e fondamentale ascoltare chi si
mette in relazione con noi, svuotando la nostra mente
da ciò che vorremmo dire o vorremmo sentirci dire.
Oppure osservare attentamente il linguaggio del corpo.
Un sorriso, un abbraccio sono forme di comunicazione
universali. Quando ci troviamo in un paese
straniero e non conosciamo la lingua usiamo i gesti
per comunicare. Una meravigliosa e profonda forma
di comunicazione è l’arte.
Un bambino o un anziano che piange esprime un disagio
che spesso non sa spiegare. Sta a chi gli è vicino
comprendere e trovare il modo per entrare in contatto
e in comunicazione, perché la vera comunicazione
è riuscire ad entrare in empatia con il prossimo. A
volte le parole non sono necessarie per comprendere
l’altro. Se vogliamo veramente costruire un contatto evitiamo giudizi ed etichette. Semplice come metodo,
ma difficile da realizzare.
Siamo abituati a dividere in buono o cattivo, bello o
brutto, sporco o pulito, a farci condizionare dall’aspetto
esteriore. Possiamo farci ingannare da una intonazione
o modulazione della voce e ritenere pertanto
buona una frase solo perché l’enfasi con cui viene
detta ci affascina o perché la persona che parla veste
in un determinato modo. Perché anche l’abbigliamento
è una forma di comunicazione. Il modo in cui vesto
‘parla’ di me e prima ancora che io parli ho ‘comunicato’
se sono una persona affidabile. Un tono di voce
modulato infonde fiducia ed affidabilità toccando la
nostra parte emotiva. Non c’è dubbio, per comunicare
comunichiamo, ma siamo sicuri di essere compresi?
Quanto sono stata chiara in questo scritto? Sarei
curiosa di avere un feedback che mi permettesse di
entrare in contatto con chi ha avuto la pazienza di
leggermi. Così, per allenarci a comunicare.
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UN DIALOGO PERFETTO
Patrizia Degli Esposti
Bla bla bla
Cosa dici?
Blu blu blu
Ho capito bene?
Ra ra ra
Ripeti per favore?
Grr grr grr
Tutto mi è chiaro ora
Mumble mumble…
Vieni ti offro un caffè
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COMUNICARE È… UMANO
Mariangela
D
al 1950 numerosi sono stati gli studiosi
che, mediante una collaborazione che ha
coinvolto campi differenti quali la ginecologia,
la psichiatria e la psicologia, hanno
cominciato a far luce sui processi di interazione
madre-bambino in fase prenatale. Le ricerche
hanno dimostrato che tutto ciò che la madre vive, viene
percepito anche dal feto dopo poco, dalle prime fasi
di sviluppo! Il primo ambiente che il nascituro impara a
conoscere è l'utero materno, attraverso questo organo
entra in contatto mediante i suoi organi di senso con
gli stati emotivi e psicologici della madre. Durante la
gestazione sente, apprende e memorizza ciò che viene
filtrato dall'esterno ma anche dall'interno del corpo
della mamma, i rumori e le voci. Il suono del battito
cardiaco e la voce materna, costituiscono le basi su cui
si fonda il legame madre - bambino. Si presume che la
voce della madre avendo una risonanza interna venga
percepita meglio e possa operare a livello della memoria
del feto e favorire la successiva comprensione e il
successivo apprendimento del linguaggio verbale con
cui comunicherà dopo la nascita. Donald Winnicott,
pediatra e psicanalista inglese, fu il primo a rilevare
che fra il feto e la madre si instaura una vera forma
di comunicazione e che questa è determinante per lo
sviluppo psichico del bambino.
Esistono metodi che permettono alla futura mamma di
mettersi in contatto col bebè e trasmettergli messaggi
positivi: usando carezze e respiri si accorgerà che il
piccolo risponde. Si farà sentire con calcetti, piccoli
pugni, movimenti delle braccia e singhiozzo, come
per dire di continuare a cullarlo e coccolarlo! Da quel
momento in poi i movimenti del nascituro parleranno
quotidianamente alla madre fino a quando per mezzo
delle doglie, il suo corpo le comunicherà che sta avvenendo
il lieto evento. I movimenti del bambino in pancia
sono importantissimi, consentono di dare a questa
sensazione un'interpretazione attendibile e una testimonianza
costante sul benessere del piccolo! Alla luce
di questi fatti si può asserire che la prima forma di comunicazione
nasce nel grembo materno.
Personalmente considero la parola il migliore ed il più
importante mezzo di comunicazione che la natura offre
gratuitamente al genere umano. Tuttavia ci sono
altri importanti mezzi che ci consentono di comunicare
con i nostri simili, uno di questi è la scrittura, una delle
più grandi conquiste che l'umanità ha fatto nell'ambito
dei sistemi di comunicazione. Secondo un recente
studio canadese l'uomo potrebbe avere imparato a
scrivere molti anni prima di quanto si pensi. Studiose
dell'università di Victoria (British Columbia, Canada)
hanno analizzato gli affreschi presenti in 146 caverne
francesi: sulle mura di queste grotte, a fianco ai dipinti
raffiguranti animali e raramente uomini, si trovano anche
segni di vario tipo. Si tratta di linee, punti, cerchi,
triangoli, ma anche segni più complessi come spirali
e impronte di mani. Ventisei di questi segni si ripetono
in quasi tutti i siti archeologici. Questo potrebbe
far credere che non si tratti di segni casuali, ma di un
linguaggio, una rappresentazione non del parlato ma
dell'oggetto, per condividere informazioni, un primo
passo verso la scrittura.
Se questa ipotesi fosse confermata il periodo in cui
l'uomo ha cominciato a scrivere potrebbe risalire a
circa 80.000 anni fa. Se non ne sono rinvenute tracce
è perché probabilmente per scrivere si usavano materiali
deperibili come legno o pelle. Una prima codifica
di questi segni invece è databile intorno al quarto
millennio a.C. presso il popolo dei Sumeri nella bassa
Mesopotamia. I segni venivano già allora utilizzati per
facilitare gli scambi commerciali. Ma l'evoluzione decisiva
verso le attuali forme di rappresentazione grafica
si compie nel XII e XI secolo a.C. nell'area mediterranea
delle città stato fenicie, dove si sviluppano i primi
sistemi di scrittura alfabetica, cioè in cui ogni singolo
suono del parlato viene rappresentato da un singolo
segno. Nel corso dei secoli questo metodo si è esteso a
partire da circa 5500 anni fa nel corso di tre millenni in
Medio Oriente, Egitto, Cina e America precolombiana,
utilizzato manualmente su pergamena, papiro e carta.
Una svolta importante nella comunicazione si ha con
Johannes Gutemberg, l'inventore della stampa a caratteri
mobili. In Europa il primo ad utilizzarli è lo stesso
inventore. I caratteri mobili in metallo venivano posti
su un vassoio a formare la pagina di un manoscritto,
una volta terminata la stampa delle copie necessarie
si passa alla pagina successiva: un modo più veloce e
conveniente per stampare ogni tipo di testo, che permette
alla conoscenza nelle sue molteplici forme di
diffondersi in tutto il globo. La diffusione della stampa
a caratteri mobili favorì anche la nascita dei primi giornali.
La pubblicazione del primo quotidiano avviene
nel 1660 a Lipsia. La grande crescita economica degli
USA che in poco tempo conosce un aumento della
produzione di beni e servizi, favorisce la meccanizzazione
della stampa. Nel 1844, Richard Hoe inventa la prima rotativa, capace di stampare 8000 copie all'ora,
installata nel 1846 all'interno della redazione del Philadelphia
Public Ledger, quotidiano dell'omonima città.
Questa invenzione favorì la diffusione dei quotidiani
in tutto il mondo. Oltre alla notizia su carta stampata,
l'informazione si è diffusa nel mondo a partire dal XX
secolo tramite le nuove forme di comunicazione: radio,
TV, internet, innovazioni entrate in tutte le abitazioni.
Nel mondo moderno anche persone con disabilità
sensoriali hanno la possibilità di trasmettere e ricevere
informazioni. Per i sordomuti il linguaggio dei segni,
la scrittura ed i moderni mezzi di comunicazione visivi
basati sulla scrittura (cellulare, smartphone e computer
sostituiscono efficacemente il linguaggio verbale),
mentre per i non vedenti si sono resi di grande utilità
l'alfabeto Braille e i moderni mezzi di comunicazione
dotati di impianto acustico (telefono, registratore,
smartphone, microfono radio e PC sonorizzati). Anche
il mondo animale ha offerto all'uomo la possibilità di
comunicare: i piccioni viaggiatori sono stati a lungo il
più veloce mezzo di comunicazione disponibile. Il loro
utilizzo risale agli antichi Egizi e ai Persiani di 3000
anni fa e rimase efficiente fino all'avvento del telegrafo,
del telefono e della radio nel XIX secolo. In entrambe
le guerre mondiali furono utilizzati migliaia di piccioni
per spedire messaggi strategici scritti su carta
leggera o microfilm inseriti in tubicini legati alle zampe
dei volatili. Oggi grazie agli sviluppi tecnologici gli attuali
mezzi di comunicazione si sono estesi in tutte le
località della Terra, permettendo di entrare in relazione,
non solo per fini materiali ed economici, ma soprattutto
per instaurare vincoli di fratellanza e di pace
fra tutti i popoli. Un traguardo difficile da raggiungere,
ma il più ambito!
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QUATTRO PAROLE
Cesare
T
utti noi comunichiamo: lo facciamo attraverso la
parola scritta e orale, oppure mediante la postura
del corpo, il tono della voce, o magari soltanto con
un minaccioso basco nero orientato sulle ventitré.
Spesso però questa nostra comunicazione conscia e
inconscia ci è indotta da una contro-comunicazione
che subiamo senza accorgercene. Coloro che veicolano
questi subdoli messaggi sono i media, dietro i
media c'è una classe politica dominante, che quasi
sempre è corrotta in maniera manifesta da una sadica
oligarchia imprenditoriale che coscientemente
comunica, attraverso bisogni indotti e desideri coatti,
il violento e schiavista diktat del consumismo
capitalista; esso recita più o meno così: “Tu Uomo
sei un servo!”.
Il lettore di questo articolo si è mai domandato cosa
sogna di essere nella vita? Cosa vuole realmente comunicare
e quale comunicazione desidera ricevere?
No? È ora di porsi subito questa domanda! Tu! Sì tu!
Vuoi forse inviare e ricevere messaggi votati all'ordinarietà?
Sì? Questo ti rilassa, ti fa sentire più sicuro
di te e magari questa tua necessaria convenzionalità
seda i dolorosi morsi di quella maledetta depressione
che ti tormenta? Ti capisco. Tu sei un aristocratico!
La tua pacifica indole di povero di spirito ti fa
eleggere glorioso erede della nobiltà di Cristo, e alla
fine dei tuoi giorni ti aspetterà meritoriamente una
grande ricompensa: il Paradiso. Io non avrò mai la
tua stessa fortuna. La redenzione non mi è concessa;
per me le porte di quell'inferno in cui sono recluso
saranno per sempre sbarrate. La gravissima e invalidante
patologia psichica di cui soffro, mi costringe
a comunicare odio, violenza, vendetta; vedo in ogni
uomo un nemico, dietro ogni angolo un agguato:
"Quello sguardo non mi convince!", "Tu, chi sei! Cosa
vuoi! Perché mi segui!", "Lasciate stare il mio cane
VIGLIACCHI CIALTRONI!!"... Sentendomi scosso e
piangente, vorrei ricordare un bellissimo e commovente
film dell'85 A 30 secondi dalla fine (Runaway
Train), regia di Andrey Konchalovskiy, su un soggetto
di Akira Kurosawa), in cui John Voight interpreta
Manny, un personaggio che mi somiglia molto. Egli,
pugnace ergastolano, scappa da un carcere di massima
sicurezza e imbarcatosi clandestinamente su
un treno senza guidatore, sentendo la morte vicina,
inveisce nei confronti del suo compagno di fuga che
si dimostrava ostile e sprezzante verso valori come
l'umiltà e il rispetto per gli altri. Il giovane fuggiasco,
replicando piccato, invita il vecchio collega a diventare
lui un rispettoso servitore! Manny allora, eroe
di mille rapine e clamorose evasioni, crolla psicologicamente
e, abbassando il capo, pronuncia quattro
parole che comunicano tutta la sua - e la mia - tragica,
frustrante impossibilità di essere semplicemente
normale: "Magari potessi... magari potessi... ".
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COSA DISSE FAINA A FRANZ KAFKA
Antonio Marco Serra
Non si può esprimere ciò che si è, proprio perché lo si è;
non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna.
Franz Kafka
N
ella citazione di Kafka qui riportata, mi sembra che siano
implicitamente contenuti tre assunti sui quali nutro profondi dubbi.
Primo: che il linguaggio (e immagino che Kafka, scrittore eccelso,
abbia in mente precipuamente il linguaggio verbale) si presti ad
esprimere qualcosa, il nostro ‘mondo interiore’, qualunque cosa ciò
possa significare, di molto diverso da ciò per cui il linguaggio stesso
è stato elaborato. Secondo: che questo nostro ‘mondo interiore’ si
sviluppi autonomamente,
in maniera solipsistica, e non, come io credo, in rapporto e in
funzione col mondo e soprattutto con le persone che ci circondano.
Terzo: che noi abbiamo una reale conoscenza del nostro ‘mondo
interiore’, e che potremmo quindi, volendolo, comunicarlo ad altri, per
quello che realmente è; ‘metterci
a nudo’, come a volte si dice. In realtà ci sarebbe anche un quarto
punto: perché mai, anche se io potessi comunicare agli altri il mio
‘mondo interiore’, dovrei avere la bizzarra convinzione che esso debba
risultare per loro così grandemente attraente?
A questo riguardo mi ripeto spesso le parole di Faina Ranevskaya, una
grande attrice teatrale russa del buon tempo andato, famosa anche per i
suoi taglienti aforismi: “Se stai aspettando che qualcuno ti accetti
come sei, sei solo un pigro bastardo. Perché, di regola, ‘il modo in
cui uno è’ è un ben triste spettacolo. Cambia, bestia! Lavora su te
stesso o crepa da solo”.
E ammesso anche che gli altri fossero interessati a questo nostro
mitico ‘mondo interiore’, non accadrebbe che, una volta che lo avessimo
spiattellato papale papale dinnanzi ad essi, privati di tutto il nostro
mistero, diverremmo per loro solo una noia pazzesca?
Assunto primo : quando penso alle origini del linguaggio umano
mi immagino un uomo del periodo preistorico che grida ai suoi compagni
di caccia: “Orso infuriato a ore 11, darsela a gambe in direzione
opposta!”, oppure che rimbrotta un suo apprendista inetto: “Babbeo, per
scheggiare quel ciottolo e
farne una punta di freccia, devi usare una selce, non un pezzo di
calcare! Testa di tufo che non sei altro!”. Così facendo, non solo
diceva la verità, contrariamente
a quanto supposto da Kafka, ma contribuiva
a far sopravvivere una specie, forse per altri versi
non particolarmente dotata e, col tempo, a farla
proliferare al punto da occupare con miliardi di individui
ogni più sperduto angolo del nostro pianeta.
Che poi, come ulteriore conseguenza, questa specie
abbia sviluppato armamenti in grado di cancellare
dalla Terra, non solo la propria specie, ma migliaia
di altre, se non addirittura di rendere il nostro pianeta
inadatto ad ospitare la vita, questo è un altro
discorso. O forse è il medesimo discorso, ma sorvoliamo
per amor di specie. L’ipotesi che il linguaggio
si sia sviluppato essenzialmente con intenti pratici,
ovviamente, non è dimostrabile, visto che non abbiamo
testimonianze di questa fase ancestrale della
comunicazione, ma l’alternativa consistente nel
supporre che il linguaggio sia stato sviluppato per
consentire a un uomo preistorico-Fichte di discutere
con un uomo preistorico-Schelling se sia stato
l’Io a porre il Non-Io o viceversa, sinceramente non
pare un’alternativa molto credibile. Quello che voglio
dire e che un modo di comunicare che si è sviluppato
con intenti estremamente concreti e prosaici (ma
chi decide cosa è poetico e cosa prosaico?) e nel
far ciò ha probabilmente contribuito a modificare il
funzionamento delle nostre circonvoluzioni cerebrali,
non è affatto detto che si presti altrettanto bene
a ‘esprimere’ i nostri ‘elevati’ sentimenti, qualunque
cosa essi siano.
Assunto secondo : a cominciare dalle comunicazioni
non verbali che un neonato istituisce con la propria
madre e viceversa (che è noto essere essenziali nello
sviluppo della personalità dell’infante) e dunque del
modo in cui si percepisce in rapporto a ciò che lo
circonda, la percezione del proprio sé si modella in
un feed-back continuo con ciò che ci proviene dall’esterno.
Per cui dubito che sia sensato parlare di un
nostro ‘mondo interiore’, come una monade distinta
che a un certo punto inizia a interfacciarsi e a comunicare
con le monadi di coloro che ci circondano.
Per tornare al nostro uomo preistorico, è possibile
che la sera, quando ci si riuniva per parlare attorno
al fuoco del bivacco, l’argomento delle conversazioni
non fossero le esperienze personali di ogni cacciatore,
ma il significato che quella particolare caccia
rivestiva per la tribù. Ciò avrebbe costituito un
tassello della mitologia propria di quella tribù (in un
certo senso il ‘mondo interiore’ di quella tribù), che
avrebbe costituito la sua particolarità, rendendola
distinta dalle altre tribù che vivevano nelle vicinanze.
Assunto terzo : cosa possiamo comunicare agli altri
di noi stessi? Come possiamo comunicare ciò che
per noi ha realmente importanza, se non abbiamo
la minima idea del perché ciò ci appaia importante?
Per non lasciare tutto nel vago faccio un esempio: la
figura che vedete in questa pagina è una riproduzione,
purtroppo monocromatica, di un dipinto del pittore
bolognese Giuseppe Maria Crespi, dipinto negli
anni venti del XVIII secolo, noto come La sguattera,
oggi conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
Ebbene, nel contemplare non solo l’originale, ma
persino delle buone riproduzioni, immancabilmente
percepisco che questo dipinto mi comunica qualcosa
di importante, di fondamentale. Eppure non saprei
comunicare a parole questo fondamentale contenuto,
e anche il solo provarci mi apparirebbe ridicolo.
Cosa mi dicono di importante il quartetto d’archi La
morte e la fanciulla di Schubert o la ballata Pelléas et
Melisande di Fauré o, per tornare molto più indietro
nel tempo, il graffito di una donna-bisonte, dipinto
30.000 anni fa nella grotta di Chauvet? Non ne ho
la più pallida idea. Cosa vi è di bello o affascinante
nel quadro citato? Non è che un antro desolato
e squallido, e non riusciamo neanche a scorgere il
viso della protagonista (sempre che il protagonista
non sia il gatto… o le pentole). Potremmo forse dedurre
che per me, per qualche incognito motivo, gli
antri desolati rivestano un particolare fascino? Assolutamente
no, questo e solo questo antro desolato
mi suscita quei sentimenti, che in realtà credo
non abbiano nulla a che fare con gli antri desolati.
Ma è questa la potenza comunicativa delle forme
artistiche, rispetto a qualunque altra forma di comunicazione:
ci dicono qualcosa che noi, abituati a
navigare in noi stessi attraverso riflessioni costituite
da un linguaggio verbale (o almeno così a noi sembra)
non sappiamo, e non possiamo, assolutamente
esprimere in tale forma. Cercare di comunicare e
comunicarci in tale modo, si scontra con la natura
grumosa e discontinua del nostro essere: noi siamo
essenzialmente costituiti da grumi di significato (La sguattera, La morte e la fanciulla, Pelléas et Melisande,
la donna-bisonte, una frase dettaci per caso dalla
nostra mamma, un paesaggio visto quasi di sfuggita
in una sera settembrina… e via e via e via, quasi
all’infinito) che di fatto, in termini di linguaggio discorsivo,
non significano niente, ma in termini di ciò
che realmente conta per noi, di ciò che ci costituisce,
significano tutto. E questi grumi sono essenzialmente
atemporali, magari la loro valenza sembra sparire
in un certo periodo, ma poi ricompare anni dopo con
immutato vigore. Il ragionamento razionale necessita
invece, per sua natura, di una ‘freccia del tempo’,
vi devono essere un ‘prima’ e un ‘dopo’, chiaramente
distinguibili: da una tesi di partenza, un certo ragionamento
logico ci conduce a una data conclusione.
E ancora: il ragionamento logico è per sua natura
‘articolato’, ‘strutturato’, e mal si presta a descrivere
ciò (i sopraccitati ‘grumi’) che è per sua natura privo
di strutture e di articolazioni logiche interne.
Certo, possiamo sforzarci di istituire dei collegamenti
tra grumi isolati di conoscenza, ma di fatto si
tratterà di collegamenti arbitrari e sterili, che nulla
di concreto aggiungeranno alla reale conoscenza
di noi stessi. E la contraddittorietà che, per questa
strada, potremmo eventualmente scorgere tra i vari
grumi di significato, in realtà deriverebbe non dai
grumi stessi, ma solo dall’arbitrarietà di tali collegamenti.
