ADOLFO WILDT: “Il puro folle”
Piergiorgio Fanti
A
dolfo Wildt nacque a Milano nel 1868, da famiglia di lontana origine svizzera.
La sua opera, fin da quando studiava con Giuseppe Grandi, scultore che
partecipò alla ‘Scapigliatura’ lombarda, si distinse per l’aspetto
cerebrale e per l’importanza data al simbolo. Egli fu infatti estraneo
a ogni approccio verista.
Nel 1896 vinse il primo premio all’esposizione di Monaco di Baviera e
ottenne l’indipendenza economica. Già allora però si manifestavano le
inquietudini spirituali e le alte ambizioni che lo tormentarono tutta
la vita.
Il Wildt realizzava con mirabile perizia tecnica le sue opere, rendendo
la materia lucida e ‘porcellanosa’. Ricercava tutte le possibili
estenuate raffinatezze del fare scultura. I suoi volti ricordano le
antiche maschere del dramma greco e si rifanno anche alle nature morte
con maschere grottesche tanto in uso nel primo Seicento.
Nell’efebico Puro folle (o Parsifal)
del 1930 appaiono invece evidenti i richiami all’arte classica. La luce
scorre pacata su piani e volumi e si diffonde dolcemente su superfici
semplificate: un plasticismo vicino a quanto sostenuto nel manifesto
del gruppo del ‘Novecento’ di Margherita Sarfatti.
Il Wildt detenne la cattedra di scultura a Brera e fra i suoi allievi ebbe anche Lucio Fontana. Morì a Milano il 12 marzo 1931.
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EDITORIALE
Fabio Tolomelli
I
l dentro o fuori dalla normalità o, se vogliamo, il passaggio tra
dentro la salute mentale e fuori, con nevrosi e psicosi, è molto
sottile e difficile da definire.
Premesso ciò, ricordo che veramente io un tempo mi sentivo fortemente
radicato nella normalità, anzi credevo di essere molto forte e
invulnerabile. Volevo essere il più bravo in tutto ciò che facevo. Così
mi sono svegliato una brutta mattina in cui mi ripetevo ossessivamente:
“Non ce la faccio più”. Era la primavera del 1996. Da quel momento è
iniziato un processo autodistruttivo, che si sta placando solo
nell’ultimo periodo. In sostanza i disturbi psicotici mi impedivano
qualsiasi attività lavorativa e mi toglievano la spontaneità in tutti i
contesti sociali.
Ho capito da poco che individuando le cause e curando i motivi della
malattia si può far cambiare la propria vita. E si può essere più
‘dentro’ che ‘fuori’. Perché quando si è fuori si sta male, molto male.
Sia per come ti ci senti da dentro, sia per i messaggi che ti arrivano
da fuori. Sì, perché la malattia mentale si nutre ed amplifica anche in
relazione ai messaggi che arrivano dall’esterno, dove tutti sono bravi
a fare e dire diagnosi, con una persona che non ha più difese
psicologiche: tu sei il malato e gli altri hanno tutti la ragione, e la
giusta ricetta.
Spesso si dice che la malattia mentale è come altre malattie croniche:
ha bisogno di cure con farmaci. Verissimo. Però, per esperienza
personale, posso dire che anche lavorare sul proprio corpo con tecniche
di rilassamento aiuta. E importante è il dialogo con il medico. Nel mio
caso ha portato un equilibrio e un rilassamento che nemmeno i più
potenti neurolettici sono stati in grado di trasmettermi nel corso di
questi ventidue anni.
Troppo facile è prescrivere ricoveri dove si sancisce se sei dentro o
fuori, più difficile è capire quelle che sono le cause e le dinamiche
della malattia e trovare le strategie più opportune per combatterla. Io
sono tranquillo nell’assumere i farmaci, perché sono nella quantità e
qualità giuste per permettermi di lavorare e avere una vita normale.
Questo promuove una spirale virtuosa che fa aumentare la salute e una
vita piena.
Sono stato fortunato ad andare fuori di testa a Bologna e in quel
preciso momento storico. In base alle conoscenze scientifiche di allora
si è fatto tutto il possibile. Probabilmente se mi fossi ammalato
prima, o da un’altra parte del mondo, ora sarei rinchiuso in un qualche
manicomio e sarei psicologicamente un vegetale o peggio ancora non ci
sarei più. Sì, perché fino alla legge Basaglia, se eri considerato
‘fuori’, finivi… ‘dentro’, e curato come incurabile. L’importante era
non infastidire con i dubbi e timori i cosiddetti normali, che vedevano
nel diverso la causa di tutti i mali. Meglio rinchiuderlo, dunque. E in
questi ambienti la prima psichiatria faceva i suoi esperimenti:
lobotomie, elettroshock, crisi glicemiche e febbri altissime indotte
chimicamente. I risultati sono quelli che sappiamo. Si è perseverato
per troppo tempo nell’utilizzo di queste tecniche.
