Piergiorgio Fanti

Giovanni Boldini: “Il giornalaio”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Gabriele Beghini

Comunicazioni sotto controllo

Patrizia Degli Esposti

Parlare o comunicare

Patrizia Degli Esposti

Un dialogo perfetto

Mariangela

Comunicare è… umano

Cesare

Quattro parole

Antonio Marco Serra

Cosa disse Faina a Franz Kafka

Luigi Zen pass

Pensiero Zen sul comunicare

Paula Mencarelli

Una comunicazione speciale

Aruma Sebastian Yanez

La comunicazione

Paolo Sanzani

I Post-it

Augusto Mocella

Piccola storia della comunicazione

Edoardo

Le basi della comunicazione

Concetta

La comunicazione di bambini speciali

Vins

L’equivoco inascoltato

Patrizia Degli Esposti

Gli altri e noi

Costanza Tuor

In fondo se hai la poesia…

Matteo Bosinelli

Comunicazione e diritto

Matteo Bosinelli

Verità o menzogna?

Paola Scatola

La comunicazione

Darietto

Le dolcissime faccine

Lucia

Netiquette

Paolo Majerù

Basta un clic

Francesca

La rabbia sui social: i leoni da tastiera

Luca G.

Stanislav Petrov: l’uomo che ragionò e salvò il mondo

INSERTO: LA COMUNICAZIONE
      Luigi Valgimigli     Un’etica della comunicazione anche per lettori-navigatori-telespettatori
      Mariana Elena Parera     Con o senza parole

Lorenzo Fragola & Arisa

L’esercito del selfie

Joe

SDEG

Matteo Bosinelli

Incontro in ospedale

Matteo Bosinelli

Il sole anche di notte

DEDICATO AD ARIANNA LO SPAZIO DELLA POESIA

 

      Annarita Baratti     La luna
      Marcella Colaci     Come un diluvio
      Francesco Valgimigli     Il mio silenzio
      Francesco Valgimigli     Parole
      Francesco Valgimigli     Di te e di me
      Mariangela     Borgo antico
      Matteo Bosinelli     Lo psicologo e le fragole
      Marcella Colaci     Io non mi salverò
      Matteo Bosinelli     La pace
      Elena Baragatti     C’è solo l’infinito
      Guerrino Cavallari     L’alba
      Guerrino Cavallari     Il pioppo
      Guerrino Cavallari     L’addio al podere
      Elena Baragatti     Ti ho trovato!
      Andrea Demaria     Se fossimo due pietre
      Guerrino Cavallari     Spiaggia solitaria
      Maurizio Leggeri     Alla Madre Africa
      Guerrino Cavallari     La vecchiaia
      Elena Baragatti     Di notte
      François Dostuni     Ritrovarsi
      Elena Baragatti     Ali
      François Dostuni     La primavera
      Francesco Valgimigli     Dannazione
      Elettra Piatesi     C’è una stella
      Giacomo Corticelli     Un mondo stupendo
      Matteo Bosinelli     L’attesa
      Francesco Valgimigli     Con le parole
      Maurizio     Alberi nudi
LE RECENSIONI
      Cristicchi     Pragmatica della comunicazione umana
      Luca G.     Ti odio, ti lascio, ti…

Nessuno Resti Indietro

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DAI GRUPPI DI SCRITTURA
      Liberi intrecci espressivi     Un mezzo
      RTP Casa Mantovani     Comunicare è importante
      C.D. di Casalecchio     La comunicazione
      Gruppo La Vela     Dal diario di bordo
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                 Raffaele Di Siena          La comunicazione non verbale

Matteo Bosinelli

Il sacrificio del secolo

Fabrizio Sinibaldi

Lo Stato Italiano si avvale del contributo economico
dei suoi cittadini più deboli

Darietto

Dazzenger

IL TIMONE
      Giulia Berra     Ancora buono
      Ebo Del Bianco     Imaginary Voyage
I RACCONTI
      Opola Resonive     Silenzio muto
      Maria Chiara Reitani     Sciogliersi
      Vincenzo Capozza     A nonna Elena

Riccardo La Rocca

La vignetta

***

La posta

Matteo Giorgini

Dipinti

                                                                                                                                                     
GIOVANNI BOLDINI:
“Il giornalaio”

   Piergiorgio Fanti


N ato a Ferrara il 31 dicembre 1842, riceve i primi insegnamenti dal padre pittore; poi, su suggerimento dello stesso, si iscrive all’Accademia di Firenze. Ma più che la scuola, lo interessa stringere amicizia con i pittori ‘macchiaioli’ che gravitano attorno al Caffè Michelangelo, e si dedica per qualche tempo alla tecnica di‘macchia’. Dopo essersi recato a Londra, ove ottiene notevole successo, nel 1871 si trasferisce a Parigi e qui rimarrà tutta la vita, divenendo il ritrattista prediletto del bel mondo. Col suo istintivo talento e la sua sottile ironia il pittore ci svela così l’intima decadenza di quella società cosmopolita e raffinata. Muore a Parigi il 12 gennaio 1931.
Il dipinto intitolato Il giornalaio può essere diviso in due parti: la superiore ritrae un uomo che sembra la maschera della fatica, della vita moderna che stravolge e logora; quella inferiore rappresenta un numero notevole di giornali, che quasi compongono un’opera cubista o, forse meglio, futurista. Il tutto è ritmico, convulso come la vita nella Ville Lumière, la grande Parigi.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


A nche i sassi parlano. Per mezzo dei nostri sensi ci dicono tante cose. Attraverso la vista ci dicono di che colore sono; attraverso il tatto quanto sono compatti; attraverso i termocettori la loro temperatura, attraverso le papille gustative il loro sapore; attraverso le narici il loro odore; se li urtiamo fanno un dato rumore e se ci cascano addosso ci fanno male. Attraverso la tecnologia poi possiamo scoprirne il contenuto, l'età, le origini, il perché della forma e tante altre cose. A mio modo di vedere, si comunica sempre, anche quando si crede di non farlo, perché anche un uomo solo interagisce sull'ambiente che lo circonda. Un uomo, poi, può anche comunicare con sé stesso (come caso estremo, vedi gli uditori di voci, ma anch’io spesso mi faccio certi discorsi tra me e me). Secondo Wikipedia per ‘comunicazione’ (dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e dal latino communico = mettere in comune) si intende il processo di trasmissione di un'informazione, attraverso lo scambio di un messaggio elaborato secondo le regole di un codice. Ma perché comunichiamo? Quando ci relazioniamo con un altro soggetto è perché abbiamo un bisogno da soddisfare. Il bambino che non ha ancora appreso il linguaggio piange quando ha fame. Nell'adulto il tutto è molto più complicato, perché è mediato da un linguaggio verbale e da uno non verbale, per cui il messaggio ha un contenuto che va ‘interpretato’ dal ricevente. Può capitare che mentre diciamo una cosa il nostro inconscio attraverso il corpo ne dica un'altra. Esistono persone che per talento sono grandi comunicatori e altri che lo sono meno. Vi sono poi persone che sentono un forte bisogno di comunicare e persistono anche quando nessuno le ascolta. Ricordo mio padre che a tavola parlava molto, era un po’ logorroico e quando si accorgeva che nessuno lo ascoltava più, per reazione aumentava il tono della voce. Vi sono persone che preferiscono non comunicare e comunicano, attraverso il corpo, che non vogliono comunicare. La comunicazione cambia in funzione dal contesto: in chiesa si parla a bassa voce, con corporeità dimessa e abiti sobri; mentre in discoteca si urla, abiti aderenti e movimenti in libertà. Una cosa curiosa è che anche il linguaggio corporeo viene interpretato in modo soggettivo: il cane quando è contento scodinzola, mentre quando è arrabbiato solleva e raddrizza la coda, per il gatto succede il contrario: forse per questo cani e gatti si azzuffano senza apparente motivo. Da questo si evince che, poiché il messaggio deve essere decodificato, occorre, per capirsi, trovare un linguaggio comune: ad esempio un siciliano e un trentino difficilmente riusciranno a comprendersi se parlano entrambi solo il proprio dialetto stretto. Il messaggio cambia in funzione del rapporto esistente fra emittente e ricevente: per esempio durante una lezione scolastica il messaggio è più unidirezionale (dal docente verso gli allievi) e sarà tra una persona più autorevole a una di livello comunicativo in posizione di inferiorità. E quando si litiga? Spesso si cerca di rendere effettivo un proprio bisogno, un diritto o una volontà e succede che i toni si alzano in modo crescente, con fare sempre più minaccioso fino a che… non ci si mette d'accordo o si finisce a botte. Un po’ come sta succedendo tra i presidenti di Stati Uniti e Nord Corea... speriamo nella diplomazia! Comunicare è bello, ci si conosce, e conoscere è vita, siamo vivi anche quando siamo soli, l'importante è scoprire, essere curiosi e apprendere. La forma più bella e piacevole di espressione è il sesso, la più completa e appagante è l'amore cristiano, per gli altri e di sé. Per questo leggete e scrivete al Faro: comunicherete e scoprirete parti o aspetti della vita vostra e degli altri. Comunicare fa stare bene.

COMUNICAZIONI SOTTO CONTROLLO

   Gabriele Beghini

L e api rientrano all’alveare e con una sorta di danza indicano alle compagne dove trovare il nettare. Le formiche si incontrano, si avvicinano e sfiorandosi le antenne si riconoscono e comunicano. Gli uccelli cantano, mostrano colori appariscenti e compiono evoluzioni per segnalare la propria presenza o per mostrarsi disponibili all’accoppiamento. Sono solo alcuni dei tanti possibili esempi di come gli esseri viventi attraverso il processo evolutivo hanno adottato soluzioni per comunicare con i propri simili. Colori, odori, suoni, segnali… tutti, nei limiti delle proprie caratteristiche, hanno trovato differenti soluzioni, alcune molto geniali. I più evoluti utilizzano un vero e proprio linguaggio: i cetacei inviano suoni udibili in lontananza, ogni tonalità ha un preciso significato. Così come le scimmie che sono in grado di segnalarsi il pericolo, salutarsi, gioire, sgridarsi. Rispetto agli altri esseri viventi, grazie ad una voce modulabile capace di emettere un’ampia varietà di suoni, noi umani possediamo grandi vantaggi: componiamo parole dal differente significato che rappresentano le basi per una comunicazione molto articolata. Così, con il fondamentale contributo dell’intelligenza, sono nati i linguaggi, i dialetti e anche soluzioni tecnologiche sempre più perfezionate che consentono comunicazioni nello spazio e nel tempo. Il messaggio elaborato dal soggetto emittente si compone, transita e giunge a destinazione. Il soggetto ricevente lo recepisce, lo interpreta e lo comprende. È questo il tipico ciclo della comunicazione, perlomeno dal punto di vista teorico.
Ma sul piano pratico il processo è sovente perturbato, tanto che il ricevente può non recepire integralmente, mal interpretare e soprattutto travisare la comprensione. Voglio dire che le comunicazioni avvengono non senza malintesi. Innanzitutto il messaggio potrebbe non essere sincero, in questo caso siamo in presenza di una dissonanza voluta fra le parole e la realtà. Ma si dà il caso che nella comunicazione gli umani si avvalgano anche di altri strumenti: lo sguardo, la gestualità, il tono della voce, il modo di atteggiarsi. E sono proprio questi che aiutano a smascherare il mendace. È facile mentire a parole, lo è molto meno governare gestualità e sguardo. Chi mente difficilmente guarda fisso negli occhi il proprio interlocutore e mostra segni di nervosismo. Tempo fa un esperto di gestualità analizzò la registrazione video del discorso di un noto politico il quale faceva pubbliche dichiarazioni a fronte di un risultato elettorale deludente. A parole si diceva comunque soddisfatto argomentandone le ragioni in modo molto abile e anche convincente, ma da una visione attenta e rallentata del video si evidenziava chiaramente che tradiva espressioni che smascheravano il disappunto che goffamente stava cercando di nascondere a parole. Nemmeno laddove il relatore sia sincero il seppur ricco linguaggio umano garantisce la piena comprensione. Un uso improprio del linguaggio e l’omissione di qualche dettaglio sono frequentemente causa di malintesi. Anche chi ascolta filtra attraverso una propria impostazione mentale frutto della propria cultura, della propria ideologia e delle proprie esperienze. Tanto che nei casi più estremi potrebbe addirittura non cogliere qualcosa che per altri è palese, evidente. È per queste ragioni che comunicare correttamente non è facile. Personalmente ebbi l’occasione per un breve periodo di occuparmi di manualistica e in quell'occasione mi resi pienamente conto del problema. Un manuale deve essere chiaro, esplicito, deve offrire al lettore le informazioni giuste al momento opportuno e soprattutto non lasciare spazio ad errate interpretazioni. Un collega esperto che ricorderò sempre con piacere mi aiutò tantissimo. Una sua frase mi è rimasta scolpita: “Quando scrivi un manuale mettiti nei panni di chi lo leggerà”. Apparentemente è ovvio, forse si dà per scontato, ma poi così scontato non è quando si tratta di metterlo in pratica. Significa far sì che il lettore abbia tutti gli elementi per capire e non offrire alcun appiglio al rischio di fraintendimenti. Soprattutto è quando si affrontano temi giuridici che si impara a dare un giusto peso alle parole. Nel diritto e nella giurisprudenza le parole sono come i numeri nella matematica, non esistono sinonimi. Sostituire un termine cambia il risultato finale. Ad esempio: “possiedo una bicicletta” e “sono proprietario di una bicicletta” sono due affermazioni che nel linguaggio comune potrebbero voler dire la stessa cosa, ma che dal punto di vista giuridico hanno un significato differente. La bicicletta infatti potrei possederla senza esserne il legittimo proprietario, perché mi è stata prestata, per esempio. Talvolta la comunicazione giunge travisata per effetti distorsivi dovuti a vari passaggi fra le persone. È il caso delle organizzazioni complesse e gerarchiche. Militari, aziende o altre strutture umane risentono in modo particolare di questo problema. Ma anche nella vita di tutti i giorni, fra vicini di casa, conoscenti, passanti, un messaggio può scemare, amplificarsi o travisarsi transitando di bocca in bocca. Nella società umana la comunicazione è talmente importante che sul tema esistono veri propri corsi universitari, oltre a seminari di vario livello e tantissimi libri.
Quando fui incaricato di fare da tutor nei corsi per neoassunti, lessi per l'occasione una pubblicazione molto bella scritta da un esperto di comunicazione. Interessante come suggeriva l'uso del tono della voce, della gestualità, lo sguardo verso tutti i presenti e altre tecniche. È chiaro che un insegnante, anche se improvvisato, deve mostrarsi in un certo modo per conquistare l'interesse per la materia. Tutto ciò indipendentemente dai contenuti. È risaputo che al frequentante, al termine di un corso, resta solo una parte delle nozioni trattate. È fisiologico che una parte si perda comunque, ma la percentuale di ciò che resta è in funzione dell’interesse, quindi del coinvolgimento. Chiaro che se l’insegnante si propone come un buon comunicatore il risultato finale del corso può essere molto più proficuo che nel caso contrario. È vero che alcuni possiedono doti innate di grandi comunicatori, altri lo diventano, altri non ce la possono proprio fare. Nel passato i grandi leader erano principalmente talenti innati, comunicavano in modo efficace e credibile senza sforzo. Ora la comunicazione si può studiare. I politici e i manager si creano per così dire ‘in laboratorio’. Cioè si insegna l'uso delle pause, il giusto tono della voce, la gestualità e l’uso di frasi opportune. I cosiddetti ‘truismi’ rappresentano affermazioni sempre verificate, una sorta di tautologie, che creano le condizioni per conquistare il pubblico che ascolta. Un po’ alla volta fanno cadere le nostre barriere difensive inconsce. L’attenta analisi dei discorsi dei politici ‘comunicatori’ mette in luce come l'intercalare di truismi, pause e frasi di impatto apre la strada a messaggi forti dal chiaro effetto ipnotico. In questi termini lo studio della comunicazione efficace non si ferma a garantire la comprensione, ma punta ad assumere il controllo sul pubblico che ascolta. Perfino la pubblicità si avvale di tecniche simili. Ad esempio, qualcuno avrà forse notato che alcuni spot pubblicitari stranamente si ripetono a distanza di pochissimo tempo? Non è un errore, è una tecnica. Si basa sulla conoscenza del funzionamento del cervello umano il quale apprende meglio quando un messaggio si ripete frequentemente in un breve lasso di tempo. Una sola volta difficilmente si registra, se ripetuto probabilmente sì. Una chiacchierata sul tema della comunicazione non può esimersi dal menzionare gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione. In poco più di tre decenni siamo passati dalle lettere scritte su carta ai telex, ai fax, alla comunicazione via computer e alla telefonia cellulare fino a formare una grande rete globale interconnessa. Il tutto con un utilizzo sempre più ricco di multimedialità, cioè di immagini, audio e filmati di qualità. Ciò ha rappresentato un grande progresso nella comunicazione offrendo molte possibilità in più. Per contro stiamo perdendo riservatezza. I gestori di mail, dei social network e dei motori di ricerca (strumenti dai quali non possiamo più esimerci) dichiarano apertamente che utilizzano i cookies, che raccolgono informazioni e che le comunicano a società per fini statistici e commerciali. Se non ci va bene dicono che possiamo recedere! Cioè non utilizzare lo strumento? Se invece vogliamo continuare a comunicare dobbiamo accettare di essere ‘monitorati’! Mai capitato di cercare su internet informazioni su un prodotto, ad esempio un elettrodomestico attraverso un comune motore di ricerca? Se successivamente si apre un social network magicamente appaiono banner pubblicitari sull’elettrodomestico che avevamo cercato, è una coincidenza? È semplicemente la prova che il sistema economico e il mondo della comunicazione stanno diventando sempre più integrati. E ci sono forti interessi in gioco. Strumenti e tecniche di comunicazione offrono al potere economico e politico la possibilità di gestire e governare le informazioni in modo sempre più efficace. Cliccare un ‘mi piace’ su un social network non è esente da conseguenze. Se comunico agli amici che ‘mi piace’ il motocross il mio nome finirà in una lista e nei giorni successivi mi appariranno banner pubblicitari inerenti il motocross. Il ‘mi piace’ è una comunicazione che permette agli operatori di marketing di elaborare liste di potenziali acquirenti di prodotti o ai politici liste di simpatizzanti. Evidentemente la comunicazione diviene sempre meno riservata e sempre più gestita. Ai gestori dell’informazione offre opportunità di raccogliere grandi quantità di dati che rappresentano un tesoro da rivendere al sistema economico e politico. Personalmente ritengo ci siano motivi di preoccupazione. In un mondo in cui ci sono alcuni abili comunicatori che possiedono pericolosi strumenti di indottrinamento, le informazioni, che sono sempre più facili da raccogliere e tendono a concentrarsi in mano a pochi potenti, possono essere a loro volta strumentalizzate per orientare l’opinione delle masse? Ciò non può forse rappresentare una situazione pericolosa per l'integrità della società e per la democrazia? Siamo in presenza di rischi? È possibile che la comunicazione subisca manipolazioni e che il libero pensiero venga sapientemente veicolato? Probabilmente i rischi saranno minori se si mantiene una pluralità di operatori nel settore comunicazione, se nel mondo dell’information technology continueranno a coesistere più sistemi operativi, più motori di ricerca, più social network. Se al contrario, in mancanza di adeguate tutele, proseguirà per questa via il fisiologico meccanismo di concentrazione, ci troveremo in una sorta di democrazia spuria in cui si potrà continuare a comunicare liberamente ma sotto la mano invisibile di un ‘grande fratello’ globale che controlla, decide e manipola.

PARLARE O COMUNICARE

   Patrizia Degli Esposti


L e parole servono a comunicare. Tutti nasciamo con l’istinto della comunicazione: da neonati comunichiamo con il pianto o con il sorriso. Crescendo impariamo a parlare, ma… a volte siamo costretti a cercare ‘parole per spiegare le parole’. Viviamo in un’epoca in cui le forme di comunicazione sono tante. Internet, il cellulare, il computer ci permettono di comunicare in qualsiasi momento della giornata e con chiunque. Possiamo comunicare da terra ad una sonda spaziale e viceversa.
Meraviglioso, strabiliante. Eppure spesso non riusciamo a comprenderci veramente. Interpretiamo le parole dando loro un valore che spesso parte dal nostro modo di sentire o vedere, dalla nostra cultura o esperienza. Per una corretta e giusta comunicazione penso sia necessario e fondamentale ascoltare chi si mette in relazione con noi, svuotando la nostra mente da ciò che vorremmo dire o vorremmo sentirci dire. Oppure osservare attentamente il linguaggio del corpo. Un sorriso, un abbraccio sono forme di comunicazione universali. Quando ci troviamo in un paese straniero e non conosciamo la lingua usiamo i gesti per comunicare. Una meravigliosa e profonda forma di comunicazione è l’arte.
Un bambino o un anziano che piange esprime un disagio che spesso non sa spiegare. Sta a chi gli è vicino comprendere e trovare il modo per entrare in contatto e in comunicazione, perché la vera comunicazione è riuscire ad entrare in empatia con il prossimo. A volte le parole non sono necessarie per comprendere l’altro. Se vogliamo veramente costruire un contatto evitiamo giudizi ed etichette. Semplice come metodo, ma difficile da realizzare.
Siamo abituati a dividere in buono o cattivo, bello o brutto, sporco o pulito, a farci condizionare dall’aspetto esteriore. Possiamo farci ingannare da una intonazione o modulazione della voce e ritenere pertanto buona una frase solo perché l’enfasi con cui viene detta ci affascina o perché la persona che parla veste in un determinato modo. Perché anche l’abbigliamento è una forma di comunicazione. Il modo in cui vesto ‘parla’ di me e prima ancora che io parli ho ‘comunicato’ se sono una persona affidabile. Un tono di voce modulato infonde fiducia ed affidabilità toccando la nostra parte emotiva. Non c’è dubbio, per comunicare comunichiamo, ma siamo sicuri di essere compresi? Quanto sono stata chiara in questo scritto? Sarei curiosa di avere un feedback che mi permettesse di entrare in contatto con chi ha avuto la pazienza di leggermi. Così, per allenarci a comunicare.

UN DIALOGO PERFETTO

   Patrizia Degli Esposti


Bla bla bla
Cosa dici?

Blu blu blu
Ho capito bene?

Ra ra ra
Ripeti per favore?