E forse ciò che realmente risulta disturbante per le
persone ‘normali’ nel rapportarsi con noi ‘picchiatelli’,
è che in noi risulta più difficile cercare di dissimulare
e nascondere quella dicotomia insanabile
tra ciò che siamo e ciò che ci piacerebbe raccontarci
di essere, che costituisce, ahimè, non soltanto noi
‘mattarulli’, ma ogni homo sapiens che abbia calcato
la Terra negli ultimi 176.522 anni, quattro mesi e
dodici giorni. E cercare di risolvere questa dicotomia
postulando una parte inconscia, come è stato largamente
fatto nel ventesimo secolo, non aiuta affatto,
almeno fintanto che si pretenderà di gestire anche
questo ‘inconscio’ con i criteri della logica razionale.
Per concludere là dove abbiamo cominciato, risponderò
a Kafka che è impossibile che mentiamo su noi
stessi, perché ciò implicherebbe che esiste una verità
su ciò che noi siamo, ma tale verità, se pensata
in termini di linguaggio logico-discorsivo, è del tutto
assente. E dunque non abbiate timore: raccontate
pure le panzane più clamorose sul vostro ‘mondo interiore’,
senza tema di smentite.
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PENSIERO ZEN SUL COMUNICARE
Lu Zen pass
U
n giorno, nel vedere una signora che lavorava in un mercato, le dissi
che sentivo che lei mi proteggeva; subito lei mi rispose che ero io che
la proteggevo.
Dopo un certo tempo, nel rivederla le dissi che noi ci proteggevamo a
Vicenza e l’ho fatta ridere, ah ah, e mi ha risposto subito: vicenzevolmente a Vicenza,
ah ah.
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UNA COMUNICAZIONE SPECIALE
Paula Mencarelli
C
ome tutti sanno è
‘normale’ che le persone
affette da disturbi
psichici sentano
le voci. Io con
i miei disturbi avevo una comunicazione
speciale con me stessa;
questo spaventa soprattutto
i terapeuti e alcuni dottori che ti
imbottiscono di farmaci appena
nomini le voci. Per fortuna non
la mia psichiatra che, quando
le dicevo che ci convivevo e che
non mi turbavano, mi spiegava
che le parole che sentivo erano
quelle che inconsciamente avevo
bisogno di sentirmi dire e dovevo
essere in grado di gestirle senza
farmi ossessionare da ‘loro’.
Mi ha spiegato anche che questi
echi che sentivo perdurare
in sottofondo, non sempre sono
cose negative e io così sono riuscita
a non temerle più. A volte
le aspettavo con ansia cercando
da ‘loro’ una risposta alle mie
domande. Chi erano ‘loro’? Poteva
essere una semplice affermazione
tipo: “sì”, “no”, “grazie”,
“brava”… A volte se non le
sentivo avevo quasi malinconia,
mi mancavano! È assurdo, lo so,
però penso che Caterina (la mia
dottoressa) aveva ragione nel
dire che probabilmente in quel
periodo della mia vita ne avevo
bisogno, per colmare quel vuoto
che si era creato nel mio più profondo
animo. E come sono arrivate,
senza nessun preavviso, se
ne sono andate... Non grazie ai
farmaci, perché ho sempre continuato
a sentirle, anche durante
la terapia. Penso però che il lavoro
d'equipe tra familiari, utenti,
psichiatri, psicologi, infermieri,
educatori, e tutte le relazioni che
ho creato all'interno del Dipartimento
di Salute Mentale mi abbiano
aiutato a raggiungere la
consapevolezza dei miei limiti e
delle mie risorse. “L'abilitazione
alla vita” come direbbe la dottoressa
Ivonne Donegani, è un obbiettivo
che dovremmo raggiungere
tutti.
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LA COMUNICAZIONE
Aruma Sebastian Yanez
L
a comunicazione tout court è il saper stare bene con sé stessie con gli altri.
Quello che rende difficile comunicare è il paradosso che tutti noi
dobbiamo sconfiggere, nel senso che spesso comunicando usiamo parole
equivoche che danno adito a fraintendimenti.
Bisogna semplicemente esprimere quello che uno ha dentro cercando di
essere autentici e veri, perché spesso si parla a vanvera, considerando
che comunicare è un'arte.
Il punto focale di questo discorso è che bisogna dare il giusto peso
alle parole, bisogna trovare le parole giuste, perché chi pensa male,
parla male e vive male!
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Triste
Triste è accondiscendere sempre a tutti i costi per un po' di notorietà. Esserci
sempre, pensarsi come modello di riferimento quando invece si è
facilmente manipolabili... Vecchie facce, trasformisti e opportunisti
di ogni età, ti raccontano di un mondo dove la presunta ‘volontà di
potenza’ è ingrediente basilare per ottenere successo planetario... È
probabilmente lo stile di vita, dove la ‘vita è arte e l' arte è vita’,
a caratterizzare il solco nel quale l' artista vive e produce opere.
Semplicità
Un accomodante linguaggio ‘da strada’ semplificherebbe il rapporto con lo psichiatra… pane al pane / vino al vino.
Meglio
Meglio perdere i capelli che la testa.
Catarsi
Passiamo
la vita nel darci un’istruzione decente, leggiamo libri per acquisire
cultura, ascoltiamo professori parlare in maniera forbita, questo
quando il tutto gira in maniera ‘normale’… Ma quando il disagio mentale
ha il sopravvento, i termini di linguaggio si sovvertono, si
sparigliano le carte, non si può chiedere al paziente di comunicare
come comunica la psichiatria ma esattamente il contrario... Forse solo
in
quel momento quasi di catarsi si potrà comprendere la ‘follia’… che
faticaccia…
Codardia
Per fortuna la codardia ci salva da suicidi e omicidi
Inciampo
Inciampo
nel linguaggio del ricordo... ricostruire un passato per lo più
ingannevole, fatto di momenti amplificati che quasi mai corrispondono
alla realtà, ma che ci abitano come fantasmi...
La solita musica
Il
discorso deve filare, diritto come un fuso (logico/ razionale) in
cinquanta minuti di colloquio devi dare il meglio di te, sviscerare le
cose più intime, a volte imbarazzanti e raccontarle al medico... Una
confessione laica, dove non c'è assoluzione né condanna, ma il
risuonare delle parole nelle tue orecchie... questo ‘risuonare’, altro
non è che il grado di ‘follia’ che permette di stabilire quanto sei
‘fuori di testa’ in modo consapevole o inconsapevole... Il segreto è
farsi buone domande e non darsi pessime risposte…
Guarire
La
domanda che mi sorge spontanea è: eclissare il proprio passato da
utente psichiatrico, con il rischio che complicanze future facciano
riaffiorare mali passati, giova veramente alla persona dimessa e
‘guarita’???...
Il termine ‘guarigione’ in psichiatria è ambiguo, raggiunti certi
traguardi, ti viene detto dallo psichiatra che sei guarito, ma se
chiedi al servizio (C.S.M.) di dimetterti da paziente, sorgono i
problemi... Probabilmente pochi si assumono questo onere... (evviva i
pochi).
Lo specchio
Ciò che
ci restituisce lo specchio del mondo in cui riflettiamo la nostra
immagine, spesso non è all’altezza delle nostre aspettative...
L’altalena
L’altalena
sociologia / psichiatria, con al centro la qualità del tempo da
dedicare all’utenza, mi rimanda a una costante. Psichiatria: il
problema è tuo (patologia), quindi le relazioni con il mondo sono
precluse... Il conflitto parte da te... (dentro / fuori). Sociologia:
il problema può essere in parte nel mondo e quindi il conflitto
mediato... (fuori / dentro).
Lucciole e lanterne
Mi
chiedo in modo retorico se la felicità, intesa come benessere, passi
anche attraverso l'adeguamento dell' individuo alla funzionalità al
sistema o al contro sistema...
Il mediatore
Curiosa
cosa, quella di sostituire la parte sindacale nelle dispute e
rivendicazioni aziendali da parte dei lavoratori, con la figura
dell'educatore come mediatore.
Questo lascia presupporre che, se anche assunto con regolare contratto
di lavoro, in realtà sei considerato in tirocinio formativo... Il che
spiega la retribuzione così bassa (compresi i contributi). Chi lavora
nelle cooperative di tipo B, regge già il gioco nella vincita degli
appalti pubblici, ma non basta, la persona svantaggiata è chiamata a
pagare uno scotto ancora più alto e cioè quello di condividere solo gli
oneri e mai gli onori della cooperativa.
Fate silenzio
Piccolissime
zanzarette volano alla impazzata in cerca di nutrimento, sangue, linfa
vitale... la tecnica è farle riempire di sangue e poi schiacciarle al
muro bianco o tra le mani...
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Piccola STORIA DELLA COMUNICAZIONE
Augusto Mocella
Forse milioni di anni fa l’uomo, quando
ha iniziato a differenziarsi dagli oranghi e si muoveva in gruppi
familiari, comunicava a versi e gesti che a noi potrebbero quasi
sembrare animaleschi. Nei milioni di anni successivi, dopo essere
passato da nomade a stanziale ed aver lavorato le selci scheggiate, è
riuscito a elaborare un quasi linguaggio tribale. Questa lentissima
elaborazione ha portato le prime civiltà ad elaborare le prime forme di
scrittura: abbiamo nell’antico Egitto i geroglifici, quasi delle
rappresentazioni pittoriche, e con i Sumeri in Mesopotamia i caratteri
cuneiformi. Queste erano comunicazioni per pochi addetti: la maggior
parte della popolazione per la trasmissione del pensiero e della vita
sociale si rapportava oralmente, e ciò avverrà ancora per migliaia di
anni.
Anche l’invenzione dell’alfabeto, nata - chi dice nelle miniere
ebraiche, chi sulle navi dei libanesi Fenici - per indicare più
celermente le merci, sarebbe stata appannaggio di ristrette fasce di
popolazione. Dobbiamo arrivare all’invenzione della carta e della
stampa per avere una maggiore diffusione della parola scritta. I
materiali usati prima, la pietra, le tavolette di creta dei popoli
mesopotamici o quelle incerate dei Romani, i fogli di papiro degli
Egizi o le costose pergamene ricavate da pelli di pecora, non ne
agevolavano certo la diffusione.
Ancora per tutto il Medio Evo, si usavano lunghi fogli avvolti intorno
a un’asticella (da cui il nome ‘volume’) e finalmente comparvero i
‘codici’, antesignani dei nostri libri, fatti di pagine legate insieme
e scritte pazientemente a mano... Il valore dei libri scritti era tale
che ancora ai tempi del Petrarca tre volumi della sua biblioteca erano
il valore di una casa. Si arriva così al periodo della Riforma
protestante quando le tesi di Lutero vengono stampate in tante copie.
La traduzione della Bibbia in tedesco volgare è il primo libro stampato
a caratteri mobili in Europa. Da allora fino ai nostri giorni è
dilagata la diffusione della parola scritta, che ora viaggia anche in
internet. È bello leggere: libri, giornali, riviste in cartaceo e
online, come il nostro Faro.
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LE BASI DELLA COMUNICAZIONE
Edoardo
Per parlare della ‘Comunicazione’, ho
la possibilità di partire dalle basi di essa, vederne le prime
manifestazioni: le comunicazioni di una neonata. Come comunica?
Praticamente solo col pianto. E può essere perché: 1) ha sonno 2) ha
fame 3) ha bisogno di coccole... o quant'altro. Ride anche, ma di
riflesso: perché le faccio "Cucù" o dei complimenti.
Insomma, sempre la comunicazione è difficile! Solo una mamma, in tal
caso, può, a volte dopo vari tentativi e notti insonni, soddisfarla.
Occorre appunto molto ascolto, molta pazienza, molta disponibilità.
Anche se abbiamo tantissimi mezzi per comunicare.
Tantissimi saluti a tutti
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LA COMUNICAZIONE DI BAMBINI SPECIALI
Concetta
e Salomone possedeva un anello magico,
grazie al quale poteva parlare con gli
animali. La leggenda narra che il Demone
Sabr, glielo rubò e lo gettò in mare, dove un
pesce lo inghiottì. Da quel giorno la comunicazione
tra umani e animali si interruppe...". Questo
incipit, grazie a Dio, è e resta una leggenda, perché per
nostra fortuna la comunicazione tra gli esseri umani e
animali, e addirittura quella delle piante tra di loro, è
una realtà che non si può confutare. I bambini timidi e
introversi, che fanno fatica a confidarsi, raccontano e
sussurrano lunghi monologhi all'orecchio degli amici a
quattro zampe, così come fanno quelli che si inventano
l'amico immaginario. Questo, di solito, si verifica quando
una relazione interpersonale prende luogo nell'immaginazione.
A questo proposito, voglio raccontare la
mia esperienza di bambina poco loquace, diffidente e
schiva, ma al tempo stesso con una voglia matta di comunicare, per condividere le proprie esperienze, vissuti,
preoccupazioni e gioie. All'età di circa quattro anni e
mezzo, per i motivi sopra esposti, ogni giorno di ritorno
dall'asilo, solitamente verso le 16.30, mi impossessavo
del bagno, dove con la scusa di lavarmi, mi ritrovavo a
tu per tu col mio ‘amico’ Saverio e davo la stura al racconto
dei fatti salienti della mattinata che, solitamente,
riguardavano le angherie e i dispetti subiti da Giulio, il
compagno d'asilo in assoluto più prepotente e dispettoso
della classe. Questo, da bulletto qual era, aveva
individuato alcune vittime e tra queste, naturalmente,
c'era anche la sottoscritta. Quello che soddisfaceva e
piaceva da matti a Giulio era tirare i capelli, disfare le
codine e le treccine e sciogliere i fiocchi del grembiule
a determinati bambini che, disperati, correvano dalla
maestra per avere giustizia ma, chissà perché, puntualmente
queste punizioni non sortivano grossi risultati.
Saverio sembrava un puttino dai riccioli ramati e grandi
occhi azzurro pervinca, era dolcissimo ma soprattutto
paziente, se si tiene conto dei ‘sacchi’ di lamentele, offese, parolacce e improperi con i quali condivo i
racconti relativi agli accadimenti dell’asilo. Un giorno…
la scampai alla grande! Successe che durante un mio
sfogo animato con Saverio mia sorella si trovasse nel
corridoio antistante al bagno. Bussò alla porta, per capire
cosa stesse succedendo, le risposi prontamente
che ero alla finestra per salutare una mia amichetta,
che con la mamma, stava passando di lì. Gli incontri
con Saverio erano quotidiani e mediamente della durata
di una mezz’ora. Gli sfoghi e la rabbia oltre che
nei confronti di Giulio erano diretti anche alla maestra,
incapace di farlo desistere dai suoi comportamenti, e
anche ai suoi genitori, che traducevano il tutto dicendo:
“Nostro figlio non è cattivo, è un bambino un po’ vivace
che fa delle birichinate, ma non vuole male a nessuno”.
Era il periodo di carnevale, eravamo tutti intorno al tavolone
per gli ultimi preparativi degli addobbi, Giulio di
punto in bianco, con la velocità di un furetto, si appese
come una bertuccia al poggiaspalle della mia sediolina,
facendomi ‘scaravoltare’ a terra. Impaurito, per rimediare
mi fece rialzare al più presto, mi prese per i polsi,
provocando anche la rottura del braccialettino d'oro
che avevo indossato di nascosto da mia madre. Ritengo
si possa immaginare la mia disperazione per l'accaduto.
La maestra Maria, oltre ai genitori di Giulio, convocò
anche mia madre, che oltre a darmi il resto, urlò
voltandosi verso i genitori della piccola peste: “È mai
possibile che un moccioso come questo riesca a mettere
in scacco tutti?”. Poi aggiunse, con fare minaccioso,
col dito puntato verso Giulio, che se avesse continuato
ad avere questi comportamenti se la sarebbe dovuta
vedere con lei. Da quel momento ci fu un cambiamento
radicale della situazione: Giulio smise di infastidirci e
quasi contemporaneamente… Paff!!! Saverio come per
incanto si dissolse…
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L’EQUIVOCO INASCOLTATO
Vins
I
nsegnanti incensati, in incessante
peregrinazione tra
un dipartimento accademico
e un prosecco Rotary,
ci hanno spiegato, non
senza dovizia di particolari, che
la comunicazione in uno schema
didatticamente ridotto all’osso,
funziona come segue: c'è un emittente
dell’informazione che invia
un messaggio attraverso un canale
comunicativo ad un ricevente.
E l’eventuale distorsione del messaggio
originariamente inviato,
può essere causata soltanto dal
‘rumore’ (disturbo) lungo il canale.
Questo modello, ideato da due volenterosi
ingegneri, parlava di una
teoria matematica dell’informazione.
È esperienza quotidiana condivisa
che i processi comunicativi interpersonali
sono enormemente più
complessi, come complessi e talvolta
inconciliabili sono gli universi
di significato di emittente e ricevente,
via via promossi (almeno nominalmente)
al rango di destinante
e destinatario della comunicazione.
Purtroppo è mia dolorosa e frequente
esperienza che l’impennata
e ostinata volontà di non uscire da
sé stessi e dal proprio microcosmo
narcisistico, porta l'altro al non
ascolto pressoché totale. Questo
fa sì che la comunicazione tra le
persone sia declassata ad un vocio
continuo, in cui tutti hanno un tempo
infinito per parlare, ma troppa
fretta per fermarsi a comprendere
l’altro da sé. Un tempo in cui tutti si
ascoltano ma non ascoltano, in un
flusso impazzito di equivoci, dove
l’eccezione non è più la distorsione che i nostri ingegneri chiamavano
‘rumore’, ma capirsi.
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GLI ALTRI E NOI
Patrizia Degli Esposti
C
redo che la prima regola
di una buona
comunicazione consista
nel comunicare
con sé stessi. Molto
spesso siamo convinti che gli altri
non vogliano comunicare con noi
perché, gli altri, sono sbagliati e
non ci capiscono... Ma se ci mettiamo
davanti ad uno specchio,
forse, dico forse, comprendiamo
che i famosi ‘altri’ siamo noi.
Ho osservato il comportamento
di una persona che affermava di
non essere compresa, che nessuno
capiva le sue qualità eccetera
eccetera... Beh, questa persona
era convinta di essere una vittima
del gruppo, ma ad osservare attentamente
il suo atteggiamento
si notava quanto poco fosse collaborativa
e quanto le piacesse
comandare senza mai mettersi
in discussione. Se avesse avuto
un dialogo ed una comunicazione
con sé stessa, probabilmente
avrebbe potuto comprendere che
l’accusa che muoveva agli altri altro non era che un riflesso del suo
comportamento. Questo errore lo
facciamo tutti, perché ascoltare
è virtù di pochi ed ascoltarci con
verità profonda e senza pregiudizi...
beh, sappiamo quanto sia difficile
riconoscere i nostri errori...
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IN FONDO SE HAI LA POESIA…
Costanza Tuor
in particolare quella russa, che ti gira per
casa… che cosa dovresti farci? Come minimo
essere gentile e poi guardarla negli
occhi, ti vuole sicuramente dire qualcosa
che al momento non sai decifrare. E dopo
vent’anni lo saprò decifrare? Credo, forse saprai decifrare
il colore della poesia russa, ma resterà il fatto
che se la guardi negli occhi vorrà dirti qualcosa in
più… non puoi sfuggire a un dialogo con la poesia
russa. Lei sfugge prima di te e di soppiatto e ti rincorre
quando le fa piacere, anche se tu di poesia russa
conosci solo un verso ed è quello più scontato. In
fondo è lei che ha deciso di girarti per casa, tu l’hai
ospitata nulla più…
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COMUNICAZIONE E DIRITTO
Matteo Bosinelli
N
ell'ormai lontanissimo 1983, studente di Giurisprudenza, mi imbattei in una 'strana' norma di diritto
civile veramente sorprendente: qualora Tizio proponga via telegrafo a Caio l'acquisto di un qualsiasi
bene a un prezzo tot e Caio rifiuti, sempre mediante telegrafo, il contratto non si perfeziona. Ma, e qui
viene il bello, qualora l'impiegato del telegrafo trasmetta, per suo errore: "Sì, accetto", il contratto di
compravendita si perfeziona comunque ed è perfettamente valido, come le obbligazioni derivanti (pagare
il prezzo e acquistare la proprietà del bene). La ratio di questa norma è assai complessa e proviene,
probabilmente, dal diritto germanico. Naturalmente l'impiegato che ha commesso l'errore deve risarcire
i danni al compratore. Insomma, anche il diritto si occupa di 'incomunicabilità'!
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VERITÀ O MENZOGNA
Matteo Bosinelli
M
i sono talvolta chiesto, soprattutto ultimamente,
fino a che punto di sincerità ci si
debba porre nel rapporto con lo psicoanalista,
lo psichiatra, lo psicologo, nel primo
colloquio clinico, con gli infermieri e, più
in generale, con quanti ruotano attorno al variegato
mondo della salute mentale. La risposta, a mio modesto
avviso di paziente, non è affatto semplice e bisogna distinguere
caso per caso. Io credo che nel rapporto con
lo psicoanalista, il paziente debba garantire al terapeuta
il massimo grado di sincerità possibile, evitando così che
entrambi vengano a trovarsi in un labirinto di enigmi e
di incomprensioni: altrimenti tanto vale non entrare in
terapia e... risparmiare i soldi! Ugualmente si può affermare
relativamente al colloquio clinico con lo psicologo,
che dovrebbe poi eventualmente individuare il tipo di terapia
ritenuta più efficace e adeguata, dopo aver raccolto
sufficienti elementi per una diagnosi e una prognosi.