Grazie al prof. Franco Basaglia, lo psicotico ha ritrovato la sua
dignità e identità nel contesto sociale in cui vive, anche se i
pregiudizi e le incomprensioni sono sempre dietro l’angolo. Per questo
posso affermare che sono stanco di dovermi vergognare della mia
diagnosi.
Ora sono ben integrato dentro il tessuto sociale: ho una famiglia,
svolgo il lavoro che ho sempre sognato, ho tempo libero e sono in
equilibrio. Il mio messaggio perciò è questo: se siete un po’ o del
tutto ‘fuori’, non abbiate paura, perché col tempo, l’impegno, le cure
giuste, si può uscirne e ritornare dentro a una semplice ma fantastica
vita, sia dentro che fuori.
Buona lettura del Faro, che vi illumina dentro e fuori, nell’infinito mare della vita.
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GRAZIE, FRANCO
Luca G.
G
razie, Franco.
Se non fosse stato per te, adesso io sarei un internato.
Se non fosse stato per te, sarei dentro un brutto posto nel quale
conoscerei solo pillole, cinghie, elettroshock e infermieri grossi,
rudi e severi.
Se non fosse stato per te, sarei dentro un posto dal quale evadere mi
sarebbe impossibile, anche con la mente, perché se facessi anche solo
un tentativo per farlo, questo verrebbe schiacciato.
Se non fosse stato per te, adesso io sarei dentro una gabbia, o incatenato, o legato a un letto.
Se non fosse stato per te, le mie arrabbiature, le mie irritazioni, i
miei scatti di nervosismo sarebbero puniti in modo corporale e non
capiti, non affrontati, non risolti a parole.
Se non fosse stato per te, oggi non avrei un letto, o una stanza, o una casa tutta mia.
Se non fosse stato per te, non avrei mai potuto aprire un libro, vedere un film, ascoltare una canzone.
Se non fosse stato per te, non avrei mai potuto incontrare e parlare
con persone che vivono una vita più impegnativa, ma anche più serena
della mia.
Se non fosse stato per te, non avrei mai potuto girare il mondo e vedere com’è fatto.
Se non fosse stato per te, non sarei mai potuto andare a scuola né
farmi una cultura e non avrei mai giocato a palla o a nascondino, forse
non avrei neanche degli amici.
Se non fosse stato per te, forse non avrei conosciuto altro che isolamento.
Se non fosse stato per te, forse oggi vedrei i miei genitori e parenti
solo come degli estranei che mi vengono ogni tanto a far visita senza
che io sappia il perché.
Se non fosse stato per te, avrei avuto meno occasioni di socializzare,
conoscere nuova gente, mi sarei sentito più solo, e anche abbandonato.
Se non fosse stato per te, forse non avrei trovato delle buone ragioni per vivere, forse mi sarei anche suicidato.
Se non fosse stato per te, le mie pulsioni sessuali sarebbero state
derise, fraintese e punite, perché ritenute qualcosa di diabolico e
peccaminoso invece che una cosa naturale.
Se non fosse stato per te, forse oggi sarei una persona crudele, perché
magari da piccolo potrei aver subito abusi, botte, maltrattamenti,
umiliazioni e tormenti, e non conoscendo altro che questo, non avrei
fatto altro a quelli intorno a me.
Se non fosse stato per te, i miei sfoghi e i miei atti di creatività
sarebbero stati scambiati per qualcosa di assurdo, e vedendomi come un
pazzo mi avrebbero punito.
Se non fosse stato per te, non avrei mai potuto creare delle storie da
raccontare, scrivere libri né pubblicarli, e forse questa rivista non
esisterebbe.
Se non fosse stato per te, nessuno avrebbe scoperto le mie capacità né avrebbe pensato di indurmi a sfruttarle.
Se non fosse stato per te, nessuno mi darebbe un aiuto vero quando mi
arrabbio, mi innervosisco o non capisco le cose, ma verrei solo ridotto
all’immobilità e al silenzio.
Se non fosse stato per te, oggi nessuno mi darebbe spiegazioni quando le desidero.
Se non fosse stato per te, per ogni colpa anche immeritata non potrei mai spiegarmi, ma verrei punito e basta.
Se non fosse stato per te, nessuno mi chiarirebbe le cose che non capisco.
Se non fosse stato per te, nessuno mi aiuterebbe a parlare quando faccio una cosa brutta o quando sto male.
Se non fosse stato per te, nessuno mi avrebbe incoraggiato ad aiutarlo ad aiutarmi.
Se non fosse stato per te, non avrei mai imparato cose utili. Ma soprattutto non potrei vivere una vita normale.
Grazie, Franco.
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DENTRO O FUORI? OVVERO: RICOVERO SÌ O RICOVERO NO?
Matteo Bosinelli
O
rmai quasi costantemente, quando la sofferenza diventa non facilmente
controllabile, mi pongo il problema: ricovero o resistenza fin quanto è
possibile?