Grr grr grr
Tutto mi è chiaro ora

Mumble mumble…
Vieni ti offro un caffè

COMUNICARE È… UMANO

   Mariangela


D al 1950 numerosi sono stati gli studiosi che, mediante una collaborazione che ha coinvolto campi differenti quali la ginecologia, la psichiatria e la psicologia, hanno cominciato a far luce sui processi di interazione madre-bambino in fase prenatale. Le ricerche hanno dimostrato che tutto ciò che la madre vive, viene percepito anche dal feto dopo poco, dalle prime fasi di sviluppo! Il primo ambiente che il nascituro impara a conoscere è l'utero materno, attraverso questo organo entra in contatto mediante i suoi organi di senso con gli stati emotivi e psicologici della madre. Durante la gestazione sente, apprende e memorizza ciò che viene filtrato dall'esterno ma anche dall'interno del corpo della mamma, i rumori e le voci. Il suono del battito cardiaco e la voce materna, costituiscono le basi su cui si fonda il legame madre - bambino. Si presume che la voce della madre avendo una risonanza interna venga percepita meglio e possa operare a livello della memoria del feto e favorire la successiva comprensione e il successivo apprendimento del linguaggio verbale con cui comunicherà dopo la nascita. Donald Winnicott, pediatra e psicanalista inglese, fu il primo a rilevare che fra il feto e la madre si instaura una vera forma di comunicazione e che questa è determinante per lo sviluppo psichico del bambino.
Esistono metodi che permettono alla futura mamma di mettersi in contatto col bebè e trasmettergli messaggi positivi: usando carezze e respiri si accorgerà che il piccolo risponde. Si farà sentire con calcetti, piccoli pugni, movimenti delle braccia e singhiozzo, come per dire di continuare a cullarlo e coccolarlo! Da quel momento in poi i movimenti del nascituro parleranno quotidianamente alla madre fino a quando per mezzo delle doglie, il suo corpo le comunicherà che sta avvenendo il lieto evento. I movimenti del bambino in pancia sono importantissimi, consentono di dare a questa sensazione un'interpretazione attendibile e una testimonianza costante sul benessere del piccolo! Alla luce di questi fatti si può asserire che la prima forma di comunicazione nasce nel grembo materno.
Personalmente considero la parola il migliore ed il più importante mezzo di comunicazione che la natura offre gratuitamente al genere umano. Tuttavia ci sono altri importanti mezzi che ci consentono di comunicare con i nostri simili, uno di questi è la scrittura, una delle più grandi conquiste che l'umanità ha fatto nell'ambito dei sistemi di comunicazione. Secondo un recente studio canadese l'uomo potrebbe avere imparato a scrivere molti anni prima di quanto si pensi. Studiose dell'università di Victoria (British Columbia, Canada) hanno analizzato gli affreschi presenti in 146 caverne francesi: sulle mura di queste grotte, a fianco ai dipinti raffiguranti animali e raramente uomini, si trovano anche segni di vario tipo. Si tratta di linee, punti, cerchi, triangoli, ma anche segni più complessi come spirali e impronte di mani. Ventisei di questi segni si ripetono in quasi tutti i siti archeologici. Questo potrebbe far credere che non si tratti di segni casuali, ma di un linguaggio, una rappresentazione non del parlato ma dell'oggetto, per condividere informazioni, un primo passo verso la scrittura.
Se questa ipotesi fosse confermata il periodo in cui l'uomo ha cominciato a scrivere potrebbe risalire a circa 80.000 anni fa. Se non ne sono rinvenute tracce è perché probabilmente per scrivere si usavano materiali deperibili come legno o pelle. Una prima codifica di questi segni invece è databile intorno al quarto millennio a.C. presso il popolo dei Sumeri nella bassa Mesopotamia. I segni venivano già allora utilizzati per facilitare gli scambi commerciali. Ma l'evoluzione decisiva verso le attuali forme di rappresentazione grafica si compie nel XII e XI secolo a.C. nell'area mediterranea delle città stato fenicie, dove si sviluppano i primi sistemi di scrittura alfabetica, cioè in cui ogni singolo suono del parlato viene rappresentato da un singolo segno. Nel corso dei secoli questo metodo si è esteso a partire da circa 5500 anni fa nel corso di tre millenni in Medio Oriente, Egitto, Cina e America precolombiana, utilizzato manualmente su pergamena, papiro e carta. Una svolta importante nella comunicazione si ha con Johannes Gutemberg, l'inventore della stampa a caratteri mobili. In Europa il primo ad utilizzarli è lo stesso inventore. I caratteri mobili in metallo venivano posti su un vassoio a formare la pagina di un manoscritto, una volta terminata la stampa delle copie necessarie si passa alla pagina successiva: un modo più veloce e conveniente per stampare ogni tipo di testo, che permette alla conoscenza nelle sue molteplici forme di diffondersi in tutto il globo. La diffusione della stampa a caratteri mobili favorì anche la nascita dei primi giornali. La pubblicazione del primo quotidiano avviene nel 1660 a Lipsia. La grande crescita economica degli USA che in poco tempo conosce un aumento della produzione di beni e servizi, favorisce la meccanizzazione della stampa. Nel 1844, Richard Hoe inventa la prima rotativa, capace di stampare 8000 copie all'ora, installata nel 1846 all'interno della redazione del Philadelphia Public Ledger, quotidiano dell'omonima città. Questa invenzione favorì la diffusione dei quotidiani in tutto il mondo. Oltre alla notizia su carta stampata, l'informazione si è diffusa nel mondo a partire dal XX secolo tramite le nuove forme di comunicazione: radio, TV, internet, innovazioni entrate in tutte le abitazioni. Nel mondo moderno anche persone con disabilità sensoriali hanno la possibilità di trasmettere e ricevere informazioni. Per i sordomuti il linguaggio dei segni, la scrittura ed i moderni mezzi di comunicazione visivi basati sulla scrittura (cellulare, smartphone e computer sostituiscono efficacemente il linguaggio verbale), mentre per i non vedenti si sono resi di grande utilità l'alfabeto Braille e i moderni mezzi di comunicazione dotati di impianto acustico (telefono, registratore, smartphone, microfono radio e PC sonorizzati). Anche il mondo animale ha offerto all'uomo la possibilità di comunicare: i piccioni viaggiatori sono stati a lungo il più veloce mezzo di comunicazione disponibile. Il loro utilizzo risale agli antichi Egizi e ai Persiani di 3000 anni fa e rimase efficiente fino all'avvento del telegrafo, del telefono e della radio nel XIX secolo. In entrambe le guerre mondiali furono utilizzati migliaia di piccioni per spedire messaggi strategici scritti su carta leggera o microfilm inseriti in tubicini legati alle zampe dei volatili. Oggi grazie agli sviluppi tecnologici gli attuali mezzi di comunicazione si sono estesi in tutte le località della Terra, permettendo di entrare in relazione, non solo per fini materiali ed economici, ma soprattutto per instaurare vincoli di fratellanza e di pace fra tutti i popoli. Un traguardo difficile da raggiungere, ma il più ambito!

QUATTRO PAROLE

   Cesare



T utti noi comunichiamo: lo facciamo attraverso la parola scritta e orale, oppure mediante la postura del corpo, il tono della voce, o magari soltanto con un minaccioso basco nero orientato sulle ventitré. Spesso però questa nostra comunicazione conscia e inconscia ci è indotta da una contro-comunicazione che subiamo senza accorgercene. Coloro che veicolano questi subdoli messaggi sono i media, dietro i media c'è una classe politica dominante, che quasi sempre è corrotta in maniera manifesta da una sadica oligarchia imprenditoriale che coscientemente comunica, attraverso bisogni indotti e desideri coatti, il violento e schiavista diktat del consumismo capitalista; esso recita più o meno così: “Tu Uomo sei un servo!”. Il lettore di questo articolo si è mai domandato cosa sogna di essere nella vita? Cosa vuole realmente comunicare e quale comunicazione desidera ricevere? No? È ora di porsi subito questa domanda! Tu! Sì tu! Vuoi forse inviare e ricevere messaggi votati all'ordinarietà? Sì? Questo ti rilassa, ti fa sentire più sicuro di te e magari questa tua necessaria convenzionalità seda i dolorosi morsi di quella maledetta depressione che ti tormenta? Ti capisco. Tu sei un aristocratico! La tua pacifica indole di povero di spirito ti fa eleggere glorioso erede della nobiltà di Cristo, e alla fine dei tuoi giorni ti aspetterà meritoriamente una grande ricompensa: il Paradiso. Io non avrò mai la tua stessa fortuna. La redenzione non mi è concessa; per me le porte di quell'inferno in cui sono recluso saranno per sempre sbarrate. La gravissima e invalidante patologia psichica di cui soffro, mi costringe a comunicare odio, violenza, vendetta; vedo in ogni uomo un nemico, dietro ogni angolo un agguato: "Quello sguardo non mi convince!", "Tu, chi sei! Cosa vuoi! Perché mi segui!", "Lasciate stare il mio cane VIGLIACCHI CIALTRONI!!"... Sentendomi scosso e piangente, vorrei ricordare un bellissimo e commovente film dell'85 A 30 secondi dalla fine (Runaway Train), regia di Andrey Konchalovskiy, su un soggetto di Akira Kurosawa), in cui John Voight interpreta Manny, un personaggio che mi somiglia molto. Egli, pugnace ergastolano, scappa da un carcere di massima sicurezza e imbarcatosi clandestinamente su un treno senza guidatore, sentendo la morte vicina, inveisce nei confronti del suo compagno di fuga che si dimostrava ostile e sprezzante verso valori come l'umiltà e il rispetto per gli altri. Il giovane fuggiasco, replicando piccato, invita il vecchio collega a diventare lui un rispettoso servitore! Manny allora, eroe di mille rapine e clamorose evasioni, crolla psicologicamente e, abbassando il capo, pronuncia quattro parole che comunicano tutta la sua - e la mia - tragica, frustrante impossibilità di essere semplicemente normale: "Magari potessi... magari potessi... ".

COSA DISSE FAINA A FRANZ KAFKA

   Antonio Marco Serra

Non si può esprimere ciò che si è, proprio perché lo si è;
non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna.
Franz Kafka

N ella citazione di Kafka qui riportata, mi sembra che siano implicitamente contenuti tre assunti sui quali nutro profondi dubbi. Primo: che il linguaggio (e immagino che Kafka, scrittore eccelso, abbia in mente precipuamente il linguaggio verbale) si presti ad esprimere qualcosa, il nostro ‘mondo interiore’, qualunque cosa ciò possa significare, di molto diverso da ciò per cui il linguaggio stesso è stato elaborato. Secondo: che questo nostro ‘mondo interiore’ si sviluppi autonomamente, in maniera solipsistica, e non, come io credo, in rapporto e in funzione col mondo e soprattutto con le persone che ci circondano. Terzo: che noi abbiamo una reale conoscenza del nostro ‘mondo interiore’, e che potremmo quindi, volendolo, comunicarlo ad altri, per quello che realmente è; ‘metterci a nudo’, come a volte si dice. In realtà ci sarebbe anche un quarto punto: perché mai, anche se io potessi comunicare agli altri il mio ‘mondo interiore’, dovrei avere la bizzarra convinzione che esso debba risultare per loro così grandemente attraente? A questo riguardo mi ripeto spesso le parole di Faina Ranevskaya, una grande attrice teatrale russa del buon tempo andato, famosa anche per i suoi taglienti aforismi: “Se stai aspettando che qualcuno ti accetti come sei, sei solo un pigro bastardo. Perché, di regola, ‘il modo in cui uno è’ è un ben triste spettacolo. Cambia, bestia! Lavora su te stesso o crepa da solo”.
E ammesso anche che gli altri fossero interessati a questo nostro mitico ‘mondo interiore’, non accadrebbe che, una volta che lo avessimo spiattellato papale papale dinnanzi ad essi, privati di tutto il nostro mistero, diverremmo per loro solo una noia pazzesca?
Assunto primo : quando penso alle origini del linguaggio umano mi immagino un uomo del periodo preistorico che grida ai suoi compagni di caccia: “Orso infuriato a ore 11, darsela a gambe in direzione opposta!”, oppure che rimbrotta un suo apprendista inetto: “Babbeo, per scheggiare quel ciottolo e farne una punta di freccia, devi usare una selce, non un pezzo di calcare! Testa di tufo che non sei altro!”. Così facendo, non solo diceva la verità, contrariamente a quanto supposto da Kafka, ma contribuiva a far sopravvivere una specie, forse per altri versi non particolarmente dotata e, col tempo, a farla proliferare al punto da occupare con miliardi di individui ogni più sperduto angolo del nostro pianeta. Che poi, come ulteriore conseguenza, questa specie abbia sviluppato armamenti in grado di cancellare dalla Terra, non solo la propria specie, ma migliaia di altre, se non addirittura di rendere il nostro pianeta inadatto ad ospitare la vita, questo è un altro discorso. O forse è il medesimo discorso, ma sorvoliamo per amor di specie. L’ipotesi che il linguaggio si sia sviluppato essenzialmente con intenti pratici, ovviamente, non è dimostrabile, visto che non abbiamo testimonianze di questa fase ancestrale della comunicazione, ma l’alternativa consistente nel supporre che il linguaggio sia stato sviluppato per consentire a un uomo preistorico-Fichte di discutere con un uomo preistorico-Schelling se sia stato l’Io a porre il Non-Io o viceversa, sinceramente non pare un’alternativa molto credibile. Quello che voglio dire e che un modo di comunicare che si è sviluppato con intenti estremamente concreti e prosaici (ma chi decide cosa è poetico e cosa prosaico?) e nel far ciò ha probabilmente contribuito a modificare il funzionamento delle nostre circonvoluzioni cerebrali, non è affatto detto che si presti altrettanto bene a ‘esprimere’ i nostri ‘elevati’ sentimenti, qualunque cosa essi siano.
Assunto secondo : a cominciare dalle comunicazioni non verbali che un neonato istituisce con la propria madre e viceversa (che è noto essere essenziali nello sviluppo della personalità dell’infante) e dunque del modo in cui si percepisce in rapporto a ciò che lo circonda, la percezione del proprio sé si modella in un feed-back continuo con ciò che ci proviene dall’esterno. Per cui dubito che sia sensato parlare di un nostro ‘mondo interiore’, come una monade distinta che a un certo punto inizia a interfacciarsi e a comunicare con le monadi di coloro che ci circondano. Per tornare al nostro uomo preistorico, è possibile che la sera, quando ci si riuniva per parlare attorno al fuoco del bivacco, l’argomento delle conversazioni non fossero le esperienze personali di ogni cacciatore, ma il significato che quella particolare caccia rivestiva per la tribù. Ciò avrebbe costituito un tassello della mitologia propria di quella tribù (in un certo senso il ‘mondo interiore’ di quella tribù), che avrebbe costituito la sua particolarità, rendendola distinta dalle altre tribù che vivevano nelle vicinanze.
Assunto terzo : cosa possiamo comunicare agli altri di noi stessi? Come possiamo comunicare ciò che per noi ha realmente importanza, se non abbiamo la minima idea del perché ciò ci appaia importante? Per non lasciare tutto nel vago faccio un esempio: la figura che vedete in questa pagina è una riproduzione, purtroppo monocromatica, di un dipinto del pittore bolognese Giuseppe Maria Crespi, dipinto negli anni venti del XVIII secolo, noto come La sguattera, oggi conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Ebbene, nel contemplare non solo l’originale, ma persino delle buone riproduzioni, immancabilmente percepisco che questo dipinto mi comunica qualcosa di importante, di fondamentale. Eppure non saprei comunicare a parole questo fondamentale contenuto, e anche il solo provarci mi apparirebbe ridicolo. Cosa mi dicono di importante il quartetto d’archi La morte e la fanciulla di Schubert o la ballata Pelléas et Melisande di Fauré o, per tornare molto più indietro nel tempo, il graffito di una donna-bisonte, dipinto 30.000 anni fa nella grotta di Chauvet? Non ne ho la più pallida idea. Cosa vi è di bello o affascinante nel quadro citato? Non è che un antro desolato e squallido, e non riusciamo neanche a scorgere il viso della protagonista (sempre che il protagonista non sia il gatto… o le pentole). Potremmo forse dedurre che per me, per qualche incognito motivo, gli antri desolati rivestano un particolare fascino? Assolutamente no, questo e solo questo antro desolato mi suscita quei sentimenti, che in realtà credo non abbiano nulla a che fare con gli antri desolati. Ma è questa la potenza comunicativa delle forme artistiche, rispetto a qualunque altra forma di comunicazione: ci dicono qualcosa che noi, abituati a navigare in noi stessi attraverso riflessioni costituite da un linguaggio verbale (o almeno così a noi sembra) non sappiamo, e non possiamo, assolutamente esprimere in tale forma. Cercare di comunicare e comunicarci in tale modo, si scontra con la natura grumosa e discontinua del nostro essere: noi siamo essenzialmente costituiti da grumi di significato (La sguattera, La morte e la fanciulla, Pelléas et Melisande, la donna-bisonte, una frase dettaci per caso dalla nostra mamma, un paesaggio visto quasi di sfuggita in una sera settembrina… e via e via e via, quasi all’infinito) che di fatto, in termini di linguaggio discorsivo, non significano niente, ma in termini di ciò che realmente conta per noi, di ciò che ci costituisce, significano tutto. E questi grumi sono essenzialmente atemporali, magari la loro valenza sembra sparire in un certo periodo, ma poi ricompare anni dopo con immutato vigore. Il ragionamento razionale necessita invece, per sua natura, di una ‘freccia del tempo’, vi devono essere un ‘prima’ e un ‘dopo’, chiaramente distinguibili: da una tesi di partenza, un certo ragionamento logico ci conduce a una data conclusione. E ancora: il ragionamento logico è per sua natura ‘articolato’, ‘strutturato’, e mal si presta a descrivere ciò (i sopraccitati ‘grumi’) che è per sua natura privo di strutture e di articolazioni logiche interne. Certo, possiamo sforzarci di istituire dei collegamenti tra grumi isolati di conoscenza, ma di fatto si tratterà di collegamenti arbitrari e sterili, che nulla di concreto aggiungeranno alla reale conoscenza di noi stessi. E la contraddittorietà che, per questa strada, potremmo eventualmente scorgere tra i vari grumi di significato, in realtà deriverebbe non dai grumi stessi, ma solo dall’arbitrarietà di tali collegamenti. E forse ciò che realmente risulta disturbante per le persone ‘normali’ nel rapportarsi con noi ‘picchiatelli’, è che in noi risulta più difficile cercare di dissimulare e nascondere quella dicotomia insanabile tra ciò che siamo e ciò che ci piacerebbe raccontarci di essere, che costituisce, ahimè, non soltanto noi ‘mattarulli’, ma ogni homo sapiens che abbia calcato la Terra negli ultimi 176.522 anni, quattro mesi e dodici giorni. E cercare di risolvere questa dicotomia postulando una parte inconscia, come è stato largamente fatto nel ventesimo secolo, non aiuta affatto, almeno fintanto che si pretenderà di gestire anche questo ‘inconscio’ con i criteri della logica razionale. Per concludere là dove abbiamo cominciato, risponderò a Kafka che è impossibile che mentiamo su noi stessi, perché ciò implicherebbe che esiste una verità su ciò che noi siamo, ma tale verità, se pensata in termini di linguaggio logico-discorsivo, è del tutto assente. E dunque non abbiate timore: raccontate pure le panzane più clamorose sul vostro ‘mondo interiore’, senza tema di smentite.

PENSIERO ZEN SUL COMUNICARE

   Lu Zen pass


U n giorno, nel vedere una signora che lavorava in un mercato, le dissi che sentivo che lei mi proteggeva; subito lei mi rispose che ero io che la proteggevo.
Dopo un certo tempo, nel rivederla le dissi che noi ci proteggevamo a Vicenza e l’ho fatta ridere, ah ah, e mi ha risposto subito: vicenzevolmente a Vicenza, ah ah.

UNA COMUNICAZIONE SPECIALE

   Paula Mencarelli


C ome tutti sanno è ‘normale’ che le persone affette da disturbi psichici sentano le voci. Io con i miei disturbi avevo una comunicazione speciale con me stessa; questo spaventa soprattutto i terapeuti e alcuni dottori che ti imbottiscono di farmaci appena nomini le voci. Per fortuna non la mia psichiatra che, quando le dicevo che ci convivevo e che non mi turbavano, mi spiegava che le parole che sentivo erano quelle che inconsciamente avevo bisogno di sentirmi dire e dovevo essere in grado di gestirle senza farmi ossessionare da ‘loro’. Mi ha spiegato anche che questi echi che sentivo perdurare in sottofondo, non sempre sono cose negative e io così sono riuscita a non temerle più. A volte le aspettavo con ansia cercando da ‘loro’ una risposta alle mie domande. Chi erano ‘loro’? Poteva essere una semplice affermazione tipo: “sì”, “no”, “grazie”, “brava”… A volte se non le sentivo avevo quasi malinconia, mi mancavano! È assurdo, lo so, però penso che Caterina (la mia dottoressa) aveva ragione nel dire che probabilmente in quel periodo della mia vita ne avevo bisogno, per colmare quel vuoto che si era creato nel mio più profondo animo. E come sono arrivate, senza nessun preavviso, se ne sono andate... Non grazie ai farmaci, perché ho sempre continuato a sentirle, anche durante la terapia. Penso però che il lavoro d'equipe tra familiari, utenti, psichiatri, psicologi, infermieri, educatori, e tutte le relazioni che ho creato all'interno del Dipartimento di Salute Mentale mi abbiano aiutato a raggiungere la consapevolezza dei miei limiti e delle mie risorse. “L'abilitazione alla vita” come direbbe la dottoressa Ivonne Donegani, è un obbiettivo che dovremmo raggiungere tutti.

LA COMUNICAZIONE

   Aruma Sebastian Yanez


L a comunicazione tout court è il saper stare bene con sé stessie con gli altri.
Quello che rende difficile comunicare è il paradosso che tutti noi dobbiamo sconfiggere, nel senso che spesso comunicando usiamo parole equivoche che danno adito a fraintendimenti.
Bisogna semplicemente esprimere quello che uno ha dentro cercando di essere autentici e veri, perché spesso si parla a vanvera, considerando che comunicare è un'arte. Il punto focale di questo discorso è che bisogna dare il giusto peso alle parole, bisogna trovare le parole giuste, perché chi pensa male, parla male e vive male!


Triste

Triste è accondiscendere sempre a tutti i costi per un po' di notorietà.
Esserci sempre, pensarsi come modello di riferimento quando invece si è facilmente manipolabili... Vecchie facce, trasformisti e opportunisti di ogni età, ti raccontano di un mondo dove la presunta ‘volontà di potenza’ è ingrediente basilare per ottenere successo planetario... È probabilmente lo stile di vita, dove la ‘vita è arte e l' arte è vita’, a caratterizzare il solco nel quale l' artista vive e produce opere.



Semplicità

Un accomodante linguaggio ‘da strada’ semplificherebbe il rapporto con lo psichiatra… pane al pane / vino al vino.



Meglio

Meglio perdere i capelli che la testa.



Catarsi

Passiamo la vita nel darci un’istruzione decente, leggiamo libri per acquisire cultura, ascoltiamo professori parlare in maniera forbita, questo quando il tutto gira in maniera ‘normale’… Ma quando il disagio mentale ha il sopravvento, i termini di linguaggio si sovvertono, si sparigliano le carte, non si può chiedere al paziente di comunicare come comunica la psichiatria ma esattamente il contrario... Forse solo in quel momento quasi di catarsi si potrà comprendere la ‘follia’… che faticaccia…



Codardia

Per fortuna la codardia ci salva da suicidi e omicidi



Inciampo

Inciampo nel linguaggio del ricordo... ricostruire un passato per lo più ingannevole, fatto di momenti amplificati che quasi mai corrispondono alla realtà, ma che ci abitano come fantasmi...