Anche qui, le incomprensioni sono pericolose e si pagano
a caro prezzo (come è stata, purtroppo, mia esperienza
personale). Per quanto riguarda il rapporto psichiatra/
paziente, ritengo, a mio modestissimo avviso, che una
bugia ‘bianca’ ogni tanto possa anche essere tollerata, purché non porti fuori strada e non sfasi la comunicazione
e, più in generale, il rapporto, che deve rimanere il più
saldo possibile. Infine, ritengo che la bugia ‘bianca’ sia
tollerabile e soprattutto meno pericolosa se a rapportarsi
col paziente ‘bugiardo’ sono infermieri o educatori e
così via. Ciò però a ineludibile condizione che non se ne
faccia abuso creando un rapporto non sereno o distorto,
ma solo, per esempio, per giungere a una migliore comprensione
delle esigenze comuni agli uni e agli altri.
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LA COMUNICAZIONE
Paola Scatola
uando c’è un doppio senso nel tuo discorso è inutile fingere, lo capisco.
Proprio tu che sei il mio amore continui così, così ti lascio no, ti desidero sì. L’inutilità
di me e di te è uguale. Tu sei nel compiacimento come me ‘lusinghiero’e
io sono come te lusingata d’averti conosciuto.
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LE DOLCISSIME FACCINE
Darietto
M
olti anni fa giocavo a un bellissimo gioco di ruolo
chiamato Grepolis (antichi Greci), in cui ci si doveva
alleare e combattere con l’aiuto di alcune 'divinità'
che ti conferivano dei poteri. Mi iscrissi e al principio
mi piacque molto... Poi notai un fatto grave che
riguardava il dialogo tra noi alleati e cioè che ci si
parlava col solo testo scritto, il quale non dava alcun
tono, come invece quando ci si parla a voce (per
esprimere, ad esempio, la felicità, l’ironia o la rabbia).
Ci furono, per tale motivo, degli equivoci che spaccarono
la nostra alleanza e ci rimasi parecchio male.
Un giorno, inoltrandomi in un forum di discussione,
notai delle simpaticissime e dolcissime immaginine
tonde che, invece, davano proprio il senso dell’espressione
facciale (triste, sorridente, felice, addolorata,
incazzata e moltissime altre), quindi scoprii
involontariamente quelle che sono le 'faccine' (dette
anche emoticons o emoji). Dopo di che decisi di ricercarle
e ne trovai di tantissime tipologie; ne parlai
coi miei pochi alleati rimasti e l’idea piacque a tutti.
Purtroppo nel gioco fui sconfitto, ma l’incontro con
quelle 'faccine', mi diede uno stimolo ad animare i
miei testi. Su Facebook, Twitter, Whatsapp e qualsiasi
altro social network, ci sono tante 'faccine'.
Qui a fianco c'è la rabbia nella sua
versione Whatsapp, che può avere
due colori: la gialla è un po' incazzata,
mentre la rossa è molto incazzata...
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NETIQUETTE
Lucia
uando occorre dare
un nome a un oggetto
o un fenomeno nuovo,
saltano fuori certi
‘mostriciattoli’ linguistici
chiamati ‘neologismi’.
Alcuni sono intuitivi e magari
anche divertenti, altri sono ostici o
poco orecchiabili, comunque a forza
di incontrarli si imparano e si finisce
per usarli senza pensarci più, proprio
come gli oggetti o i fenomeni a cui si
riferiscono. Vi siete mai imbattuti nella
buffa parola netiquette? Ha un’aria civettuola, forse po’ snob, ma tutto
sommato è comprensibile: nasce dalla
fusione di due termini, uno inglese, net
(‘rete’) e uno francese, etiquette (‘etichetta’),
divenuti ormai internazionali.
In sostanza, netiquette sta ad indicare
il ‘codice di comportamento degli
utenti di internet’. Ma… c’era proprio
bisogno di uno specifico ‘galateo’ per
navigare in rete? Non bastava la semplice,
generica buona educazione?
Evidentemente no: espandendosi a
dismisura, questo nuovo mezzo di comunicazione
è diventato un po’ troppo
‘selvaggio’… E il problema non è solamente
quello di arginare la villania
della gente. Sotto c’è qualcosa di più
fine, in quanto, come ci ha insegnato
Marshall Mc Luhan, “il mezzo è il messaggio”.
Occorre fare molta attenzione,
perché non solo il ‘contenuto’, ma
la ‘forma’ stessa è dotata di senso, e
noi non ce ne rendiamo sempre conto.
Ormai su questo tema sono stati versati
fiumi d’inchiostro, perciò non mi
dilungherò. Mi limiterò ad accennare a
una considerazione che faccio spesso
riguardo ai messaggini, ai tweet e alle
e-mail: chi li scrive generalmente butta
giù le parole in fretta, come se fossero
espressioni orali. Molti non si curano di
mettere un’introduzione o una conclusione
cortese, non pensano al peso di
certe espressioni, non perdono tempo
a controllare se è scappato qualche
refuso… Si esprimono ‘come magnano’,
insomma, ma... anche se non sembra,
stanno scrivendo, non parlando! E
lo scritto resta, e può essere letto e
riletto a caldo e… a freddo. Oltre tutto,
non essendo accompagnata dal linguaggio
del corpo, la scrittura richiede
molta finezza per poter trasmettere
ironia, bonomia, empatia… cose che
le emoticon non possono rendere
appieno. Ecco perché un messaggio
scritto di getto su Facebook può provocare
sfracelli. Un’attenzione particolare
si dovrebbe prestare alle e-mail,
comodissime, grazie alla semplicità di
composizione, alla rapidità di trasmissione,
all’estensibilità a più destinatari,
alla possibilità di allegare documenti
e immagini… ma autentiche armi a
doppio taglio nei rapporti interpersonali.
Il tono scelto dallo scrivente,
serio o ironico, rilassato o puntiglioso,
propositivo o polemico che sia, può
essere mal interpretato e certi ‘botta
e risposta’ rischiano di diventare pericolosi
duelli all’arma bianca! Anche gli
aspetti meramente formali vanno tenuti
in conto: il mancato rispetto delle
gerarchie negli indirizzi o un approccio
troppo confidenziale possono risultare
indisponenti per il ricevente, specie se
è persona importante. Anche l’invio di
una mail senza l’indicazione dell’oggetto,
magari con un testo frettoloso,
sciatto e sgrammaticato, oppure l’aggiunta
di una seconda mail con gli allegati
dimenticati, può sembrare mancanza
di riguardo: che fretta c’era di
fare l’invio? Non era meglio controllare
prima? Non parliamo poi degli inoltri
maldestri, che spargono ai quattro
venti notizie riservate. Alcuni lo fanno
proprio apposta e, all’insegna di una
pretesa ‘trasparenza’, non si trattengono
dall’estendere ad altri soggetti
certi focosi scambi di vedute, ampliando
le mailing list in modo inopportuno
e malizioso.
Perfino tra amici, a volte, ci si fraintende.
Basta non cogliere l’ironia, percepire
come brusco un tono solo sbrigativo,
credere di captare una sfumatura
vagamente urtante fra le righe, per
provare disagio, dispetto, rancore… e
affrettarsi a ricambiare, nei casi peggiori,
con frecciate al veleno o con
orgogliosi silenzi. Detto questo, che
facciamo? Usiamoli pure, questi benedetti
mezzi moderni, ma cum grano
salis e… con un po’ di netiquette!
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BASTA UN CLIC…
Paolo Majerù
evoluzione della comunicazione
viaggia nell'era dei
tempi. Nel mondo si è sempre
comunicato in qualche
modo, dalla fumata ai volatili
- o uomini - viaggiatori che si
spostavano da un continente all'altro
per comunicare tra i popoli. Poi si
è passato ai manufatti per produrre
suoni o rumori, tipo i tamburi; poi la
rivoluzione della radio, del telegrafo,
del telefonino e poi il boom degli
smartphone che ha rivoluzionato la
comunicazione. Con gli strumenti
di oggi comunicare è facilissimo, da
qualsiasi parte ci troviamo possiamo
sempre comunicare a una velocità
così accelerata che a volte non
si riesce nemmeno a starci dietro.
Oggi tutti, dai molto
giovani fino alle persone
di una certa età,
per strada, nei mezzi
pubblici, negli uffici
e in qualsiasi posto,
sono tutti attaccati ai
cellulari, cercando di
comunicare con tizio
o con caio, tanto da
non riuscire più a comunicare
con la persona
che sta accanto, che magari sta cercando a sua volta
di comunicare con qualcun altro
(sempre in rete). Non molto tempo
fa, quando si voleva parlare con qualcuno, si andava dove abitava e
si urlava a squarciagola il suo nome
fino a quando non si affacciava. Oppure,
al massimo, ci si procurava il
gettone telefonico, ma si doveva
sperare che la persona cercata stesse
in casa o che il messaggio le arrivasse
tramite una seconda o terza
persona... Oggi basta un clic.
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LA RABBIA SUI SOCIAL: I LEONI DA TASTIERA
Francesca
«Ogni mattina, nel mondo, un leone da tastiera si sveglia,
perché sa che dovrà urlare e insultare più forte della gazzella.
Ogni mattina, nel mondo, una gazzella si sveglia, perché sa che
dovrà bloccare il leone coglione da tastiera di turno. Non importa
che tu sia un leone da tastiera o una gazzella che si è
rotta le palle: l’importante è che tu abbia un computer.»
parafrasando William Shakespeare
M
olta gente si riversa sui social per scaricare tutta la rabbia repressa che ha in corpo.
Persone che magari nella vita di tutti i
giorni sono mansuete, dietro la tastiera
di un pc o di uno smartphone si trasformano in belve,
creandosi un’altra identità, la parte più violenta e arrabbiata.
Si sentono onnipotenti e libere di offendere
tutto e tutti senza filtri. Vengono denominati ormai
abitualmente ‘leoni da tastiera’ i soggetti che, spesso
utilizzando nickname (soprannomi), ma anche dal
proprio profilo reale, si sentono deresponsabilizzati e
offendono senza ritegno online. È un meccanismo che
si ripete in automatico, ad esempio, il commento rabbioso
e offensivo sui social nei confronti di profughi e
migranti e di chi li accoglie: si parla di 'xenofobia social '.
Così come avviene per l’omofobia (l’odio verso i gay
e transessuali), la misoginia (un sentimento di disprezzo
e odio verso le donne), la rabbia espressa nei
confronti della classe politica. I leoni da tastiera ogni
giorno affollano le bacheche di politici, giornalisti,
personaggi più o meno famosi riempiendole di insulti.
Matteo Renzi è il bersaglio preferito, naturalmente.
Ad ogni post dell’ex premier seguono centinaia di risposte
con insulti, articoli su altri argomenti, videodichiarazioni
di esponenti del Movimento 5 stelle.
Ormai è una consuetudine, a cui purtroppo ci si sta
abituando. È il segnale di un imbarbarimento del linguaggio
che ha preso il controllo dei social network,
in particolar modo Facebook. Il leitmotiv è sempre
lo stesso: una lunga serie d’insulti. Si sperava che ci
fosse un limite, ma 'i leoni da tastiera' non si fermano
davanti a nulla, nemmeno alla morte di un ragazzo:
per questi ‘signori’ l’insulto gratuito è l’unico obiettivo.
Parlando delle piattaforme virtuali, più precisamente
dei forum dei social, in molti casi si rende necessaria
la 'moderazione' da parte di chi gestisce le 'discussioni'.
Il problema è globale, ma in Italia è avvertito in modo particolarmente grave e in tanti, tra politici,
opinionisti e autorità nazionali, sembrano avere le
idee chiare su come risolverlo. Solo qualche mese fa
un rappresentante della polizia postale invitato a un
convegno sul tema, ha proposto di eliminare totalmente
l’anonimato online.
Roberto Saviano non si fa problemi nel paragonare
gli hater (letteralmente ‘odiatori’) alla merda e persino
il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
ha parlato dell’odio in rete durante il suo discorso d’inaugurazione
degli ultimi David di Donatello, infilando
la questione nello stesso calderone dell’omicidio
di Alatri e paragonando quindi qualche ‘vaffanculo’
su Twitter alle decine di sprangate di una manica di
balordi strafatti che hanno ucciso un ragazzo innocente...
Hater, troll, bullismo : spesso si fa di tutta l'erba un
fascio, quando invece le categorie in questione sono
differenti tra loro, tutte comunque contribuiscono al
problema dell'incitamento all'odio. I 'giustizieri' del
web distruggono qualsiasi mito, anche sportivo. È il
loro sport e non si fermano di fronte alle medaglie...
I social , utilizzati per leggere opinioni altrui ed esprimere
le proprie, possono essere un modo arricchente
per comunicare ed aprire la propria mente, ‘ascoltando’
quello che ha da dire la gente, leggendo più pareri.
Ma questo non deve sostituire la comunicazione
diretta fra le persone, perché c’è il rischio che paradossalmente
ci si isoli sempre di più, dimenticando
che esiste una vita fuori dai social e il contatto con il
mondo reale e la gente.
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STANISLAV PETROV, L’UOMO CHE RAGIONÒ E SALVÒ IL MONDO
Luca G.
L
a Guerra Fredda è stata
una rivalità che ha visto
per decenni le due
superpotenze mondiali,
Stati Uniti e Unione Sovietica,
lottare per il controllo del
mondo. Da una parte un paese che
aveva vinto due guerre mondiali
e che era il simbolo del capitalismo,
dall’altra un paese europeo,
simbolo del comunismo, che era
nato dopo una rivoluzione e che
si era trasformato in una spietata
dittatura. Nel corso degli anni c’erano
stati periodi di distensione,
promossi da incontri diplomatici,
ma anche eventi e incidenti che
avevano favorito ostilità aperta.
Americani e sovietici avevano comunque
fatto sempre di tutto per
surclassarsi a vicenda e dimostrare
la propria supremazia: sono due
esempi la corsa agli armamenti (il
concepimento e l’accumulo di armi
sempre più potenti) e la corsa allo
spazio (primati astronautici sempre
più clamorosi, per dimostrare
la propria superiorità scientifica).
Un terzo esempio può essere una
corsa per il controllo politico della
Terra. L’Unione Sovietica aveva
imposto governi comunisti nell’Europa
dell’Est, mentre gli Stati Uniti
avevano fondato un’alleanza militare
chiamata Patto Atlantico o
NATO, facendosi amici moltissimi
paesi occidentali, imponendo però
regimi dittatoriali in altri paesi del
mondo, come il Cile, per poterli
controllare.
Momenti di tensione fra le due superpotenze
ce n’erano stati parecchi:
il blocco di Berlino Est nel
1949, la crisi dei missili di Cuba del
1962, la guerra del Vietnam. A
questi bisogna aggiungerne altri
risalenti al 1983. L’8 marzo, durante
un discorso pronunciato a
Orlando, il presidente americano
Ronald Reagan definì l’Unione Sovietica
‘impero del male’. Si tratta
ovviamente di un’affermazione
molto negativa, addirittura offensiva,
che negli anni seguenti è stata
riciclata con altri paesi e per altri
scopi. Quello che Reagan voleva
comunicare con quest’affermazione
era il fatto che l’URSS non meritasse
di essere visto come un paese
con cui convivere pacificamente
nonostante gli sforzi diplomatici
fatti dai suoi predecessori, ma
come un paese abitato da gente
cattiva, con un modo di fare cattivo
che meritava solo essere affrontato
e combattuto. Fra i comandamenti
della Dichiarazione d’Indipendenza
sono presenti i ‘diritti
dell’uomo’, desideri che in parte
rispecchiano le Sacre Scritture,
per cui gli USA ritenevano di dover
esistere e lottare: il diritto alla vita,
alla libertà e alla ricerca della felicità.
In Unione Sovietica, stando
alla definizione di Reagan, non
sembrava esser garantito nessuno
dei tre. Chi era dissidente veniva
arrestato ucciso o esiliato, non si
era liberi di pensare e parlare liberamente
se non come voleva il Partito
Comunista e bisognava anteporre
i propri diritti verso lo Stato
ai propri desideri di trovare la felicità.
Oltre a imporre governi e programmi
ben precisi, l’URSS era anche
un paese nel quale non si
poteva votare, dato che c’era un
partito solo. Almeno negli Stati
Uniti si può scegliere tra due possibilità,
democratico o repubblicano.
È vero che l’URSS era nata con
l’intenzione di affermare la filosofia
comunista su tutto il mondo, ma
Lenin non aveva certo desiderio di
ricorrere a una violenza e una forza
permanente di natura militare
per riuscirci dopo la Rivoluzione.
Ma purtroppo le cose sono andate
diversamente, e con Stalin l’URSS
da paese utopista è diventato un
paese totalitario, che predicava la
propria supremazia sul proprio
territorio, su quelli che controllava
in modo diretto e indiretto e anche
sull’uomo. Se ti danno una visione
di superficie dell’URSS dicendoti
che è un paese senza Dio, senza libertà
di pensiero, con persone infelici e rabbiose e soldati con le
armi puntate pronte a sparare a
chiunque, è facile pensare che sia
un paese crudele. Se ti dicono:
“Questo paese è brutto, la gente è
cattiva, il clima è freddo, c’è la dittatura,
non lo visitare!” è chiaro
che ne hai un’immagine scoraggiante
e sgradevole. Succede che
ti diano una versione dei fatti del
genere, che può anche essere falsa.
Eppure, nonostante la politica,
sarebbe stato sufficiente farsi un
viaggio in Russia per rendersi conto
che al di là del partito gli abitanti
non erano così crudeli, anzi vivevano
la loro vita, lavoravano,
soffrivano per le decisioni del partito
e per le azioni dei militari, ed
erano soggetti alla collettivizzazione
e ai Piani Quinquennali, che erano
piani di lavoro con cui il governo
prevedeva e pianificava le
quantità di materiale da produrre
in un lasso di tempo preciso, e chi
non rispettava i tempi e produceva
troppo poco o più del previsto veniva
punito. Al limite ci sono persone
buone e cattive in tutti i paesi
del mondo, anche nelle dittature.
Troppo comodo condannare e uccidere
una persona solo perché è
etichettata come diversa! E come
‘diversi’ si possono considerare
mille modi di essere: neri, musulmani,
omosessuali, comunisti…
Sono ragionamenti assurdi, fomentati
da propagande piene di
ostilità e da eventi scoraggianti e
facili da manipolare, come incidenti
diplomatici, risse, insulti eccetera.
Ad alimentare e giustificare ancora
di più l’idea che l’URSS fosse
l’impero del male ci fu un incidente
diplomatico di natura militare datato
1 settembre, quasi sei mesi
dopo il discorso di Reagan. Quel
giorno, un Jumbo jet sud-coreano
diretto da New York a Seul con
scalo ad Anchorage venne abbattuto
sopra l’isola di Sachalin da un
missile sovietico, causando la
morte delle 269 persone a bordo.
Un avvenimento che aumentò l’ostilità
fra le due superpotenze mondiali e la tensione nel mondo,
preoccupato come non mai per la
possibilità dello scoppio di una
guerra atomica. E per che cosa?
Solo perché quell’aereo era entrato
erroneamente in territorio sovietico.
Una colpa innocente, per
usare un ossimoro. Come una donna
di pelle scura che resta vittima
di un femminicidio o di uno stupro
da parte di uomini a cui sono state
messe in testa brutte idee sulle
donne di colore e sulle straniere.
Certi messaggi, magari comunicati
in modo prepotente, possono avere
effetti devastanti, come appunto
è il caso della definizione ‘impero
del male’. A peggiorare la situazione,
fu il fatto che l’aereo sud-coreano
era stato abbattuto per un
equivoco, per un problema di comunicazione.
Il maggiore Gennadij
Osipovich, responsabile del lancio
del missile, aveva fatto la sua segnalazione
del passaggio dell’aereo,
ma poi si scoprì che non aveva
detto che era un aereo carico di
civili, solo perché nessuno gli aveva
chiesto di dire se lo era o no.
Questo dimostra che in certi casi
non bisogna dire le cose solo se te
le chiedono. In questo caso, per
esempio, il maggiore Osipovich
avrebbe dovuto dare indicazioni
più precise sull’aereo di passaggio,
anche senza sentirsele chiedere,
anzi forse proprio perché non gliele
avevano chieste. Invece è stato
impreciso, e questo ha avuto brutte
conseguenze. Tutti possono
sbagliare, però ci sono sbagli gravissimi
e imperdonabili: più sono
gravi le conseguenze dello sbaglio,
peggiore è quest’ultimo. Se per errore
metti un piede in una buca ma
non ti fai male, lo sbaglio non è
grave. Ma se per sbaglio trasfondi
del sangue di gruppo AB a una
persona con gruppo 0, è probabile
che ne causi la morte, e questo è
un errore gravissimo, che i medici
non si possono permettere di fare.
Poi ci sono sbagli che commetti
per colpa tua, in seguito a una tua
iniziativa, e ci sono sbagli che
commetti solo perché hai deciso di
attenerti agli ordini e alle istruzioni
ricevute da un altro, senza fare
obiezioni. Ma se intuisci che c’è
qualcosa che non va, se c’è qualcosa
di sbagliato in quello che i
tuoi superiori hanno detto, fatto,
pensato e detto di fare, è più che
giusto farlo notare, fare una correzione,
non rispettare gli ordini. A
volte di fronte a procedure, regole
o protocolli ben precisi ma troppo
rigidi, come quelli dell’esercito sovietico,
chi va controcorrente non
fa uno sbaglio, anzi fa la cosa giusta.