È un problema non da poco, perché una certa faciloneria nel farsi
ricoverare può ingenerare abitudini o modalità ‘esagerate’ di lotta
alla sofferenza, nonché un'altrettanto esagerata attrazione per la vita
da ‘coccolato’. D'altro canto il ricovero non solo può prevenire
pericolose crisi nella fase acuta, ma può essere ulteriormente utile,
per dosare una terapia farmacologica ormai obsoleta e inefficace, o
semplicemente per dare un paio di settimane di sollievo al sofferente
e, perché no, anche ai suoi familiari o conviventi. Concludo queste
brevi riflessioni auspicando, nei casi ‘limite’, un buon rapporto
paziente-psichiatra-familiari, che possa portare a una decisione
comune, congrua e assennata.
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CHI È FUORI È FUORI, CHI È DENTRO È DENTRO
Giorgia Bolognini
Così cominciava tanti anni fa una
specie di gioco-rito, che si faceva coi compagni o i cugini di
campagna, chiamato ‘nascondino’. Quando i Nas tacevano, e le perfidie
erano meno, e il lavoro si trovava, più o meno sempre. Chi rimaneva
fuori, doveva subito nascondersi per non essere beccato. Adesso le oche
sono molte, ed è difficile non farsi beccare. E chi è dentro? È dentro.
Può trattarsi nella maggior parte dei casi di un lavoro (fuori da un
lavoro = essere licenziati), anche fuori posto, fuori tema, fuori dalla
società. Emarginati, eliminati, soli. A meno che ‘fuori’ non voglia
dire ‘fuori di testa’. Questo lo dicono gli amici: “Ma sei fuori di
testa”? Sì, mi chiudo dentro. Perché stare fuori quando c’è un mondo
così bello dentro di noi? Mi guardo, rifletto, penso: quanta Arte,
quanta Musica, o Poesia, o Passione, o Filosofia, ci può essere dentro
di me, tanto da riempirmi? Riempire le ore vuote di un tempo sprecato,
riempire il vuoto di Amici persi, di un Amore finito troppo presto, di
un lavoro bloccato, di una vita vuota dentro e fuori e che non ha più
senso (e chissà quanti altri come me!). Chi ti vede fuori non ti vede
dentro, oppure è come leggere un libro dalla copertina, cioè non saper
leggere dentro le persone. Quante volte ci sentiamo dire: “Se non mi
dici come ti senti dentro, come faccio a leggerti nel pensiero?”. Forse
meglio la telepatia… Di sicuro! Quando sei dentro, per gli altri sei
fuori. E se voglio stare dentro quando sono fuori e stare fuori quando
sono dentro? Nessuno me lo impedisce! E se io dico: “Sono dentro di
me”, nessuno può costringermi a uscire, o se sono fuori, rinchiudermi
dentro. Dentro una stanza, dentro a un sistema, dentro a un progetto
che non condivido, o qualcosa che mi appare assurdo, solo perché è
fuori di me (non sono io fuori dal progetto, ma è il progetto che è
fuori di me). E se tornassi dentro? Mi disse una volta un dottore: “È
giusta la legge Basaglia, ma in certi casi il manicomio è dentro”. Io
ho pensato: “Allora sto fuori!”. Alludeva forse a una ‘rara malattia’
(se così si può chiamare), ‘schizofrenia’, ma io non ci ho mai creduto,
a meno che non ci stia credendo adesso. La chiamo ‘rara’ perché non c’è
nessuno che la manifesti fuori, fuori dagli ospedali, fuori di sé,
fuori di casa, fuori da un certo contesto, fuori nel senso: allo
scoperto. Spesso queste persone vengono trattate come appestate (cioè
che non le vuol nessuno), o come fenomeni da baraccone, o nei migliori
dei casi, come beautiful mind.
Quindi dentro: voci, calunnie e beffe. Rumori, pensieri tempestosi.
Oppure severi giudici, ordini, divieti. Se ‘dentro’ vuol dire questo
risuonare dentro di sé, allora do ragione ai dottori, è un manicomio,
meglio stare fuori. Ma in fondo, se ascolto le mie Voci… vogliono
essere ascoltate, capite. Come i sei personaggi in cerca d’autore di
Pirandello. O, come scriveva Shakespeare: “Il grande teatro
dell’universo mondo ospita molte più tragedie di quello che viviamo…”.
Sogni, pazzi, giullari, voli pindarici. Fantasia, ramo di perla rara!