La solita musica

Il discorso deve filare, diritto come un fuso (logico/ razionale) in cinquanta minuti di colloquio devi dare il meglio di te, sviscerare le cose più intime, a volte imbarazzanti e raccontarle al medico... Una confessione laica, dove non c'è assoluzione né condanna, ma il risuonare delle parole nelle tue orecchie... questo ‘risuonare’, altro non è che il grado di ‘follia’ che permette di stabilire quanto sei ‘fuori di testa’ in modo consapevole o inconsapevole... Il segreto è farsi buone domande e non darsi pessime risposte…



Guarire

La domanda che mi sorge spontanea è: eclissare il proprio passato da utente psichiatrico, con il rischio che complicanze future facciano riaffiorare mali passati, giova veramente alla persona dimessa e ‘guarita’???... Il termine ‘guarigione’ in psichiatria è ambiguo, raggiunti certi traguardi, ti viene detto dallo psichiatra che sei guarito, ma se chiedi al servizio (C.S.M.) di dimetterti da paziente, sorgono i problemi... Probabilmente pochi si assumono questo onere... (evviva i pochi).



Lo specchio

Ciò che ci restituisce lo specchio del mondo in cui riflettiamo la nostra immagine, spesso non è all’altezza delle nostre aspettative...



L’altalena

L’altalena sociologia / psichiatria, con al centro la qualità del tempo da dedicare all’utenza, mi rimanda a una costante. Psichiatria: il problema è tuo (patologia), quindi le relazioni con il mondo sono precluse... Il conflitto parte da te... (dentro / fuori). Sociologia: il problema può essere in parte nel mondo e quindi il conflitto mediato... (fuori / dentro).



Lucciole e lanterne

Mi chiedo in modo retorico se la felicità, intesa come benessere, passi anche attraverso l'adeguamento dell' individuo alla funzionalità al sistema o al contro sistema...



Il mediatore

Curiosa cosa, quella di sostituire la parte sindacale nelle dispute e rivendicazioni aziendali da parte dei lavoratori, con la figura dell'educatore come mediatore. Questo lascia presupporre che, se anche assunto con regolare contratto di lavoro, in realtà sei considerato in tirocinio formativo... Il che spiega la retribuzione così bassa (compresi i contributi). Chi lavora nelle cooperative di tipo B, regge già il gioco nella vincita degli appalti pubblici, ma non basta, la persona svantaggiata è chiamata a pagare uno scotto ancora più alto e cioè quello di condividere solo gli oneri e mai gli onori della cooperativa.



Fate silenzio

Piccolissime zanzarette volano alla impazzata in cerca di nutrimento, sangue, linfa vitale... la tecnica è farle riempire di sangue e poi schiacciarle al muro bianco o tra le mani...

Piccola STORIA DELLA COMUNICAZIONE

   Augusto Mocella


Forse milioni di anni fa l’uomo, quando ha iniziato a differenziarsi dagli oranghi e si muoveva in gruppi familiari, comunicava a versi e gesti che a noi potrebbero quasi sembrare animaleschi. Nei milioni di anni successivi, dopo essere passato da nomade a stanziale ed aver lavorato le selci scheggiate, è riuscito a elaborare un quasi linguaggio tribale. Questa lentissima elaborazione ha portato le prime civiltà ad elaborare le prime forme di scrittura: abbiamo nell’antico Egitto i geroglifici, quasi delle rappresentazioni pittoriche, e con i Sumeri in Mesopotamia i caratteri cuneiformi. Queste erano comunicazioni per pochi addetti: la maggior parte della popolazione per la trasmissione del pensiero e della vita sociale si rapportava oralmente, e ciò avverrà ancora per migliaia di anni.
Anche l’invenzione dell’alfabeto, nata - chi dice nelle miniere ebraiche, chi sulle navi dei libanesi Fenici - per indicare più celermente le merci, sarebbe stata appannaggio di ristrette fasce di popolazione. Dobbiamo arrivare all’invenzione della carta e della stampa per avere una maggiore diffusione della parola scritta. I materiali usati prima, la pietra, le tavolette di creta dei popoli mesopotamici o quelle incerate dei Romani, i fogli di papiro degli Egizi o le costose pergamene ricavate da pelli di pecora, non ne agevolavano certo la diffusione.
Ancora per tutto il Medio Evo, si usavano lunghi fogli avvolti intorno a un’asticella (da cui il nome ‘volume’) e finalmente comparvero i ‘codici’, antesignani dei nostri libri, fatti di pagine legate insieme e scritte pazientemente a mano... Il valore dei libri scritti era tale che ancora ai tempi del Petrarca tre volumi della sua biblioteca erano il valore di una casa. Si arriva così al periodo della Riforma protestante quando le tesi di Lutero vengono stampate in tante copie. La traduzione della Bibbia in tedesco volgare è il primo libro stampato a caratteri mobili in Europa. Da allora fino ai nostri giorni è dilagata la diffusione della parola scritta, che ora viaggia anche in internet. È bello leggere: libri, giornali, riviste in cartaceo e online, come il nostro Faro.

LE BASI DELLA COMUNICAZIONE

   Edoardo


Per parlare della ‘Comunicazione’, ho la possibilità di partire dalle basi di essa, vederne le prime manifestazioni: le comunicazioni di una neonata. Come comunica? Praticamente solo col pianto. E può essere perché: 1) ha sonno 2) ha fame 3) ha bisogno di coccole... o quant'altro. Ride anche, ma di riflesso: perché le faccio "Cucù" o dei complimenti.
Insomma, sempre la comunicazione è difficile! Solo una mamma, in tal caso, può, a volte dopo vari tentativi e notti insonni, soddisfarla. Occorre appunto molto ascolto, molta pazienza, molta disponibilità. Anche se abbiamo tantissimi mezzi per comunicare. Tantissimi saluti a tutti

LA COMUNICAZIONE DI BAMBINI SPECIALI

   Concetta


e Salomone possedeva un anello magico, grazie al quale poteva parlare con gli animali. La leggenda narra che il Demone Sabr, glielo rubò e lo gettò in mare, dove un pesce lo inghiottì. Da quel giorno la comunicazione tra umani e animali si interruppe...". Questo incipit, grazie a Dio, è e resta una leggenda, perché per nostra fortuna la comunicazione tra gli esseri umani e animali, e addirittura quella delle piante tra di loro, è una realtà che non si può confutare. I bambini timidi e introversi, che fanno fatica a confidarsi, raccontano e sussurrano lunghi monologhi all'orecchio degli amici a quattro zampe, così come fanno quelli che si inventano l'amico immaginario. Questo, di solito, si verifica quando una relazione interpersonale prende luogo nell'immaginazione. A questo proposito, voglio raccontare la mia esperienza di bambina poco loquace, diffidente e schiva, ma al tempo stesso con una voglia matta di comunicare, per condividere le proprie esperienze, vissuti, preoccupazioni e gioie. All'età di circa quattro anni e mezzo, per i motivi sopra esposti, ogni giorno di ritorno dall'asilo, solitamente verso le 16.30, mi impossessavo del bagno, dove con la scusa di lavarmi, mi ritrovavo a tu per tu col mio ‘amico’ Saverio e davo la stura al racconto dei fatti salienti della mattinata che, solitamente, riguardavano le angherie e i dispetti subiti da Giulio, il compagno d'asilo in assoluto più prepotente e dispettoso della classe. Questo, da bulletto qual era, aveva individuato alcune vittime e tra queste, naturalmente, c'era anche la sottoscritta. Quello che soddisfaceva e piaceva da matti a Giulio era tirare i capelli, disfare le codine e le treccine e sciogliere i fiocchi del grembiule a determinati bambini che, disperati, correvano dalla maestra per avere giustizia ma, chissà perché, puntualmente queste punizioni non sortivano grossi risultati. Saverio sembrava un puttino dai riccioli ramati e grandi occhi azzurro pervinca, era dolcissimo ma soprattutto paziente, se si tiene conto dei ‘sacchi’ di lamentele, offese, parolacce e improperi con i quali condivo i racconti relativi agli accadimenti dell’asilo. Un giorno… la scampai alla grande! Successe che durante un mio sfogo animato con Saverio mia sorella si trovasse nel corridoio antistante al bagno. Bussò alla porta, per capire cosa stesse succedendo, le risposi prontamente che ero alla finestra per salutare una mia amichetta, che con la mamma, stava passando di lì. Gli incontri con Saverio erano quotidiani e mediamente della durata di una mezz’ora. Gli sfoghi e la rabbia oltre che nei confronti di Giulio erano diretti anche alla maestra, incapace di farlo desistere dai suoi comportamenti, e anche ai suoi genitori, che traducevano il tutto dicendo: “Nostro figlio non è cattivo, è un bambino un po’ vivace che fa delle birichinate, ma non vuole male a nessuno”. Era il periodo di carnevale, eravamo tutti intorno al tavolone per gli ultimi preparativi degli addobbi, Giulio di punto in bianco, con la velocità di un furetto, si appese come una bertuccia al poggiaspalle della mia sediolina, facendomi ‘scaravoltare’ a terra. Impaurito, per rimediare mi fece rialzare al più presto, mi prese per i polsi, provocando anche la rottura del braccialettino d'oro che avevo indossato di nascosto da mia madre. Ritengo si possa immaginare la mia disperazione per l'accaduto. La maestra Maria, oltre ai genitori di Giulio, convocò anche mia madre, che oltre a darmi il resto, urlò voltandosi verso i genitori della piccola peste: “È mai possibile che un moccioso come questo riesca a mettere in scacco tutti?”. Poi aggiunse, con fare minaccioso, col dito puntato verso Giulio, che se avesse continuato ad avere questi comportamenti se la sarebbe dovuta vedere con lei. Da quel momento ci fu un cambiamento radicale della situazione: Giulio smise di infastidirci e quasi contemporaneamente… Paff!!! Saverio come per incanto si dissolse…

L’EQUIVOCO INASCOLTATO

   Vins


I nsegnanti incensati, in incessante peregrinazione tra un dipartimento accademico e un prosecco Rotary, ci hanno spiegato, non senza dovizia di particolari, che la comunicazione in uno schema didatticamente ridotto all’osso, funziona come segue: c'è un emittente dell’informazione che invia un messaggio attraverso un canale comunicativo ad un ricevente. E l’eventuale distorsione del messaggio originariamente inviato, può essere causata soltanto dal ‘rumore’ (disturbo) lungo il canale. Questo modello, ideato da due volenterosi ingegneri, parlava di una teoria matematica dell’informazione.
È esperienza quotidiana condivisa che i processi comunicativi interpersonali sono enormemente più complessi, come complessi e talvolta inconciliabili sono gli universi di significato di emittente e ricevente, via via promossi (almeno nominalmente) al rango di destinante e destinatario della comunicazione. Purtroppo è mia dolorosa e frequente esperienza che l’impennata e ostinata volontà di non uscire da sé stessi e dal proprio microcosmo narcisistico, porta l'altro al non ascolto pressoché totale. Questo fa sì che la comunicazione tra le persone sia declassata ad un vocio continuo, in cui tutti hanno un tempo infinito per parlare, ma troppa fretta per fermarsi a comprendere l’altro da sé. Un tempo in cui tutti si ascoltano ma non ascoltano, in un flusso impazzito di equivoci, dove l’eccezione non è più la distorsione che i nostri ingegneri chiamavano ‘rumore’, ma capirsi.

GLI ALTRI E NOI

   Patrizia Degli Esposti


C redo che la prima regola di una buona comunicazione consista nel comunicare con sé stessi. Molto spesso siamo convinti che gli altri non vogliano comunicare con noi perché, gli altri, sono sbagliati e non ci capiscono... Ma se ci mettiamo davanti ad uno specchio, forse, dico forse, comprendiamo che i famosi ‘altri’ siamo noi. Ho osservato il comportamento di una persona che affermava di non essere compresa, che nessuno capiva le sue qualità eccetera eccetera... Beh, questa persona era convinta di essere una vittima del gruppo, ma ad osservare attentamente il suo atteggiamento si notava quanto poco fosse collaborativa e quanto le piacesse comandare senza mai mettersi in discussione. Se avesse avuto un dialogo ed una comunicazione con sé stessa, probabilmente avrebbe potuto comprendere che l’accusa che muoveva agli altri altro non era che un riflesso del suo comportamento. Questo errore lo facciamo tutti, perché ascoltare è virtù di pochi ed ascoltarci con verità profonda e senza pregiudizi... beh, sappiamo quanto sia difficile riconoscere i nostri errori...

IN FONDO SE HAI LA POESIA…

   Costanza Tuor


in particolare quella russa, che ti gira per casa… che cosa dovresti farci? Come minimo essere gentile e poi guardarla negli occhi, ti vuole sicuramente dire qualcosa che al momento non sai decifrare. E dopo vent’anni lo saprò decifrare? Credo, forse saprai decifrare il colore della poesia russa, ma resterà il fatto che se la guardi negli occhi vorrà dirti qualcosa in più… non puoi sfuggire a un dialogo con la poesia russa. Lei sfugge prima di te e di soppiatto e ti rincorre quando le fa piacere, anche se tu di poesia russa conosci solo un verso ed è quello più scontato. In fondo è lei che ha deciso di girarti per casa, tu l’hai ospitata nulla più…

COMUNICAZIONE E DIRITTO

   Matteo Bosinelli


N ell'ormai lontanissimo 1983, studente di Giurisprudenza, mi imbattei in una 'strana' norma di diritto civile veramente sorprendente: qualora Tizio proponga via telegrafo a Caio l'acquisto di un qualsiasi bene a un prezzo tot e Caio rifiuti, sempre mediante telegrafo, il contratto non si perfeziona. Ma, e qui viene il bello, qualora l'impiegato del telegrafo trasmetta, per suo errore: "Sì, accetto", il contratto di compravendita si perfeziona comunque ed è perfettamente valido, come le obbligazioni derivanti (pagare il prezzo e acquistare la proprietà del bene). La ratio di questa norma è assai complessa e proviene, probabilmente, dal diritto germanico. Naturalmente l'impiegato che ha commesso l'errore deve risarcire i danni al compratore. Insomma, anche il diritto si occupa di 'incomunicabilità'!

VERITÀ O MENZOGNA

   Matteo Bosinelli


M i sono talvolta chiesto, soprattutto ultimamente, fino a che punto di sincerità ci si debba porre nel rapporto con lo psicoanalista, lo psichiatra, lo psicologo, nel primo colloquio clinico, con gli infermieri e, più in generale, con quanti ruotano attorno al variegato mondo della salute mentale. La risposta, a mio modesto avviso di paziente, non è affatto semplice e bisogna distinguere caso per caso. Io credo che nel rapporto con lo psicoanalista, il paziente debba garantire al terapeuta il massimo grado di sincerità possibile, evitando così che entrambi vengano a trovarsi in un labirinto di enigmi e di incomprensioni: altrimenti tanto vale non entrare in terapia e... risparmiare i soldi! Ugualmente si può affermare relativamente al colloquio clinico con lo psicologo, che dovrebbe poi eventualmente individuare il tipo di terapia ritenuta più efficace e adeguata, dopo aver raccolto sufficienti elementi per una diagnosi e una prognosi. Anche qui, le incomprensioni sono pericolose e si pagano a caro prezzo (come è stata, purtroppo, mia esperienza personale). Per quanto riguarda il rapporto psichiatra/ paziente, ritengo, a mio modestissimo avviso, che una bugia ‘bianca’ ogni tanto possa anche essere tollerata, purché non porti fuori strada e non sfasi la comunicazione e, più in generale, il rapporto, che deve rimanere il più saldo possibile. Infine, ritengo che la bugia ‘bianca’ sia tollerabile e soprattutto meno pericolosa se a rapportarsi col paziente ‘bugiardo’ sono infermieri o educatori e così via. Ciò però a ineludibile condizione che non se ne faccia abuso creando un rapporto non sereno o distorto, ma solo, per esempio, per giungere a una migliore comprensione delle esigenze comuni agli uni e agli altri.

LA COMUNICAZIONE

   Paola Scatola


uando c’è un doppio senso nel tuo discorso è inutile fingere, lo capisco.
Proprio tu che sei il mio amore continui così, così ti lascio no, ti desidero sì.
L’inutilità di me e di te è uguale. Tu sei nel compiacimento come me ‘lusinghiero’e io sono come te lusingata d’averti conosciuto.

LE DOLCISSIME FACCINE

   Darietto


M olti anni fa giocavo a un bellissimo gioco di ruolo chiamato Grepolis (antichi Greci), in cui ci si doveva alleare e combattere con l’aiuto di alcune 'divinità' che ti conferivano dei poteri. Mi iscrissi e al principio mi piacque molto... Poi notai un fatto grave che riguardava il dialogo tra noi alleati e cioè che ci si parlava col solo testo scritto, il quale non dava alcun tono, come invece quando ci si parla a voce (per esprimere, ad esempio, la felicità, l’ironia o la rabbia). Ci furono, per tale motivo, degli equivoci che spaccarono la nostra alleanza e ci rimasi parecchio male. Un giorno, inoltrandomi in un forum di discussione, notai delle simpaticissime e dolcissime immaginine tonde che, invece, davano proprio il senso dell’espressione facciale (triste, sorridente, felice, addolorata, incazzata e moltissime altre), quindi scoprii involontariamente quelle che sono le 'faccine' (dette anche emoticons o emoji). Dopo di che decisi di ricercarle e ne trovai di tantissime tipologie; ne parlai coi miei pochi alleati rimasti e l’idea piacque a tutti. Purtroppo nel gioco fui sconfitto, ma l’incontro con quelle 'faccine', mi diede uno stimolo ad animare i miei testi. Su Facebook, Twitter, Whatsapp e qualsiasi altro social network, ci sono tante 'faccine'. Qui a fianco c'è la rabbia nella sua versione Whatsapp, che può avere due colori: la gialla è un po' incazzata, mentre la rossa è molto incazzata...

NETIQUETTE

   Lucia


uando occorre dare un nome a un oggetto o un fenomeno nuovo, saltano fuori certi ‘mostriciattoli’ linguistici chiamati ‘neologismi’. Alcuni sono intuitivi e magari anche divertenti, altri sono ostici o poco orecchiabili, comunque a forza di incontrarli si imparano e si finisce per usarli senza pensarci più, proprio come gli oggetti o i fenomeni a cui si riferiscono. Vi siete mai imbattuti nella buffa parola netiquette? Ha un’aria civettuola, forse po’ snob, ma tutto sommato è comprensibile: nasce dalla fusione di due termini, uno inglese, net (‘rete’) e uno francese, etiquette (‘etichetta’), divenuti ormai internazionali. In sostanza, netiquette sta ad indicare il ‘codice di comportamento degli utenti di internet’. Ma… c’era proprio bisogno di uno specifico ‘galateo’ per navigare in rete? Non bastava la semplice, generica buona educazione? Evidentemente no: espandendosi a dismisura, questo nuovo mezzo di comunicazione è diventato un po’ troppo ‘selvaggio’… E il problema non è solamente quello di arginare la villania della gente. Sotto c’è qualcosa di più fine, in quanto, come ci ha insegnato Marshall Mc Luhan, “il mezzo è il messaggio”. Occorre fare molta attenzione, perché non solo il ‘contenuto’, ma la ‘forma’ stessa è dotata di senso, e noi non ce ne rendiamo sempre conto. Ormai su questo tema sono stati versati fiumi d’inchiostro, perciò non mi dilungherò. Mi limiterò ad accennare a una considerazione che faccio spesso riguardo ai messaggini, ai tweet e alle e-mail: chi li scrive generalmente butta giù le parole in fretta, come se fossero espressioni orali. Molti non si curano di mettere un’introduzione o una conclusione cortese, non pensano al peso di certe espressioni, non perdono tempo a controllare se è scappato qualche refuso… Si esprimono ‘come magnano’, insomma, ma... anche se non sembra, stanno scrivendo, non parlando! E lo scritto resta, e può essere letto e riletto a caldo e… a freddo. Oltre tutto, non essendo accompagnata dal linguaggio del corpo, la scrittura richiede molta finezza per poter trasmettere ironia, bonomia, empatia… cose che le emoticon non possono rendere appieno. Ecco perché un messaggio scritto di getto su Facebook può provocare sfracelli. Un’attenzione particolare si dovrebbe prestare alle e-mail, comodissime, grazie alla semplicità di composizione, alla rapidità di trasmissione, all’estensibilità a più destinatari, alla possibilità di allegare documenti e immagini… ma autentiche armi a doppio taglio nei rapporti interpersonali. Il tono scelto dallo scrivente, serio o ironico, rilassato o puntiglioso, propositivo o polemico che sia, può essere mal interpretato e certi ‘botta e risposta’ rischiano di diventare pericolosi duelli all’arma bianca! Anche gli aspetti meramente formali vanno tenuti in conto: il mancato rispetto delle gerarchie negli indirizzi o un approccio troppo confidenziale possono risultare indisponenti per il ricevente, specie se è persona importante. Anche l’invio di una mail senza l’indicazione dell’oggetto, magari con un testo frettoloso, sciatto e sgrammaticato, oppure l’aggiunta di una seconda mail con gli allegati dimenticati, può sembrare mancanza di riguardo: che fretta c’era di fare l’invio? Non era meglio controllare prima? Non parliamo poi degli inoltri maldestri, che spargono ai quattro venti notizie riservate. Alcuni lo fanno proprio apposta e, all’insegna di una pretesa ‘trasparenza’, non si trattengono dall’estendere ad altri soggetti certi focosi scambi di vedute, ampliando le mailing list in modo inopportuno e malizioso. Perfino tra amici, a volte, ci si fraintende. Basta non cogliere l’ironia, percepire come brusco un tono solo sbrigativo, credere di captare una sfumatura vagamente urtante fra le righe, per provare disagio, dispetto, rancore… e affrettarsi a ricambiare, nei casi peggiori, con frecciate al veleno o con orgogliosi silenzi. Detto questo, che facciamo? Usiamoli pure, questi benedetti mezzi moderni, ma cum grano salis e… con un po’ di netiquette!

BASTA UN CLIC…

   Paolo Majerù

evoluzione della comunicazione viaggia nell'era dei tempi. Nel mondo si è sempre comunicato in qualche modo, dalla fumata ai volatili - o uomini - viaggiatori che si spostavano da un continente all'altro per comunicare tra i popoli. Poi si è passato ai manufatti per produrre suoni o rumori, tipo i tamburi; poi la rivoluzione della radio, del telegrafo, del telefonino e poi il boom degli smartphone che ha rivoluzionato la comunicazione. Con gli strumenti di oggi comunicare è facilissimo, da qualsiasi parte ci troviamo possiamo sempre comunicare a una velocità così accelerata che a volte non si riesce nemmeno a starci dietro. Oggi tutti, dai molto giovani fino alle persone di una certa età, per strada, nei mezzi pubblici, negli uffici e in qualsiasi posto, sono tutti attaccati ai cellulari, cercando di comunicare con tizio o con caio, tanto da non riuscire più a comunicare con la persona che sta accanto, che magari sta cercando a sua volta di comunicare con qualcun altro (sempre in rete). Non molto tempo fa, quando si voleva parlare con qualcuno, si andava dove abitava e si urlava a squarciagola il suo nome fino a quando non si affacciava. Oppure, al massimo, ci si procurava il gettone telefonico, ma si doveva sperare che la persona cercata stesse in casa o che il messaggio le arrivasse tramite una seconda o terza persona... Oggi basta un clic.