È l’esempio del tenente colonnello
Stanislav Petrov, nato il 9
settembre 1939 e morto il 19
maggio 2017. Poco dopo la mezzanotte
del 26 settembre 1983, i
radar intercettatori che Petrov era
incaricato di sorvegliare rilevarono
due segnali luminosi. I tecnici ovviamente
glielo segnalarono. Ora,
considerando il clima di ostilità
con gli Stati Uniti e gli ordini e i regolamenti,
una persona qualunque,
diversa da Petrov, avrebbe
dato per scontato che gli USA avevano
sferrato un attacco nucleare,
sarebbe subito andato di corsa a
dare l’allarme al Cremlino e di conseguenza
Jurij Andropov, il segretario
del PCUS, avrebbe dato il via
al contrattacco, lanciando parecchi
missili sugli USA e/o sugli alleati
europei. Tutto questo dando
per ovvio che quell’attacco fosse
successo per davvero. Non bisognava
stare troppo a pensare per il
sottile, pure perché c’erano protocolli
precisi da seguire. Rilevamento
di segnale luminoso, segnale
luminoso uguale missile, missile
uguale attacco, conseguenza ordine
di contrattacco e poi guerra nucleare
come conseguenza accettata.
Ma Stanislav Petrov non era
una persona qualunque. Egli invece
di obbedire al protocollo, invece
di precipitarsi al telefono e chiamare
il Cremlino, da buon analista
quale era si chiese come fosse
possibile che gli USA potessero e
volessero lanciare solo due missili
in territorio sovietico. Se avessero
voluto veramente attaccare, gli
Stati Uniti non avrebbero lanciato
sul vasto territorio sovietico solo
due missili, ma molti di più. Quale
motivo dell’ultima ora avrebbe poi
giustificato questo lancio di bombe
atomiche? Non c’era per caso un
errore del sistema? Contrariamente
alle loro aspettative, i colleghi
videro che Petrov non inviò la comunicazione,
e fece fare una scansione
dei radar per vedere se erano
guasti. L’istruzione probabilmente
sarà stata contestata dai
colleghi tecnici, che magari avranno
pensato che Petrov fosse pazzo
a voler perdere tempo dietro certi
scrupoli invece che seguire il protocollo.
Però eseguirono, e ritennero
di avere ragione nell’aver
paura che Petrov avesse sbagliato
quando asserirono che i radar erano
perfettamente a posto. Ma Petrov
disse loro di non fare nulla e di
aspettare come lui venticinque o
trenta minuti, il tempo stimato prima
dell’impatto delle bombe. Può
darsi che i tecnici, conformi al volere del partito e terrorizzati sia
dagli Stati Uniti che dall’idea di
una guerra nucleare, fossero diventati
nervosi e preoccupati, tanto
da desiderare di dire a Petrov
che non c’era un minuto da perdere,
che non bisognava stare a pensare
e che anzi bisognava chiamare
subito il Cremlino. Però
obbedirono, stettero trepidamente
ad aspettare… e non accadde nulla.
Petrov aveva disobbedito agli
ordini, è vero, ma aveva salvato il
mondo da una guerra atomica. E
questo perché aveva ragionato,
era stato a pensare prima di agire.
Quei due fantomatici missili si scoprì
poi che erano solo due riflessi
di luce fra le nuvole, che avevano
ingannato i radar. Se invece di stare
a pensare e ragionare Stanislav
Petrov avesse agito e basta, avrebbe
sì obbedito alle regole, ma l’Unione
Sovietica avrebbe fatto un
attacco nucleare che avrebbe causato
innumerevoli vittime e innescato
una catastrofe globale con
un contrattacco massiccio che
avrebbe distrutto l’umanità, un
contrattacco vero e reale, e non
più presunto come dai tecnici guidati
da Petrov. Bisogna pensare
prima di agire, dice il proverbio, e
questo deve essere un insegnamento
prezioso da applicare sempre.
Purtroppo ci sono momenti e
circostanze in cui non è opportuno
tergiversare su quello che ti dicono
di fare, e quindi succede che devi
rischiare o di fare al momento sbagliato
azioni senza aver pensato
alle conseguenze, o di disobbedire.
Una cosa è certa: quando ti dicono
che non devi pensare, che pensare
è pericoloso, che non puoi fare una
cosa a cui hai diritto perché il tuo
cervello è sempre attivo e pensa
continuamente, ti dicono una cosa
che ti fa stare male. Purtroppo il
PCUS non poteva e non voleva
permettersi figuracce, né all’estero
né in patria. Ecco perché Petrov
non fu premiato per il suo atto,
anzi subì un richiamo e tutto fu insabbiato
e dimenticato. Se il partito
avesse fatto l’opposto, cioè premiare
Petrov e rivelare l’errore dei
radar, avrebbe dimostrato di essere
da meno rispetto ai rivali americani,
di non essere infallibile e che
poteva sbagliare, di non avere
sempre ragione, e questo già spiega
come mai la produzione in eccesso
rispetto alle previsioni dei
Piani Quinquennali venisse distrutta,
portando alla punizione di chi
fosse responsabile di questo surplus.
Tutto questo dimostra che il
PCUS era sempre pronto a prendersi
il merito di qualcosa fatto per
bene da un singolo individuo, ma
riteneva giusto nascondere gli errori
fatti, e punire sia chi li faceva
sia chi li metteva in evidenza. Ma
questa vicenda, oltre a dimostrare
com’era la filosofia del partito, dimostra
anche che non è vero che
non c’è niente da ragionare. Al
contrario, c’è tutto da ragionare.
Sempre. Per esempio, se un insegnante
che guida una scolaresca
prende una strada sbagliata e un
allievo se ne accorge, non è giusto
forse fermarsi a ragionare un po’
invece di obbedire alla sua guida
senza obiezioni? Non è giusto
bloccare tutto e far notare l’errore?
È vero che c’è il rischio di sentirsi
dire che non bisogna pensare
ma solo obbedire, ma bisogna rischiare!
Non è affatto vero che
pensare è sbagliato o pericoloso
come vogliono far credere i governi
dittatoriali ai loro popoli, anzi!
Se una persona si pone un interrogativo
sul sistema, sul mondo in
cui vive, non fa niente di pericoloso!
Se si aprono gli occhi sulla realtà
delle cose che ci circondano
non si fa niente di male, anzi è il
contrario. Chi scopre cosa si cela
dietro le apparenze che vogliono
mostrare i potenti, è giusto che lo
riferisca agli altri anche rischiando
di non venire creduto, come insegna
indirettamente il mito della caverna
di Platone. O come George
Orwell con il suo 1984. Bisogna
pensare prima di agire, e di comunicare.
Non è vero che ragionare è
da stupidi e che le persone intelligenti
debbono solo limitarsi a lavorare
e ubbidire a quel che gli si
dice senza fare domande. Semmai
è vero il contrario. Perché se il tuo
capo commette un errore senza
che nessuno glielo faccia notare, ci
andrai di mezzo senza tua colpa.
Chi dirige, chi guida non può permettersi
errori, proprio perché è a
capo di qualcosa. Ed essere capi di
qualcosa non dà potere, almeno
non solo quello. Anzi, da un grande
potere derivano grandi responsabilità.
E non è solo la frase di un
film, ma è una grande verità.
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Un’etica della comunicazione anche per lettori-navigatori-telespettatori
Luigi Valgimigli
La velocità della comunicazione è cosa meravigliosa da vedersi.
Ma è anche vero che possiamo moltiplicare
la velocità di diffusione delle notizie false.
Edward R. Murrow – giornalista
O
ggi la società globale dispone di una quantità di parole e supporti
di comunicazione inimmaginabili fino a qualche decennio
fa. Ai media tradizionali – giornali, radio e televisione – si è aggiunto
Internet che raggiunge 3,5 miliardi di utenti, dei quali
circa 2,3 miliardi utilizzano i social-media. Nella ragnatela digitale,
le informazioni corrono alla velocità della luce e raggiungono tutti
i popoli del globo terrestre. Il termine ‘società dell'informazione’, coniato
anni fa da alcuni sociologi, è sintomatico della società post-industriale e
delle sue sfide volte a garantire la circolazione di informazioni corrette e il
diritto di tutti gli esseri umani ad avere uguali opportunità di accesso alla
conoscenza.
I pregiudizi ostacolano le soluzioni
La comunicazione va oltre l’informazione. Comunicare significa ‘mettere
in comune’, cioè entrare in relazione con altri esseri viventi per soddisfare
bisogni materiali, per scambiare informazioni, pensieri, idee, visioni, problemi,
paure, ideali, speranze…
L’attuale imponente disponibilità di mezzi di comunicazione offre la possibilità
di ‘mettere in comune’ una globalità composta da popoli, etnie, religioni,
lingue, culture e costumi diversi. Oggi, il nostro prossimo sono i
popoli di tutto il mondo, la paura del ‘diverso’ è un assurdo. Eppure, in
gran parte dell’opinione pubblica dei paesi più evoluti, questa paura prende
sempre più piede, crescono l'odio verso i rom, la rabbia contro i profughi,
i pregiudizi e la diffidenza verso la religione islamica. I politici e i media,
anziché cercare di far comprendere la complessità dei problemi, spesso
soffiano sul fuoco del malessere sociale, strumentalizzando fatti e opinioni
per fini politico-ideologici o di potere. Così le notizie e i commenti sul ‘diverso’
che circolano in molti giornali, trasmissioni televisive e social media,
sono spesso distorte, superficiali, costellate di luoghi comuni, stereotipi,
pregiudizi. Che, oltretutto, sono più facili da comunicare e più attrattivi per
buona parte dell’opinione pubblica rispetto a una complessità che richiede
analisi serie, apertura intellettuale e intuizioni lungimiranti.
Certo, non va sottovalutato il fatto che, negli ultimi anni, l’immigrazione
è un fenomeno epocale che incide profondamente negli equilibri sociali e
crea nuove paure anche per effetto di azioni terroristiche che si richiamano
al fondamentalismo islamico. Il problema esiste e va affrontato con consapevolezza
e determinazione. Ma bisogna essere consapevoli che stereotipi,
pregiudizi, luoghi comuni sono un ostacolo alla soluzione di un fenomeno
che va affrontato tenendo presente tutta la sua complessità.
Comunicare il valore della solidarietà
Pregiudizi e stereotipi riguardano anche la sofferenza mentale, che è una
realtà scomoda, su cui si cerca di tacere sia con gli altri sia con sé stessi.
Titoli come “L’assassino era in cura
con psicofarmaci” tendono ad associare
la malattia mentale alla violenza,
facendo leva sul pregiudizio
che chi soffre di un disturbo psichico
sia una persona potenzialmente
pericolosa. Eppure le statistiche dimostrano
che i crimini compiuti da
persone con disturbi mentali sono
eventi sporadici e le ricerche di
studiosi, italiani e stranieri, sottolineano
che il disturbo mentale non
può, di per sé, ritenersi un fattore
causale di criminalità.
Il pregiudizio più sbagliato e più
dannoso è che la malattia psichica
sia incurabile. Molte esperienze
confermano il contrario soprattutto
quando la persona con disagi
psichici trova un ambiente favorevole.
Ricordo che nella seconda metà
degli anni ’60 (anni della contestazione
studentesca e di grandi lotte
sindacali), si realizzarono accordi
azienda-sindacato per l’inserimento
lavorativo di persone con problemi
psichici. Allora, la solidarietà
era considerata un valore primario della classe operaia e, grazie a un ambiente solidale, i
lavoratori ‘disabili’ impararono il lavoro e conquistarono
fiducia in sé stessi, migliorando in modo sorprendente
la loro condizione psichica. Ma negli anni duemila,
la parola ‘solidarietà’ è stata sopraffatta da un altro
vocabolo: ‘competizione’. Oggi si parla di competizione
non solo riguardo alle aziende, ma anche riguardo a
istituzioni pubbliche (migliorare la competitività della
regione, del comune, della scuola). Il successo nella
competizione appare come un atto di sopravvivenza e
nella scala valori scavalca la solidarietà umana. Fortunatamente
la solidarietà non è scomparsa: in Italia e in
altri paesi si moltiplicano le persone e le associazioni
di volontari che ogni giorno offrono aiuto a chi ne ha
bisogno. Ma spesso le loro iniziative fanno meno notizia
di un titolo razzista.
Un’etica interattiva della comunicazione
In questa fase caratterizzata da una ‘crisi di identità’
è doverosa un’etica della comunicazione che favorisca
il superamento dei luoghi comuni dando meno spazio
alle paure e valorizzando le diversità anziché appiattirle.
Oltre ai media tradizionali, bisogna considerare
anche Internet dove ogni giorno milioni di navigatori
mettono in rete messaggi. I social media svolgono una
funzione positiva che aiuta a conoscere un’ampia gamma
di realtà, situazioni e problemi. Ma la comunicazione
è una tentazione irresistibile per la stupidità umana:
molti sentono il bisogno di pubblicare commenti incompetenti,
illogici, superficiali e spesso irresponsabili.
Tempo fa ho scoperto su Internet un fumetto che invitava
ad accogliere i profughi ‘con calore’, bruciandoli
con il lanciafiamme. Immagino che questo messaggio
sia stato cancellato, ma per un po’ ha circolato in rete.
La conclusione è che, per difendere la comunicazione
da pregiudizi e luoghi comuni, occorre un’etica ‘interattiva’.
che, oltre a chi emette il messaggio, coinvolga
anche chi lo riceve. Un’etica che richiede al lettore-navigatore-
telespettatore la capacità di interpretare criticamente
i messaggi, verificandoli alla luce della verità
e di altri valori universalmente condivisi.
Con o senza parole
Mariana Elena Parera, psicologa e animatore sociale
L
a comunicazione rappresenta lo strumento fondamentale per il
lavoro dell’animatore socio-culturale, una professione che presta
servizio alle persone instaurando la relazione di aiuto. Quando
il servizio è rivolto all’anziano, soprattutto nei casi di affezioni
severe come lo stato di demenza avanzata, stabilire un rapporto
di comunicazione può apparire un’impresa quasi impossibile. Ma ci sarà
sempre un modo di creare un ambiente armonioso che consenta di interagire
anche con l’utenza più grave.
Prima di passare allo sviluppo delle mie argomentazioni in merito alla
professione dell’animatore, vorrei, con l’ausilio di alcune fonti teoriche,
specificare quale trattamento intendo dare all’idea di comunicazione. Innanzitutto
definirei la comunicazione come un modo di stare in contatto
con gli altri. A questo scopo noi esseri umani abbiamo a disposizione sia
il linguaggio verbale che quello del corpo (non verbale). Siamo esseri di
linguaggio e l’uso delle parole ci distingue dal regno animale nel quale, fra
l’altro, esistono sistemi di comunicazione anche molto sofisticati. A differenza
del mondo degli oggetti inanimati o dell’inerte, la comunicazione ci
rende soggetti orientati alla socievolezza. La comunicazione è alla base
di tutto in questo nostro mondo socio-culturale nel quale non si è da soli,
siamo in relazione con gli altri e manteniamo dei rapporti. Per citarne
solo alcuni: le unioni matrimoniali, la famiglia, il lavoro, l’amicizia, la vita
quotidiana in una comunità.
Fin dalla tenera età siamo abituati a comunicare, mantenere i rapporti
e infine stabilire relazioni superficiali,
profonde, buone o cattive
che siano. Talmente abituati che
sembra poco utile riflettere sul
modo in cui lo facciamo. Pare che
sia naturale, qualcosa di innato.
E invece no. Abbiamo imparato a
comunicare in una certa maniera,
abbiamo uno stile di cui probabilmente
non siamo neanche consapevoli.
Per di più siamo convinti di
trasmettere un messaggio con un
senso unico e completo, quello che
abbiamo nella nostra mente, senza
considerare l’insieme di variabili
che intervengono nel processo
comunicativo. Il senso del nostro
messaggio spesso è recepito e interpretato
molto diversamente da
come avremmo voluto. Lo stesso
discorso vale per le nostre intenzioni.
Può capitare che il senso
letterale di una frase sia in secondo
piano rispetto al messaggio
connotato, cioè diciamo una cosa
per farne capire un’altra. Come ad
esempio in quei messaggi di avvertimento che contengono una velata minaccia.
Frasi con doppio senso. Quella sorta di significato occulto
da decifrare come un rebus. E allora ci chiediamo:
“Che cosa mi avrà voluto dire in realtà?”… “Secondo
me non me la racconta tutta…”. Quante volte ci sembra
di dover interpretare il senso nascosto dei discorsi
altrui? Occorre inoltre considerare il linguaggio non
verbale dei gesti e delle azioni che, come dicono gli
esperti della comunicazione, trasmettono messaggi
preponderanti rispetto alle parole. “Tutto è comunicazione,
è impossibile non comunicare, anche il silenzio
comunica” ci insegna Paul Watzlawick. D’altra parte,
la corrente della psicoanalisi ha conseguito sviluppi
significativi sul tema del linguaggio, del suo effetto
nella costituzione psichica del soggetto, la scissione
della psiche e l’inconscio. Una delle scoperte più
importanti della psicoanalisi è che noi stessi non ci
conosciamo. Ci stupiamo soprattutto innanzi alle nostre
esperienze più sincere di dialogo interno: “Perché
lo avrò fatto … perché lo avrò detto?”… “Perché
non posso smettere di fare questo o quest’altro?” ...
“ Volevo fare tutt’altro e invece …”. Sono momenti di
grande sincerità nei quali riconosciamo di non sapere
tutto su di noi, di non vivere in un mondo di certezze.
Il che, da un certo punto di vista, è anche un vantaggio.
Un mondo fatto di certezze non lascerebbe spazio
all’innovazione e al progresso. “Il linguaggio opera interamente
nell'ambiguità, e la maggior parte del tempo
non sapete assolutamente nulla di ciò che dite” ci
avverte Jaques Lacan.
Un buon percorso terapeutico ci può orientare per conoscere
parte di quel sapere che è in noi ma non sappiamo
di avere. Un sapere che ognuno di noi possiede,
che ci appartiene come realtà unica e individuale.
Si indaga sul senso di ciò che diciamo, dei sogni, del
comportamento, dei sintomi. Un senso da decifrare al
quale si può accedere, almeno in parte, solo attraverso
un lavoro d’interpretazione terapeutica, lontano
dalle soluzioni magiche e dalle formule dei manuali.
Quindi c’è un sapere che appartiene ad ogni individuo
con una propria realtà (psichica), con un proprio senso.
Con questi elementi teorici che vanno dal piano fenomenologico
della comunicazione nell’incontro fra le
persone al piano più intimo della personalità, cercherò
di inoltrarmi nel terreno dell’animazione socio-culturale
con anziani per illustrarne le peculiarità. Come
ho avuto modo di anticipare, con gli anziani la comunicazione
è lo strumento fondamentale per entrare in
contatto.
Parliamo all’anziano perché è un soggetto di
linguaggio. Nonostante le difficoltà che possa trovare
a livello discorsivo, il linguaggio fa parte della sua
identità, della sua cultura e della sua dignità umana.
Non ci si scoraggia a parlargli anche in presenza di
compromissioni cognitive causate da qualsivoglia
affezione. L’anziano recepisce il trattamento che gli
riserviamo. Rivolgergli dolcemente la parola tende a
produrre un effetto rasserenante. L’esperienza di essere
spostato con la sua sedia a rotelle sarà molto
differente se viene precedentemente avvertito oppure
no. Nel secondo caso, chiunque potrebbe spaventarsi,
trovandosi in una situazione di instabilità, generatrice
di stress. Sembra tutto così ovvio che nella pratica
può passare inosservato. L’azione di spostare un anziano
in carrozzina non va fatta in modo spensierato.
In questo esempio interviene anche il linguaggio
del corpo o non verbale: il movimento lento o brusco,
l’automatismo o la consapevolezza di ciò che stiamo
facendo. Il ‘come’ è ciò che fa la differenza e denota
la professionalità nell’approccio. Sentire una voce che
accompagna l’azione dello spostamento delicato e rispettoso,
può portare solo beneficio. Inoltre produce
effetti positivi anche sulla persona che sta eseguendo
la procedura di approccio all’utente. Sebbene tali
strumenti di comunicazione non siano infallibili, vista
la complessità dello scenario, dobbiamo impegnarci
e valorizzarli. L’animatore deve in qualche maniera
diventare un esperto in materia di comunicazione,
conoscere come stabilire il dialogo, come avvicinarsi
con discrezione alla vita di quella persona. È importante
la qualità del rapporto più che l’informazione o
i contenuti. Quante volte ci si trova con persone che
‘sparano’ delle domande senza conoscerci né aver
prima costruito una base relazionale. Non attendono
che le risposte siano finite, che stanno già chiedendo
curiosamente qualcos’altro su di noi. Solitamente si
tratta di persone indifferenti all’arte di ascoltare. Ciò
può creare disagio, soprattutto perché quando ci fanno
una domanda tendiamo comunque a rispondere,
anche quando si tratta di argomenti dei quali avremmo
preferito non parlare. Nell’interazione con gli anziani
l’ascolto è un altro degli strumenti fondamentali,
pur rispettando la loro discrezionalità nel decidere di
raccontarsi o meno. L’animatore cerca di creare una
situazione d’agio, ove prevalga lo spirito di stare in
compagnia. Si interessa e segue lo sviluppo della vita dei singoli e dei gruppi nel corso della loro permanenza
in struttura.
Questo dovrebbe essere il nostro
messaggio principale. Dopo di che si può passare a un
piano di stimolazione specifico.
Le tecniche che favoriscono uno stato di conforto
nell’interlocutore si imparano con la formazione, ma
si capiscono nella pratica attraverso l’osservazione e
la riflessione. Bisogna svilupparsi in questa direzione.
Ad esempio possiamo anteporre alle nostre domande,
certe regole del gioco, del tipo: “Non necessariamente
deve rispondere alla domanda”… “Solo se Lei se
la sente…” e naturalmente valutare se è opportuno
parlare o no insieme al gruppo di certi argomenti della
sua vita, se desidera condividere le sue storie di vita
o se al contrario è preferibile un approccio individualizzato,
specie nei casi in cui la persona ne manifesta
il bisogno.