Ormai da nessuno capita, da nessuno cercata, da nessuno voluta, perché
non c’è tempo per i sogni, bisogna pensare alla realtà, sennò ci si
sente soli, ci si sente vuoti, ci si sente fuori dal mondo, ci si sente
pazzi. Ma se il ‘dentro’ è solo un vuoto da riempire, ci può stare di
tutto: vite passate, per chi crede nella reincarnazione, desideri
astratti mai appagati, oppure ansia, morte, paura, rabbia. Non tutto
ciò che è in noi è positivo, forse perché troppo basso. Manca il
concetto della Mente Superiore, l’Intuitivo, la Voce del Sé, l’Ego. Per
questo ci vuole il Viaggio Interiore, la Risposta Telepatica. Per
conoscere il dentro, bisogna entrarci, come in un tunnel, come in una
stanza. Per aprire uno scrigno ci vuole la chiave. A volte, anche
dall’aspetto esteriore si può capire che cosa un oggetto ci nasconde:
uno scrigno sicuramente qualcosa di prezioso, un luogo - come per
esempio una cantina - buio, sporcizia e ragnatele (pensiero basso). Non
così per il Pensiero Divino. Pace Interiore, Comprensione. Essere Umano
Superiore. ‘vas spirituale’, intesa come ‘casa interiore’, ovvero la
più intima stanza che è dentro di noi, dove dimora Dio. Preghiera
Interiore. Natura, silenzio, suoni, alberi, prati, fiori, montagne,
cascate, nubi, armonia con l’universo. Trasformare il buio in luce.
Saggio: il mio braccio è un ramo, il mio piede un fiume, il mio ventre
un lago, la mia testa foglie, il mio cuore roccia, le mie mani
montagne, il mio pensiero nubi. Luce Divina, Luce Interiore, il Vero Sé
Stesso. Dio dentro di noi, dentro l’universo, noi dentro Dio.
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CHI È CESARE
Cesare Riitano
C
hi è Cesare? Un moderno Odisseo assetato di esperienze? Un
anacronistico cavaliere medievale? Oppure un contemporaneo eroe, in
fuga dalle convenzioni della quotidianità? Apparentemente può sembrare
tutte queste cose, ma la mia trentennale esperienza da psichiatra mi
sibila nell’orecchio che, in fondo, Cesare non corrisponde a nessuno di
questi profili. Per comprenderlo meglio analizziamo per grandi linee il
suo passato. Mancato giocatore di baseball, ex pugile, studente capace
ma incostante, egli nutre un precoce disprezzo per le salutari tappe
emotive dell’adolescenza, come il fidanzamento oppure l’esperienza
dell’esame di maturità; senza contare la sua anticonformistica visione
del matrimonio, considerato da Cesare un volgare contratto che
sminuisce un sentimento esaltante come l’amore. Glisserei nel giudicare
la sua cosciente ma estrema dimensione sessuale: in fondo, quello che
fa a casa sua, sono fatti suoi. Facendo la somma di tutti questi
addendi, ne risulta un soggetto caratterizzato da una consapevole,
straordinaria diversità da quello che è il canone esperienziale degli
altri membri del suo branco d’appartenenza. Cesare è un diverso; la sua
diversità però, non solo è cercata e voluta, ma è addirittura da lui
intenzionalmente imposta, a volte con la forza, a tutto il mondo.
Questo lo rende un emarginato. Se fossi un mediocre medico di un
disagiato paesello calabrese lo farei immediatamente ricoverare DENTRO
una fatiscente struttura manicomiale; ma io mi chiamo Angela Tomelli, e
ho studiato e sono cresciuta professionalmente nella Bologna
progressista, e questo mio orgoglioso background m’impone di
approcciarmi a Cesare in maniera più articolata. Io lo sottoporrei, sì,
a una cura psicoterapeutica e farmacologica, ma mi adopererei anche per
dargli una chance, FUORI! Le sue qualità mi sembrano evidenti. Dai suoi
racconti, è nitida, oltre alla predisposizione per la scrittura, anche
la sua esilarante verve, manifestata da una mitomane autoironia,
propria solo degli artisti, seppur dannati.
Invitandovi alla lettura delle sue opere, vi suggerisco di considerare
Cesare nella sua corretta dimensione: un uomo che cerca un posto nel
mondo.
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DENTRO E FUORI / FUORI E DENTRO
Paula Mencarelli
C
he dire, difficile quasi una sfida impossibile da svelare; ma io amo le
sfide impossibili e questo ‘dentro e fuori/fuori e dentro’ rappresenta
per me un’amorevole consapevolezza ulteriore del mio disagio psichico
che dura da vent’anni, chissà forse di più. Queste due semplici parole
così essenziali in realtà mi mettono in profonda crisi. Rifletto... e
ho paura, tanta paura dentro e fuori, fuori e dentro. E di fronte alla
paura c’è poco da fare: i farmaci, gli incontri con lo psichiatra, con
lo psicologo, con i famigliari, lo psicodramma, la psicoterapia
famigliare, la psicoterapia di gruppo, le attività ludiche e culturali
proposte dal comitato dei famigliari e dal dipartimento stesso. Tante
cose in realtà che io ho già tutte sperimentate e che in parte continuo
a fare. Ora però la paura rimane, lo stigma di malata mentale è dentro
di me come anche dentro di me è la consapevolezza che la mia sofferenza
sarà presente per tutta la mia esistenza biologica. E fuori chi c’è?