LA RABBIA SUI SOCIAL: I LEONI DA TASTIERA

   Francesca

«Ogni mattina, nel mondo, un leone da tastiera si sveglia,
perché sa che dovrà urlare e insultare più forte della gazzella.
Ogni mattina, nel mondo, una gazzella si sveglia, perché sa che
dovrà bloccare il leone coglione da tastiera di turno. Non importa
che tu sia un leone da tastiera o una gazzella che si è
rotta le palle: l’importante è che tu abbia un computer.»
parafrasando William Shakespeare

M olta gente si riversa sui social per scaricare tutta la rabbia repressa che ha in corpo.
Persone che magari nella vita di tutti i giorni sono mansuete, dietro la tastiera di un pc o di uno smartphone si trasformano in belve, creandosi un’altra identità, la parte più violenta e arrabbiata. Si sentono onnipotenti e libere di offendere tutto e tutti senza filtri. Vengono denominati ormai abitualmente ‘leoni da tastiera’ i soggetti che, spesso utilizzando nickname (soprannomi), ma anche dal proprio profilo reale, si sentono deresponsabilizzati e offendono senza ritegno online. È un meccanismo che si ripete in automatico, ad esempio, il commento rabbioso e offensivo sui social nei confronti di profughi e migranti e di chi li accoglie: si parla di 'xenofobia social '. Così come avviene per l’omofobia (l’odio verso i gay e transessuali), la misoginia (un sentimento di disprezzo e odio verso le donne), la rabbia espressa nei confronti della classe politica. I leoni da tastiera ogni giorno affollano le bacheche di politici, giornalisti, personaggi più o meno famosi riempiendole di insulti. Matteo Renzi è il bersaglio preferito, naturalmente. Ad ogni post dell’ex premier seguono centinaia di risposte con insulti, articoli su altri argomenti, videodichiarazioni di esponenti del Movimento 5 stelle.
Ormai è una consuetudine, a cui purtroppo ci si sta abituando. È il segnale di un imbarbarimento del linguaggio che ha preso il controllo dei social network, in particolar modo Facebook. Il leitmotiv è sempre lo stesso: una lunga serie d’insulti. Si sperava che ci fosse un limite, ma 'i leoni da tastiera' non si fermano davanti a nulla, nemmeno alla morte di un ragazzo: per questi ‘signori’ l’insulto gratuito è l’unico obiettivo.
Parlando delle piattaforme virtuali, più precisamente dei forum dei social, in molti casi si rende necessaria la 'moderazione' da parte di chi gestisce le 'discussioni'. Il problema è globale, ma in Italia è avvertito in modo particolarmente grave e in tanti, tra politici, opinionisti e autorità nazionali, sembrano avere le idee chiare su come risolverlo. Solo qualche mese fa un rappresentante della polizia postale invitato a un convegno sul tema, ha proposto di eliminare totalmente l’anonimato online.
Roberto Saviano non si fa problemi nel paragonare gli hater (letteralmente ‘odiatori’) alla merda e persino il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato dell’odio in rete durante il suo discorso d’inaugurazione degli ultimi David di Donatello, infilando la questione nello stesso calderone dell’omicidio di Alatri e paragonando quindi qualche ‘vaffanculo’ su Twitter alle decine di sprangate di una manica di balordi strafatti che hanno ucciso un ragazzo innocente...
Hater, troll, bullismo : spesso si fa di tutta l'erba un fascio, quando invece le categorie in questione sono differenti tra loro, tutte comunque contribuiscono al problema dell'incitamento all'odio. I 'giustizieri' del web distruggono qualsiasi mito, anche sportivo. È il loro sport e non si fermano di fronte alle medaglie... I social , utilizzati per leggere opinioni altrui ed esprimere le proprie, possono essere un modo arricchente per comunicare ed aprire la propria mente, ‘ascoltando’ quello che ha da dire la gente, leggendo più pareri. Ma questo non deve sostituire la comunicazione diretta fra le persone, perché c’è il rischio che paradossalmente ci si isoli sempre di più, dimenticando che esiste una vita fuori dai social e il contatto con il mondo reale e la gente.

STANISLAV PETROV, L’UOMO CHE RAGIONÒ E SALVÒ IL MONDO

   Luca G.

L a Guerra Fredda è stata una rivalità che ha visto per decenni le due superpotenze mondiali, Stati Uniti e Unione Sovietica, lottare per il controllo del mondo. Da una parte un paese che aveva vinto due guerre mondiali e che era il simbolo del capitalismo, dall’altra un paese europeo, simbolo del comunismo, che era nato dopo una rivoluzione e che si era trasformato in una spietata dittatura. Nel corso degli anni c’erano stati periodi di distensione, promossi da incontri diplomatici, ma anche eventi e incidenti che avevano favorito ostilità aperta. Americani e sovietici avevano comunque fatto sempre di tutto per surclassarsi a vicenda e dimostrare la propria supremazia: sono due esempi la corsa agli armamenti (il concepimento e l’accumulo di armi sempre più potenti) e la corsa allo spazio (primati astronautici sempre più clamorosi, per dimostrare la propria superiorità scientifica). Un terzo esempio può essere una corsa per il controllo politico della Terra. L’Unione Sovietica aveva imposto governi comunisti nell’Europa dell’Est, mentre gli Stati Uniti avevano fondato un’alleanza militare chiamata Patto Atlantico o NATO, facendosi amici moltissimi paesi occidentali, imponendo però regimi dittatoriali in altri paesi del mondo, come il Cile, per poterli controllare.
Momenti di tensione fra le due superpotenze ce n’erano stati parecchi: il blocco di Berlino Est nel 1949, la crisi dei missili di Cuba del 1962, la guerra del Vietnam. A questi bisogna aggiungerne altri risalenti al 1983. L’8 marzo, durante un discorso pronunciato a Orlando, il presidente americano Ronald Reagan definì l’Unione Sovietica ‘impero del male’. Si tratta ovviamente di un’affermazione molto negativa, addirittura offensiva, che negli anni seguenti è stata riciclata con altri paesi e per altri scopi. Quello che Reagan voleva comunicare con quest’affermazione era il fatto che l’URSS non meritasse di essere visto come un paese con cui convivere pacificamente nonostante gli sforzi diplomatici fatti dai suoi predecessori, ma come un paese abitato da gente cattiva, con un modo di fare cattivo che meritava solo essere affrontato e combattuto. Fra i comandamenti della Dichiarazione d’Indipendenza sono presenti i ‘diritti dell’uomo’, desideri che in parte rispecchiano le Sacre Scritture, per cui gli USA ritenevano di dover esistere e lottare: il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. In Unione Sovietica, stando alla definizione di Reagan, non sembrava esser garantito nessuno dei tre. Chi era dissidente veniva arrestato ucciso o esiliato, non si era liberi di pensare e parlare liberamente se non come voleva il Partito Comunista e bisognava anteporre i propri diritti verso lo Stato ai propri desideri di trovare la felicità. Oltre a imporre governi e programmi ben precisi, l’URSS era anche un paese nel quale non si poteva votare, dato che c’era un partito solo. Almeno negli Stati Uniti si può scegliere tra due possibilità, democratico o repubblicano. È vero che l’URSS era nata con l’intenzione di affermare la filosofia comunista su tutto il mondo, ma Lenin non aveva certo desiderio di ricorrere a una violenza e una forza permanente di natura militare per riuscirci dopo la Rivoluzione. Ma purtroppo le cose sono andate diversamente, e con Stalin l’URSS da paese utopista è diventato un paese totalitario, che predicava la propria supremazia sul proprio territorio, su quelli che controllava in modo diretto e indiretto e anche sull’uomo. Se ti danno una visione di superficie dell’URSS dicendoti che è un paese senza Dio, senza libertà di pensiero, con persone infelici e rabbiose e soldati con le armi puntate pronte a sparare a chiunque, è facile pensare che sia un paese crudele. Se ti dicono: “Questo paese è brutto, la gente è cattiva, il clima è freddo, c’è la dittatura, non lo visitare!” è chiaro che ne hai un’immagine scoraggiante e sgradevole. Succede che ti diano una versione dei fatti del genere, che può anche essere falsa. Eppure, nonostante la politica, sarebbe stato sufficiente farsi un viaggio in Russia per rendersi conto che al di là del partito gli abitanti non erano così crudeli, anzi vivevano la loro vita, lavoravano, soffrivano per le decisioni del partito e per le azioni dei militari, ed erano soggetti alla collettivizzazione e ai Piani Quinquennali, che erano piani di lavoro con cui il governo prevedeva e pianificava le quantità di materiale da produrre in un lasso di tempo preciso, e chi non rispettava i tempi e produceva troppo poco o più del previsto veniva punito. Al limite ci sono persone buone e cattive in tutti i paesi del mondo, anche nelle dittature. Troppo comodo condannare e uccidere una persona solo perché è etichettata come diversa! E come ‘diversi’ si possono considerare mille modi di essere: neri, musulmani, omosessuali, comunisti… Sono ragionamenti assurdi, fomentati da propagande piene di ostilità e da eventi scoraggianti e facili da manipolare, come incidenti diplomatici, risse, insulti eccetera. Ad alimentare e giustificare ancora di più l’idea che l’URSS fosse l’impero del male ci fu un incidente diplomatico di natura militare datato 1 settembre, quasi sei mesi dopo il discorso di Reagan. Quel giorno, un Jumbo jet sud-coreano diretto da New York a Seul con scalo ad Anchorage venne abbattuto sopra l’isola di Sachalin da un missile sovietico, causando la morte delle 269 persone a bordo. Un avvenimento che aumentò l’ostilità fra le due superpotenze mondiali e la tensione nel mondo, preoccupato come non mai per la possibilità dello scoppio di una guerra atomica. E per che cosa? Solo perché quell’aereo era entrato erroneamente in territorio sovietico. Una colpa innocente, per usare un ossimoro. Come una donna di pelle scura che resta vittima di un femminicidio o di uno stupro da parte di uomini a cui sono state messe in testa brutte idee sulle donne di colore e sulle straniere. Certi messaggi, magari comunicati in modo prepotente, possono avere effetti devastanti, come appunto è il caso della definizione ‘impero del male’. A peggiorare la situazione, fu il fatto che l’aereo sud-coreano era stato abbattuto per un equivoco, per un problema di comunicazione. Il maggiore Gennadij Osipovich, responsabile del lancio del missile, aveva fatto la sua segnalazione del passaggio dell’aereo, ma poi si scoprì che non aveva detto che era un aereo carico di civili, solo perché nessuno gli aveva chiesto di dire se lo era o no. Questo dimostra che in certi casi non bisogna dire le cose solo se te le chiedono. In questo caso, per esempio, il maggiore Osipovich avrebbe dovuto dare indicazioni più precise sull’aereo di passaggio, anche senza sentirsele chiedere, anzi forse proprio perché non gliele avevano chieste. Invece è stato impreciso, e questo ha avuto brutte conseguenze. Tutti possono sbagliare, però ci sono sbagli gravissimi e imperdonabili: più sono gravi le conseguenze dello sbaglio, peggiore è quest’ultimo. Se per errore metti un piede in una buca ma non ti fai male, lo sbaglio non è grave. Ma se per sbaglio trasfondi del sangue di gruppo AB a una persona con gruppo 0, è probabile che ne causi la morte, e questo è un errore gravissimo, che i medici non si possono permettere di fare. Poi ci sono sbagli che commetti per colpa tua, in seguito a una tua iniziativa, e ci sono sbagli che commetti solo perché hai deciso di attenerti agli ordini e alle istruzioni ricevute da un altro, senza fare obiezioni. Ma se intuisci che c’è qualcosa che non va, se c’è qualcosa di sbagliato in quello che i tuoi superiori hanno detto, fatto, pensato e detto di fare, è più che giusto farlo notare, fare una correzione, non rispettare gli ordini. A volte di fronte a procedure, regole o protocolli ben precisi ma troppo rigidi, come quelli dell’esercito sovietico, chi va controcorrente non fa uno sbaglio, anzi fa la cosa giusta. È l’esempio del tenente colonnello Stanislav Petrov, nato il 9 settembre 1939 e morto il 19 maggio 2017. Poco dopo la mezzanotte del 26 settembre 1983, i radar intercettatori che Petrov era incaricato di sorvegliare rilevarono due segnali luminosi. I tecnici ovviamente glielo segnalarono. Ora, considerando il clima di ostilità con gli Stati Uniti e gli ordini e i regolamenti, una persona qualunque, diversa da Petrov, avrebbe dato per scontato che gli USA avevano sferrato un attacco nucleare, sarebbe subito andato di corsa a dare l’allarme al Cremlino e di conseguenza Jurij Andropov, il segretario del PCUS, avrebbe dato il via al contrattacco, lanciando parecchi missili sugli USA e/o sugli alleati europei. Tutto questo dando per ovvio che quell’attacco fosse successo per davvero. Non bisognava stare troppo a pensare per il sottile, pure perché c’erano protocolli precisi da seguire. Rilevamento di segnale luminoso, segnale luminoso uguale missile, missile uguale attacco, conseguenza ordine di contrattacco e poi guerra nucleare come conseguenza accettata. Ma Stanislav Petrov non era una persona qualunque. Egli invece di obbedire al protocollo, invece di precipitarsi al telefono e chiamare il Cremlino, da buon analista quale era si chiese come fosse possibile che gli USA potessero e volessero lanciare solo due missili in territorio sovietico. Se avessero voluto veramente attaccare, gli Stati Uniti non avrebbero lanciato sul vasto territorio sovietico solo due missili, ma molti di più. Quale motivo dell’ultima ora avrebbe poi giustificato questo lancio di bombe atomiche? Non c’era per caso un errore del sistema? Contrariamente alle loro aspettative, i colleghi videro che Petrov non inviò la comunicazione, e fece fare una scansione dei radar per vedere se erano guasti. L’istruzione probabilmente sarà stata contestata dai colleghi tecnici, che magari avranno pensato che Petrov fosse pazzo a voler perdere tempo dietro certi scrupoli invece che seguire il protocollo. Però eseguirono, e ritennero di avere ragione nell’aver paura che Petrov avesse sbagliato quando asserirono che i radar erano perfettamente a posto. Ma Petrov disse loro di non fare nulla e di aspettare come lui venticinque o trenta minuti, il tempo stimato prima dell’impatto delle bombe. Può darsi che i tecnici, conformi al volere del partito e terrorizzati sia dagli Stati Uniti che dall’idea di una guerra nucleare, fossero diventati nervosi e preoccupati, tanto da desiderare di dire a Petrov che non c’era un minuto da perdere, che non bisognava stare a pensare e che anzi bisognava chiamare subito il Cremlino. Però obbedirono, stettero trepidamente ad aspettare… e non accadde nulla. Petrov aveva disobbedito agli ordini, è vero, ma aveva salvato il mondo da una guerra atomica. E questo perché aveva ragionato, era stato a pensare prima di agire. Quei due fantomatici missili si scoprì poi che erano solo due riflessi di luce fra le nuvole, che avevano ingannato i radar. Se invece di stare a pensare e ragionare Stanislav Petrov avesse agito e basta, avrebbe sì obbedito alle regole, ma l’Unione Sovietica avrebbe fatto un attacco nucleare che avrebbe causato innumerevoli vittime e innescato una catastrofe globale con un contrattacco massiccio che avrebbe distrutto l’umanità, un contrattacco vero e reale, e non più presunto come dai tecnici guidati da Petrov. Bisogna pensare prima di agire, dice il proverbio, e questo deve essere un insegnamento prezioso da applicare sempre. Purtroppo ci sono momenti e circostanze in cui non è opportuno tergiversare su quello che ti dicono di fare, e quindi succede che devi rischiare o di fare al momento sbagliato azioni senza aver pensato alle conseguenze, o di disobbedire. Una cosa è certa: quando ti dicono che non devi pensare, che pensare è pericoloso, che non puoi fare una cosa a cui hai diritto perché il tuo cervello è sempre attivo e pensa continuamente, ti dicono una cosa che ti fa stare male. Purtroppo il PCUS non poteva e non voleva permettersi figuracce, né all’estero né in patria. Ecco perché Petrov non fu premiato per il suo atto, anzi subì un richiamo e tutto fu insabbiato e dimenticato. Se il partito avesse fatto l’opposto, cioè premiare Petrov e rivelare l’errore dei radar, avrebbe dimostrato di essere da meno rispetto ai rivali americani, di non essere infallibile e che poteva sbagliare, di non avere sempre ragione, e questo già spiega come mai la produzione in eccesso rispetto alle previsioni dei Piani Quinquennali venisse distrutta, portando alla punizione di chi fosse responsabile di questo surplus. Tutto questo dimostra che il PCUS era sempre pronto a prendersi il merito di qualcosa fatto per bene da un singolo individuo, ma riteneva giusto nascondere gli errori fatti, e punire sia chi li faceva sia chi li metteva in evidenza. Ma questa vicenda, oltre a dimostrare com’era la filosofia del partito, dimostra anche che non è vero che non c’è niente da ragionare. Al contrario, c’è tutto da ragionare. Sempre. Per esempio, se un insegnante che guida una scolaresca prende una strada sbagliata e un allievo se ne accorge, non è giusto forse fermarsi a ragionare un po’ invece di obbedire alla sua guida senza obiezioni? Non è giusto bloccare tutto e far notare l’errore? È vero che c’è il rischio di sentirsi dire che non bisogna pensare ma solo obbedire, ma bisogna rischiare! Non è affatto vero che pensare è sbagliato o pericoloso come vogliono far credere i governi dittatoriali ai loro popoli, anzi! Se una persona si pone un interrogativo sul sistema, sul mondo in cui vive, non fa niente di pericoloso! Se si aprono gli occhi sulla realtà delle cose che ci circondano non si fa niente di male, anzi è il contrario. Chi scopre cosa si cela dietro le apparenze che vogliono mostrare i potenti, è giusto che lo riferisca agli altri anche rischiando di non venire creduto, come insegna indirettamente il mito della caverna di Platone. O come George Orwell con il suo 1984. Bisogna pensare prima di agire, e di comunicare. Non è vero che ragionare è da stupidi e che le persone intelligenti debbono solo limitarsi a lavorare e ubbidire a quel che gli si dice senza fare domande. Semmai è vero il contrario. Perché se il tuo capo commette un errore senza che nessuno glielo faccia notare, ci andrai di mezzo senza tua colpa. Chi dirige, chi guida non può permettersi errori, proprio perché è a capo di qualcosa. Ed essere capi di qualcosa non dà potere, almeno non solo quello. Anzi, da un grande potere derivano grandi responsabilità. E non è solo la frase di un film, ma è una grande verità.






Un’etica della comunicazione
anche per lettori-navigatori-telespettatori

   Luigi Valgimigli

La velocità della comunicazione è cosa meravigliosa da vedersi.
Ma è anche vero che possiamo moltiplicare
la velocità di diffusione delle notizie false.
Edward R. Murrow – giornalista

O ggi la società globale dispone di una quantità di parole e supporti di comunicazione inimmaginabili fino a qualche decennio fa. Ai media tradizionali – giornali, radio e televisione – si è aggiunto Internet che raggiunge 3,5 miliardi di utenti, dei quali circa 2,3 miliardi utilizzano i social-media. Nella ragnatela digitale, le informazioni corrono alla velocità della luce e raggiungono tutti i popoli del globo terrestre. Il termine ‘società dell'informazione’, coniato anni fa da alcuni sociologi, è sintomatico della società post-industriale e delle sue sfide volte a garantire la circolazione di informazioni corrette e il diritto di tutti gli esseri umani ad avere uguali opportunità di accesso alla conoscenza.

I pregiudizi ostacolano le soluzioni
La comunicazione va oltre l’informazione. Comunicare significa ‘mettere in comune’, cioè entrare in relazione con altri esseri viventi per soddisfare bisogni materiali, per scambiare informazioni, pensieri, idee, visioni, problemi, paure, ideali, speranze…
L’attuale imponente disponibilità di mezzi di comunicazione offre la possibilità di ‘mettere in comune’ una globalità composta da popoli, etnie, religioni, lingue, culture e costumi diversi. Oggi, il nostro prossimo sono i popoli di tutto il mondo, la paura del ‘diverso’ è un assurdo. Eppure, in gran parte dell’opinione pubblica dei paesi più evoluti, questa paura prende sempre più piede, crescono l'odio verso i rom, la rabbia contro i profughi, i pregiudizi e la diffidenza verso la religione islamica. I politici e i media, anziché cercare di far comprendere la complessità dei problemi, spesso soffiano sul fuoco del malessere sociale, strumentalizzando fatti e opinioni per fini politico-ideologici o di potere. Così le notizie e i commenti sul ‘diverso’ che circolano in molti giornali, trasmissioni televisive e social media, sono spesso distorte, superficiali, costellate di luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi. Che, oltretutto, sono più facili da comunicare e più attrattivi per buona parte dell’opinione pubblica rispetto a una complessità che richiede analisi serie, apertura intellettuale e intuizioni lungimiranti.
Certo, non va sottovalutato il fatto che, negli ultimi anni, l’immigrazione è un fenomeno epocale che incide profondamente negli equilibri sociali e crea nuove paure anche per effetto di azioni terroristiche che si richiamano al fondamentalismo islamico. Il problema esiste e va affrontato con consapevolezza e determinazione. Ma bisogna essere consapevoli che stereotipi, pregiudizi, luoghi comuni sono un ostacolo alla soluzione di un fenomeno che va affrontato tenendo presente tutta la sua complessità.

Comunicare il valore della solidarietà
Pregiudizi e stereotipi riguardano anche la sofferenza mentale, che è una realtà scomoda, su cui si cerca di tacere sia con gli altri sia con sé stessi. Titoli come “L’assassino era in cura con psicofarmaci” tendono ad associare la malattia mentale alla violenza, facendo leva sul pregiudizio che chi soffre di un disturbo psichico sia una persona potenzialmente pericolosa. Eppure le statistiche dimostrano che i crimini compiuti da persone con disturbi mentali sono eventi sporadici e le ricerche di studiosi, italiani e stranieri, sottolineano che il disturbo mentale non può, di per sé, ritenersi un fattore causale di criminalità. Il pregiudizio più sbagliato e più dannoso è che la malattia psichica sia incurabile. Molte esperienze confermano il contrario soprattutto quando la persona con disagi psichici trova un ambiente favorevole. Ricordo che nella seconda metà degli anni ’60 (anni della contestazione studentesca e di grandi lotte sindacali), si realizzarono accordi azienda-sindacato per l’inserimento lavorativo di persone con problemi psichici. Allora, la solidarietà era considerata un valore primario della classe operaia e, grazie a un ambiente solidale, i lavoratori ‘disabili’ impararono il lavoro e conquistarono fiducia in sé stessi, migliorando in modo sorprendente la loro condizione psichica. Ma negli anni duemila, la parola ‘solidarietà’ è stata sopraffatta da un altro vocabolo: ‘competizione’. Oggi si parla di competizione non solo riguardo alle aziende, ma anche riguardo a istituzioni pubbliche (migliorare la competitività della regione, del comune, della scuola). Il successo nella competizione appare come un atto di sopravvivenza e nella scala valori scavalca la solidarietà umana. Fortunatamente la solidarietà non è scomparsa: in Italia e in altri paesi si moltiplicano le persone e le associazioni di volontari che ogni giorno offrono aiuto a chi ne ha bisogno. Ma spesso le loro iniziative fanno meno notizia di un titolo razzista.