Nel corso della mia esperienza ho trovato diverse tipologie
di anziani a seconda del quadro cognitivo generale.
Ci sono anziani che parlano mantenendo un
filo logico nei loro discorsi, i cui contenuti sono significativi.
Il senso può essere più o meno condiviso, non
che dobbiamo essere d’accordo, in questo caso il codice
linguistico delle parole e le forme grammaticali ci
servono a comunicare e capirci. Ciò nonostante tutti
i disguidi che si creano durante i processi comunicativi
di cui si accennava all’inizio. A complicare le cose
intervengono una pluralità di codici di significato non
universalmente condivisi: generazionali, culturali (nazione
di provenienza, zona rurale o urbana), il livello di
scolarizzazione eccetera. In ogni modo ci capiamo o
almeno ci pare. Questi anziani, che conservano la capacità
di giudizio, provano un immenso piacere quando
vengono consultati e le loro opinioni sono prese in
considerazione. Così facendo si favorisce l'espressione
di sé. Ci sono altri anziani che non fanno discorsi
coerenti. Producono frasi frammentarie, a volte con
parole inventate, come se si trattasse del riflesso di un
flusso d’idee confuse e poco articolate.
Per quanto dicevo sulla realtà psichica individuale, il
‘sapere’ che possiede ognuno di noi, il percorso di vita
o la propria storia, sono convinta che quei loro discorsi
non siano assolutamente privi di senso. Il senso è
soltanto a noi inaccessibile e quindi le loro produzioni
discorsive non sono oggetto di interpretazione. Però è
importante imparare a dialogare anche con la persona
in difficoltà. Un dialogo fra virgolette, lo chiamo io.
Un ‘dialogo’ che diviene possibile con l’aiuto dell’immaginazione,
si crea un ‘come se’ (…tenessimo un
dialogo di senso logico). Si prende qualche sua parola,
si fa uso del tono della voce e della gestualità, si
dà conferma di aver capito… È un’esperienza gratificante
per l’anziano e molto rasserenante. A volte mi
rendo conto che loro sanno che c’è qualcosa che non
va, questi anziani hanno momenti di lucidità sulla propria
situazione. Per questo motivo l’essere rassicurati
sulla ricezione dei loro messaggi genera uno stato di
conforto restituendo un senso di dignità umana. In
una fase più avanzata di deterioramento cognitivo ci
sono le persone che hanno perso le abilità sociali. Noi
continuiamo a comunicare con loro, ancora più dolcemente,
con tutti i nostri strumenti verbali, del corpo…
con o senza parole e… l’amore.
Bibliografia :
Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967) Pragmatica della comunicazione umana.
Roma, Astrolabio, 1971.
J. Lacan, Scritti, Einaudi, 1972
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SDEG
Joe
A una
festa del dipartimento, si è formato spontaneamente un laboratorio di
poesia. Quella che segue è la sua produzione. Il gruppo si è composto
di quattro autori: Danila Guidi, Sonia Valentini, Elena Brini, Giovanni Romagnani. Essendo stata una co-produzione si è chiamato Sdeg.
Stagioni
Estate
Nella calma,
una palma.
Sole di una Città Sognata??
Trovata!!
Primavera
Viene Sera,
Calimera
Calispera.
Inverno
Mi fermo.
Confermo:
"Neve".
Autunno
È sera,
viene buio,
sono buio,
storia vera,
storia nera.
Ora Legale
E viene da toccare
il cielo con un dito,
il mio preferito ...
... un'ora fa.
Stagioni dell' amore,
per universi perduti,
ed universi ambiti
già finiti.
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INCONTRO IN OSPEDALE
Matteo Bosinelli
I
n un mio recente ricovero ospedaliero, fui messo in stanza con un
signore dall'aria triste, molto cordiale e rispettoso, e un viso che
rivelava la sofferenza di una vita. Vinta la timidezza iniziale,
incominciammo a chiacchierare. Aveva otto fratelli, in gran parte ora
scomparsi, con cui aveva dovuto subire la morte prematura di entrambi i
genitori. Da bambino, terminate le elementari, era stato convocato con
sua madre dal maestro, il quale aveva consigliato vivamente di fargli
continuare gli studi, ma - mi disse - non avevano neppure i soldi per
sfamarsi... Parlammo un po’ di tutto, fino ad approdare alla poesia: mi
recitò allora qualche sua poesia e io decisi di trascriverne alcune,
fra le più belle e veramente 'profonde': eccole qua… (Le trovate nello
spazio di Arianna, firmate Guerrino Cavallari).
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La luna
Annarita Baratti
La luna
Nella notte fonda
Illumina
La barca
Ormeggiata sul fiume
Fuori fa un
Grande caldo
Vicino alla barca
Nell’acqua ci sono
Delle alghe
Un fiume salmastro
Che colora
Di verde
Lungo le scalinate
Della barca
C’è un fiume di
Gente
Il divertimento è garantito.
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Come un diluvio
Marcella Colaci
Come un diluvio
Il mio corpo
Infuocato
Rassegnazione
Al dolore
Inerme lamento
Il viaggio
È una frazione di secondo
Allucinante
Ma mi desto e so di te
Che sai sorridere
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Il mio silenzio
Francesco Valgimigli
Certo, lo so il mio silenzio
fa male e il tuo sguardo pure
ed è passato un po’
di tempo da quel giorno
ed è ora di rinnovare i
pensieri, cambiare treno
alla stazione e smettere di voltarsi
e guardare a nuovi pensieri
intrisi di sangue e di speranza,
e far entrare volti nuovi
sulla mia faccia così
che il tuo silenzio potrà
un giorno smettere di bussare
alla mia porta.
(da: “Un giorno senza ore”)
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Parole
Francesco Valgimigli
Vomito parole
dentro la testa,
le mie mani
stringono parole,
nello stomaco altre parole
galleggiano e io sono
qui pieno di parole
e tu che parli piano
e io non ti ascolto,
ascolto il vento
che mi porta altre parole,
ma non ascolto te.
(da: “Un giorno senza ore”)
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Dite di me
Francesco Valgimigli
Io non so niente di te
e allora invento,
mi invento
di te e di me
che ci ritroviamo
dopo tanto tempo
su una panchina
e ci diciamo
tante cose,
parlando di cose
difficili da raccontare.
(da: “Un giorno senza ore”)
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Borgo antico
Mariangela
Oh! dolci suoni
di flauti e di cornamuse
che vanno a rallegrare
il dì di festa
dell’antico borgo
disteso
su strade sassose
su vicoli stretti
ancor vivo di ulivi
e verdi arbusti.
Balconi fioriti
si affaccian
sulla via
drappi alle finestre,
quando passa col suo Gesù
la Vergine Maria.
Non più dame
e cavalieri
che venivano
a gremire
l’antico albergo
per ostentar le loro brame
di sapere
e di opulenza
mentre al misero non restava
che tendere la mano
e ritornar col capo chino
al suo destino.
S’aprono or gli androni
a forestieri
venuti a mille
per rimirar
l’antica piazza
le vecchie mura
del bastione
e del castello
che con la sua torre
si fa ancor più bello!
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Lo psicologo e le fragole
Matteo Bosinelli
Eravamo rimasti a tavola solo lui ed io.
Presi due fragole,
poi ne presi un’altra
ed infine ne presi, ultime, due.
Lo psicologo mi guardò e...
mi sorrise teneramente.
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Io non mi salverò
Marcella Colaci
Io non mi salverò
io resterò a boccheggiare
mentre le auto sull’asfalto
mangeranno i miei polmoni.
Io non mi salverò
mentre lo stomaco si riempirà
di carne, gelati, cioccolato
e non mi sentirò ancora sazia.
Io non mi salverò
resterò chiusa nella mia stanza
non sentirò rumori né voci
l’acidità delle voci sarà lontana
ma la solitudine mi attanaglierà.
Io non mi salverò.
Accenderò lo stereo
manderò qualche messaggio
scriverò sulla mia vita un verso.
Ma io che non credo
all’inferno né al paradiso
io non mi salverò.
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La pace
Matteo Bosinelli
Ho guardato il sorriso
che or or mi hai regalato,
sublime dono,
che mi ha subito abbagliato.
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C’è solo l’infinito
Elena Baragatti
Dentro di te c’è solo bellezza per me
Dentro di me c’è solo ammirazione per te.
Dentro di te c’è solo dono per me
Dentro di me c’è solo ricchezza per te.
Dentro di te c’è solo cura per me
Dentro di me c’è solo gratitudine per te.
Dentro di te c’è solo tutto l’infinito per me
Dentro di me c’è solo tutto l’infinito per te!
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L’alba
Guerrini Cavallari
Il buio e la notte
piano piano si va dileguando
portando con sé i suoi segreti e misteri,
che da sempre hanno affascinato
e intimorito l’uomo.
Langue nel ciel la pallida luna,
e assieme alle tremolanti stelle
piano piano scompariranno
ed entreranno nell’infinito.
Sulla terra aleggia
un sottile manto di nebbia
che subito si dissolverà, quando
al balzo d’ oriente
si alzerà una grande luce
e con i suoi potenti raggi l’alba
tutto il creato illuminerà.
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Il pioppo
Guerrini Cavallari
Maestoso e possente pioppo
che abbarbicato te ne stai
a guardia dell’umile orto,
nella ridente stagione i tuoi rami
eran colmi di verdi e rigogliose foglie
che davan rifugio agli augelli,
ed ebbre cantavan le cicale.
Pur io dal sole accaldato
all’ombra tua ristor trovavo.
Il gelido inverno i tuoi rami ha spogliato,
ed or sembrano braccia scheletriche
protese verso il grigio cielo,
invan sperando d’incontrare un raggio caldo.
Ma, ohimè, solo il gelo ancora impera.
Or dunque, rivestiti di pazienza,
e poi vedrai che la divina mano
che tutta la natura comanda
nuovamente coprirà di verdi e rigogliose foglie
i rami tuoi, che or son spogli.
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L’addio al podere
Guerrini Cavallari
Addio, generoso e fertile terreno!
Quando a me ti assegnaron, nel mio cuore
a mille a mille rifioriron le speranze
che anzitempo furon messe a sonnecchiare.
L ‘amaro addio che dar ti devo
non si deve a te imputare
perché io ben so
quanto generose ed abbondanti
eran le messi che mi dispensavi
ogni qualvolta sul tuo virgineo manto
la mia mano spargeva le sementi.
Ciò che mi allontana da te
è una strana malinconia
che ormai malattia s’è fatta,
questo strano morbo
che perennemente mi persegue.
Pure Freud ed anche Berto
ne conobbero il tormento.
Questo strano effetto
ha tinto di grigio il mio cammino
ma la speranza non ha mai offuscato
e con lo sguardo rivolto all’altro,
tutto continuerà, nella pagina accanto.
|
|
Ti ho trovato
Elena Baragatti
Nel brutto più orrendo e spaventoso ho trovato
Il bello più favoloso e meraviglioso: tu.
Nel nero più buio e spento ho trovato
Il bianco più chiaro e lucente: sempre tu.
Nell’opaco e nella nebbia ho trovato
La limpidezza e la trasparenza: tu.
Nella perdizione e nella disperazione ho trovato
La salvezza e la speranza sempre tu.
Nell’imperfezione ho trovato la perfezione: tu.
Nella morte ho trovato la vita: sei tu.
|
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Se fossimo due pietre
Andrea Demaria
Se fossimo stati due pietre
avremmo costruito la stessa casa.
Se fossimo stati due salici piangenti
il vento avrebbe intrecciato
i nostri rami.
Se tutto questo
fosse stata realtà
ogni tramonto nuvoloso
avrebbe un’alba serena.
|
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Spiaggia solitaria
Guerrino Cavallari
Spiaggia solitaria,
che soltanto quasi ieri sorridevi,
con le tue infinite schiere di ombrelloni.
Sorridevano e gioivano i fanciulli
che a piedi nudi accarezzavano
l'arenario e morbido tuo manto
e muniti di palette e secchielli
dighe e castelli costruivano,
che alla mente ci portavano
antichi racconti di Fata Morgana.
Spiaggia solitaria,
che d' improvviso di malinconia ti sei velata.
Un sol vento e una pioggerellina
ti han calato nel silenzio,
ora tutto è silenzio, tutto è deserto,
s'ode soltanto la melodia del mare
che culla i miei rimpianti
e l'eterno rovescio dell'onda
sulla ferma sponda, che confonde il pianto mio
e quello di un gabbiano smarrito e solitario.
|
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Alla Madre Africa
Maurizio Leggeri
Questa la mia risposta al razzismo trionfante
e ai tanti razzismi più o meno striscianti.
Africa sola, Africa lontana,
Africa sedotta e abbandonata…
L’uomo che tu hai inventato
alla scimmia l’hai rubato,
ora lui ti ricompensa
sottraendoti la dispensa
e con indicibile ardire
vorrebbe toglierti l’avvenire.
Riporta l’uomo nel passato
e che sia alla scimmia riconsegnato!
|
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La vecchiaia
Guerrino Cavallari
Oh vecchiaia
che silente come ombra di fantasma
quasi improvvisamente su di me sei calata
col tuo grigio manto
e hai offuscato tutto ciò che brillava
tutto ciò che splendeva nella mia passata giovinezza.
Di fremiti il cuor mio or si stringe
e se al cielo gli scarni occhi volgo
più nere mi appaiono le nubi.
Malfermo e traballante il passo mio si è fatto
il suol su cui lo poso
mi par che sia un selciato di viscido ghiaccio
innaturale effetto che su di me si è versato,
tutte le mie forze ha spezzato,
spento tutti i desideri sotto questo pesante fardello.
Come un relitto in balia del mar mi sento
ed ora solo spero d'approdare
in un posto sereno.
|
|
Di notte
Elena Baragatti
Nella notte
Il pensiero di te
Mi culla dolcemente.
Di giorno
Tu mi abbagli
Più del sole.
Così devo chiudere gli occhi
Ed è subito e ancora notte.
|
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Ritrovarsi
François Dostuni
Notte, giungi, che pittore io divenga
per dipingere tutto dei miei sogni,
dove sono un angelo caduto in terra
e con le mie ali io possa volare da te,
arrivare alla tua finestra, vederti lì
in tutta la tua bellezza.
Principessa, apri gli occhi
che io veda l’anima tua
dirmi che sono ancora nei tuoi sogni.
Mi sentirai che parlo alla luna,
mi sentirai dire che sei bellissima
sotto la sua luce
che di un candido bianco ti veste,
mi sentirai parlar di corse su spiagge bianche
del tuo sorriso che mi ha restituito la vita
dei tuoi capelli mossi dal vento
del tuo profumo che inebria la mia mente.
Ascolta il mio cuore
che non ascolta ragioni
che di questo amore si nutre
il quale mi dà la vita.
Occhi i miei ora rivolti al cielo.
A me sei arrivata con un semplice sguardo
e da lì ti ho aspettata.
A volte non so dove mi trovo e mi chiedo perché
tutto questo,
a te non riesco ad arrivare con le mie parole
però so di essere stato mille volte in paradiso
ogni volta che vedevo un tuo sorriso,
lì mi hai portato tu
io non vi ero mai stato,
mi hai insegnato la strada
e da quel giorno bramo di essere quel sorriso.
Sogno di incrociare i tuoi occhi
anche se so che non accadrà presto,
allora, amore, nei momenti in cui sei triste
o hai dei dubbi
quando ti sembra scuro il percorso
che ci permette di ritrovarci,
sorridi, perché il tuo sorriso
scaccia ogni cosa brutta
ed è come se delle spade
si infilassero nei fianchi dei nostri nemici.
Sorridi e sorridi ancora.
Se sul tuo viso scomparisse quel sorriso
io sarei già un uomo sconfitto.
Sorridi e sorridi ancora,
anche se abbiamo perso un altro giorno
dall’alba al tramonto
e io guardo dalla finestra la luna,
le chiedo di mandarti i miei baci,
poi aspetto che i miei occhi stanchi si chiudano
per sognare di tutte le cose belle che verranno.
|
|
Ali
Elena Baragatti
Sei un angelo
Senza le ali
Dietro la schiena
Ma con le ali
Sul cuore e nell’anima.
Sei un angelo
che non vola ma…
che fa volare!
|
|
La primavera
François Dostuni
In noi albergherà la primavera,
con tutti i suoi colori e profumi.
Che la fiamma in me bruci ancora, mio Dio
che alla fine io possa riposare
tra le tue braccia,
dove io mi abbandonerò
ascolterò ogni tuo respiro
ogni battito del tuo cuore.
I tuoi occhi
dove io mi ritroverò
violento soffio di vita
che mi pervade,
le nostre mani intrecciate
in una stretta
che sa di sicurezza
e più nessuno potrà dividerci.
|
|
Dannazione
Francesco Valgimigli
Un’aureola d’angeli
mi ride addosso
e non c’è neanche
un buon diavolo
con cui parlare.
e poi c’è silenzio,
troppo silenzio.
(da: “Un giorno senza ore”)
|
|
C’è una stella
Elettra Piatesi
C'è una stella nel mio cuore,
che non fa luce, che non fa rumori.
È la stella che vuole guarire...
e darmi il diritto di non soffrire!
A vuoto e nel vuoto di questa spirale,
dove mi ha chiuso un istinto di male.
La stella cerca di farmi coraggio
con il buon senso e spirito saggio.
C'è una stella nel cuore di tutti,
nessuno sa perché.
A qualcosa dovrà servire,
bisogna, ammetterlo il più è capire
qual è la luce che essa nasconde,
qual è la forza che essa infonde.
Ognuno ha un dono in sé da scoprire
che tutta la vita gli può riempire.
Un dono per sé e per chi gli vuol bene,
che rende magico lo stare insieme,
che rende tutto di mille colori.
È gioia dentro è gioia fuori.
Cerca la stella dentro il tuo cuore!
Giuro non te ne pentirai
Quando la trovi io lo saprò
perché d'amore tu canterai.
|
|
Un mondo stupendo (a Paolo T.)
Giacomo Corticelli
Certo, lo so il mio silenzio
fa male e il tuo sguardo pure
ed è passato un po’
di tempo da quel giorno
ed è ora di rinnovare i
pensieri, cambiare treno
alla stazione e smettere di voltarsi
e guardare a nuovi pensieri
intrisi di sangue e di speranza,
e far entrare volti nuovi
sulla mia faccia così
che il tuo silenzio potrà
un giorno smettere di bussare
alla mia porta.
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L’attesa
Matteo Bosinelli
Il lento e regolare scandire dei giorni,
nell’ attesa che il passato finalmente torni
nella successiva e mutevole seduta,
mi costringe a stare, nel frattempo,
faticosamente e dolorosamente muto.
|
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Con le parole
Francesco Valgimigli
Tu mi confondi
con le parole
e mi lasci solo
in mezzo alla strada
con tutto il mio circo
personale al seguito.
Poi nuvole pesanti
sopra la testa
dove non c’è niente,
più niente da scoprire.
(da: “Un giorno senza ore”)
|
|
Alberi nudi
Maurizio
Alberi strazianti sulla via,
strani nella forma scheletrita,
allungano le nude braccia:
non vogliono mandarmi via.
Mi implorano di restare,
piangendomi addosso
le ultime lacrime di foglie.
Incosciente e impaurito
fuggo lontano,
domandandomi solo allora
cosa vogliano chiedermi
e perché proprio a me.
Mi faccio forza,
torno sui miei passi,
ma ormai è tardi:
troppo tardi
e ritrovo gli alberi
senza più lacrime
e senza più parole.
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PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE UMANA
I
n questo libro Paul Watzlawick si occupa
degli effetti pragmatici della comunicazione
umana, con particolare attenzione ai disordini
del comportamento. Questo libro vuole
dimostrare che non esiste comportamento
patologico in un individuo isolato e che è possibile,
studiando la comunicazione, individuare quegli
aspetti che causano interazioni patologiche.
Nel capitolo 1 l'autore ha tentato di fissare i presupposti
teorici introducendo nozioni fondamentali
come ad esempio i concetti di ‘informazione’,
‘retroazione’, ‘ridondanza’.
Lo scambio di informazione, cioè la comunicazione,
appare importante quando si considera l'interdipendenza
tra l’individuo e il suo ambiente.
La scoperta della retroazione ha reso possibile un
nuovo modo di vedere le cose, come una catena in
cui l'evento a produce l'evento b, l'evento b produce
l'evento c… La ridondanza è stata studiata in
due settori: in quello della sintassi e in quello della
semantica; sulla ridondanza nella pragmatica
della comunicazione è stato scritto molto poco, la
maggior parte degli studi esistenti sembra che si limiti a considerare gli effetti della persona a sulla
persona b.
Ora enuncio alcuni assiomi del comportamento
che il nostro autore definisce nel capitolo 2.
Innanzi tutto il comportamento non ha il suo opposto:
in altre parole non esiste un ‘non comportamento’,
inoltre una comunicazione non soltanto
trasmette un’informazione, ma impone anche un
comportamento.
Nel capitolo 3 si prendono in esame le patologie
potenziali che questi assiomi comportano, per
esempio l’autore prende in considerazione persone
che stando zitte sembra che non comunichino
niente e invece comunicano la loro voglia di non
comunicare.
Nel capitolo 4 la teoria della comunicazione è
estesa al livello organizzativo, che si basa su un
modello delle reazioni umane. Tra altri concetti si
definiscono quelli di: ‘sistema’, ‘sottosistema’ e
‘totalità. Il sistema è un insieme di oggetti. Ogni
oggetto è specificato dai suoi attributi; se gli oggetti
sono individui i loro attributi sono i suoi comportamenti.