Fuori ci sono i miei angeli, Lucia e Giorgia... le mie infermiere, che
mi conoscono da tanti anni e sono il mio punto di riferimento più
importante, più dello psichiatra, più dello psicologo, più dei farmaci,
più di me stessa.
Perché il problema in primis sono io, quando sto male la paura
dell’altro mi invade, sento dentro di me un senso di estrema diffidenza
nel prossimo e mi nascondo, divento aggressiva, troppo loquace,
eccessiva ed euforica insieme a tratti anche depressa tipico del
disturbo bipolare di cui soffro e non voglio accettare che sto male e
ho bisogno di aiuto... Ho bisogno anche di un ricovero dove sono
coccolata e protetta dalla mia estrema fragilità.
E poi chi c’è fuori? I miei cari e amati ‘utenti’ come me con cui
condivido progetti, speranze, fallimenti, desideri, per cui ben vengano
tutte le collaborazioni tra enti privati e pubblici, professionisti
privati e pubblici, operatori, educatori, volontari e aggiungo
politici, giornalisti, gente comune, amici... che possono solo aiutare
noi ‘utenti’ a sopportare lo stigma dentro di noi in primis e fare
nostra la resilienza cioè la capacità di affrontare in maniera positiva
eventi traumatici.
Fuori tutto il resto kindly, ugly and lovely world, ma soprattutto mi
auguro che ci sia l’abilitazione alla vita per noi malati mentali di
cui parla spesso la nostra cara e stimatissima dottoressa Ivonne
Donegani.
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DENTRO O FUORI
Patrizia Degli Esposti
Murato in te è solo notte. Apri gli occhi,
fuori di te troverai luci infinite.
R. Tagore
Succede nella vita che vogliamo stare
soli, che abbiamo necessità di isolarci per riflettere o per trovare il
nostro divino interiore. Dentro al nostro nido ci sentiamo protetti,
lontano dal giudizio altrui e possiamo abbandonare le nostre paure, le
nostre insicurezze, le nostre debolezze. Ci costruiamo una bolla e non
facciamo entrare nessuno diventando prigionieri di noi stessi e schiavi
delle nostre paranoie. Occorre una grande dose di coraggio per uscire,
forare la bolla che - sì - ci protegge, ma lentamente ed
inesorabilmente ci schiaccia. Rompere il guscio, come i pulcini, forare
la bolla e uscire, e immergersi nella vita. Ci vuole coraggio a
sorridere a chi si gira dalla parte opposta e mina le nostre sicurezze.
Siamo come il seme del grano che sta caldo avvolto nella terra. Lì si
sente al sicuro, ma se vuole vivere affronta il terreno, lo fora ed
esce. Lì fa fronte al vento, alla pioggia, al sole, agli uccelli e
cresce trasformandosi in spiga.
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QUANDO I MALATI DIVENNERO PERSONE
Augusto Mocella
Se nel Medio Evo la follia era intesa
praticamente come ‘possessione’ demoniaca e affrontata con rituali
anche cruenti dalla Chiesa, in età moderna essa divenne oggetto di
controllo sociale. Sorsero case di internamento in cui le persone
venivano rinchiuse non per essere curate, ma perché non potessero
nuocere o infastidire. Lì vivevano in condizioni disumane ed erano
costrette a subire punizioni corporali. A parte l’azione di pochi
psichiatri illuminati, come Philippe Pinel, neppure l’epoca dei ‘lumi’
fu un periodo facile per i malati di mente. Nel tentativo di
‘normalizzare’ l’intera società, la reclusione del diverso ebbe il
massimo di espansione, fino al periodo del positivismo. Poi, con
l’irruzione della psicoanalisi di Freud, e delle correnti filosofiche
dell’esistenzialismo, si ripropose l’attenzione sulla centralità della
persona. Se in passato si tendeva a porre attenzione soprattutto alla
sicurezza sociale, a difendersi dalla violenza che poteva scaturire
dalla malattia mentale, si cominciò a mirare alla cura e
all’accompagnamento della stessa con pratiche riabilitative.
In Italia, quarant’anni fa, la legge 13 maggio 1978 n.180 proibì
l’ulteriore ricovero di malati nei manicomi. Si abbattevano così mura
secolari di pregiudizio e si restituiva la dignità umana ai ricoverati.
Secondo la visione di Franco Basaglia si doveva passare a servizi
territoriali di diagnosi e cura aperti ventiquattr’ore al giorno. La
strada è stata lunga ma è stata tracciata.