Un’etica interattiva della comunicazione
In questa fase caratterizzata da una ‘crisi di identità’ è doverosa un’etica della comunicazione che favorisca il superamento dei luoghi comuni dando meno spazio alle paure e valorizzando le diversità anziché appiattirle. Oltre ai media tradizionali, bisogna considerare anche Internet dove ogni giorno milioni di navigatori mettono in rete messaggi. I social media svolgono una funzione positiva che aiuta a conoscere un’ampia gamma di realtà, situazioni e problemi. Ma la comunicazione è una tentazione irresistibile per la stupidità umana: molti sentono il bisogno di pubblicare commenti incompetenti, illogici, superficiali e spesso irresponsabili. Tempo fa ho scoperto su Internet un fumetto che invitava ad accogliere i profughi ‘con calore’, bruciandoli con il lanciafiamme. Immagino che questo messaggio sia stato cancellato, ma per un po’ ha circolato in rete. La conclusione è che, per difendere la comunicazione da pregiudizi e luoghi comuni, occorre un’etica ‘interattiva’. che, oltre a chi emette il messaggio, coinvolga anche chi lo riceve. Un’etica che richiede al lettore-navigatore- telespettatore la capacità di interpretare criticamente i messaggi, verificandoli alla luce della verità e di altri valori universalmente condivisi.








Con o senza parole

   Mariana Elena Parera, psicologa e animatore sociale


L a comunicazione rappresenta lo strumento fondamentale per il lavoro dell’animatore socio-culturale, una professione che presta servizio alle persone instaurando la relazione di aiuto. Quando il servizio è rivolto all’anziano, soprattutto nei casi di affezioni severe come lo stato di demenza avanzata, stabilire un rapporto di comunicazione può apparire un’impresa quasi impossibile. Ma ci sarà sempre un modo di creare un ambiente armonioso che consenta di interagire anche con l’utenza più grave.
Prima di passare allo sviluppo delle mie argomentazioni in merito alla professione dell’animatore, vorrei, con l’ausilio di alcune fonti teoriche, specificare quale trattamento intendo dare all’idea di comunicazione. Innanzitutto definirei la comunicazione come un modo di stare in contatto con gli altri. A questo scopo noi esseri umani abbiamo a disposizione sia il linguaggio verbale che quello del corpo (non verbale). Siamo esseri di linguaggio e l’uso delle parole ci distingue dal regno animale nel quale, fra l’altro, esistono sistemi di comunicazione anche molto sofisticati. A differenza del mondo degli oggetti inanimati o dell’inerte, la comunicazione ci rende soggetti orientati alla socievolezza. La comunicazione è alla base di tutto in questo nostro mondo socio-culturale nel quale non si è da soli, siamo in relazione con gli altri e manteniamo dei rapporti. Per citarne solo alcuni: le unioni matrimoniali, la famiglia, il lavoro, l’amicizia, la vita quotidiana in una comunità.
Fin dalla tenera età siamo abituati a comunicare, mantenere i rapporti e infine stabilire relazioni superficiali, profonde, buone o cattive che siano. Talmente abituati che sembra poco utile riflettere sul modo in cui lo facciamo. Pare che sia naturale, qualcosa di innato. E invece no. Abbiamo imparato a comunicare in una certa maniera, abbiamo uno stile di cui probabilmente non siamo neanche consapevoli. Per di più siamo convinti di trasmettere un messaggio con un senso unico e completo, quello che abbiamo nella nostra mente, senza considerare l’insieme di variabili che intervengono nel processo comunicativo. Il senso del nostro messaggio spesso è recepito e interpretato molto diversamente da come avremmo voluto. Lo stesso discorso vale per le nostre intenzioni. Può capitare che il senso letterale di una frase sia in secondo piano rispetto al messaggio connotato, cioè diciamo una cosa per farne capire un’altra. Come ad esempio in quei messaggi di avvertimento che contengono una velata minaccia. Frasi con doppio senso. Quella sorta di significato occulto da decifrare come un rebus. E allora ci chiediamo: “Che cosa mi avrà voluto dire in realtà?”… “Secondo me non me la racconta tutta…”. Quante volte ci sembra di dover interpretare il senso nascosto dei discorsi altrui? Occorre inoltre considerare il linguaggio non verbale dei gesti e delle azioni che, come dicono gli esperti della comunicazione, trasmettono messaggi preponderanti rispetto alle parole. “Tutto è comunicazione, è impossibile non comunicare, anche il silenzio comunica” ci insegna Paul Watzlawick. D’altra parte, la corrente della psicoanalisi ha conseguito sviluppi significativi sul tema del linguaggio, del suo effetto nella costituzione psichica del soggetto, la scissione della psiche e l’inconscio. Una delle scoperte più importanti della psicoanalisi è che noi stessi non ci conosciamo. Ci stupiamo soprattutto innanzi alle nostre esperienze più sincere di dialogo interno: “Perché lo avrò fatto … perché lo avrò detto?”… “Perché non posso smettere di fare questo o quest’altro?” ... “ Volevo fare tutt’altro e invece …”. Sono momenti di grande sincerità nei quali riconosciamo di non sapere tutto su di noi, di non vivere in un mondo di certezze. Il che, da un certo punto di vista, è anche un vantaggio. Un mondo fatto di certezze non lascerebbe spazio all’innovazione e al progresso. “Il linguaggio opera interamente nell'ambiguità, e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite” ci avverte Jaques Lacan.
Un buon percorso terapeutico ci può orientare per conoscere parte di quel sapere che è in noi ma non sappiamo di avere. Un sapere che ognuno di noi possiede, che ci appartiene come realtà unica e individuale. Si indaga sul senso di ciò che diciamo, dei sogni, del comportamento, dei sintomi. Un senso da decifrare al quale si può accedere, almeno in parte, solo attraverso un lavoro d’interpretazione terapeutica, lontano dalle soluzioni magiche e dalle formule dei manuali. Quindi c’è un sapere che appartiene ad ogni individuo con una propria realtà (psichica), con un proprio senso. Con questi elementi teorici che vanno dal piano fenomenologico della comunicazione nell’incontro fra le persone al piano più intimo della personalità, cercherò di inoltrarmi nel terreno dell’animazione socio-culturale con anziani per illustrarne le peculiarità. Come ho avuto modo di anticipare, con gli anziani la comunicazione è lo strumento fondamentale per entrare in contatto. Parliamo all’anziano perché è un soggetto di linguaggio. Nonostante le difficoltà che possa trovare a livello discorsivo, il linguaggio fa parte della sua identità, della sua cultura e della sua dignità umana. Non ci si scoraggia a parlargli anche in presenza di compromissioni cognitive causate da qualsivoglia affezione. L’anziano recepisce il trattamento che gli riserviamo. Rivolgergli dolcemente la parola tende a produrre un effetto rasserenante. L’esperienza di essere spostato con la sua sedia a rotelle sarà molto differente se viene precedentemente avvertito oppure no. Nel secondo caso, chiunque potrebbe spaventarsi, trovandosi in una situazione di instabilità, generatrice di stress. Sembra tutto così ovvio che nella pratica può passare inosservato. L’azione di spostare un anziano in carrozzina non va fatta in modo spensierato. In questo esempio interviene anche il linguaggio del corpo o non verbale: il movimento lento o brusco, l’automatismo o la consapevolezza di ciò che stiamo facendo. Il ‘come’ è ciò che fa la differenza e denota la professionalità nell’approccio. Sentire una voce che accompagna l’azione dello spostamento delicato e rispettoso, può portare solo beneficio. Inoltre produce effetti positivi anche sulla persona che sta eseguendo la procedura di approccio all’utente. Sebbene tali strumenti di comunicazione non siano infallibili, vista la complessità dello scenario, dobbiamo impegnarci e valorizzarli. L’animatore deve in qualche maniera diventare un esperto in materia di comunicazione, conoscere come stabilire il dialogo, come avvicinarsi con discrezione alla vita di quella persona. È importante la qualità del rapporto più che l’informazione o i contenuti. Quante volte ci si trova con persone che ‘sparano’ delle domande senza conoscerci né aver prima costruito una base relazionale. Non attendono che le risposte siano finite, che stanno già chiedendo curiosamente qualcos’altro su di noi. Solitamente si tratta di persone indifferenti all’arte di ascoltare. Ciò può creare disagio, soprattutto perché quando ci fanno una domanda tendiamo comunque a rispondere, anche quando si tratta di argomenti dei quali avremmo preferito non parlare. Nell’interazione con gli anziani l’ascolto è un altro degli strumenti fondamentali, pur rispettando la loro discrezionalità nel decidere di raccontarsi o meno. L’animatore cerca di creare una situazione d’agio, ove prevalga lo spirito di stare in compagnia. Si interessa e segue lo sviluppo della vita dei singoli e dei gruppi nel corso della loro permanenza in struttura. Questo dovrebbe essere il nostro messaggio principale. Dopo di che si può passare a un piano di stimolazione specifico.
Le tecniche che favoriscono uno stato di conforto nell’interlocutore si imparano con la formazione, ma si capiscono nella pratica attraverso l’osservazione e la riflessione. Bisogna svilupparsi in questa direzione. Ad esempio possiamo anteporre alle nostre domande, certe regole del gioco, del tipo: “Non necessariamente deve rispondere alla domanda”… “Solo se Lei se la sente…” e naturalmente valutare se è opportuno parlare o no insieme al gruppo di certi argomenti della sua vita, se desidera condividere le sue storie di vita o se al contrario è preferibile un approccio individualizzato, specie nei casi in cui la persona ne manifesta il bisogno.
Nel corso della mia esperienza ho trovato diverse tipologie di anziani a seconda del quadro cognitivo generale. Ci sono anziani che parlano mantenendo un filo logico nei loro discorsi, i cui contenuti sono significativi. Il senso può essere più o meno condiviso, non che dobbiamo essere d’accordo, in questo caso il codice linguistico delle parole e le forme grammaticali ci servono a comunicare e capirci. Ciò nonostante tutti i disguidi che si creano durante i processi comunicativi di cui si accennava all’inizio. A complicare le cose intervengono una pluralità di codici di significato non universalmente condivisi: generazionali, culturali (nazione di provenienza, zona rurale o urbana), il livello di scolarizzazione eccetera. In ogni modo ci capiamo o almeno ci pare. Questi anziani, che conservano la capacità di giudizio, provano un immenso piacere quando vengono consultati e le loro opinioni sono prese in considerazione. Così facendo si favorisce l'espressione di sé. Ci sono altri anziani che non fanno discorsi coerenti. Producono frasi frammentarie, a volte con parole inventate, come se si trattasse del riflesso di un flusso d’idee confuse e poco articolate.
Per quanto dicevo sulla realtà psichica individuale, il ‘sapere’ che possiede ognuno di noi, il percorso di vita o la propria storia, sono convinta che quei loro discorsi non siano assolutamente privi di senso. Il senso è soltanto a noi inaccessibile e quindi le loro produzioni discorsive non sono oggetto di interpretazione. Però è importante imparare a dialogare anche con la persona in difficoltà. Un dialogo fra virgolette, lo chiamo io. Un ‘dialogo’ che diviene possibile con l’aiuto dell’immaginazione, si crea un ‘come se’ (…tenessimo un dialogo di senso logico). Si prende qualche sua parola, si fa uso del tono della voce e della gestualità, si dà conferma di aver capito… È un’esperienza gratificante per l’anziano e molto rasserenante. A volte mi rendo conto che loro sanno che c’è qualcosa che non va, questi anziani hanno momenti di lucidità sulla propria situazione. Per questo motivo l’essere rassicurati sulla ricezione dei loro messaggi genera uno stato di conforto restituendo un senso di dignità umana. In una fase più avanzata di deterioramento cognitivo ci sono le persone che hanno perso le abilità sociali. Noi continuiamo a comunicare con loro, ancora più dolcemente, con tutti i nostri strumenti verbali, del corpo… con o senza parole e… l’amore.

Bibliografia :
           Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967) Pragmatica della comunicazione umana.
                    Roma, Astrolabio, 1971.
           J. Lacan, Scritti, Einaudi, 1972

SDEG

   Joe


A una festa del dipartimento, si è formato spontaneamente un laboratorio di poesia. Quella che segue è la sua produzione. Il gruppo si è composto di quattro autori: Danila Guidi, Sonia Valentini, Elena Brini, Giovanni Romagnani. Essendo stata una co-produzione si è chiamato Sdeg.

Stagioni

Estate
Nella calma,
una palma.
Sole di una Città Sognata??
Trovata!!
Primavera
Viene Sera,
Calimera
Calispera.
Inverno
Mi fermo.
Confermo:
"Neve".
Autunno
È sera,
viene buio,
sono buio,
storia vera,
storia nera.
Ora Legale
E viene da toccare
il cielo con un dito,
il mio preferito ...
... un'ora fa.
Stagioni dell' amore,
per universi perduti,
ed universi ambiti
già finiti.

INCONTRO IN OSPEDALE

   Matteo Bosinelli


I n un mio recente ricovero ospedaliero, fui messo in stanza con un signore dall'aria triste, molto cordiale e rispettoso, e un viso che rivelava la sofferenza di una vita. Vinta la timidezza iniziale, incominciammo a chiacchierare. Aveva otto fratelli, in gran parte ora scomparsi, con cui aveva dovuto subire la morte prematura di entrambi i genitori. Da bambino, terminate le elementari, era stato convocato con sua madre dal maestro, il quale aveva consigliato vivamente di fargli continuare gli studi, ma - mi disse - non avevano neppure i soldi per sfamarsi... Parlammo un po’ di tutto, fino ad approdare alla poesia: mi recitò allora qualche sua poesia e io decisi di trascriverne alcune, fra le più belle e veramente 'profonde': eccole qua… (Le trovate nello spazio di Arianna, firmate Guerrino Cavallari).

La luna

   Annarita Baratti


La luna
Nella notte fonda
Illumina
La barca
Ormeggiata sul fiume
Fuori fa un
Grande caldo
Vicino alla barca
Nell’acqua ci sono
Delle alghe
Un fiume salmastro
Che colora
Di verde
Lungo le scalinate
Della barca
C’è un fiume di
Gente
Il divertimento è garantito.

Come un diluvio

   Marcella Colaci


Come un diluvio
Il mio corpo
Infuocato
Rassegnazione
Al dolore
Inerme lamento
Il viaggio
È una frazione di secondo
Allucinante
Ma mi desto e so di te
Che sai sorridere

Il mio silenzio

   Francesco Valgimigli


Certo, lo so il mio silenzio
fa male e il tuo sguardo pure
ed è passato un po’
di tempo da quel giorno
ed è ora di rinnovare i
pensieri, cambiare treno
alla stazione e smettere di voltarsi
e guardare a nuovi pensieri
intrisi di sangue e di speranza,
e far entrare volti nuovi
sulla mia faccia così
che il tuo silenzio potrà
un giorno smettere di bussare
alla mia porta.

(da: “Un giorno senza ore”)

Parole

   Francesco Valgimigli

Vomito parole
dentro la testa,
le mie mani
stringono parole,
nello stomaco altre parole
galleggiano e io sono
qui pieno di parole
e tu che parli piano
e io non ti ascolto,
ascolto il vento
che mi porta altre parole,
ma non ascolto te.

(da: “Un giorno senza ore”)

Dite di me

   Francesco Valgimigli

Io non so niente di te
e allora invento,
mi invento
di te e di me
che ci ritroviamo
dopo tanto tempo
su una panchina
e ci diciamo
tante cose,
parlando di cose
difficili da raccontare.

(da: “Un giorno senza ore”)

Borgo antico

   Mariangela


Oh! dolci suoni
di flauti e di cornamuse
che vanno a rallegrare
il dì di festa
dell’antico borgo
disteso
su strade sassose
su vicoli stretti
ancor vivo di ulivi
e verdi arbusti.
Balconi fioriti
si affaccian
sulla via
drappi alle finestre,
quando passa col suo Gesù
la Vergine Maria.
Non più dame
e cavalieri
che venivano
a gremire
l’antico albergo
per ostentar le loro brame
di sapere
e di opulenza
mentre al misero non restava
che tendere la mano
e ritornar col capo chino
al suo destino.
S’aprono or gli androni
a forestieri
venuti a mille
per rimirar
l’antica piazza
le vecchie mura
del bastione
e del castello
che con la sua torre
si fa ancor più bello!

Lo psicologo e le fragole

   Matteo Bosinelli


Eravamo rimasti a tavola solo lui ed io.
Presi due fragole,
poi ne presi un’altra
ed infine ne presi, ultime, due.
Lo psicologo mi guardò e...
mi sorrise teneramente.

Io non mi salverò

   Marcella Colaci


Io non mi salverò
io resterò a boccheggiare
mentre le auto sull’asfalto
mangeranno i miei polmoni.
Io non mi salverò
mentre lo stomaco si riempirà
di carne, gelati, cioccolato
e non mi sentirò ancora sazia.
Io non mi salverò
resterò chiusa nella mia stanza
non sentirò rumori né voci
l’acidità delle voci sarà lontana
ma la solitudine mi attanaglierà.
Io non mi salverò.
Accenderò lo stereo
manderò qualche messaggio
scriverò sulla mia vita un verso.
Ma io che non credo
all’inferno né al paradiso
io non mi salverò.

La pace

   Matteo Bosinelli


Ho guardato il sorriso
che or or mi hai regalato,
sublime dono,
che mi ha subito abbagliato.

C’è solo l’infinito

   Elena Baragatti


Dentro di te c’è solo bellezza per me
Dentro di me c’è solo ammirazione per te.

Dentro di te c’è solo dono per me
Dentro di me c’è solo ricchezza per te.

Dentro di te c’è solo cura per me
Dentro di me c’è solo gratitudine per te.

Dentro di te c’è solo tutto l’infinito per me
Dentro di me c’è solo tutto l’infinito per te!

L’alba

   Guerrini Cavallari


Il buio e la notte
piano piano si va dileguando
portando con sé i suoi segreti e misteri,
che da sempre hanno affascinato
e intimorito l’uomo.
Langue nel ciel la pallida luna,
e assieme alle tremolanti stelle
piano piano scompariranno
ed entreranno nell’infinito.
Sulla terra aleggia
un sottile manto di nebbia
che subito si dissolverà, quando
al balzo d’ oriente
si alzerà una grande luce
e con i suoi potenti raggi l’alba
tutto il creato illuminerà.

Il pioppo

   Guerrini Cavallari


Maestoso e possente pioppo
che abbarbicato te ne stai
a guardia dell’umile orto,
nella ridente stagione i tuoi rami
eran colmi di verdi e rigogliose foglie
che davan rifugio agli augelli,
ed ebbre cantavan le cicale.
Pur io dal sole accaldato
all’ombra tua ristor trovavo.
Il gelido inverno i tuoi rami ha spogliato,
ed or sembrano braccia scheletriche
protese verso il grigio cielo,
invan sperando d’incontrare un raggio caldo.
Ma, ohimè, solo il gelo ancora impera.
Or dunque, rivestiti di pazienza,
e poi vedrai che la divina mano
che tutta la natura comanda
nuovamente coprirà di verdi e rigogliose foglie
i rami tuoi, che or son spogli.

L’addio al podere

   Guerrini Cavallari


Addio, generoso e fertile terreno!
Quando a me ti assegnaron, nel mio cuore
a mille a mille rifioriron le speranze
che anzitempo furon messe a sonnecchiare.
L ‘amaro addio che dar ti devo
non si deve a te imputare
perché io ben so
quanto generose ed abbondanti
eran le messi che mi dispensavi
ogni qualvolta sul tuo virgineo manto
la mia mano spargeva le sementi.
Ciò che mi allontana da te
è una strana malinconia
che ormai malattia s’è fatta,
questo strano morbo
che perennemente mi persegue.
Pure Freud ed anche Berto
ne conobbero il tormento.
Questo strano effetto
ha tinto di grigio il mio cammino
ma la speranza non ha mai offuscato
e con lo sguardo rivolto all’altro,
tutto continuerà, nella pagina accanto.

Ti ho trovato

   Elena Baragatti


Nel brutto più orrendo e spaventoso ho trovato
Il bello più favoloso e meraviglioso: tu.
Nel nero più buio e spento ho trovato
Il bianco più chiaro e lucente: sempre tu.
Nell’opaco e nella nebbia ho trovato
La limpidezza e la trasparenza: tu.
Nella perdizione e nella disperazione ho trovato
La salvezza e la speranza sempre tu.
Nell’imperfezione ho trovato la perfezione: tu.
Nella morte ho trovato la vita: sei tu.

Se fossimo due pietre

   Andrea Demaria


Se fossimo stati due pietre
avremmo costruito la stessa casa.

Se fossimo stati due salici piangenti
il vento avrebbe intrecciato
i nostri rami.

Se tutto questo
fosse stata realtà
ogni tramonto nuvoloso
avrebbe un’alba serena.

Spiaggia solitaria

   Guerrino Cavallari


Spiaggia solitaria,
che soltanto quasi ieri sorridevi,
con le tue infinite schiere di ombrelloni.
Sorridevano e gioivano i fanciulli
che a piedi nudi accarezzavano
l'arenario e morbido tuo manto
e muniti di palette e secchielli
dighe e castelli costruivano,
che alla mente ci portavano
antichi racconti di Fata Morgana.
Spiaggia solitaria,
che d' improvviso di malinconia ti sei velata.
Un sol vento e una pioggerellina
ti han calato nel silenzio,
ora tutto è silenzio, tutto è deserto,
s'ode soltanto la melodia del mare
che culla i miei rimpianti
e l'eterno rovescio dell'onda
sulla ferma sponda, che confonde il pianto mio
e quello di un gabbiano smarrito e solitario.

Alla Madre Africa

   Maurizio Leggeri


Questa la mia risposta al razzismo trionfante e ai tanti razzismi più o meno striscianti.

Africa sola, Africa lontana,
Africa sedotta e abbandonata…
L’uomo che tu hai inventato
alla scimmia l’hai rubato,
ora lui ti ricompensa
sottraendoti la dispensa
e con indicibile ardire
vorrebbe toglierti l’avvenire.
Riporta l’uomo nel passato
e che sia alla scimmia riconsegnato!

La vecchiaia

   Guerrino Cavallari


Oh vecchiaia
che silente come ombra di fantasma
quasi improvvisamente su di me sei calata
col tuo grigio manto
e hai offuscato tutto ciò che brillava
tutto ciò che splendeva nella mia passata giovinezza.
Di fremiti il cuor mio or si stringe
e se al cielo gli scarni occhi volgo
più nere mi appaiono le nubi.
Malfermo e traballante il passo mio si è fatto
il suol su cui lo poso
mi par che sia un selciato di viscido ghiaccio
innaturale effetto che su di me si è versato,
tutte le mie forze ha spezzato,
spento tutti i desideri sotto questo pesante fardello.
Come un relitto in balia del mar mi sento
ed ora solo spero d'approdare
in un posto sereno.