Ogni sistema dato si può ulteriormente
suddividere in sottosistemi, ognuno dei quali ha
un proprio ambiente. Nella totalità di un sistema, ogni parte è in rapporto tale con le altre parti che
lo costituiscono che qualunque cambiamento in
una parte causa un cambiamento in tutte le parti e
in tutto il sistema.
Nel capitolo 5 viene analizzata la commedia Chi ha
paura di Virginia Wolf in termini di comunicazione.
Tutta l'azione di questa commedia si svolge durante
le ore piccole, nel soggiorno della casa di
George e di Martha.
Martha è figlia unica di un rettore, suo marito
George è professore incaricato nella facoltà di storia.
Non hanno figli. Lei e suo padre si aspettavano
che George divenisse preside della facoltà di storia
e in seguito rettore dell'Università, ma George non
è stato all'altezza. George e Martha stanno ritornando
da una festa, sono le due del mattino ma,
all'insaputa di George, Martha ha invitato a unirsi
a loro una coppia conosciuta alla festa. Gli ospiti
sono Nick, un nuovo insegnante della facoltà di
biologia, e sua moglie Honey. In seguito si viene a
sapere che Nick ha sposato Honey perché credeva
che aspettasse un bambino e invece era una gravidanza
isterica, ma forse era la ricchezza del suocero
che aveva pesato sulla decisione. George e
Martha hanno i loro segreti. C'è un fatto singolare:
essi collaborano nel mantenere in vita la fantasia
di avere un figlio, che starebbe per diventare maggiorenne.
Poi vi è un altro fatto strano: sembra che
George accidentalmente abbia colpito a morte la propria madre con un colpo di fucile e che mentre
imparava a guidare abbia perso il controllo della
macchina e il padre sia morto nell'incidente. In
qualche modo, però, si lascia il pubblico in dubbio
se questi fatti siano veri o inventati. Il primo atto
ci presenta il rissoso stile verbale della coppia più
anziana, l'argomento del figlio mitico e le pose
da seduttrice che Martha ostenta nei confronti
di Nick. Il punto più drammatico è raggiunto con
un attacco sarcastico di Martha al fallimento professionale
di George. L'atto secondo si apre con
George e Nick che sono rimasti soli nella stanza e
fanno a gara nel farsi le confidenze. George parla
della morte dei suoi genitori e Nick spiega le ragioni
del suo matrimonio. Quando le donne ritornano
Martha comincia a ballare con Nick per sfidare
George. Si passa al primo gioco, etichettato
"Umiliare i padroni di casa". Martha rivela agli
ospiti come sono morti i genitori del marito, dopo
di che lui la picchia. Poi George comincia il gioco
successivo, "Prendere di mira gli ospiti”, e svela il
segreto del matrimonio imposto dalla falsa gravidanza,
mortificando Nick e suscitando l'orrore di
Honey. Il gioco successivo è "Saltare sulla padrona
di casa", che porta Martha a sedurre Nick, ma
la capacità di collaborazione del giovanotto risulta
menomata. L'atto terzo si apre con Martha che
è rimasta sola e rimpiange il suo tentativo sfortunato
di essere infedele e con George che riunisce
gli altri per lo scontro finale. Egli rivela tutta la
storia del mito che hanno creato sul figlio e poi
annuncia a Martha che il ragazzo è rimasto ucciso
in un incidente automobilistico. La commedia finisce
con una nota di ambiguità che non chiarisce
se George e Martha continueranno a giocare ai
genitori che lamentano la morte dell'unico figlio
oppure è diventato possibile un cambiamento
completo dei loro modelli di reazione.
Nel capitolo 6 tra gli altri argomenti si parla del
paradosso, definito come una contraddizione che
deriva da una deduzione corretta di premesse coerenti.
Ci sono 3 tipi di paradossi: paradossi logico
matematici; definizioni paradossali (antinomie
semantiche); paradossi pragmatici (ingiunzioni
paradossali, predizioni paradossali).
Il capitolo 7 è stato scritto col proposito di mostrare
le applicazioni cliniche dei modelli paradossali
della comunicazione. In questo capitolo si
definisce il sintomo come qualcosa di involontario
e incontrollabile. Si sta prendendo sempre più sul
serio la teoria secondo cui l'eliminazione del sintomo
non produce sistemi nuovi o peggiori. L'analista
risponde dando al paziente l'incarico della
cura, rendendolo responsabile del corso di trattamento,
chiedendo spontaneità nello stesso tempo
in cui pone le regole che circoscrivono completamente
il comportamento del paziente.
Nell'epilogo l’autore si occupa della comunicazione
dell' uomo con la realtà in senso esteso.
L'impatto dell'ambiente su un organismo comprende
una serie d'istruzioni il cui significato non
è lampante e che l'organismo deve decodificare
come meglio può. Le reazioni dell'organismo influenzano
l'ambiente e quindi è chiaro che anche
a livelli di vita molto primitivi hanno luogo interazioni
complesse e continue non casuali. La vita, la
realtà o il fato, Dio, la natura o qualunque nome si
preferisce, è un partner che accettiamo o respingiamo
e da cui ci sentiamo accettati o respinti,
sostenuti o traditi. A questo partner esistenziale
l'uomo propone la sua definizione del sé, che trova
conferma o disconferma.
Consiglio la lettura perché questo libro contiene
esempi molto validi di psicoterapia.
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TI ODIO, TI LASCIO, TI…
i odio, ti lascio, ti… è un
film del 2006 il cui titolo
originale è The Break-
Up, interpretato da Vince
Vaughn e Jennifer Aniston.
Desidero parlarvene perché
dall’inizio alla fine è pieno zeppo di
scene con i due protagonisti principali
che hanno dei grossi problemi a
comunicare tra loro. E a proposito di
comunicazione, inizio subito dicendo
che quando bisogna intitolare
un’opera, occorre fare le cose per
bene, altrimenti si rischia di dare il
messaggio sbagliato. È successo
con questo film: il titolo italiano non rende giustizia a quello originale. Un
titolo come Ti odio, ti lascio, ti…, per
di più accompagnato da un trailer
che mostra solo le scene divertenti,
ha fatto pensare al pubblico nostrano
che si trattasse di una commedia
da ridere, o con cui sorridere e svagarsi.
In realtà non è così: chi lo ha
visto ha scoperto che il film non fa
poi tanto ridere per la verità, anzi è
snervante. Insomma, è stato un po’
un flop, proprio perché il film veniva
presentato con un messaggio
sbagliato. Questo perché il film non
è esattamente un divertente tira e
molla tra un uomo e una donna che
si ingelosiscono a vicenda con provocazioni
ed amanti e con un lieto
fine. Semmai parla di una coppia
che ‘scoppia’ e che oltre a rompere
il legame affettivo, entra in lotta
per stabilire chi dei due protagonisti
debba prendere possesso della casa
che hanno comprato e arredato insieme.
Da qui il titolo originale The
Break-Up, la rottura. Del rapporto di
coppia, sottinteso.
La storia si svolge a Chicago. Ad
essere esatti, è durante una partita
della squadra di baseball dei Cubs
che Gary, il protagonista maschile,
incontra una ragazza di nome Brooke,
la protagonista femminile. Lui
le offre un panino. Lei accetta, ma
lo vuole senza senape. Gary insiste
nel volerci mettere sopra la senape.
Poco dopo, a fine partita, i due
si parlano, lui fa una serie di battute
simpatiche e i due si mettono insieme.
Faccio notare che quando una
persona dice una frase con il ‘non’,
dice una cosa del tutto opposta a
quella che direbbe senza il ‘non’: se
dici che non vuoi la senape sul panino,
magari perché ne sei allergico o
perché non ti piace, come puoi accettare
facilmente il fatto che te la
diano? Quando dici no, è no. E quando
dici una frase con il ‘non’, non è
la stessa cosa se tu la dicessi senza,
anzi viene da restare offesi se la persona
a cui la dici non la capisce…
Tornando al film, dai titoli di testa
si può evincere da una serie di foto
che i due stiano vivendo felicemente
la loro storia d’amore. Poi viene mostrato
che lavoro fanno i due protagonisti.
Gary fa la guida turistica su
degli autobus che appartengono a
una società che gestisce coi fratelli
Lupus e Dennis, mentre Brooke gestisce
una galleria che contiene le
opere di un’artista un po’ eccentrica
di nome Marilyn Dean.
La successiva scena di cui vale la
pena parlare è ambientata di sera.
Brooke sta preparando una cena
sontuosa per i suoi parenti che verranno
a farle visita, e ha chiesto a
Gary di comprarle dodici limoni tornando
a casa. Ma quando egli torna,
lei prende il sacchetto che Gary la
ha messo sul tavolo e… non ci trova
dentro quello che si aspettava: i
limoni sono solo tre. Intanto Gary,
tutto contento di essere tornato finalmente
a casa, lontano dal lavoro,
pronto per fare ciò che vuole per riposarsi,
si è messo a guardare in TV
le fasi salienti di una partita di baseball.
Brooke lo richiama con voce
insoddisfatta, gli ricorda che aveva
chiesto di comprare dodici limoni.
Perché non l’ha fatto? Ha diritto a
una spiegazione, no? Gary ha fatto
di testa sua, senza comprendere per
cosa servissero dodici limoni. Per lui
i limoni servono solo come condimento
e nulla più. Ma Brooke spiega
a cosa le servivano: “Per un centrotavola
che contenga dodici limoni”… “Quindi non sono neanche da mangiare
i limoni!” . Brooke gli chiede poi
di alzarsi e aiutarla ad apparecchiare
la tavola. Ma Gary non ne ha voglia
e dice che ha i piedi gonfi. “E allora?
- incalza Brooke - Ho i piedi gonfi
anch’io! Ho lavorato, ho fatto la spesa,
ho messo tutto a posto”… Eppure
è ancora in piedi a sfaccendare.
Ecco
dunque chi abbiamo davanti: da una
parte una donna che vuole fare tutto
per bene e che pretende le cose
fatte assolutamente come si deve,
dall’altra un uomo che non vuole
fare nulla in casa. Anzi, Gary arriva
persino a chiudersi in bagno a fare la
doccia per evitare in modo assoluto
di collaborare. Durante la cena, tutti
quanti fanno i complimenti a Brooke
per come ha cucinato e per come
ha sistemato i mobili, la sua mamma
dice addirittura che emanano un’energia
positiva. L’unico a non fare
i complimenti è proprio Gary, che
borbotta che gli piacerebbe incanalare
questa energia in un biliardo. Il
sorriso di Brooke si spegne, e gli dice
di no in modo categorico. Gary prova
a ribattere, a dire che basta spostare
un mobile qui e un altro là, ma lei taglia
corto con un altro no. Poco dopo
Gary si ritrova costretto a sopportare
Richard, il fratello di Brooke, che
si mette a parlare di come si canta
quando si è in gruppo e fa fare a tutti
i presenti uno strumento musicale.
Tutti si mettono a cantare, compreso
Richard a pochi centimetri dal volto
di Gary, lasciandolo impossibilitato a
dire o pensare qualcosa, anche solo
di fare più piano o stare zitto. Dopo
che tutti gli ospiti se ne sono andati,
Gary si mette a giocare a un videogioco
della serie Grand Theft Auto.
Finalmente fa una cosa che gli piace,
qualcosa che gli permetta di godersi
la quiete del dopo cena. Ma il suo desiderio
di fare qualcosa che lo rilassa
senza venir disturbato è destinato a
non venire esaudito. Infatti Brooke
gli dice: “Io vado a lavare i piatti”. E
poi, cercando di convincerlo a fare
qualcosa di costruttivo e di gradito
aggiunge: “Magari, aiutarmi…”
. “Come no! - risponde Gary - Più
tardi!”. Brooke sa che ci sono tanti,
tantissimi piatti da lavare, così replica
che non vuole fare più tardi e supplica
Gary di sacrificare dieci minuti
del suo tempo per aiutarla. In fondo
non gli costa niente. A lavare in due i
piatti, si fa prima. Per tutta risposta,
Gary si sdraia sul divano, dice che
vuole starsene tranquillo a digerire e
suggerisce di lavare i piatti il giorno
dopo. “Gary, odio svegliarmi e trovare
la cucina sporca!” è la replica
scocciata di Brooke. “Ma che sarà
mai?!” minimizza Gary. Brooke perde
la pazienza e sbotta: “Ho passato
mezza giornata e pulire tutta casa e a
cucinare la cena, mi sono ammazzata,
e ora potresti farti uscire un grazie
e aiutarmi a lavare i piatti!”. Gary
capisce di non poter ancora fare
quello che vuole, sbatte sul tavolino
il joystick della PlayStation e si alza
irritato dal divano: “Bene - esclama
- laviamoli e facciamola finita!”.
Brooke ha raggiunto il suo scopo,
ma non è soddisfatta: “Sai che c’è?
No! Non è questo che voglio!”. Gary
resta stupito e le fa presente che è
quello che lei ha chiesto fino a quel
momento: aiutarla a lavare i piatti.
Non è entusiasta dell’idea, anzi è
scocciato, però ora è disponibile. Ma
a Brooke questo non basta, e precisa:
“Io voglio che tu voglia lavare i
piatti!”. Se Gary deve fare qualcosa
tutto nervoso perché lei l’ha costretto,
allora è meglio che non lo faccia.
“Perché dovrei voler lavare i piatti?
- chiede Gary indispettito - Perché?”.
Brooke si reca in cucina delusa, e
Gary non capisce il motivo della sua
ira: “Aspetta! Sei arrabbiata perché
non ho lo sfrenato desiderio di lavare
i piatti?”… “No, sono arrabbiata perché
non hai lo sfrenato desiderio di
OFFRIRTI di lavare i piatti!”… “L’ho appena fatto!”… “Perché te
l’ho chiesto!” grida Brooke. Appunto,
pensa Gary. Mi hai chiesto di aiutarti?
Ti ho detto di sì? Basta! Fatti
aiutare a lavare i piatti e amen! Così
l’ammonisce: “Attenta Brooke, non
fare la matta”… “Non darmi della
matta! - lo interrompe Brooke - Non
sono matta!”… “Non ti ho dato della
matta, lo so che non sei matta! -
replica Gary -Ti ho detto che fai la
matta, è diverso!”. Essere matto e
fare il matto in effetti sono due cose
del tutto diverse. La discussione si
fa sempre più movimentata, i toni si
fanno più alti, Gary cerca di far capire
a Brooke che se vuole una cosa
da lui basta chiedergliela. Infatti se
non chiedi le cose, come fai a ottenerle?
Ma Brooke sa bene che non
è così, anzi ci sono cose che si può
capire benissimo da soli che è il caso
di farle, e per di più Gary non ha fatto
l’unica cosa che gli aveva chiesto,
una semplicissima cosa: comprarle
dodici limoni, e lui infatti gliene ha
portati tre. “Se avessi saputo che mi
avresti dato il tormento, ti avrei comprato
ventiquattro limoni! Che dico,
cento!” replica irritato Gary. Brooke
invece di approfittare della presenza
di Gary in cucina per cercare di convincerlo
a venire al lavello per lavare
i piatti con lei, passa a un concetto
più generale: “Sarebbe carino che tu
facessi quello che ti chiedo, sarebbe
ancora più carino se lo facessi senza
che io debba chiedertelo!”.
In altre parole Brooke desidera che
lui l’aiuti in qualcosa o faccia qualcosa
per lei con entusiasmo, e ancora
di più che si offra volontario senza
sentirsi chiedere nulla. Purtroppo
non sempre un atto di gentilezza è
gradito o richiesto. Se tu fai qualcosa
di gradito senza che nessuno te
lo chieda, chi lo riceve non è detto
che sia contento, anzi si può anche
schermire dicendo che non era necessario,
o lamentarsi perché quella cosa è stata fatta nel modo sbagliato
o al momento sbagliato. Dopo una
lunghissima discussione, che per
i toni alti diventa un vero e proprio
litigio, Brooke fa intendere qual è il
suo problema: “Io faccio un sacco
di cose per te, tu invece che cosa fai
per me?”. Spazientito e sentendosi
(lui!) trattato con ingratitudine, Gary
esclama: “Io mi sbatto la schiena
tutti i giorni per te! Io lavoro sodo
tutti i giorni per dimostrare che sono
il migliore in questa città, perché io
voglio guadagnare di più, abbastanza
da arrivare un giorno da guadagnare
per tutti e due, cosicché un
giorno tu non debba più lavorare”…
“Io voglio lavorare!” lo interrompe
Brooke. Gary si altera per l’interruzione
e poi riprende il filo del discorso:
“Io ti chiedo soltanto un briciolo
di comprensione quando torno a
casa e ti chiedo venti minuti di relax,
giusto il tempo per riposarmi e
riprendermi dalla mia lunga giornata
di lavoro! E invece tu che fai? Mi aggredisci
con le tue lagne!”. Brooke si
offende a morte nel sentirsi dire che
è una lagna, anzi una lagna continua
come precisa Gary, il quale alla fine
dichiara con tono deciso e infuriato:
“Io voglio, anzi esigo, di essere lasciato
in pace!”. A questo punto Brooke
si arrende all’idea di dover lavare
i piatti tutta da sola, e gli dice di
fare proprio le cose che lui è abituato
a fare e che lei disprezza e disapprova:
“Fai quello che vuoi! Lascia i calzini
in giro! Vestiti come un barbone!
Gioca col tuo stupido videogame!”.
E subito dopo, prendendo lo sfogo
di Gary sul ritorno dal lavoro come
una definitiva rottura, grida: “A me
non importa niente, perché io con te
ho chiuso! HO CHIUSO! Non voglio
passare un secondo di più della mia
vita con un insensibile coglione! Sei
un coglione!” E sbatte la porta. Ma
Gary non è più sereno e non vuole
più giocare alla Playstation. Così se
ne va da Johnny, un suo amico barista,
a raccontargli cos’è successo.
Intanto Brooke chiama al telefono la
sua amica Addie, e si sfoga con lei
raccontandole l’andamento della
serata ed esprimendo ancora meglio
come vorrebbe che fosse Gary.
Per essere esatti dice che vuole
“un uomo che tenga al nostro rapporto
al punto da sudarselo giorno
per giorno!”… E per il momento si
aspetta che Gary rifletta sul suo
comportamento e le chieda scusa.
Ma non va così. Gary torna a casa e
invece di chiedere scusa, va invece in
soggiorno ad aprire il divano-letto e
si corica lì, mentre lei se ne sta imbronciata
nel letto matrimoniale. Entrambi
sono troppo orgogliosi, convinti
di aver ragione e non disposti a
parlarsi e perdonarsi, senza capire
che in questo modo alimenteranno
sempre di più il loro rancore. Non è
esattamente quello che ci si aspetta
di solito in un film. E non si può
dire che ci siano state troppe scene
divertenti. Gary e Brooke si sono
scontrati con troppa rabbia. E non
sarà l’ultima volta nel film, purtroppo.
Nelle scene seguenti i due si indispettiscono
a vicenda. Lui compra
un biliardo per giocarci con Johnny
e un altro amico di nome Mark, un
agente immobiliare. Lei, per ripicca,
lo esclude dalla squadra di bowling
di cui fanno parte in occasione della
semifinale di un torneo. Lui le vieta
di fare quello che vuole nel salotto,
definendolo il proprio spazio; lei
autorizza il fratello Richard a fare le
prove del proprio coro in camera da
letto, svegliando Gary che tenta di
cacciarlo via, beccandosi però una
mossa di arte marziale che lo butta
a terra. In seguito Brooke propone a
Gary un esperimento. Stanno per arrivare
a casa degli amici in comune,
tra cui Johnny e Mark, per giocare
tutti insieme a qualcosa. La ragazza
ha deciso che questa volta le parti
si invertono. Lei si limiterà a farsi la
doccia, come Gary la sera della cena
coi parenti, lui dovrà occuparsi di
tutto il resto. Gary accetta. Pronto
a onorare quest’impegno, egli inizia
a guardarsi intorno in cucina, ma è
costretto a disturbare Brooke mentre
si lava. “Non abbiamo niente da
mangiare!”. “E allora?”. “Gli ospiti arrivano
tra un’ora! Che cosa gli do?”
chiede Gary. “Quello che vuoi, sei
grande!”. Nel giro di un’ora, un lasso
di tempo sufficiente a comprare
e preparare da mangiare, Gary non
fa quasi niente, non prova neanche
a fare la spesa, si limita solo a fare le
cose che interessano a lui. Apre un
sacchetto di patatine, prende fuori
la scatola del Pictionary, prepara
il biliardo per fare una partita con
Johnny. Un po’ poco. Anche troppo
poco, visto che da bere non c’è niente.
Così gli ospiti sono costretti ad
accontentarsi solo di acqua del lavello.
In bicchieri di carta. Da bere a
temperatura ambiente, perché quel
maschilista di Gary non ha pensato
nemmeno a fare i cubetti di ghiaccio.
A quanto pare, non ci ha pensato
perché nelle sue intenzioni c’è solo
di giocare tutti insieme, non di mangiare
qualcosa. Viene il momento
di giocare. Lo scopo di Pictionary è
fare indovinare ai giocatori qual è la
parola segreta da indovinare, facendo
un disegno che sia abbastanza
chiaro per la propria squadra, e nel
contempo abbastanza astruso perché
quelli della squadra avversaria
non lo capiscano. Tocca a Brooke
disegnare. “Non deve essere un bel disegno, si deve capire quello che è!”
dice Gary. Brooke disegna una volta,
due volte, tre volte qualcosa di
simile a una scarpa e Gary e quelli
della sua squadra ripetono continuamente:
“Scarpa!” , ma la parola
da indovinare non è quella. Brooke
disegna qualcosa di più piccolo, ma
Gary e gli altri si ostinano a vederci
una scarpa. La ragazza cancella il
disegno precedente e disegna qualcosa
di più grande. Ancora una volta
la squadra di Gary grida “scarpa”,
anche in formati diversi, diminutivo,
accrescitivo, varietà eccetera.