La rivoluzione cominciò con l’uscita dal recinto dell’ospedale
psichiatrico di Trieste della scultura di Marco Cavallo,
opera collettiva dei pazienti, raffigurante un ronzinante che tirava il
carretto della biancheria dei ricoverati. Questa uscita liberatoria del
cavallo è diventata il simbolo della liberazione dei reclusi dal
manicomio, come poi sarà il salto della rete metallica da parte
dell’indiano d’America nel successivo film Qualcuno volò sul nido del cuculo.
La liberazione non è ancora guarigione, ma ne è l’inizio.
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CARCERE
Francesca
O
gni giorno tanti volontari entrano nei luoghi di detenzione mossi dalla
passione disinteressata per l’umanità, i suoi diritti e la dignità.
Portano in quell’angolo di mondo isolato e invisibile il calore della
relazione umana che supera le barriere della stigmatizzazione della
pena. Agiscono la volontà di far sentire la persona reclusa parte della
società, non un semplice problema da trattare scientificamente e con
distacco. Si dedicano al lavoro con e per i detenuti, per il benessere
della società intera.
Con l’obiettivo di offrire a tutti i cittadini l’opportunità di dare un
altro sguardo sul carcere e sulle tematiche ad esso correlate alcune
associazioni di volontariato hanno promosso diverse edizioni della
rassegna culturale Fuori e dentro. Un altro sguardo sul carcere.
Questa rassegna vuole creare un ponte tra il dentro e fuori le mura,
nel tentativo di far comprendere che dietro al reato c’è una persona
che ha commesso un errore, talvolta grave, ma che non può essere
privata dei suoi diritti fondamentali e della sua dignità, nella
convinzione che una società che investe sulla rieducazione e il
reinserimento è una società che investe sul benessere e sulla sicurezza
di tutti.
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LO ZEN E IL DENTRO E FUORI
Lu Zen pass
N ella vita, se si soffre, secondo le
circostanze può essere meglio dentro o meglio fuori, o un'alternanza:
secondo gli alimenti utili o dannosi; secondo la temperatura utile o
dannosa; secondo i farmaci utili o dannosi; secondo le persone vicine,
utili o a noi dannose; tuttavia se un bansuri (ban = bambù e suri=suono)
si misura, si taglia, si scava, in un dentro vuoto; si può suonare e
ascoltare.Un suono è una collaborazione fra dentro e fuori del bansuri:
è necessario sempre e comunque accordarsi e cambiare gli accordi fra il
dentro e il fuori. Gli accordi sono quelli che vengono attuati fra gli
esseri umani che nella vita si incontrano.
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AZZURRO SOLE IN TRASFERTA
Alessio Rosà
O.S.S. presso Centro socio riabilitativo per disabili medio gravi Azzurro Sole – Codess Sociale Onlus
A
seguito della decisione di CODESS SOCIALE, gestore del centro socio riabilitativo Azzurro Sole, di aderire alla proposta delle associazioni Galapagos e Special Boys, che ringraziamo per l’invito, ho avuto occasione di partecipare ad Esportiamoci 2018, nel 40°anniversario della Legge ‘Basaglia’, attività organizzata anche con l’associazione I Diavoli Rossi sullo sfondo della Riviera Romagnola. Insieme
a un altro collega abbiamo accompagnato sei ospiti a Viserba di Rimini
per quattro giorni di vacanza, dal 4 al 7 giugno 2018.
Ottima la location, con hotel e spiaggia gradevoli e accoglienti.
L’atmosfera tranquilla, soprattutto perché vissuta fuori dal centro
socio riabilitativo, in un contesto vacanziero e di gruppo, ha favorito
le conoscenze, gli scambi di opinioni, le battute.
Le barriere sembravano non essere mai esistite, la mia sensazione è
stata quella di trovarci in una vacanza passata con amici di amici.
Ogni occasione di incontrarsi diventa un conoscersi, un salutarsi; la
fila per il buffet, lo stare a tavola, fare lo stesso tratto di strada
per andare in spiaggia, per uscire la sera, la bella festa della
presentazione.
Un ringraziamento agli operatori e alle persone presenti, tutti gli
organizzatori che mi hanno fatto passare una ‘vacanza di lavoro’
indimenticabile, sperando di aver dato un contributo positivo.
Dentro/fuori, essere e basta.
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Un tanto al chilo
Incontri che spesso si risolvono con un continuo rimando alla volta
successiva. Un tanto al chilo, dove non si quaglia nulla o quasi, il
più è riuscire a incontrare lo specialista che in quella giornata gli
gira bene e allora il gioco è fatto. In soldoni, tu vedi il medico, ma
lui non vede te...
Notavo
Notavo
una cosa curiosa: le persone che si interessano possono diventare
interessanti. Non si tratta solo di bellezza esteriore, ma di charme.
Quindi non basta nutrire la panza, ma come si suol dire anche
banalmente il cervello.
La frr
All’inizio era Dio, poi la Psicoanalisi, ora è il tubo digerente...
Pace con sé stessi
È noto che al fantasma e allo scheletro che ognuno di noi ha nell’armadio va data degna sepoltura.