Di notte

   Elena Baragatti


Nella notte
Il pensiero di te
Mi culla dolcemente.

Di giorno
Tu mi abbagli
Più del sole.

Così devo chiudere gli occhi
Ed è subito e ancora notte.

Ritrovarsi

   François Dostuni


Notte, giungi, che pittore io divenga
per dipingere tutto dei miei sogni,
dove sono un angelo caduto in terra
e con le mie ali io possa volare da te,
arrivare alla tua finestra, vederti lì
in tutta la tua bellezza.
Principessa, apri gli occhi
che io veda l’anima tua
dirmi che sono ancora nei tuoi sogni.

Mi sentirai che parlo alla luna,
mi sentirai dire che sei bellissima
sotto la sua luce
che di un candido bianco ti veste,
mi sentirai parlar di corse su spiagge bianche
del tuo sorriso che mi ha restituito la vita
dei tuoi capelli mossi dal vento
del tuo profumo che inebria la mia mente.

Ascolta il mio cuore
che non ascolta ragioni
che di questo amore si nutre
il quale mi dà la vita.
Occhi i miei ora rivolti al cielo.

A me sei arrivata con un semplice sguardo
e da lì ti ho aspettata.
A volte non so dove mi trovo e mi chiedo perché
tutto questo,
a te non riesco ad arrivare con le mie parole
però so di essere stato mille volte in paradiso
ogni volta che vedevo un tuo sorriso,
lì mi hai portato tu
io non vi ero mai stato,
mi hai insegnato la strada
e da quel giorno bramo di essere quel sorriso.

Sogno di incrociare i tuoi occhi
anche se so che non accadrà presto,
allora, amore, nei momenti in cui sei triste
o hai dei dubbi
quando ti sembra scuro il percorso
che ci permette di ritrovarci,
sorridi, perché il tuo sorriso
scaccia ogni cosa brutta
ed è come se delle spade
si infilassero nei fianchi dei nostri nemici.

Sorridi e sorridi ancora.
Se sul tuo viso scomparisse quel sorriso
io sarei già un uomo sconfitto.
Sorridi e sorridi ancora,
anche se abbiamo perso un altro giorno
dall’alba al tramonto
e io guardo dalla finestra la luna,
le chiedo di mandarti i miei baci,
poi aspetto che i miei occhi stanchi si chiudano
per sognare di tutte le cose belle che verranno.

Ali

   Elena Baragatti


Sei un angelo
Senza le ali
Dietro la schiena
Ma con le ali
Sul cuore e nell’anima.

Sei un angelo
che non vola ma…
che fa volare!

La primavera

   François Dostuni


In noi albergherà la primavera,
con tutti i suoi colori e profumi.
Che la fiamma in me bruci ancora, mio Dio
che alla fine io possa riposare
tra le tue braccia,
dove io mi abbandonerò
ascolterò ogni tuo respiro
ogni battito del tuo cuore.
I tuoi occhi
dove io mi ritroverò
violento soffio di vita
che mi pervade,
le nostre mani intrecciate
in una stretta
che sa di sicurezza
e più nessuno potrà dividerci.

Dannazione

   Francesco Valgimigli


Un’aureola d’angeli
mi ride addosso
e non c’è neanche
un buon diavolo
con cui parlare.
e poi c’è silenzio,
troppo silenzio.

(da: “Un giorno senza ore”)

C’è una stella

   Elettra Piatesi


C'è una stella nel mio cuore,
che non fa luce, che non fa rumori.
È la stella che vuole guarire...
e darmi il diritto di non soffrire!
A vuoto e nel vuoto di questa spirale,
dove mi ha chiuso un istinto di male.
La stella cerca di farmi coraggio
con il buon senso e spirito saggio.
C'è una stella nel cuore di tutti,
nessuno sa perché.
A qualcosa dovrà servire,
bisogna, ammetterlo il più è capire
qual è la luce che essa nasconde,
qual è la forza che essa infonde.
Ognuno ha un dono in sé da scoprire
che tutta la vita gli può riempire.
Un dono per sé e per chi gli vuol bene,
che rende magico lo stare insieme,
che rende tutto di mille colori.
È gioia dentro è gioia fuori.
Cerca la stella dentro il tuo cuore!
Giuro non te ne pentirai
Quando la trovi io lo saprò
perché d'amore tu canterai.

Un mondo stupendo (a Paolo T.)

   Giacomo Corticelli


Certo, lo so il mio silenzio
fa male e il tuo sguardo pure
ed è passato un po’
di tempo da quel giorno
ed è ora di rinnovare i
pensieri, cambiare treno
alla stazione e smettere di voltarsi
e guardare a nuovi pensieri
intrisi di sangue e di speranza,
e far entrare volti nuovi
sulla mia faccia così
che il tuo silenzio potrà
un giorno smettere di bussare
alla mia porta.

L’attesa

   Matteo Bosinelli


Il lento e regolare scandire dei giorni,
nell’ attesa che il passato finalmente torni
nella successiva e mutevole seduta,
mi costringe a stare, nel frattempo,
faticosamente e dolorosamente muto.

Con le parole

   Francesco Valgimigli


Tu mi confondi
con le parole
e mi lasci solo
in mezzo alla strada
con tutto il mio circo
personale al seguito.
Poi nuvole pesanti
sopra la testa
dove non c’è niente,
più niente da scoprire.

(da: “Un giorno senza ore”)

Alberi nudi

   Maurizio


Alberi strazianti sulla via,
strani nella forma scheletrita,
allungano le nude braccia:
non vogliono mandarmi via.

Mi implorano di restare,
piangendomi addosso
le ultime lacrime di foglie.

Incosciente e impaurito
fuggo lontano,
domandandomi solo allora
cosa vogliano chiedermi
e perché proprio a me.

Mi faccio forza,
torno sui miei passi,
ma ormai è tardi:
troppo tardi
e ritrovo gli alberi
senza più lacrime
e senza più parole.

PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE UMANA

I n questo libro Paul Watzlawick si occupa degli effetti pragmatici della comunicazione umana, con particolare attenzione ai disordini del comportamento. Questo libro vuole dimostrare che non esiste comportamento patologico in un individuo isolato e che è possibile, studiando la comunicazione, individuare quegli aspetti che causano interazioni patologiche.
Nel capitolo 1 l'autore ha tentato di fissare i presupposti teorici introducendo nozioni fondamentali come ad esempio i concetti di ‘informazione’, ‘retroazione’, ‘ridondanza’.
Lo scambio di informazione, cioè la comunicazione, appare importante quando si considera l'interdipendenza tra l’individuo e il suo ambiente. La scoperta della retroazione ha reso possibile un nuovo modo di vedere le cose, come una catena in cui l'evento a produce l'evento b, l'evento b produce l'evento c… La ridondanza è stata studiata in due settori: in quello della sintassi e in quello della semantica; sulla ridondanza nella pragmatica della comunicazione è stato scritto molto poco, la maggior parte degli studi esistenti sembra che si limiti a considerare gli effetti della persona a sulla persona b.
Ora enuncio alcuni assiomi del comportamento che il nostro autore definisce nel capitolo 2.
Innanzi tutto il comportamento non ha il suo opposto: in altre parole non esiste un ‘non comportamento’, inoltre una comunicazione non soltanto trasmette un’informazione, ma impone anche un comportamento.
Nel capitolo 3 si prendono in esame le patologie potenziali che questi assiomi comportano, per esempio l’autore prende in considerazione persone che stando zitte sembra che non comunichino niente e invece comunicano la loro voglia di non comunicare.
Nel capitolo 4 la teoria della comunicazione è estesa al livello organizzativo, che si basa su un modello delle reazioni umane. Tra altri concetti si definiscono quelli di: ‘sistema’, ‘sottosistema’ e ‘totalità. Il sistema è un insieme di oggetti. Ogni oggetto è specificato dai suoi attributi; se gli oggetti sono individui i loro attributi sono i suoi comportamenti. Ogni sistema dato si può ulteriormente suddividere in sottosistemi, ognuno dei quali ha un proprio ambiente. Nella totalità di un sistema, ogni parte è in rapporto tale con le altre parti che lo costituiscono che qualunque cambiamento in una parte causa un cambiamento in tutte le parti e in tutto il sistema.
Nel capitolo 5 viene analizzata la commedia Chi ha paura di Virginia Wolf in termini di comunicazione. Tutta l'azione di questa commedia si svolge durante le ore piccole, nel soggiorno della casa di George e di Martha.
Martha è figlia unica di un rettore, suo marito George è professore incaricato nella facoltà di storia. Non hanno figli. Lei e suo padre si aspettavano che George divenisse preside della facoltà di storia e in seguito rettore dell'Università, ma George non è stato all'altezza. George e Martha stanno ritornando da una festa, sono le due del mattino ma, all'insaputa di George, Martha ha invitato a unirsi a loro una coppia conosciuta alla festa. Gli ospiti sono Nick, un nuovo insegnante della facoltà di biologia, e sua moglie Honey. In seguito si viene a sapere che Nick ha sposato Honey perché credeva che aspettasse un bambino e invece era una gravidanza isterica, ma forse era la ricchezza del suocero che aveva pesato sulla decisione. George e Martha hanno i loro segreti. C'è un fatto singolare: essi collaborano nel mantenere in vita la fantasia di avere un figlio, che starebbe per diventare maggiorenne. Poi vi è un altro fatto strano: sembra che George accidentalmente abbia colpito a morte la propria madre con un colpo di fucile e che mentre imparava a guidare abbia perso il controllo della macchina e il padre sia morto nell'incidente. In qualche modo, però, si lascia il pubblico in dubbio se questi fatti siano veri o inventati. Il primo atto ci presenta il rissoso stile verbale della coppia più anziana, l'argomento del figlio mitico e le pose da seduttrice che Martha ostenta nei confronti di Nick. Il punto più drammatico è raggiunto con un attacco sarcastico di Martha al fallimento professionale di George. L'atto secondo si apre con George e Nick che sono rimasti soli nella stanza e fanno a gara nel farsi le confidenze. George parla della morte dei suoi genitori e Nick spiega le ragioni del suo matrimonio. Quando le donne ritornano Martha comincia a ballare con Nick per sfidare George. Si passa al primo gioco, etichettato "Umiliare i padroni di casa". Martha rivela agli ospiti come sono morti i genitori del marito, dopo di che lui la picchia. Poi George comincia il gioco successivo, "Prendere di mira gli ospiti”, e svela il segreto del matrimonio imposto dalla falsa gravidanza, mortificando Nick e suscitando l'orrore di Honey. Il gioco successivo è "Saltare sulla padrona di casa", che porta Martha a sedurre Nick, ma la capacità di collaborazione del giovanotto risulta menomata. L'atto terzo si apre con Martha che è rimasta sola e rimpiange il suo tentativo sfortunato di essere infedele e con George che riunisce gli altri per lo scontro finale. Egli rivela tutta la storia del mito che hanno creato sul figlio e poi annuncia a Martha che il ragazzo è rimasto ucciso in un incidente automobilistico. La commedia finisce con una nota di ambiguità che non chiarisce se George e Martha continueranno a giocare ai genitori che lamentano la morte dell'unico figlio oppure è diventato possibile un cambiamento completo dei loro modelli di reazione.
Nel capitolo 6 tra gli altri argomenti si parla del paradosso, definito come una contraddizione che deriva da una deduzione corretta di premesse coerenti. Ci sono 3 tipi di paradossi: paradossi logico matematici; definizioni paradossali (antinomie semantiche); paradossi pragmatici (ingiunzioni paradossali, predizioni paradossali).
Il capitolo 7 è stato scritto col proposito di mostrare le applicazioni cliniche dei modelli paradossali della comunicazione. In questo capitolo si definisce il sintomo come qualcosa di involontario e incontrollabile. Si sta prendendo sempre più sul serio la teoria secondo cui l'eliminazione del sintomo non produce sistemi nuovi o peggiori. L'analista risponde dando al paziente l'incarico della cura, rendendolo responsabile del corso di trattamento, chiedendo spontaneità nello stesso tempo in cui pone le regole che circoscrivono completamente il comportamento del paziente.
Nell'epilogo l’autore si occupa della comunicazione dell' uomo con la realtà in senso esteso. L'impatto dell'ambiente su un organismo comprende una serie d'istruzioni il cui significato non è lampante e che l'organismo deve decodificare come meglio può. Le reazioni dell'organismo influenzano l'ambiente e quindi è chiaro che anche a livelli di vita molto primitivi hanno luogo interazioni complesse e continue non casuali. La vita, la realtà o il fato, Dio, la natura o qualunque nome si preferisce, è un partner che accettiamo o respingiamo e da cui ci sentiamo accettati o respinti, sostenuti o traditi. A questo partner esistenziale l'uomo propone la sua definizione del sé, che trova conferma o disconferma.
Consiglio la lettura perché questo libro contiene esempi molto validi di psicoterapia.