Brooke
cerca di suggerire la parola giusta
disegnando l’oggetto in tutti i modi,
in tutte le dimensioni, finché il tempo
a disposizione scade e Gary grida per
la frustrazione: “Cavolo, abbiamo
detto tutti i tipi di scarpa!”. Brooke lo
guarda furente, gli lancia addosso la
matita e rivela: “È un calzino, stronzo!”.
Gary si alza, acchiappa il foglio
e grida in faccia a Brooke: “Un bambino
di tre anni con le matite avrebbe
fatto meglio!”. “Scusa, eh! Scusa se
non sono brava come te a esporre in
giro le opere che altri uomini hanno
realizzato!”, replica Brooke alludendo
al lavoro di lui. I toni con cui i due
parlano sono altissimi. Tutti intorno
a loro assistono impotenti a questo
violento litigio. Gran brutta serata,
non c’è che dire. Organizzata male
e conclusa peggio. Tutti gli ospiti se
ne vanno via, resta solo Mark. Costui
condivide sia gli interessi che la
sensibilità di entrambi, ed è quindi
la persona perfetta per analizzare
la situazione. Alla fine dichiara che
ormai il rapporto di coppia di Gary
e Brooke è così in crisi che è quasi
impossibile che si possano riconciliare
e continuare a stare insieme serenamente.
La cosa migliore da fare,
secondo lui, è quella di abbandonare
l’appartamento dopo averlo venduto,
così ognuno potrà comprarsi una
casa tutta propria, coi propri spazi, e
tenerci le proprie cose, senza dover
dividere niente con nessuno. Sarà
Mark stesso a far vedere ai potenziali
acquirenti l’appartamento, mentre
Gary e Brooke dovranno sgomberare
o riconciliarsi in due settimane.
Finora l’andazzo è stato quasi sempre
un litigio alternato a un momento
di vita sociale tipico di ogni giorno,
sia in casa che al lavoro. Ancora
si sono viste più scene irritanti che
divertenti. Da parte sua, Gary vorrebbe
tenere la casa tutta per sé,
Brooke ha lo stesso desiderio, ma
vorrebbe anche continuare a viverci
con Gary, per il quale prova ancora
dei sentimenti. Così qualche giorno
più tardi, incomincia a portarsi
in casa dei ragazzi con lo scopo di
far ingelosire Gary e indurlo a fare
di tutto per riconquistarla ed essere
più gentile e disponibile con lei,
tra questi un certo Mike, un ragazzo
muscoloso, anzi un vero figo. Gary
però non sembra capire le sue intenzioni.
Anzi, finisce col piegare la
situazione a suo favore, indispettendo
la donna. Infatti Gary si fa
amico Mike e si mette a giocare alla
PlayStation con lui per quattro ore.
La serata che Brooke aveva programmato
va a vuoto. Dopo che lei
è uscita di casa per riaccompagnare
Mike, Gary lascia perdere i videogiochi,
telefona a Lupus e gli chiede di
portare qualche ragazza, in modo da
fare tutti insieme una bella partita di
Texas Hold’em Poker seguita da un
balletto stile strip club. Brooke torna
a casa, resta sbalordita, Gary la nota
con la coda dell’occhio, si imbarazza.
Il giorno dopo lei fa un ultimo tentativo
per recuperare il loro rapporto.
Chiede a Gary con tono gentile se
è disposto a venire a vedere con lei
un concerto degli Old 97’s. Dice che
ha già con sé due biglietti. Gary non
risponde subito, sembra pensieroso,
per lui andare a sentire un po’ di musica
potrebbe essere un’idea per trascorrere
una serata. Dice che verrà,
senza però essere del tutto convinto.
Brooke dà per scontata e convincente
quella risposta, e quando viene
sera si reca al concerto. Chiede alla
biglietteria di conservare il biglietto
per Gary, si fa dare due birre, una
per sé e una per lui, e gli tiene il posto.
Il teatro si riempie, e Gary non si
fa vedere. Il concerto inizia, e ancora
Gary non appare. Il concerto prosegue,
e Brooke aspetta ancora che
Gary arrivi. Sta ad aspettarlo fino a
quando, mentre tutti intorno a lei si
divertono, constata che non arriverà
più e se ne va via che è sul punto di
piangere. Col passare del tempo l’attesa
di Brooke si è fatta sempre più
angosciante, fino a lasciarla ferita ed
offesa dal mancato arrivo di Gary.
Qualcosa dentro di lei si è rotto in
modo definitivo. Non solo Gary non
si è fatto vedere, ma addirittura le
ha mancato di rispetto, mancando a
quell’appuntamento dopo aver detto
che sarebbe venuto.
E così, quando Gary ritorna a casa
e inizia a giustificarsi, Brooke lo interrompe
subito dicendogli che non
gliene importa niente del perché non
sia venuto senza avvertire. La voce
di Brooke trema per la rabbia, il dispetto,
il pianto. Il volto è contratto e
celato alla vista di Gary. In mano, un
fazzoletto. Poco dopo, si mette a dire
a pezzi e bocconi quello che aveva
cercato di dirgli la sera della cena
coi parenti, quando lui ha cercato di
evitare l’obbligo di lavare i piatti: “Io
- incomincia Brooke - Ho… cucinato…
ho raccolto la roba che lasciavi
in giro… ti ho preparato i vestiti
da indossare la mattina, come a un
bambino… io ti ho… sostenuto…
aiutato per il tuo lavoro… quando
c’era qualche problema ero sempre
io a occuparmene, ho fatto di tutto
per te… e tu non solo non hai mai
fatto niente per me… ma quello che io ho fatto per te, non lo hai neanche
minimamente apprezzato”.
In realtà Gary sente di averlo apprezzato,
solo che non l’ha mai dato a vedere.
E questo per Brooke è stato il
suo problema: “Tu non mi hai detto
grazie - continua a dire lei - non mi
hai mai fatto capire che tutto quello
che ho fatto per te vale qualcosa,
non mi hai mai dimostrato che tu a
me ci tieni…”. “Perché non me l’hai
detto prima?” chiede limpidamente
Gary. “Gary, ho provato, ho provato…”
dice Brooke. Lui si giustifica,
facendole notare che ultimamente
lei gli ha detto delle cose per fargliene
capire altre: “Io non sono un
indovino”, conclude. E allora? Certe
cose si possono benissimo capire da
soli, se, come e quando è il caso di
farle.
Non costa niente fare apprezzamenti,
come dire grazie, dare aiuto
e sostegno morale, far risparmiare
un’operazione faticosa a qualcuno,
fare qualche regalo, insomma far capire
che si tiene alla persona a cui si
vuol bene. Gary non ha fatto niente
di tutto questo. E Brooke si è sentita
sempre più ferita, oltre che mai
ricompensata. E ora che si è superato
il limite, lei lo caccia via, con un
tono così rabbioso che sembra uno
sfratto. Ma Gary ha capito che lei
ha bisogno di stare da sola per sfogare
il suo pianto. Parlandone con
Johnny, Gary capisce finalmente di
essere stato un po’ troppo egoista,
e che questa storia non può più continuare.
Nemmeno provare a riconquistare
Brooke facendole trovare
la casa tutta ordinata e una cena a
lume di candela può funzionare, per
quanto egli si sforzi. Tant’è vero che
dopo averne parlato con Brooke serenamente
per la prima volta dopo
tanto tempo, mentre lei cercava di
far comprare un soprammobile a un
ragazzo venuto in visita, capisce che
devono lasciarsi. Nell’epilogo, ambientato
in inverno, si vedono Gary
e Brooke rincontrarsi e salutarsi da
amici, e nulla più.
Gary è diventato autonomo e ha capito
quali sono le priorità della vita
quotidiana, non certo giocare ai videogiochi.
Brooke è più serena, visto
che non deve più soffrire l’angoscia
di dover correggere qualcuno e di
dover pretendere troppo da lui. Perché
altrimenti ci si rimane solo molto
male, e appunto era quello che a
Brooke capitava con Gary, invece di
parlargli serenamente e a tempo debito.
E l’appartamento? I due protagonisti
hanno preso le proprie cose
e l’hanno abbandonato, ognuno andando
a stare per conto proprio, come
aveva previsto Mark.
Ognuno con un proprio spazio, senza
dover invadere quello di qualcun
altro indispettendolo. Aspettarsi un
totale happy ending, con i due che
tornavano a vivere insieme sotto lo
stesso tetto, sarebbe stato irrealistico
e troppo ottimista, oltre che favolistico.
Pensateci: se fosse andata
così, Gary e Brooke non sarebbero
forse ricaduti negli stessi errori di
prima? Io dico di sì. Quando hanno
litigato all’inizio del film, cioè dopo
la cena coi parenti, si sono interrotti
a vicenda, hanno alzato il tono della
voce sempre di più (in parte per
evitare di essere interrotti ancora, in
parte per imporre le proprie ragioni),
hanno anche cambiato argomento
con grande frequenza, non si sono
mai spiegati del tutto. E non hanno
neanche il dono della sintesi, oltre a
non sapere mantenere la calma. Tutto
questo non permette affatto una
buona comunicazione, un dialogo
sereno, nel quale c’è il messaggio,
chi lo emette parlando e chi lo riceve
ascoltando.
E a furia di interrompersi, di alzare
la voce, ma anche di stare troppo
tempo zitti a cercare di pensare alle
parole da dire quando la situazione
è troppo tesa, a non dire o voler dire
qualcosa per la timidezza o la paura
della reazione di un altro, si può
sperare di avere una buona comunicazione?
Certe persone bisogna
lasciarle perdere ed estrometterle
dalla propria esistenza o dal proprio
giro di conoscenze, se si vuole stare
sereni. Se poi con queste persone
non si riesce a trovare un dialogo,
non bisogna neanche provarci. Se
due persone non si intendono, non
riescono a stare insieme, a stare sereni
e dialogare, come non pensare
di staccarsi? Gli equivoci vanno sempre
chiariti, sempre. E le spiegazioni
date anche quelle, il prima possibile.
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CONDIVIDIAMO LE ESPERIENZE PER MIGLIORARE IL SERVIZIO
l Faro è lieto di supportare un’iniziativa dell’associazione Nessuno resti indietro,
la quale si rivolge ai nostri lettori, utenti o familiari, in cerca di
racconti personali riguardanti le proprie esperienze in rapporto con i
servizi, che possano avere una valenza generale e che aiutino a
individuare sia le criticità che i punti di forza, in modo da aiutare i
servizi stessi a procedere nella giusta direzione, per migliorare
sempre più il rapporto terapeutico.
Compatibilmente con lo spazio a disposizione Il Faro sarà lieto di
pubblicare in un apposita rubrica della rivista questi racconti.
Chi intenda portare il proprio contributo a questa iniziativa, o voglia maggiori chiarimenti in proposito può scrivere a: nessunorestiindietro@gmail.com o contattare telefonicamente il presidente di Nessuno resti indietro, Mario Mazzocchi, al numero 3485660573.
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COMUNICARE È IMPORTANTE
LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani
La comunicazione fra due o più persone è efficace quando la persona che
ascolta recepisce il concetto che si sta enunciando. Ovviamente anche
noi dobbiamo
essere predisposti ad ascoltare l’altro.
Federico Gerri
La comunicazione è bellissima ed è un’invenzione dell’uomo, permette alla fantasia di prendere forma.
Davide Palazzo
La comunicazione è un modo di relazionarsi con gli altri.
Stefano Gardini
Comunicare è importante per relazionarsi con la gente che c’è in città, provincia o paesini (ad esempio di montagna).
Danilo Sammarchi
La comunicazione è importante nella vita, la comunicazione è dialogo…
Libri e musica sono mezzi di comunicazione come i telefoni e i
cellulari.
Nicolae Gallingani
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LA COMUNICAZIONE
Centro Diurno di Casalecchio di Reno
La comunicazione è per me qualcosa di estremamente difficile. Infatti
mi mette di fronte ad un calcolo meschino ed opportunistico: voglio
comunicare con gli altri perché gli altri abbiano bisogno di me. Voglio
comunicare… ma in realtà voglio fare pesare le mie argomentazioni sulla
massa vorrei spiccare sulla massa amorfa e bruta. A meno che non sia di
umore particolarmente radioso (nel qual caso sono interiormente più
libero, meno legato al giudizio degli altri e disposto ad accettare
anche le più serrate critiche) questo è l’unico interesse che mi porta
a comunicare: procacciarmi la stima degli altri. Non vorrei dipendere
dagli altri e al tempo stesso lo vorrei.
Giovanni
Comunicare significa per me trasferire da me agli altri alcune idee che
mi passano per la mente e sentire cosa mi viene risposto. Io vorrei
soltanto sapere se quello che dico va d’accordo col pensiero degli
altri: se va d’accordo sono molto contento e mi sento realizzato; se
non va d’accordo mi dispiace un‘tantinello’… non vorrei trovarmi in una
situazione di scontro con gli altri; penso infatti che quando si
comunicano pensieri ideologicamente differenti da quelli di altre
persone si potrebbero creare contrasti e la comunicazione potrebbe
dunque interrompersi. Ideologicamente parlando un pensiero
cosiddetto‘di destra’ che incontra un pensiero ‘di sinistra’ (o
viceversa) potrebbe generare irritazione e fastidio. Le differenze
dottrinali potrebbero generare fastidi, se non rabbia. Comunicare,
d’altra parte, sentimenti, emozioni o stati d’animo potrebbe non essere
sempre una buona cosa; l’esito della comunicazione dipende anche dallo
stato d’animo di chi ascolta…
Il mio timore è che avvenga un contrasto più o meno esplicito e che
quindi prevalga l’incomunicabilità. Tuttavia penso che una certa
comunicabilità tra posizioni diverse o apparentemente opposte si possa
trovare.
Lorenzo
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Cosa pensano i velisti della comunicazione
...La comunicazione è un mondo di interpretazioni: il linguaggio del
corpo… il tono… essere aggressivi con le parole… essere dolci e
comprensivi… L'interpretazione è individuale, ma confrontarsi con altri
può far cogliere altre sfaccettature in un discorso, qualcosa che
magari non si è colto prima nelle parole, arrivando a capire meglio
la/e persona/e che le ha dette.
...Se la comunicazione è condividere, che senso ha parlare per non dire nulla?
...Anche gli animali hanno il loro linguaggio di comunicazione, come lo
scodinzolare di un cane felice, il miagolio di un gatto che chiede le
coccole, un cane che ringhia per avvisarti che non gli piaci, un gatto
che soffia quando è impaurito… E questi gesti banali ma essenziali
nella comunicazione degli animali con noi, che siamo più complessi,
dovremmo ascoltarli e imparare anche da loro.
...La comunicazione è il risultato che si ottiene.
Comunicazione verbale e non verbale, cinesica, prossemica e
paraverbale. Comunicazione interpersonale, nei gruppi, istituzionale,
interna, esterna e integrata. Ascolto e feedback. Linguaggio positivo.
Non si può non comunicare.
Sì Mo’
La comunicazione non verbale
La comunicazione non verbale è quella parte della comunicazione che
comprende tutti gli aspetti di uno scambio comunicativo che non
riguardano il livello puramente semantico del messaggio, ossia il
significato letterale delle parole che compongono il messaggio stesso,
ma che riguardano il linguaggio del corpo, ossia la comunicazione non
parlata tra persone. Inoltre importantissimi sono i tanti codici della
cultura comune i quali ci aiutano a capire i vari messaggi che le
parole, i toni e i movimenti del corpo esprimono solo parzialmente. La
virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della
vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente e spesso ha
effetti più limitanti è quello della comunicazione fra mezzi
d'informazione e pubblico.
Raffaele Di Siena
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IL SACRIFICIO DEL SECOLO
Matteo Bosinelli
S
emplicemente straordinaria è la ventunesima mossa del nero, nella sesta
partita del match finale per la designazione del Campione del Mondo,
svoltosi a Mosca nel 1960.
Opposti fra loro lo sfidante, Michail Tal - nero- e il detentore del
titolo, Michail Botvinnik -bianco. Nel centro- partita, che si
prospettava complesso, Tal aveva però conquistato un apprezzabile
dinamismo: puntò allora tutto sulla vittoria, sacrificando, a sorpresa,
un cavallo (il cosiddetto 'Sacrificio del Secolo') e, pur giocando sul
filo del rasoio, raggiunse il successo.
È possibile che questa mossa, anziché di un mero calcolo, sia stata il
frutto di intuizione, coraggio, fantasia e 'colpo d'occhio', a cui
questo campione ci ha successivamente abituati. Molti, fra cui anch'
io, sono diventati fan di questo fuoriclasse, che venne definito da
Boris Spasskij come ''un giocatore molto simpatico e comunicativo, che
dava le pacche sulle spalle ai giornalisti e che ti immagini giocare a
scacchi strimpellando con una chitarra fra le braccia''. Tale rimase ai
vertici mondiali per anni, dimostrando così di non essere un bluff, ma
un vero campione, che faceva dell'intuito la propria arma di battaglia
preferita.
Purtroppo, ammalatosi gravemente, è scomparso qualche anno fa, lasciandoci le sue partite immortali.
Botvinnik - Tal (Match Finale Campionato del Mondo, Mosca, 1960 - 6° Partita)
1) c4 Cf5
2) Cf3 g6
3) g3 Ag7
4) Ag2 0-0
5) d4 d6
6) Cc3 Cbd7
7) 0-0 e5
8) e4 c6
9) h3 Db6
10) d5 cxd5
11) cxd5 Cc5
12) Ce1 Ad7
13) Cd3 Cxd3
14) Dxd3 T fc8
15) Tb1 Ch5
16) Ae3 Db4
17) De2 Tc4
18) T fc1 T ac8
19) Rh2 f5
20) exf5 Axf5
21) Ta1 Cf4
23) Ad2 Dxb2
24) Tab1 f3
25) Txb2 fxe2
26) Tb3 Td4
27) Ae1 Ae5+
28) Rg1 Af4
29) Cxe2 T xc1
30) Cxd4 Txe1+
31) Af1 Ae4
32) Ce2 Ae5
33) f4 Af6
34) Txb7 Axd5
35) T c7 Axa2
36) T xa7 Ac4
37) Ta8+ Rf7
38) Ta7+ Re6
39) Ta3 d5
40) Rf2 Ah4+
41) Rg2 Rd6
42) Cg3 Axg3
43) Axc4 dxc4
44) Rxg3 Rd5
45) T a7 c3
46) T c7 Rd4
47) Rg2
e contemporaneamente il bianco abbandona: 0-1
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LO STATO ITALIANO SI AVVALE DEL CONTRIBUTO ECONOMICO DEI SUOI CITTADINI PIÙ DEBOLI
Fabrizio Sinibaldi
C
ome tutti sanno lo Stato Italiano
vieta il fumo nei luoghi
pubblici, promuove campagne
contro il fumo e contemporaneamente,
detenendo il monopolio
della vendita delle sigarette,
guadagna diversi miliardi di euro
vendendo le sigarette a circa 10
milioni dei propri cittadini. Io sono
un ‘diversamente intelligente’ fumatore.
Per abitudine sono mattiniero
ed essendo nato il 15 agosto
sono un matto di tipo ‘napoleonico’,
infatti sono convinto di essere
Napoleone Bonaparte. Molto
spesso chiedo ai passanti quale
strada porta a Mosca. Quando alle
2 del mattino mi alzo, ovviamente
come prima cosa mi devo vestire
e, ovviamente indosso una divisa
napoleonica con tanto di coccarda
rossa, bianca e blu e spadino
come accessorio principe. Dopodiché
comincio le mie solite attività
giornaliere che curiosamente
non hanno mai previsto lo studio
del francese, così può capitare
che stramaledica l’ammiraglio
Nelson in bolognese stretto. Normalmente
la prima cosa che ho
l’abitudine di fare è leggere tre
ore consecutive cronometrate.
La precisione era caratteristica
di Bonaparte. Questa mattina mi
sono trovato in una situazione insolita.
Stavo leggendo fumando
quando mi sono reso conto che
terminata una pagina non riuscivo
a girarla, non potendo così sapere
come andava a finire quello che
stavo leggendo. Dopo circa tre
quarti d’ora ho capito perché non
riuscivo a sfogliare più le pagine.
Avevo una sigaretta accesa nella
mano sinistra e una accesa nella
mano destra e questo mi impediva
di sapere che fine avrebbe fatto
Emma. Così ho il sospetto che
il monopolio di stato guadagni il
doppio su un traffico ipocrita su
una persona che potrebbe mettersi
una T-shirt e un paio di jeans
alle due di notte (perché non
è mattina, porca puttana, è notte,
diciamolo) quando si alza.
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DAZZENGER
Darietto
Misteri tra luoghi e nomi:
● A capodanno in via Capo c’è stato un danno.
● Vincenzo e Vincenza stanno bene solo a Vicenza!
● Dove va una persona triste? A Trieste.
● I matematici hanno un convegno a Potenza.
● A Castenaso c’è la fabbrica dei fazzoletti.
● Chi fa una beffa a Genova? Genoveffa.
● Uno squalo catturato nel giorno di Pasqua come verrà chiamato? Pasqualo.