Dualismo
Due anime abitano nel mio petto, l’una si vuol separare dall’altra... Faust.
Il bilancio
È sempre più duro fare il bilancio della propria esistenza, quando le
aspettative che si hanno sfiorano le proporzioni del cielo. In fondo
forse siamo piccoli pianeti che ambiscono a diventare stelle e brillare
di luce propria...
Consapevolezza
Attento, funambolo, cadrai dalla fune...
La fatica di essere normali
È forse
la psichiatria pubblica (CSM) nella sua totalità di servizi il luogo
dove poter assolvere alla funzione di ascolto? Domande da parte
dell’utenza che sfiorano spesso il ‘titanismo’, il delirio
d’onnipotenza e quant’altro. La classica frase, da parte degli
operatori, è quella di “stare calmo”, di “non agitarti”, anche quando
ne hai tutte le ragioni, di incazzarti. E soprattutto i bene
amati/odiati farmaci, coperta di Linus di parecchi medici, che così
facendo eludono la richiesta di senso da parte dell’utenza... Appunto,
probabilmente è proprio il SENSO di quello che si fa a essere in caduta
libera...
Oltre la sacralità e l’utilità del contesto
La porta di Duchamp credo possa essere utile
per riflettere sulla questione del “dentro / fuori".
(Greta Mancinelli)
Dentro e fuori la spirale. Perché
si evita il matto? Il matto manda in crisi i nostri sistemi di
sicurezza. Nella testa del matto non ci sono porte che separano, oppure
c’è la porta duchampiana che separa il nulla, il dentro e il fuori non
hanno confini. Chi gli sta di fronte non sa dove collocarlo, perciò è
spiazzato nei propri canoni, punti di riferimento, maniglie, appoggi…
Nella successione temporale degli eventi appare quasi che l’ultimo che
arrivi sia quello che legga la verità, che a sua volta viene spiazzata
da una nuova lettura degli eventi, diventando egli stesso catena di una
follia.
Provare a esistere
La
sottile linea rossa che separa il carattere dal disturbo psichico...
Azioni, gesti e parole vengono condizionati reciprocamente...
Lo stigma ‘dentro’
La
cattiva coscienza, ovvero il senso di colpa, il rimorso, per azioni
compiute da altri, può generare azioni a dir poco curiose. Il sentirsi
responsabili, proprio perché ‘responsabili’ di decisioni che possono
ledere la libertà personale di alcuni, induce a voler riparare a traumi
provocati probabilmente da un approccio errato nei confronti, in questo
caso, di utenti psichiatrici. Il numero considerevole di ricoveri
forzati (T.S.O.) che hanno un costo per la collettività, ma che mettono
al sicuro la collettività dal soggetto pericoloso, mi fanno pensare a
un rapporto che è partito male fin dall’inizio, dalla presa in carico
(come si suol dire). Troppo spesso ci si ostina ad incasellare l’utente
in una logica che appare conformista, creando quella riga divisoria tra
la normalità e la follia...
La foto perfetta 2
... Aggiungendo che nella foto perfetta 1, ci trovi pure le ‘ombre’...
L’Ombra
L’Ombra
personale è figlia della propria storia, delle proprie rimozioni, a
(di) quei tratti psichici che il proprio ambiente di provenienza tende
a far rimuovere.
L’uomo nuovo di Nietzsche
È l’uomo a mezzo di colui che non ha ombra, insicurezza e mai senso di colpa?
Chi cerca trova
Fatti
accaduti, circostanze e persone incontrate costituiscono dati reali. Ma
come in ‘doppio sogno’, il tutto può essere vissuto come una sorta di
allucinazione a occhi aperti, in special modo se a questi dati non sai
o non vuoi dare il giusto ordine di accadimento. Come se in una notte
di nebbia comparissero improvvisamente dettagli ravvicinati, quasi
minacciosi o semplicemente fantasmi a cui non è stata data degna
sepoltura (giusta elaborazione). Ricordi dal sottosuolo probabilmente
ci condizioneranno continuamente nel percorso della vita: l’ombra lunga
della coscienza e del senso di colpa (fattore culturale) per essere ciò
che non ci piace, non ci abbandonerà così in fretta.
Tolleranza
Sono stanco di tollerare l’intolleranza, l’insistenza e ogni forma di costrizione.
Alcune riflessioni
La ricerca di un’apparente sicurezza ovviamente non ci rende né liberi
né emancipati. La continua ricerca di un leader o di un capo ripropone
il tema della deresponsabilizzazione dell’individuo (qualcheduno si
deve prendere cura o decidere per me!!!). Facciamo sempre più fatica ad
autogestirci, la libertà passa attraverso la responsabilità
dell’individuo, dai gesti quotidiani del singolo fino al rapporto con
gli altri che ci circondano, ma probabilmente le cose sono e rimangono
più funzionali vissute al contrario (la persona così facendo è molto
più facile da controllare).