TI ODIO, TI LASCIO, TI…

i odio, ti lascio, ti… è un film del 2006 il cui titolo originale è The Break- Up, interpretato da Vince Vaughn e Jennifer Aniston. Desidero parlarvene perché dall’inizio alla fine è pieno zeppo di scene con i due protagonisti principali che hanno dei grossi problemi a comunicare tra loro. E a proposito di comunicazione, inizio subito dicendo che quando bisogna intitolare un’opera, occorre fare le cose per bene, altrimenti si rischia di dare il messaggio sbagliato. È successo con questo film: il titolo italiano non rende giustizia a quello originale. Un titolo come Ti odio, ti lascio, ti…, per di più accompagnato da un trailer che mostra solo le scene divertenti, ha fatto pensare al pubblico nostrano che si trattasse di una commedia da ridere, o con cui sorridere e svagarsi. In realtà non è così: chi lo ha visto ha scoperto che il film non fa poi tanto ridere per la verità, anzi è snervante. Insomma, è stato un po’ un flop, proprio perché il film veniva presentato con un messaggio sbagliato. Questo perché il film non è esattamente un divertente tira e molla tra un uomo e una donna che si ingelosiscono a vicenda con provocazioni ed amanti e con un lieto fine. Semmai parla di una coppia che ‘scoppia’ e che oltre a rompere il legame affettivo, entra in lotta per stabilire chi dei due protagonisti debba prendere possesso della casa che hanno comprato e arredato insieme. Da qui il titolo originale The Break-Up, la rottura. Del rapporto di coppia, sottinteso.
La storia si svolge a Chicago. Ad essere esatti, è durante una partita della squadra di baseball dei Cubs che Gary, il protagonista maschile, incontra una ragazza di nome Brooke, la protagonista femminile. Lui le offre un panino. Lei accetta, ma lo vuole senza senape. Gary insiste nel volerci mettere sopra la senape. Poco dopo, a fine partita, i due si parlano, lui fa una serie di battute simpatiche e i due si mettono insieme. Faccio notare che quando una persona dice una frase con il ‘non’, dice una cosa del tutto opposta a quella che direbbe senza il ‘non’: se dici che non vuoi la senape sul panino, magari perché ne sei allergico o perché non ti piace, come puoi accettare facilmente il fatto che te la diano? Quando dici no, è no. E quando dici una frase con il ‘non’, non è la stessa cosa se tu la dicessi senza, anzi viene da restare offesi se la persona a cui la dici non la capisce…
Tornando al film, dai titoli di testa si può evincere da una serie di foto che i due stiano vivendo felicemente la loro storia d’amore. Poi viene mostrato che lavoro fanno i due protagonisti. Gary fa la guida turistica su degli autobus che appartengono a una società che gestisce coi fratelli Lupus e Dennis, mentre Brooke gestisce una galleria che contiene le opere di un’artista un po’ eccentrica di nome Marilyn Dean.
La successiva scena di cui vale la pena parlare è ambientata di sera. Brooke sta preparando una cena sontuosa per i suoi parenti che verranno a farle visita, e ha chiesto a Gary di comprarle dodici limoni tornando a casa. Ma quando egli torna, lei prende il sacchetto che Gary la ha messo sul tavolo e… non ci trova dentro quello che si aspettava: i limoni sono solo tre. Intanto Gary, tutto contento di essere tornato finalmente a casa, lontano dal lavoro, pronto per fare ciò che vuole per riposarsi, si è messo a guardare in TV le fasi salienti di una partita di baseball. Brooke lo richiama con voce insoddisfatta, gli ricorda che aveva chiesto di comprare dodici limoni. Perché non l’ha fatto? Ha diritto a una spiegazione, no? Gary ha fatto di testa sua, senza comprendere per cosa servissero dodici limoni. Per lui i limoni servono solo come condimento e nulla più. Ma Brooke spiega a cosa le servivano: “Per un centrotavola che contenga dodici limoni”… “Quindi non sono neanche da mangiare i limoni!” . Brooke gli chiede poi di alzarsi e aiutarla ad apparecchiare la tavola. Ma Gary non ne ha voglia e dice che ha i piedi gonfi. “E allora? - incalza Brooke - Ho i piedi gonfi anch’io! Ho lavorato, ho fatto la spesa, ho messo tutto a posto”… Eppure è ancora in piedi a sfaccendare. Ecco dunque chi abbiamo davanti: da una parte una donna che vuole fare tutto per bene e che pretende le cose fatte assolutamente come si deve, dall’altra un uomo che non vuole fare nulla in casa. Anzi, Gary arriva persino a chiudersi in bagno a fare la doccia per evitare in modo assoluto di collaborare. Durante la cena, tutti quanti fanno i complimenti a Brooke per come ha cucinato e per come ha sistemato i mobili, la sua mamma dice addirittura che emanano un’energia positiva. L’unico a non fare i complimenti è proprio Gary, che borbotta che gli piacerebbe incanalare questa energia in un biliardo. Il sorriso di Brooke si spegne, e gli dice di no in modo categorico. Gary prova a ribattere, a dire che basta spostare un mobile qui e un altro là, ma lei taglia corto con un altro no. Poco dopo Gary si ritrova costretto a sopportare Richard, il fratello di Brooke, che si mette a parlare di come si canta quando si è in gruppo e fa fare a tutti i presenti uno strumento musicale. Tutti si mettono a cantare, compreso Richard a pochi centimetri dal volto di Gary, lasciandolo impossibilitato a dire o pensare qualcosa, anche solo di fare più piano o stare zitto. Dopo che tutti gli ospiti se ne sono andati, Gary si mette a giocare a un videogioco della serie Grand Theft Auto. Finalmente fa una cosa che gli piace, qualcosa che gli permetta di godersi la quiete del dopo cena. Ma il suo desiderio di fare qualcosa che lo rilassa senza venir disturbato è destinato a non venire esaudito. Infatti Brooke gli dice: “Io vado a lavare i piatti”. E poi, cercando di convincerlo a fare qualcosa di costruttivo e di gradito aggiunge: “Magari, aiutarmi…” . “Come no! - risponde Gary - Più tardi!”. Brooke sa che ci sono tanti, tantissimi piatti da lavare, così replica che non vuole fare più tardi e supplica Gary di sacrificare dieci minuti del suo tempo per aiutarla. In fondo non gli costa niente. A lavare in due i piatti, si fa prima. Per tutta risposta, Gary si sdraia sul divano, dice che vuole starsene tranquillo a digerire e suggerisce di lavare i piatti il giorno dopo. “Gary, odio svegliarmi e trovare la cucina sporca!” è la replica scocciata di Brooke. “Ma che sarà mai?!” minimizza Gary. Brooke perde la pazienza e sbotta: “Ho passato mezza giornata e pulire tutta casa e a cucinare la cena, mi sono ammazzata, e ora potresti farti uscire un grazie e aiutarmi a lavare i piatti!”. Gary capisce di non poter ancora fare quello che vuole, sbatte sul tavolino il joystick della PlayStation e si alza irritato dal divano: “Bene - esclama - laviamoli e facciamola finita!”. Brooke ha raggiunto il suo scopo, ma non è soddisfatta: “Sai che c’è? No! Non è questo che voglio!”. Gary resta stupito e le fa presente che è quello che lei ha chiesto fino a quel momento: aiutarla a lavare i piatti. Non è entusiasta dell’idea, anzi è scocciato, però ora è disponibile. Ma a Brooke questo non basta, e precisa: “Io voglio che tu voglia lavare i piatti!”. Se Gary deve fare qualcosa tutto nervoso perché lei l’ha costretto, allora è meglio che non lo faccia. “Perché dovrei voler lavare i piatti? - chiede Gary indispettito - Perché?”. Brooke si reca in cucina delusa, e Gary non capisce il motivo della sua ira: “Aspetta! Sei arrabbiata perché non ho lo sfrenato desiderio di lavare i piatti?”… “No, sono arrabbiata perché non hai lo sfrenato desiderio di OFFRIRTI di lavare i piatti!”… “L’ho appena fatto!”… “Perché te l’ho chiesto!” grida Brooke. Appunto, pensa Gary. Mi hai chiesto di aiutarti? Ti ho detto di sì? Basta! Fatti aiutare a lavare i piatti e amen! Così l’ammonisce: “Attenta Brooke, non fare la matta”… “Non darmi della matta! - lo interrompe Brooke - Non sono matta!”… “Non ti ho dato della matta, lo so che non sei matta! - replica Gary -Ti ho detto che fai la matta, è diverso!”. Essere matto e fare il matto in effetti sono due cose del tutto diverse. La discussione si fa sempre più movimentata, i toni si fanno più alti, Gary cerca di far capire a Brooke che se vuole una cosa da lui basta chiedergliela. Infatti se non chiedi le cose, come fai a ottenerle? Ma Brooke sa bene che non è così, anzi ci sono cose che si può capire benissimo da soli che è il caso di farle, e per di più Gary non ha fatto l’unica cosa che gli aveva chiesto, una semplicissima cosa: comprarle dodici limoni, e lui infatti gliene ha portati tre. “Se avessi saputo che mi avresti dato il tormento, ti avrei comprato ventiquattro limoni! Che dico, cento!” replica irritato Gary. Brooke invece di approfittare della presenza di Gary in cucina per cercare di convincerlo a venire al lavello per lavare i piatti con lei, passa a un concetto più generale: “Sarebbe carino che tu facessi quello che ti chiedo, sarebbe ancora più carino se lo facessi senza che io debba chiedertelo!”. In altre parole Brooke desidera che lui l’aiuti in qualcosa o faccia qualcosa per lei con entusiasmo, e ancora di più che si offra volontario senza sentirsi chiedere nulla. Purtroppo non sempre un atto di gentilezza è gradito o richiesto. Se tu fai qualcosa di gradito senza che nessuno te lo chieda, chi lo riceve non è detto che sia contento, anzi si può anche schermire dicendo che non era necessario, o lamentarsi perché quella cosa è stata fatta nel modo sbagliato o al momento sbagliato. Dopo una lunghissima discussione, che per i toni alti diventa un vero e proprio litigio, Brooke fa intendere qual è il suo problema: “Io faccio un sacco di cose per te, tu invece che cosa fai per me?”. Spazientito e sentendosi (lui!) trattato con ingratitudine, Gary esclama: “Io mi sbatto la schiena tutti i giorni per te! Io lavoro sodo tutti i giorni per dimostrare che sono il migliore in questa città, perché io voglio guadagnare di più, abbastanza da arrivare un giorno da guadagnare per tutti e due, cosicché un giorno tu non debba più lavorare”… “Io voglio lavorare!” lo interrompe Brooke. Gary si altera per l’interruzione e poi riprende il filo del discorso: “Io ti chiedo soltanto un briciolo di comprensione quando torno a casa e ti chiedo venti minuti di relax, giusto il tempo per riposarmi e riprendermi dalla mia lunga giornata di lavoro! E invece tu che fai? Mi aggredisci con le tue lagne!”. Brooke si offende a morte nel sentirsi dire che è una lagna, anzi una lagna continua come precisa Gary, il quale alla fine dichiara con tono deciso e infuriato: “Io voglio, anzi esigo, di essere lasciato in pace!”. A questo punto Brooke si arrende all’idea di dover lavare i piatti tutta da sola, e gli dice di fare proprio le cose che lui è abituato a fare e che lei disprezza e disapprova: “Fai quello che vuoi! Lascia i calzini in giro! Vestiti come un barbone! Gioca col tuo stupido videogame!”. E subito dopo, prendendo lo sfogo di Gary sul ritorno dal lavoro come una definitiva rottura, grida: “A me non importa niente, perché io con te ho chiuso! HO CHIUSO! Non voglio passare un secondo di più della mia vita con un insensibile coglione! Sei un coglione!” E sbatte la porta. Ma Gary non è più sereno e non vuole più giocare alla Playstation. Così se ne va da Johnny, un suo amico barista, a raccontargli cos’è successo. Intanto Brooke chiama al telefono la sua amica Addie, e si sfoga con lei raccontandole l’andamento della serata ed esprimendo ancora meglio come vorrebbe che fosse Gary. Per essere esatti dice che vuole “un uomo che tenga al nostro rapporto al punto da sudarselo giorno per giorno!”… E per il momento si aspetta che Gary rifletta sul suo comportamento e le chieda scusa. Ma non va così. Gary torna a casa e invece di chiedere scusa, va invece in soggiorno ad aprire il divano-letto e si corica lì, mentre lei se ne sta imbronciata nel letto matrimoniale. Entrambi sono troppo orgogliosi, convinti di aver ragione e non disposti a parlarsi e perdonarsi, senza capire che in questo modo alimenteranno sempre di più il loro rancore. Non è esattamente quello che ci si aspetta di solito in un film. E non si può dire che ci siano state troppe scene divertenti. Gary e Brooke si sono scontrati con troppa rabbia. E non sarà l’ultima volta nel film, purtroppo. Nelle scene seguenti i due si indispettiscono a vicenda. Lui compra un biliardo per giocarci con Johnny e un altro amico di nome Mark, un agente immobiliare. Lei, per ripicca, lo esclude dalla squadra di bowling di cui fanno parte in occasione della semifinale di un torneo. Lui le vieta di fare quello che vuole nel salotto, definendolo il proprio spazio; lei autorizza il fratello Richard a fare le prove del proprio coro in camera da letto, svegliando Gary che tenta di cacciarlo via, beccandosi però una mossa di arte marziale che lo butta a terra. In seguito Brooke propone a Gary un esperimento. Stanno per arrivare a casa degli amici in comune, tra cui Johnny e Mark, per giocare tutti insieme a qualcosa. La ragazza ha deciso che questa volta le parti si invertono. Lei si limiterà a farsi la doccia, come Gary la sera della cena coi parenti, lui dovrà occuparsi di tutto il resto. Gary accetta. Pronto a onorare quest’impegno, egli inizia a guardarsi intorno in cucina, ma è costretto a disturbare Brooke mentre si lava. “Non abbiamo niente da mangiare!”. “E allora?”. “Gli ospiti arrivano tra un’ora! Che cosa gli do?” chiede Gary. “Quello che vuoi, sei grande!”. Nel giro di un’ora, un lasso di tempo sufficiente a comprare e preparare da mangiare, Gary non fa quasi niente, non prova neanche a fare la spesa, si limita solo a fare le cose che interessano a lui. Apre un sacchetto di patatine, prende fuori la scatola del Pictionary, prepara il biliardo per fare una partita con Johnny. Un po’ poco. Anche troppo poco, visto che da bere non c’è niente. Così gli ospiti sono costretti ad accontentarsi solo di acqua del lavello. In bicchieri di carta. Da bere a temperatura ambiente, perché quel maschilista di Gary non ha pensato nemmeno a fare i cubetti di ghiaccio. A quanto pare, non ci ha pensato perché nelle sue intenzioni c’è solo di giocare tutti insieme, non di mangiare qualcosa. Viene il momento di giocare. Lo scopo di Pictionary è fare indovinare ai giocatori qual è la parola segreta da indovinare, facendo un disegno che sia abbastanza chiaro per la propria squadra, e nel contempo abbastanza astruso perché quelli della squadra avversaria non lo capiscano. Tocca a Brooke disegnare. “Non deve essere un bel disegno, si deve capire quello che è!” dice Gary. Brooke disegna una volta, due volte, tre volte qualcosa di simile a una scarpa e Gary e quelli della sua squadra ripetono continuamente: “Scarpa!” , ma la parola da indovinare non è quella. Brooke disegna qualcosa di più piccolo, ma Gary e gli altri si ostinano a vederci una scarpa. La ragazza cancella il disegno precedente e disegna qualcosa di più grande. Ancora una volta la squadra di Gary grida “scarpa”, anche in formati diversi, diminutivo, accrescitivo, varietà eccetera. Brooke cerca di suggerire la parola giusta disegnando l’oggetto in tutti i modi, in tutte le dimensioni, finché il tempo a disposizione scade e Gary grida per la frustrazione: “Cavolo, abbiamo detto tutti i tipi di scarpa!”. Brooke lo guarda furente, gli lancia addosso la matita e rivela: “È un calzino, stronzo!”. Gary si alza, acchiappa il foglio e grida in faccia a Brooke: “Un bambino di tre anni con le matite avrebbe fatto meglio!”. “Scusa, eh! Scusa se non sono brava come te a esporre in giro le opere che altri uomini hanno realizzato!”, replica Brooke alludendo al lavoro di lui. I toni con cui i due parlano sono altissimi. Tutti intorno a loro assistono impotenti a questo violento litigio. Gran brutta serata, non c’è che dire. Organizzata male e conclusa peggio. Tutti gli ospiti se ne vanno via, resta solo Mark. Costui condivide sia gli interessi che la sensibilità di entrambi, ed è quindi la persona perfetta per analizzare la situazione. Alla fine dichiara che ormai il rapporto di coppia di Gary e Brooke è così in crisi che è quasi impossibile che si possano riconciliare e continuare a stare insieme serenamente. La cosa migliore da fare, secondo lui, è quella di abbandonare l’appartamento dopo averlo venduto, così ognuno potrà comprarsi una casa tutta propria, coi propri spazi, e tenerci le proprie cose, senza dover dividere niente con nessuno. Sarà Mark stesso a far vedere ai potenziali acquirenti l’appartamento, mentre Gary e Brooke dovranno sgomberare o riconciliarsi in due settimane. Finora l’andazzo è stato quasi sempre un litigio alternato a un momento di vita sociale tipico di ogni giorno, sia in casa che al lavoro. Ancora si sono viste più scene irritanti che divertenti. Da parte sua, Gary vorrebbe tenere la casa tutta per sé, Brooke ha lo stesso desiderio, ma vorrebbe anche continuare a viverci con Gary, per il quale prova ancora dei sentimenti. Così qualche giorno più tardi, incomincia a portarsi in casa dei ragazzi con lo scopo di far ingelosire Gary e indurlo a fare di tutto per riconquistarla ed essere più gentile e disponibile con lei, tra questi un certo Mike, un ragazzo muscoloso, anzi un vero figo. Gary però non sembra capire le sue intenzioni. Anzi, finisce col piegare la situazione a suo favore, indispettendo la donna. Infatti Gary si fa amico Mike e si mette a giocare alla PlayStation con lui per quattro ore. La serata che Brooke aveva programmato va a vuoto. Dopo che lei è uscita di casa per riaccompagnare Mike, Gary lascia perdere i videogiochi, telefona a Lupus e gli chiede di portare qualche ragazza, in modo da fare tutti insieme una bella partita di Texas Hold’em Poker seguita da un balletto stile strip club. Brooke torna a casa, resta sbalordita, Gary la nota con la coda dell’occhio, si imbarazza. Il giorno dopo lei fa un ultimo tentativo per recuperare il loro rapporto. Chiede a Gary con tono gentile se è disposto a venire a vedere con lei un concerto degli Old 97’s. Dice che ha già con sé due biglietti. Gary non risponde subito, sembra pensieroso, per lui andare a sentire un po’ di musica potrebbe essere un’idea per trascorrere una serata. Dice che verrà, senza però essere del tutto convinto. Brooke dà per scontata e convincente quella risposta, e quando viene sera si reca al concerto. Chiede alla biglietteria di conservare il biglietto per Gary, si fa dare due birre, una per sé e una per lui, e gli tiene il posto. Il teatro si riempie, e Gary non si fa vedere. Il concerto inizia, e ancora Gary non appare. Il concerto prosegue, e Brooke aspetta ancora che Gary arrivi. Sta ad aspettarlo fino a quando, mentre tutti intorno a lei si divertono, constata che non arriverà più e se ne va via che è sul punto di piangere. Col passare del tempo l’attesa di Brooke si è fatta sempre più angosciante, fino a lasciarla ferita ed offesa dal mancato arrivo di Gary. Qualcosa dentro di lei si è rotto in modo definitivo. Non solo Gary non si è fatto vedere, ma addirittura le ha mancato di rispetto, mancando a quell’appuntamento dopo aver detto che sarebbe venuto.
E così, quando Gary ritorna a casa e inizia a giustificarsi, Brooke lo interrompe subito dicendogli che non gliene importa niente del perché non sia venuto senza avvertire. La voce di Brooke trema per la rabbia, il dispetto, il pianto. Il volto è contratto e celato alla vista di Gary. In mano, un fazzoletto. Poco dopo, si mette a dire a pezzi e bocconi quello che aveva cercato di dirgli la sera della cena coi parenti, quando lui ha cercato di evitare l’obbligo di lavare i piatti: “Io - incomincia Brooke - Ho… cucinato… ho raccolto la roba che lasciavi in giro… ti ho preparato i vestiti da indossare la mattina, come a un bambino… io ti ho… sostenuto… aiutato per il tuo lavoro… quando c’era qualche problema ero sempre io a occuparmene, ho fatto di tutto per te… e tu non solo non hai mai fatto niente per me… ma quello che io ho fatto per te, non lo hai neanche minimamente apprezzato”.
In realtà Gary sente di averlo apprezzato, solo che non l’ha mai dato a vedere. E questo per Brooke è stato il suo problema: “Tu non mi hai detto grazie - continua a dire lei - non mi hai mai fatto capire che tutto quello che ho fatto per te vale qualcosa, non mi hai mai dimostrato che tu a me ci tieni…”. “Perché non me l’hai detto prima?” chiede limpidamente Gary. “Gary, ho provato, ho provato…” dice Brooke. Lui si giustifica, facendole notare che ultimamente lei gli ha detto delle cose per fargliene capire altre: “Io non sono un indovino”, conclude. E allora? Certe cose si possono benissimo capire da soli, se, come e quando è il caso di farle.
Non costa niente fare apprezzamenti, come dire grazie, dare aiuto e sostegno morale, far risparmiare un’operazione faticosa a qualcuno, fare qualche regalo, insomma far capire che si tiene alla persona a cui si vuol bene. Gary non ha fatto niente di tutto questo. E Brooke si è sentita sempre più ferita, oltre che mai ricompensata. E ora che si è superato il limite, lei lo caccia via, con un tono così rabbioso che sembra uno sfratto. Ma Gary ha capito che lei ha bisogno di stare da sola per sfogare il suo pianto. Parlandone con Johnny, Gary capisce finalmente di essere stato un po’ troppo egoista, e che questa storia non può più continuare. Nemmeno provare a riconquistare Brooke facendole trovare la casa tutta ordinata e una cena a lume di candela può funzionare, per quanto egli si sforzi. Tant’è vero che dopo averne parlato con Brooke serenamente per la prima volta dopo tanto tempo, mentre lei cercava di far comprare un soprammobile a un ragazzo venuto in visita, capisce che devono lasciarsi. Nell’epilogo, ambientato in inverno, si vedono Gary e Brooke rincontrarsi e salutarsi da amici, e nulla più.
Gary è diventato autonomo e ha capito quali sono le priorità della vita quotidiana, non certo giocare ai videogiochi. Brooke è più serena, visto che non deve più soffrire l’angoscia di dover correggere qualcuno e di dover pretendere troppo da lui. Perché altrimenti ci si rimane solo molto male, e appunto era quello che a Brooke capitava con Gary, invece di parlargli serenamente e a tempo debito. E l’appartamento? I due protagonisti hanno preso le proprie cose e l’hanno abbandonato, ognuno andando a stare per conto proprio, come aveva previsto Mark.
Ognuno con un proprio spazio, senza dover invadere quello di qualcun altro indispettendolo. Aspettarsi un totale happy ending, con i due che tornavano a vivere insieme sotto lo stesso tetto, sarebbe stato irrealistico e troppo ottimista, oltre che favolistico. Pensateci: se fosse andata così, Gary e Brooke non sarebbero forse ricaduti negli stessi errori di prima? Io dico di sì. Quando hanno litigato all’inizio del film, cioè dopo la cena coi parenti, si sono interrotti a vicenda, hanno alzato il tono della voce sempre di più (in parte per evitare di essere interrotti ancora, in parte per imporre le proprie ragioni), hanno anche cambiato argomento con grande frequenza, non si sono mai spiegati del tutto. E non hanno neanche il dono della sintesi, oltre a non sapere mantenere la calma. Tutto questo non permette affatto una buona comunicazione, un dialogo sereno, nel quale c’è il messaggio, chi lo emette parlando e chi lo riceve ascoltando.
E a furia di interrompersi, di alzare la voce, ma anche di stare troppo tempo zitti a cercare di pensare alle parole da dire quando la situazione è troppo tesa, a non dire o voler dire qualcosa per la timidezza o la paura della reazione di un altro, si può sperare di avere una buona comunicazione? Certe persone bisogna lasciarle perdere ed estrometterle dalla propria esistenza o dal proprio giro di conoscenze, se si vuole stare sereni. Se poi con queste persone non si riesce a trovare un dialogo, non bisogna neanche provarci. Se due persone non si intendono, non riescono a stare insieme, a stare sereni e dialogare, come non pensare di staccarsi? Gli equivoci vanno sempre chiariti, sempre. E le spiegazioni date anche quelle, il prima possibile.

CONDIVIDIAMO LE ESPERIENZE PER MIGLIORARE IL SERVIZIO

l Faro è lieto di supportare un’iniziativa dell’associazione Nessuno resti indietro, la quale si rivolge ai nostri lettori, utenti o familiari, in cerca di racconti personali riguardanti le proprie esperienze in rapporto con i servizi, che possano avere una valenza generale e che aiutino a individuare sia le criticità che i punti di forza, in modo da aiutare i servizi stessi a procedere nella giusta direzione, per migliorare sempre più il rapporto terapeutico.
Compatibilmente con lo spazio a disposizione Il Faro sarà lieto di pubblicare in un apposita rubrica della rivista questi racconti.
Chi intenda portare il proprio contributo a questa iniziativa, o voglia maggiori chiarimenti in proposito può scrivere a: nessunorestiindietro@gmail.com o contattare telefonicamente il presidente di Nessuno resti indietro, Mario Mazzocchi, al numero 3485660573.

COMUNICARE È IMPORTANTE

   LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani


La comunicazione fra due o più persone è efficace quando la persona che ascolta recepisce il concetto che si sta enunciando. Ovviamente anche noi dobbiamo essere predisposti ad ascoltare l’altro.
Federico Gerri

La comunicazione è bellissima ed è un’invenzione dell’uomo, permette alla fantasia di prendere forma.
Davide Palazzo

La comunicazione è un modo di relazionarsi con gli altri.
Stefano Gardini

Comunicare è importante per relazionarsi con la gente che c’è in città, provincia o paesini (ad esempio di montagna).
Danilo Sammarchi

La comunicazione è importante nella vita, la comunicazione è dialogo… Libri e musica sono mezzi di comunicazione come i telefoni e i cellulari.
Nicolae Gallingani

LA COMUNICAZIONE

   Centro Diurno di Casalecchio di Reno


La comunicazione è per me qualcosa di estremamente difficile. Infatti mi mette di fronte ad un calcolo meschino ed opportunistico: voglio comunicare con gli altri perché gli altri abbiano bisogno di me. Voglio comunicare… ma in realtà voglio fare pesare le mie argomentazioni sulla massa vorrei spiccare sulla massa amorfa e bruta. A meno che non sia di umore particolarmente radioso (nel qual caso sono interiormente più libero, meno legato al giudizio degli altri e disposto ad accettare anche le più serrate critiche) questo è l’unico interesse che mi porta a comunicare: procacciarmi la stima degli altri. Non vorrei dipendere dagli altri e al tempo stesso lo vorrei.
Giovanni



Comunicare significa per me trasferire da me agli altri alcune idee che mi passano per la mente e sentire cosa mi viene risposto. Io vorrei soltanto sapere se quello che dico va d’accordo col pensiero degli altri: se va d’accordo sono molto contento e mi sento realizzato; se non va d’accordo mi dispiace un‘tantinello’… non vorrei trovarmi in una situazione di scontro con gli altri; penso infatti che quando si comunicano pensieri ideologicamente differenti da quelli di altre persone si potrebbero creare contrasti e la comunicazione potrebbe dunque interrompersi. Ideologicamente parlando un pensiero cosiddetto‘di destra’ che incontra un pensiero ‘di sinistra’ (o viceversa) potrebbe generare irritazione e fastidio. Le differenze dottrinali potrebbero generare fastidi, se non rabbia. Comunicare, d’altra parte, sentimenti, emozioni o stati d’animo potrebbe non essere sempre una buona cosa; l’esito della comunicazione dipende anche dallo stato d’animo di chi ascolta… Il mio timore è che avvenga un contrasto più o meno esplicito e che quindi prevalga l’incomunicabilità. Tuttavia penso che una certa comunicabilità tra posizioni diverse o apparentemente opposte si possa trovare.
Lorenzo

Cosa pensano i velisti della comunicazione

...La comunicazione è un mondo di interpretazioni: il linguaggio del corpo… il tono… essere aggressivi con le parole… essere dolci e comprensivi… L'interpretazione è individuale, ma confrontarsi con altri può far cogliere altre sfaccettature in un discorso, qualcosa che magari non si è colto prima nelle parole, arrivando a capire meglio la/e persona/e che le ha dette.

...Se la comunicazione è condividere, che senso ha parlare per non dire nulla?

...Anche gli animali hanno il loro linguaggio di comunicazione, come lo scodinzolare di un cane felice, il miagolio di un gatto che chiede le coccole, un cane che ringhia per avvisarti che non gli piaci, un gatto che soffia quando è impaurito… E questi gesti banali ma essenziali nella comunicazione degli animali con noi, che siamo più complessi, dovremmo ascoltarli e imparare anche da loro.

...La comunicazione è il risultato che si ottiene.

Comunicazione verbale e non verbale, cinesica, prossemica e paraverbale. Comunicazione interpersonale, nei gruppi, istituzionale, interna, esterna e integrata. Ascolto e feedback. Linguaggio positivo. Non si può non comunicare.
Sì Mo’

La comunicazione non verbale

La comunicazione non verbale è quella parte della comunicazione che comprende tutti gli aspetti di uno scambio comunicativo che non riguardano il livello puramente semantico del messaggio, ossia il significato letterale delle parole che compongono il messaggio stesso, ma che riguardano il linguaggio del corpo, ossia la comunicazione non parlata tra persone. Inoltre importantissimi sono i tanti codici della cultura comune i quali ci aiutano a capire i vari messaggi che le parole, i toni e i movimenti del corpo esprimono solo parzialmente. La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente e spesso ha effetti più limitanti è quello della comunicazione fra mezzi d'informazione e pubblico.
Raffaele Di Siena

IL SACRIFICIO DEL SECOLO

   Matteo Bosinelli


S emplicemente straordinaria è la ventunesima mossa del nero, nella sesta partita del match finale per la designazione del Campione del Mondo, svoltosi a Mosca nel 1960.
Opposti fra loro lo sfidante, Michail Tal - nero- e il detentore del titolo, Michail Botvinnik -bianco. Nel centro- partita, che si prospettava complesso, Tal aveva però conquistato un apprezzabile dinamismo: puntò allora tutto sulla vittoria, sacrificando, a sorpresa, un cavallo (il cosiddetto 'Sacrificio del Secolo') e, pur giocando sul filo del rasoio, raggiunse il successo.
È possibile che questa mossa, anziché di un mero calcolo, sia stata il frutto di intuizione, coraggio, fantasia e 'colpo d'occhio', a cui questo campione ci ha successivamente abituati. Molti, fra cui anch' io, sono diventati fan di questo fuoriclasse, che venne definito da Boris Spasskij come ''un giocatore molto simpatico e comunicativo, che dava le pacche sulle spalle ai giornalisti e che ti immagini giocare a scacchi strimpellando con una chitarra fra le braccia''. Tale rimase ai vertici mondiali per anni, dimostrando così di non essere un bluff, ma un vero campione, che faceva dell'intuito la propria arma di battaglia preferita.
Purtroppo, ammalatosi gravemente, è scomparso qualche anno fa, lasciandoci le sue partite immortali.