● Dove si trovano le persone che ti vogliono bene? A Bentivoglio.
● Dov'è che l'aceto appena comprato si perde misteriosamente? A Persiceto.
● Dove viene allevato un cucciolo di toro ? A Torino.
● Dove si produce troppa crema? A Cremona.
● Dove si trova un abbondante raccolto di pesche? A Pescara.
● Dove si gusta meglio un lecca-lecca? A Lecco.
● Dove si celebra una messa corta? A Messina.
● Qual è la città più fredda d’Italia? Gela.
● Dove si trova un gran cumulo di sassi? A Sassari.
● Che ne dici se entro a Reggio, poi esco Reggio?
● Dove vanno le persone gobbe a curarsi? A Cuneo.
● Dov'è che un riccio è cresciuto troppo? A Riccione.
● In quale luogo i rapaci vanno a migrare? A L’Aquila.
● Quale città è la preferita dei commessi di ferramenta? Trapani.
● E quella degli erboristi? La Spezia.
● Dove arrivi soltanto grazie al fiuto? A Roma.
● In quale città non conviene senza dubbio giocare a poker? Bari.
Botta e risposta:
● “Sai, vado pazzo per quella materia!!!”“Quale?” ... “La mattemattica”
● “Vedi quelle due?”“Sì e quindi?” ... “Quella si lamenta sempre e quell'altra si lasalvia di continuo.”
● “Allora, hai notizie?”“No, al minuto ho nocaie e nosempronie”
● Sapete cos’è il calcestruzzo? Uno struzzo che viene preso a calci.
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ANCORA BUONO
Giulia Berra (tratto da Facebook)
osa hai trovato?".
"Nulla solo schifezze".
"Guarda questo è ancora buono, se lo ripulisci lo puoi mettere d'inverno".
"Non mi sta bene, è dieci volte me".
"Guarda cosa ho trovato, qualcuno ha buttato i calzini".
"Giusti?".
"Boh, sono scuri non ci vedo".
"Guarda questa, cosa dici la porto a Mario?".
Mentre una mostrava la cravatta che usciva a penzoloni dal bordo del
bidone, l'altra trovava un cappello e lo sventolava dall’altro capo.
Chiamava l’amica china tra i sacchi disfatti e urlava forte finché, con
la guancia macchiata di nero, non le rispondeva con un sorriso che
sembrava uno sbaglio.
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IMAGINARY VOYAGE
Ebo Del Bianco (tratto da Facebook)
Supporto musicale: brano Day to day, autore ed esecutore Michael Ragonese piano, Walter Smith III sax tenore.
Ore 5 e 15 minuti esatti: la partenza
è imminente, l’oscurità convive
con l’intensità del freddo. I piedi
sollecitano ad accelerare l’avvio. La
società dorme, la vedo immobile,
sento il suo silenzio. È l’ora giusta
per il distacco. Sono l’unico passante
che calpesta la via deserta.
Sto studiando l’itinerario che mi
porti fuori dalla realtà senza una
meta di arrivo. Vorrei tanto avvicinarmi
all’impossibile di questo
viaggio immaginario, a qualsiasi
prezzo da pagare. Sto cercando me
stesso smarrito tra una marea di
incertezze e perplessità. La staticità
è il peggior nemico, il dinamismo
è energia medicinale che ti fa viaggiare
almeno con sicurezza. Non so
assolutamente nulla del tracciato
che ho iniziato. Poi un muretto mi
invita a salire. Accendo la pila che
illumina un torrente scarso d’acqua
dove immobile poggia le sue
zampe un martin pescatore in attesa
di tendere un agguato a un
malcapitato pesce. Ma dietro sento
un qualcosa che si muove, la pila
illumina i suoi occhi tristi e le sue
quattro zampe. Di certo non ha una
casa, un punto di riferimento. Gli
chiedo di adottarmi, di farmi uscire
dallo stato confusionale, ma lui,
il cane, non si fida, nonostante le
coccole. Mi siedo accanto e ci osserviamo
da vicino, mentre il martin
pescatore non demorde. Questo
viaggio non ha una fine, una meta,
è momentaneamente sospeso nella
speranza che il cane riprenda il suo
cammino, magari di fianco ai miei
piedi, in attesa che, lui, diventi il
mio padrone.
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SILENZIO MUTO
Opola Resonive
L
ui guardava con fare malinconico il quadro appeso
nella stanza d'albergo, erano ormai due
anni che non riusciva a vederla, lei non voleva!
Lui l'amava, ma di un grande amore, le mandava
mail, messaggi e chiamate a cui lei non
rispondeva mai. Lei si era innamorata di lui, ma adesso
aveva preferito la carriera alla loro storia e si era trasferita
in un altro continente da Parigi a New York. Lui
non l’aveva seguita e lei non voleva più vederlo. Adesso
faceva parte di un team di lavoro di successo. "Il lavoro
prima di tutto" diceva lei. "L'amore prima di tutto" diceva
lui. "Amore e lavoro: perché bisogna scegliere?", diceva
lui…Adesso la carriera di lei andava sempre meglio, era
diventata un avvocato importante di un grande studio,
mentre lui rimaneva un negoziante di una piccola boutique.
Ogni sera lui piangeva e, finito di piangere, piangeva
di nuovo, lei ogni sera usciva coi colleghi e andava
per locali. Lui voleva solo lei, lei voleva solo divertirsi,
non con lui... A Parigi il negozio andava avanti bene, si
trovava in una buona zona di passaggio di turisti, del
lavoro lui non si poteva lamentare. La loro storia era
durata sette anni e poi… il fatidico settimo anno, che
porta alla fine del rapporto. Alti e bassi, finiti bruscamente,
due strade diverse. Col tempo si cambia, lei era
cambiata, lui no... Correva il tempo, erano passati due
anni dall'ultima volta che avevano passeggiato assieme
per le strade di Parigi, poi il nulla... Lui adesso aspettava,
aspettava solo lei, era depresso, molto depresso,
non pensava ad altro che a lei, solo a lei, non guardava
le altre donne. Aveva già tentato di rivederla, tempo
prima, venendo a New York, ma non c'era riuscito. Ora
era tornato, stava nella stanza di un hotel a New York,
era lì per cercarla. Ormai erano passati dieci giorni, ma
non era ancora riuscito a incontrarla, lei non voleva, ma
senza un motivo valido, non gli parlava più, era stanca
di lui, non lo sopportava più. Lui faceva appostamenti
davanti a casa sua o dove lavorava, e finalmente un
giorno la vide! Eccola là, bella, sempre più bella, aveva
cambiato il taglio di capelli, aveva vestiti costosi e stava
salendo su una macchina di lusso... Era sera, era venuto
a prenderla un uomo, stavano certamente andando
in qualche locale. Non poteva perdersi l'occasione per
parlarle. Fermò un taxi e chiese di seguire la loro auto.
La seguì fino ad un grande ristorante italiano, molto famoso
in città. Lei e il suo accompagnatore entrarono e
così fece lui. La gelosia lo invase, quello poteva essere il
suo nuovo compagno, doveva asssolutamente saperlo!
Si erano seduti in fondo alla sala, lui si sedette un po'
distante. Doveva aspettare il momento buono, quando
lei fosse sola per parlarle. Verso la fine della cena l'accompagnatore
si alzò dal tavolo così lui ebbe l'occasione
che cercava: si avvicinò a lei e le disse "Mi manchi
tanto non posso vivere senza di te". Lei lo guardò con
aria di compassione e rispose: "Chi sei?". Lui si mise
a piangere, non lo riconosceva più, si era dimenticata
del loro grande amore... "Sono Victor, non ti ricordi di
me?". Lei allora: "Ho cancellato la mia vita di Parigi, non
voglio più ricordare quel periodo!". Lui: "Ma siamo stati
bene assieme!". Lei: "Non voglio più vederti, pensa a te
stesso e non cercarmi più!". Lui si allontanò piangendo,
come aveva potuto continuare ad amare una donna che
era diventata così fredda e ostile? Parlarle gli aveva fatto
capire che lei non era più quella di una volta, amava
un ricordo... Il parlarle aveva finalmente posto fine al
desiderio di un amore ormai impossibile...
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SCIOGLIERSI
Maria Chiara Reitani
M
i ricordo di essere stata tutta attorcigliata su
me stessa.
Era il 1982 quando è esplosa una terribile
crisi bipolare, ansioso-depressiva si diceva
allora. Ero abbastanza giovane, avevo venticinque
anni, ma mi sentivo vecchia. Mi ero laureata a
pieni voti, ma fuori corso di due anni e alla mia famiglia
non andava del tutto bene. Era autunno, novembre per
la precisione, io abitavo già a Bologna dal 1976, sette
lunghi anni di depressione mista ad ansia ed euforia.
Per la prima volta conobbi l’amore, per un mio coetaneo
venezuelano, Edgardo Diaz. Fu una passione breve
e travolgente ma anche lacerante.
Nel marzo del 1983 dopo essermi laureata al DAMS,
con una tesi su Luca Ronconi e il Laboratorio di Prato,
sono andata ad abitare nel quartiere S. Ruffillo, in
via Albornoz n. 14. Mia madre, che allora aveva sessant’anni
(la mia età, e questo mi fa rabbrividire), si
era trasferita dalla Puglia, da Cerignola, mio paese
natale, per starmi accanto. Era malata anche lei della
mia stessa malattia, me l’aveva trasmessa: per me era
difficilissimo perdonarla, ma l’ho fatto, a denti stretti.
Mio fratello, di due anni più giovane di me, si sarebbe
laureato in corso, sempre in lettere, a pieni voti, ma
all’università di Bari. Mi ritenevo fortunata per aver
avuto l’opportunità di studiare, di vivere in una città
come Bologna, che amavo ed amo tuttora, ma piena di
tante contraddizioni. Sempre nel marzo dell’83 ho conosciuto
due psicoterapeuti, che sarebbero stati fondamentali
per la mia formazione e la mia crescita e mi avrebbero dato una grossa mano, a cui tuttora sono
riconoscente. Ho fatto una lunga esperienza di analisi
e di conoscenza di me stessa. Ricordo con affetto Lucia,
una ragazza pugliese come me, più giovane di me
di qualche anno, che faceva l’infermiera ausiliaria all’ospedale
Malpighi, che mi è stata molto vicina e a cui
devo molto. Mi ha invitato al suo matrimonio a Lesina,
un paesino del Gargano, ma io non ci sono andata, non
ricordo bene per quale motivo. Sono caduta puntualmente
nell’autobiografia, ma per dirla con Simone de
Beauvoir è il primo passo per passare ad una scrittura
oggettiva. Frequento da molti anni l’MCE il movimento
di cooperazione educativa. Nell’84 ho fatto la mia
prima esperienza di insegnante di lettere a S. Pietro in
Cariano, un paesino della Valpolicella, in provincia di
Verona. È stato un impatto difficilissimo, ma costruttivo.
Sono passati trentaquattro anni, una vita ormai.
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A NONNA ELENA
Vincenzo Capozza
hi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è
certezza”. Passata alla storia con ogni probabilità
per ‘magnifiche’ doti da statista,
più che per originalità poetica, la notissima
strofa di Lorenzo de' Medici, nasconde una
verità difficilmente confutabile. Mi verrebbe da dire, beninteso
sottovoce, qualcosa di simile a una certezza. Eppure
ce ne dimentichiamo. Allontaniamo il pensiero di un
domani involontariamente interrotto con vivissimo fastidio.
La paura delle cose ignote raggiunge apicalità ultraterrene
al solo pensiero di lasciare questo basso mondo.
Accade così che solo alla perdita di un affetto importante,
anche gli animi meno inclini a interrogarsi, d'un colpo
cedono. È il 22 agosto 2017 quando la mia cara nonna
Elena spira, alla ragionevole età di novantasette anni. La
pelle chiara e i lineamenti gentili svelavano le paterne
origini triestine. Come paterna era pure la responsabilità
nativa: Bellagio, sul lago di Como. Un padre con l'innata
propensione tutta ebraica al lavoro. Tale vezzo paterno,
non fu però l'unica causa di incessante transumanza per
il Belpaese. La storia ci insegna che il nostro popolo, descritto
spessissimo negli almanacchi come scanzonato e
foriero di buoni sentimenti, sia stato tutt'altro che benevolo
verso gli ebrei. Fu così che tra una fuga e l’altra, Bepi
(così si chiamava il mio bisnonno) si trovò catapultato da
Trieste in un paesino dell'entroterra calabrese, Strongoli,
dove sposa l’autoctona Marina, e da quest'unione calabro-
friulana nasce mia nonna. A pochi anni Elena però
venne affidata a un ricco zio di Lecce, molto meno vicino
all'ebraismo di quanto non fosse papà Bepi, ma che aveva
il torto di aver appeso uno dopo l’altro a casa sua una
filza di fiocchi celesti. La barbara usanza di strappare un
figlio al nido originario per ‘affidarlo’ (volendo usare un
termine elegante) ad altri parenti, ha segnato mia nonna
per tutta la sua vita. Nelle serate trascorse a chiacchierare
sul balcone ascoltavo incredulo i suoi racconti leccesi.
Andava orgogliosa di questa vita agiata e in particolare
il viso le si illuminava nel ricordare quando, invidiata da
tutti in città, arrivava a teatro in carrozza. O quando, nel
ricordare vezzosamente insistenti corteggiatori, le guance
prendevano colore e lei faceva un risolino simile ad un
piccolo nitrito. Simile vita principesca, nel paesello calabro
l’avrebbe potuta tutt’al più leggere sui libri di fiabe.
Poi però quando tornava a parlare dei genitori, mentre
ricordava il papà come uomo di infinita bontà e dolcezza,
nel parlare della madre il volto s’induriva. Mi diceva sempre:
“Mamma era molto dura, non era come papà. Non
ricordo mai un gesto di affetto da parte sua”. Non sono
sicuro che i contemporanei autori del piccolo schermo
spenderebbero un penny per rappresentazioni poco
edulcorate di principesse ricche ma ferite nell'intimità,
di carrozze trasformate in zucche se non nel giorno di
Halloween, di padri talmente dolci da sembrare materni
e madri algide. Sono invece sicuro che mia nonna abbia
trascorso tutta la vita a tentare di colmare il solco lasciato
nell’animo da quello strappo insensato e violento
dalla famiglia, che adduceva in primis alla madre. Si sa
però che i solchi dell’animo sono talmente profondi che
spesso non basta una vita per sanarli. Nonna difatti non
c'è mai riuscita, o almeno non completamente. In vita è
stata un’incallita maschilista. Privilegiava sfacciatamente
i rapporti con figli e nipoti, tutti accomunati dal genere
opposto al suo. Ma soprattutto quello ‘strappo’ forgiò un
carattere che a molti appariva distante, formale. Sempre
ospitale e accogliente a casa, sempre elegante nei modi dentro e fuori casa, una dedizione talmente sentita per
la forma e per l'ordine da divenire spesso maniacale. Un
linguaggio forbito. Un linguaggio a tratti regale e a tratti
talmente personalizzato da risultare incomprensibile.
Per nonna le verdure più che ‘intere’ erano ‘intonse’, ai
proverbi locali ne preferiva alcuni che in Calabria erano
pressoché sconosciuti, tra cui: “Ecco fatto il becco all'oca”.
La sua fervida fantasia dava però il meglio nell’inventare
o sostituire le parole. Resta negli annali, quando
mostrando ai figli le albicocche, disse loro: “Quelli si
chiamano ermellini”. Vivissima fu la delusione dei pargoli,
quando nessuno tra i loro compagni di scuola chiamava
‘ermellini’ quei frutti color arancione. Ricordo poi
che, quando era ancora giovane, le chiesi se andasse
alle poste. “Enzuccio mio - mi rispose - lo sai che alla
posta nonna non va perché c'è l'odore di prossimo”. La
mia immaturità, in particolar modo quella olfattiva, non
mi permise di comprendere a pieno quella affermazione.
Affermazione in cui c’era un po’ tutta nonna. Fu così
che la feroce ironia familiare ebbe gioco facile nel darle
in sorte il soprannome de ‘La zarina’. Così è, anzi fu. In
effetti per molti mia nonna rimarrà ‘La zarina’. Elegante,
accogliente, ma formale e un po’ distante. Quasi a ricordare
la ‘vacuità’, come recitava la voce fuori campo nel
film L'età dell'innocenza. Per fortuna mi accade spesso
di trovare linfa vitale nella musica e nelle parole di un
cantante emerso di recente, Francesco Gabbani: Presto
il tempo darà torto alle parole/ E alla tua bellezza più
di una ragione / Poche scuse buone da buttare via / E
ho raccolto tutto quello ch'eravamo / Nascondendolo in
un posto più lontano / Come indovinare una fotografia /
Forse ognuno ha la sua colpa /Ogni colpa i suoi perché
/ Che in silenzio si perdona da sé / Ed ognuno per se
stesso / Veste la sua verità / Purché resti nuda l'altra
metà /…/ Per convincermi ch’è vera a tutti i costi / La
mia versione dei ricordi /…/
Così io ho sempre sentito questa sua ‘formalità’ piuttosto
come una straordinaria ‘signorilità’. Anzi, a pensarci
bene il primo aggettivo che mi viene in mente ricordando
nonna Elena è proprio ‘signorile’. La forma era il suo
scudo, ma se si riusciva a fare breccia in quest’armatura
formale, si rimaneva avvolti dal candore, fragilità, dolcezza
e realismo insieme. Quando mi faceva delle domande
spesso la prendevo in giro. Riporto qui di seguito una discussione:
“Enzuccio mio - mi chiamava così anche da
adulto - abbiamo trovato una donzella valida?”. Io: “Nonna
ma io non mi voglio sposare!”. “Ma mica ti devi sposare.
Tanto adesso quelli che si sposano nemmeno un
anno e si dividono, devi solo convivere, però ti devi dare
una mossa o te la deve trovare nonna una bella donzella?
Anzi nemmeno troppo bella, te lo dico sempre che,
mentre la bella si gira e si rigira, la brutta si marita”. Poi:
“Enzuccio mio all’università hai una bella combriccola di
amichetti? Hai trovato una buona occupazione lavorativa?
Che cosa vorresti fare?”. E io “Nonna, penso il barbone!”.
“Eh no, eh no Enzo!”, diceva scuotendo la testa
addolorata. Così mi affrettavo ad aggiungere: “Nonna,
ma com'è che non va bene niente?” e lei: “Enzuccio mio,
ma guarda che le cose non sono mai come dovrebbero
essere, questa è la vita”. Al tavolo da gioco era fortunata
e un po' distratta. A Natale il suo gioco preferito a carte
si chiamava ‘cucù’. Solo che ogni tanto quando era indecisa
sul da farsi, si alzava in piedi e diceva, con qualsiasi
carta avesse in mano: “Brucio!”, suscitando in tutti una
tale ilarità da rischiare un collasso. Chi vuol esser lieto,
sia, del doman non c'è tristezza. Se c'è uno stato d'animo
che mia nonna non esprimeva mai, o quasi, era la tristezza.
È stata per me sempre un fulgido esempio di allegria
e spensieratezza. Un fulgido esempio di joie de vivre, anche
e soprattutto in momenti in cui nella mia vita non
ne riscontravo traccia. Chi scrive chiede venia all’arguto
lettore, in particolar modo a quello giuridico. Poche righe
intrise non tanto di vizi di forma e di sostanza, quanto
piuttosto del padre di tutti i vizi: l'affetto.
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LA VIGNETTA
Riccardo La Rocca
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Salve, sono Remo Nucci, presidente dell’associazione di volontariato
ambientalista "Amici del Reno", ma... anche coordinatore di un gruppo
di psicosociologia a livello amatoriale. Nonché... frequentatore
dell'I.M. di Casalecchio, dove ho potuto conoscere il Faro, appunto.
Entusiasta della vostra pubblicazione, la più interessante ed
argomentata sull'argomento fin qui conosciuta. Complimenti! Se
possibile vorrei riceverlo direttamente al mio indirizzo. Vi sarei
molto grato.
Remo
Grazie per i complimenti, caro Remo, ricevere lettere così è… galvanizzante!
Purtroppo non siamo attrezzati per l’invio del cartaceo a domicilio,
però ti mettiamo fin d’ora nell’indirizzario di posta elettronica, così
riceverai Il Faro online puntualmente ad ogni uscita.
Come avrai visto il nostro giornale è gratuito ed è distribuito
capillarmente nei Centri di Salute Mentale, ma anche in vari luoghi di
aggregazione sociale.
Potrai trovarne delle copie a Casalecchio e prenderne un po’ per
distribuirle se ti fa piacere. Buon lavoro anche a te e auguri per la
tua associazione!
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OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI: MATTEO GIORGINI
Nato il 6 luglio 1979, sono da sempre
interessato alle arti figurative, ho iniziato a disegnare e dipingere
da autodidatta, per
piacere personale. La pittura è una forma d'arte in cui ci si può
esprimere con molta libertà. I miei lavori sono prevalentemente
figurativi: rielaboro, partendo da quello che vedo su riviste, fumetti,
fotografie e dal vero. Utilizzo tecniche e materiali misti, con
un occhio di riguardo allo spreco. Quando creo, cerco o trovo
un’ispirazione che sia anche energia, che poi viene trasferita nel
disegno. Gestisco da qualche anno una pagina su Facebook dove ho modo
di pubblicare alcuni dei miei lavori. Infine vorrei dire
che se quando avevo vent’anni qualcuno mi avesse detto che sarei
diventato un pittore, probabilmente non gli avrei creduto.
Matteo Giorgini
I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Matteo Giorgini
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