Botvinnik - Tal (Match Finale Campionato del Mondo, Mosca, 1960 - 6° Partita)

1) c4      Cf5
2) Cf3      g6
3) g3      Ag7
4) Ag2      0-0
5) d4      d6
6) Cc3      Cbd7
7) 0-0      e5
8) e4      c6
9) h3      Db6
10) d5      cxd5
11) cxd5      Cc5
12) Ce1      Ad7
13) Cd3      Cxd3
14) Dxd3      T fc8
15) Tb1      Ch5
16) Ae3      Db4
17) De2      Tc4
18) T fc1      T ac8
19) Rh2      f5
20) exf5      Axf5
21) Ta1      Cf4




23) Ad2 Dxb2
24) Tab1 f3
25) Txb2 fxe2
26) Tb3 Td4
27) Ae1 Ae5+
28) Rg1 Af4
29) Cxe2 T xc1
30) Cxd4 Txe1+
31) Af1 Ae4
32) Ce2 Ae5
33) f4 Af6
34) Txb7 Axd5
35) T c7 Axa2
36) T xa7 Ac4
37) Ta8+ Rf7
38) Ta7+ Re6
39) Ta3 d5
40) Rf2 Ah4+
41) Rg2 Rd6
42) Cg3 Axg3
43) Axc4 dxc4
44) Rxg3 Rd5
45) T a7 c3
46) T c7 Rd4
47) Rg2

e contemporaneamente il bianco abbandona: 0-1




LO STATO ITALIANO SI AVVALE DEL CONTRIBUTO ECONOMICO
DEI SUOI CITTADINI PIÙ DEBOLI

   Fabrizio Sinibaldi


C ome tutti sanno lo Stato Italiano vieta il fumo nei luoghi pubblici, promuove campagne contro il fumo e contemporaneamente, detenendo il monopolio della vendita delle sigarette, guadagna diversi miliardi di euro vendendo le sigarette a circa 10 milioni dei propri cittadini. Io sono un ‘diversamente intelligente’ fumatore. Per abitudine sono mattiniero ed essendo nato il 15 agosto sono un matto di tipo ‘napoleonico’, infatti sono convinto di essere Napoleone Bonaparte. Molto spesso chiedo ai passanti quale strada porta a Mosca. Quando alle 2 del mattino mi alzo, ovviamente come prima cosa mi devo vestire e, ovviamente indosso una divisa napoleonica con tanto di coccarda rossa, bianca e blu e spadino come accessorio principe. Dopodiché comincio le mie solite attività giornaliere che curiosamente non hanno mai previsto lo studio del francese, così può capitare che stramaledica l’ammiraglio Nelson in bolognese stretto. Normalmente la prima cosa che ho l’abitudine di fare è leggere tre ore consecutive cronometrate. La precisione era caratteristica di Bonaparte. Questa mattina mi sono trovato in una situazione insolita. Stavo leggendo fumando quando mi sono reso conto che terminata una pagina non riuscivo a girarla, non potendo così sapere come andava a finire quello che stavo leggendo. Dopo circa tre quarti d’ora ho capito perché non riuscivo a sfogliare più le pagine. Avevo una sigaretta accesa nella mano sinistra e una accesa nella mano destra e questo mi impediva di sapere che fine avrebbe fatto Emma. Così ho il sospetto che il monopolio di stato guadagni il doppio su un traffico ipocrita su una persona che potrebbe mettersi una T-shirt e un paio di jeans alle due di notte (perché non è mattina, porca puttana, è notte, diciamolo) quando si alza.

DAZZENGER

   Darietto


Misteri tra luoghi e nomi:
● A capodanno in via Capo c’è stato un danno.
● Vincenzo e Vincenza stanno bene solo a Vicenza!
● Dove va una persona triste? A Trieste.
● I matematici hanno un convegno a Potenza.
● A Castenaso c’è la fabbrica dei fazzoletti.
● Chi fa una beffa a Genova? Genoveffa.
● Uno squalo catturato nel giorno di Pasqua come verrà chiamato? Pasqualo.
● Dove si trovano le persone che ti vogliono bene? A Bentivoglio.
● Dov'è che l'aceto appena comprato si perde misteriosamente? A Persiceto.
● Dove viene allevato un cucciolo di toro ? A Torino.
● Dove si produce troppa crema? A Cremona.
● Dove si trova un abbondante raccolto di pesche? A Pescara.
● Dove si gusta meglio un lecca-lecca? A Lecco.
● Dove si celebra una messa corta? A Messina.
● Qual è la città più fredda d’Italia? Gela.
● Dove si trova un gran cumulo di sassi? A Sassari.
● Che ne dici se entro a Reggio, poi esco Reggio?
● Dove vanno le persone gobbe a curarsi? A Cuneo.
● Dov'è che un riccio è cresciuto troppo? A Riccione.
● In quale luogo i rapaci vanno a migrare? A L’Aquila.
● Quale città è la preferita dei commessi di ferramenta? Trapani.
● E quella degli erboristi? La Spezia.
● Dove arrivi soltanto grazie al fiuto? A Roma.
● In quale città non conviene senza dubbio giocare a poker? Bari.

Botta e risposta:
● “Sai, vado pazzo per quella materia!!!”“Quale?” ... “La mattemattica”
● “Vedi quelle due?”“Sì e quindi?” ... “Quella si lamenta sempre e quell'altra si lasalvia di continuo.”
● “Allora, hai notizie?”“No, al minuto ho nocaie e nosempronie”
● Sapete cos’è il calcestruzzo? Uno struzzo che viene preso a calci.




ANCORA BUONO

   Giulia Berra (tratto da Facebook)


osa hai trovato?".
"Nulla solo schifezze".
"Guarda questo è ancora buono, se lo ripulisci lo puoi mettere d'inverno".
"Non mi sta bene, è dieci volte me".
"Guarda cosa ho trovato, qualcuno ha buttato i calzini".
"Giusti?".
"Boh, sono scuri non ci vedo".
"Guarda questa, cosa dici la porto a Mario?".
Mentre una mostrava la cravatta che usciva a penzoloni dal bordo del bidone, l'altra trovava un cappello e lo sventolava dall’altro capo. Chiamava l’amica china tra i sacchi disfatti e urlava forte finché, con la guancia macchiata di nero, non le rispondeva con un sorriso che sembrava uno sbaglio.
 






IMAGINARY VOYAGE

   Ebo Del Bianco (tratto da Facebook)


Supporto musicale: brano Day to day, autore ed esecutore Michael Ragonese piano, Walter Smith III sax tenore.

Ore 5 e 15 minuti esatti: la partenza è imminente, l’oscurità convive con l’intensità del freddo. I piedi sollecitano ad accelerare l’avvio. La società dorme, la vedo immobile, sento il suo silenzio. È l’ora giusta per il distacco. Sono l’unico passante che calpesta la via deserta. Sto studiando l’itinerario che mi porti fuori dalla realtà senza una meta di arrivo. Vorrei tanto avvicinarmi all’impossibile di questo viaggio immaginario, a qualsiasi prezzo da pagare. Sto cercando me stesso smarrito tra una marea di incertezze e perplessità. La staticità è il peggior nemico, il dinamismo è energia medicinale che ti fa viaggiare almeno con sicurezza. Non so assolutamente nulla del tracciato che ho iniziato. Poi un muretto mi invita a salire. Accendo la pila che illumina un torrente scarso d’acqua dove immobile poggia le sue zampe un martin pescatore in attesa di tendere un agguato a un malcapitato pesce. Ma dietro sento un qualcosa che si muove, la pila illumina i suoi occhi tristi e le sue quattro zampe. Di certo non ha una casa, un punto di riferimento. Gli chiedo di adottarmi, di farmi uscire dallo stato confusionale, ma lui, il cane, non si fida, nonostante le coccole. Mi siedo accanto e ci osserviamo da vicino, mentre il martin pescatore non demorde. Questo viaggio non ha una fine, una meta, è momentaneamente sospeso nella speranza che il cane riprenda il suo cammino, magari di fianco ai miei piedi, in attesa che, lui, diventi il mio padrone.

SILENZIO MUTO

   Opola Resonive


L ui guardava con fare malinconico il quadro appeso nella stanza d'albergo, erano ormai due anni che non riusciva a vederla, lei non voleva! Lui l'amava, ma di un grande amore, le mandava mail, messaggi e chiamate a cui lei non rispondeva mai. Lei si era innamorata di lui, ma adesso aveva preferito la carriera alla loro storia e si era trasferita in un altro continente da Parigi a New York. Lui non l’aveva seguita e lei non voleva più vederlo. Adesso faceva parte di un team di lavoro di successo. "Il lavoro prima di tutto" diceva lei. "L'amore prima di tutto" diceva lui. "Amore e lavoro: perché bisogna scegliere?", diceva lui…Adesso la carriera di lei andava sempre meglio, era diventata un avvocato importante di un grande studio, mentre lui rimaneva un negoziante di una piccola boutique. Ogni sera lui piangeva e, finito di piangere, piangeva di nuovo, lei ogni sera usciva coi colleghi e andava per locali. Lui voleva solo lei, lei voleva solo divertirsi, non con lui... A Parigi il negozio andava avanti bene, si trovava in una buona zona di passaggio di turisti, del lavoro lui non si poteva lamentare. La loro storia era durata sette anni e poi… il fatidico settimo anno, che porta alla fine del rapporto. Alti e bassi, finiti bruscamente, due strade diverse. Col tempo si cambia, lei era cambiata, lui no... Correva il tempo, erano passati due anni dall'ultima volta che avevano passeggiato assieme per le strade di Parigi, poi il nulla... Lui adesso aspettava, aspettava solo lei, era depresso, molto depresso, non pensava ad altro che a lei, solo a lei, non guardava le altre donne. Aveva già tentato di rivederla, tempo prima, venendo a New York, ma non c'era riuscito. Ora era tornato, stava nella stanza di un hotel a New York, era lì per cercarla. Ormai erano passati dieci giorni, ma non era ancora riuscito a incontrarla, lei non voleva, ma senza un motivo valido, non gli parlava più, era stanca di lui, non lo sopportava più. Lui faceva appostamenti davanti a casa sua o dove lavorava, e finalmente un giorno la vide! Eccola là, bella, sempre più bella, aveva cambiato il taglio di capelli, aveva vestiti costosi e stava salendo su una macchina di lusso... Era sera, era venuto a prenderla un uomo, stavano certamente andando in qualche locale. Non poteva perdersi l'occasione per parlarle. Fermò un taxi e chiese di seguire la loro auto. La seguì fino ad un grande ristorante italiano, molto famoso in città. Lei e il suo accompagnatore entrarono e così fece lui. La gelosia lo invase, quello poteva essere il suo nuovo compagno, doveva asssolutamente saperlo! Si erano seduti in fondo alla sala, lui si sedette un po' distante. Doveva aspettare il momento buono, quando lei fosse sola per parlarle. Verso la fine della cena l'accompagnatore si alzò dal tavolo così lui ebbe l'occasione che cercava: si avvicinò a lei e le disse "Mi manchi tanto non posso vivere senza di te". Lei lo guardò con aria di compassione e rispose: "Chi sei?". Lui si mise a piangere, non lo riconosceva più, si era dimenticata del loro grande amore... "Sono Victor, non ti ricordi di me?". Lei allora: "Ho cancellato la mia vita di Parigi, non voglio più ricordare quel periodo!". Lui: "Ma siamo stati bene assieme!". Lei: "Non voglio più vederti, pensa a te stesso e non cercarmi più!". Lui si allontanò piangendo, come aveva potuto continuare ad amare una donna che era diventata così fredda e ostile? Parlarle gli aveva fatto capire che lei non era più quella di una volta, amava un ricordo... Il parlarle aveva finalmente posto fine al desiderio di un amore ormai impossibile...

SCIOGLIERSI

   Maria Chiara Reitani


M i ricordo di essere stata tutta attorcigliata su me stessa.
Era il 1982 quando è esplosa una terribile crisi bipolare, ansioso-depressiva si diceva allora. Ero abbastanza giovane, avevo venticinque anni, ma mi sentivo vecchia. Mi ero laureata a pieni voti, ma fuori corso di due anni e alla mia famiglia non andava del tutto bene. Era autunno, novembre per la precisione, io abitavo già a Bologna dal 1976, sette lunghi anni di depressione mista ad ansia ed euforia. Per la prima volta conobbi l’amore, per un mio coetaneo venezuelano, Edgardo Diaz. Fu una passione breve e travolgente ma anche lacerante.
Nel marzo del 1983 dopo essermi laureata al DAMS, con una tesi su Luca Ronconi e il Laboratorio di Prato, sono andata ad abitare nel quartiere S. Ruffillo, in via Albornoz n. 14. Mia madre, che allora aveva sessant’anni (la mia età, e questo mi fa rabbrividire), si era trasferita dalla Puglia, da Cerignola, mio paese natale, per starmi accanto. Era malata anche lei della mia stessa malattia, me l’aveva trasmessa: per me era difficilissimo perdonarla, ma l’ho fatto, a denti stretti. Mio fratello, di due anni più giovane di me, si sarebbe laureato in corso, sempre in lettere, a pieni voti, ma all’università di Bari. Mi ritenevo fortunata per aver avuto l’opportunità di studiare, di vivere in una città come Bologna, che amavo ed amo tuttora, ma piena di tante contraddizioni. Sempre nel marzo dell’83 ho conosciuto due psicoterapeuti, che sarebbero stati fondamentali per la mia formazione e la mia crescita e mi avrebbero dato una grossa mano, a cui tuttora sono riconoscente. Ho fatto una lunga esperienza di analisi e di conoscenza di me stessa. Ricordo con affetto Lucia, una ragazza pugliese come me, più giovane di me di qualche anno, che faceva l’infermiera ausiliaria all’ospedale Malpighi, che mi è stata molto vicina e a cui devo molto. Mi ha invitato al suo matrimonio a Lesina, un paesino del Gargano, ma io non ci sono andata, non ricordo bene per quale motivo. Sono caduta puntualmente nell’autobiografia, ma per dirla con Simone de Beauvoir è il primo passo per passare ad una scrittura oggettiva. Frequento da molti anni l’MCE il movimento di cooperazione educativa. Nell’84 ho fatto la mia prima esperienza di insegnante di lettere a S. Pietro in Cariano, un paesino della Valpolicella, in provincia di Verona. È stato un impatto difficilissimo, ma costruttivo. Sono passati trentaquattro anni, una vita ormai.

A NONNA ELENA

   Vincenzo Capozza


hi vuol esser lieto, sia, di doman non c'è certezza”. Passata alla storia con ogni probabilità per ‘magnifiche’ doti da statista, più che per originalità poetica, la notissima strofa di Lorenzo de' Medici, nasconde una verità difficilmente confutabile. Mi verrebbe da dire, beninteso sottovoce, qualcosa di simile a una certezza. Eppure ce ne dimentichiamo. Allontaniamo il pensiero di un domani involontariamente interrotto con vivissimo fastidio. La paura delle cose ignote raggiunge apicalità ultraterrene al solo pensiero di lasciare questo basso mondo. Accade così che solo alla perdita di un affetto importante, anche gli animi meno inclini a interrogarsi, d'un colpo cedono. È il 22 agosto 2017 quando la mia cara nonna Elena spira, alla ragionevole età di novantasette anni. La pelle chiara e i lineamenti gentili svelavano le paterne origini triestine. Come paterna era pure la responsabilità nativa: Bellagio, sul lago di Como. Un padre con l'innata propensione tutta ebraica al lavoro. Tale vezzo paterno, non fu però l'unica causa di incessante transumanza per il Belpaese. La storia ci insegna che il nostro popolo, descritto spessissimo negli almanacchi come scanzonato e foriero di buoni sentimenti, sia stato tutt'altro che benevolo verso gli ebrei. Fu così che tra una fuga e l’altra, Bepi (così si chiamava il mio bisnonno) si trovò catapultato da Trieste in un paesino dell'entroterra calabrese, Strongoli, dove sposa l’autoctona Marina, e da quest'unione calabro- friulana nasce mia nonna. A pochi anni Elena però venne affidata a un ricco zio di Lecce, molto meno vicino all'ebraismo di quanto non fosse papà Bepi, ma che aveva il torto di aver appeso uno dopo l’altro a casa sua una filza di fiocchi celesti. La barbara usanza di strappare un figlio al nido originario per ‘affidarlo’ (volendo usare un termine elegante) ad altri parenti, ha segnato mia nonna per tutta la sua vita. Nelle serate trascorse a chiacchierare sul balcone ascoltavo incredulo i suoi racconti leccesi. Andava orgogliosa di questa vita agiata e in particolare il viso le si illuminava nel ricordare quando, invidiata da tutti in città, arrivava a teatro in carrozza. O quando, nel ricordare vezzosamente insistenti corteggiatori, le guance prendevano colore e lei faceva un risolino simile ad un piccolo nitrito. Simile vita principesca, nel paesello calabro l’avrebbe potuta tutt’al più leggere sui libri di fiabe. Poi però quando tornava a parlare dei genitori, mentre ricordava il papà come uomo di infinita bontà e dolcezza, nel parlare della madre il volto s’induriva. Mi diceva sempre: “Mamma era molto dura, non era come papà. Non ricordo mai un gesto di affetto da parte sua”. Non sono sicuro che i contemporanei autori del piccolo schermo spenderebbero un penny per rappresentazioni poco edulcorate di principesse ricche ma ferite nell'intimità, di carrozze trasformate in zucche se non nel giorno di Halloween, di padri talmente dolci da sembrare materni e madri algide. Sono invece sicuro che mia nonna abbia trascorso tutta la vita a tentare di colmare il solco lasciato nell’animo da quello strappo insensato e violento dalla famiglia, che adduceva in primis alla madre. Si sa però che i solchi dell’animo sono talmente profondi che spesso non basta una vita per sanarli. Nonna difatti non c'è mai riuscita, o almeno non completamente. In vita è stata un’incallita maschilista. Privilegiava sfacciatamente i rapporti con figli e nipoti, tutti accomunati dal genere opposto al suo. Ma soprattutto quello ‘strappo’ forgiò un carattere che a molti appariva distante, formale. Sempre ospitale e accogliente a casa, sempre elegante nei modi dentro e fuori casa, una dedizione talmente sentita per la forma e per l'ordine da divenire spesso maniacale. Un linguaggio forbito. Un linguaggio a tratti regale e a tratti talmente personalizzato da risultare incomprensibile. Per nonna le verdure più che ‘intere’ erano ‘intonse’, ai proverbi locali ne preferiva alcuni che in Calabria erano pressoché sconosciuti, tra cui: “Ecco fatto il becco all'oca”. La sua fervida fantasia dava però il meglio nell’inventare o sostituire le parole. Resta negli annali, quando mostrando ai figli le albicocche, disse loro: “Quelli si chiamano ermellini”. Vivissima fu la delusione dei pargoli, quando nessuno tra i loro compagni di scuola chiamava ‘ermellini’ quei frutti color arancione. Ricordo poi che, quando era ancora giovane, le chiesi se andasse alle poste. “Enzuccio mio - mi rispose - lo sai che alla posta nonna non va perché c'è l'odore di prossimo”. La mia immaturità, in particolar modo quella olfattiva, non mi permise di comprendere a pieno quella affermazione. Affermazione in cui c’era un po’ tutta nonna. Fu così che la feroce ironia familiare ebbe gioco facile nel darle in sorte il soprannome de ‘La zarina’. Così è, anzi fu. In effetti per molti mia nonna rimarrà ‘La zarina’. Elegante, accogliente, ma formale e un po’ distante. Quasi a ricordare la ‘vacuità’, come recitava la voce fuori campo nel film L'età dell'innocenza. Per fortuna mi accade spesso di trovare linfa vitale nella musica e nelle parole di un cantante emerso di recente, Francesco Gabbani: Presto il tempo darà torto alle parole/ E alla tua bellezza più di una ragione / Poche scuse buone da buttare via / E ho raccolto tutto quello ch'eravamo / Nascondendolo in un posto più lontano / Come indovinare una fotografia / Forse ognuno ha la sua colpa /Ogni colpa i suoi perché / Che in silenzio si perdona da sé / Ed ognuno per se stesso / Veste la sua verità / Purché resti nuda l'altra metà /…/ Per convincermi ch’è vera a tutti i costi / La mia versione dei ricordi /…/
Così io ho sempre sentito questa sua ‘formalità’ piuttosto come una straordinaria ‘signorilità’. Anzi, a pensarci bene il primo aggettivo che mi viene in mente ricordando nonna Elena è proprio ‘signorile’. La forma era il suo scudo, ma se si riusciva a fare breccia in quest’armatura formale, si rimaneva avvolti dal candore, fragilità, dolcezza e realismo insieme. Quando mi faceva delle domande spesso la prendevo in giro. Riporto qui di seguito una discussione: “Enzuccio mio - mi chiamava così anche da adulto - abbiamo trovato una donzella valida?”. Io: “Nonna ma io non mi voglio sposare!”. “Ma mica ti devi sposare. Tanto adesso quelli che si sposano nemmeno un anno e si dividono, devi solo convivere, però ti devi dare una mossa o te la deve trovare nonna una bella donzella? Anzi nemmeno troppo bella, te lo dico sempre che, mentre la bella si gira e si rigira, la brutta si marita”. Poi: “Enzuccio mio all’università hai una bella combriccola di amichetti? Hai trovato una buona occupazione lavorativa? Che cosa vorresti fare?”. E io “Nonna, penso il barbone!”. “Eh no, eh no Enzo!”, diceva scuotendo la testa addolorata. Così mi affrettavo ad aggiungere: “Nonna, ma com'è che non va bene niente?” e lei: “Enzuccio mio, ma guarda che le cose non sono mai come dovrebbero essere, questa è la vita”. Al tavolo da gioco era fortunata e un po' distratta. A Natale il suo gioco preferito a carte si chiamava ‘cucù’. Solo che ogni tanto quando era indecisa sul da farsi, si alzava in piedi e diceva, con qualsiasi carta avesse in mano: “Brucio!”, suscitando in tutti una tale ilarità da rischiare un collasso. Chi vuol esser lieto, sia, del doman non c'è tristezza. Se c'è uno stato d'animo che mia nonna non esprimeva mai, o quasi, era la tristezza. È stata per me sempre un fulgido esempio di allegria e spensieratezza. Un fulgido esempio di joie de vivre, anche e soprattutto in momenti in cui nella mia vita non ne riscontravo traccia. Chi scrive chiede venia all’arguto lettore, in particolar modo a quello giuridico. Poche righe intrise non tanto di vizi di forma e di sostanza, quanto piuttosto del padre di tutti i vizi: l'affetto.

LA VIGNETTA

   Riccardo La Rocca





Salve, sono Remo Nucci, presidente dell’associazione di volontariato ambientalista "Amici del Reno", ma... anche coordinatore di un gruppo di psicosociologia a livello amatoriale. Nonché... frequentatore dell'I.M. di Casalecchio, dove ho potuto conoscere il Faro, appunto. Entusiasta della vostra pubblicazione, la più interessante ed argomentata sull'argomento fin qui conosciuta. Complimenti! Se possibile vorrei riceverlo direttamente al mio indirizzo. Vi sarei molto grato.
Remo



Grazie per i complimenti, caro Remo, ricevere lettere così è… galvanizzante!
Purtroppo non siamo attrezzati per l’invio del cartaceo a domicilio, però ti mettiamo fin d’ora nell’indirizzario di posta elettronica, così riceverai Il Faro online puntualmente ad ogni uscita.
Come avrai visto il nostro giornale è gratuito ed è distribuito capillarmente nei Centri di Salute Mentale, ma anche in vari luoghi di aggregazione sociale.
Potrai trovarne delle copie a Casalecchio e prenderne un po’ per distribuirle se ti fa piacere. Buon lavoro anche a te e auguri per la tua associazione!


OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI: MATTEO GIORGINI


Nato il 6 luglio 1979, sono da sempre interessato alle arti figurative, ho iniziato a disegnare e dipingere da autodidatta, per piacere personale. La pittura è una forma d'arte in cui ci si può esprimere con molta libertà. I miei lavori sono prevalentemente figurativi: rielaboro, partendo da quello che vedo su riviste, fumetti, fotografie e dal vero. Utilizzo tecniche e materiali misti, con un occhio di riguardo allo spreco. Quando creo, cerco o trovo un’ispirazione che sia anche energia, che poi viene trasferita nel disegno. Gestisco da qualche anno una pagina su Facebook dove ho modo di pubblicare alcuni dei miei lavori. Infine vorrei dire che se quando avevo vent’anni qualcuno mi avesse detto che sarei diventato un pittore, probabilmente non gli avrei creduto.

Matteo Giorgini




I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Matteo Giorgini