La grande fuga
Prima di commemorare lo psichiatra Franco Basaglia, riflettiamo sui perché della sua ‘fuga’...
Filosofi con il camice bianco
Pillole
di filosofia da dispensare al paziente di turno (quindi meno farmaci)
renderebbero il confronto sicuramente più realistico e meno ovattato...
Rete o ragnatela
Dialogando
con una psichiatra, ho saputo che 80/100 delle cartelle cliniche dei
pazienti psichiatrici sono inevase. Questo mi induce a pensare che le
dimissioni del CSM dei pazienti in cura sia proporzionale alla
richiesta di finanziamento al Ministero della Sanità. A pensare male,
come diceva Andreotti ci si azzecca sempre.
Esclusione / Inclusione
Dentro
e fuori dal contesto in qualche modo decisionale. Capita anche nella
cooperazione, sempre più aziendalista, che le persone svantaggiate non
siano le ‘benvenute’ in quello che è il posto di comando, la stanza dei
bottoni o semplicemente la gestione dei proventi dei soldi pubblici.
Funzionali al meccanismo, alla pari degli altri dal punto di vista
della resa lavorativa, ma sempre con una macchia che è quasi una
condanna all’ergastolo. Il disabile costa veramente poco in termini
economici, rende di più proprio perché vuole dimostrare, erroneamente,
che è ‘normale’. Si approfitta e si specula su ciò, sapendo che il
matto, per non essere preso per matto, recita la parte del sano.
Ricordarsi di dimenticare
Dimenticare è un’operazione di ricordo.
Lotta di potere
Due
‘anime’, si sarebbero contrapposte nel rappresentare gli interessi
dell’azienda. Una è stata imposta e voluta fortemente dall’azienda,
veicolandone i voti dei soci, l’altra è espressione congiunta dei soci
lavoratori, libera e indipendente. Sembrano la stessa cosa, ma non è
così: la prima è il modello classico dei partiti che intercalano i
candidati in maniera che si possa controllare sia il candidato che gli
elettori per una gestione classica del potere. La seconda è una
elaborazione libera e di gruppo, dove viene veicolato un candidato
espressione reale di un esigenza di partecipazione. L’unico
denominatore comune è che entrambi sono soci lavoratori!!!
Strani rapporti
Curiosa è quella situazione dove tuo padre considera madre la moglie che ha sposato.
Soldi
Dopo
aver intascato soldi dalla Comunità Europea, la Cooperazione Sociale
firma con il Sindacato un integrativo senza aumenti... ci sanno proprio
fare.
Prime donne
Gli
ESP, oramai inglobati nel sistema operativo della psichiatria, non
rinunceranno - alcuni di loro - ad avere atteggiamenti da prime donne…
tipico di alcuni psichiatri. La piramide di gestione del potere e del
comando così facendo li fagociterà, rendendoli esatte fotocopie di
ruoli già esistenti. Forse l’unica via per mantenere l’autenticità e
quella purezza che qualcuno auspicava all’inizio del corso ESP, rimane
il Battitore Libero (come ho già detto in precedenza).
L’utente
Strano
personaggio è il cliente, utente del CSM. Nel parlare con lui ti
accorgi che le ambizioni, le debolezze, i vizi e le virtù sono le
stesse dei non utenti, ma come sempre lui ambisce a una normalità che
assomiglia più a un modello indotto che alla realtà rispecchiante la
soggettività.
W il profitto
Devo
constatare, anche in modo non troppo provocatorio, che una vacanza con
i fiocchi mette in soffitta stress, sensi di colpa, attacchi di panico
eccetera, con la conseguenza di mettere da parte gli psicofarmaci.
Deduco inoltre che forse è il lavoro, con le conseguenze che comporta
(aspettative) e una vita che di soddisfazioni ne regala ben poche ad
alimentare quel volano che assomiglia più a un mercato delle vacche per
gli utenti psichiatrici. Consegnandoci a una logica di profitto e di
mercato, anche la salute mentale si adatta al tempo odierno.
Lo specchio deformato
"Il
posto in cui mi tocca stare è pieno di persone completamente
alienate...". Questo mi dice G. della cooperativa in cui passa le
giornate da più di quindici anni come utente psichiatrico... Mi chiedo,
anche dal punto di vista della mia esperienza personale, quale sia il
punto di non ritorno della follia mentale, quando la si percepisce
negli altri e non in sé stessi...
Rapporti di coppia
Solennemente dico che è la COMPLICITÀ il sale della VITA. Tutto il resto è FUFFA.
Minati alle fondamenta
Prendere
coscienza del fatto che siano solo FANTASMI le paure e le angosce che
ci attanagliano, rende il rapporto tra noi e gli altri di gran lunga
migliore. Materializzare i FANTASMI, processare l’inconscio nostro e
degli altri, ci rende schiavi di dinamiche che si autoalimentano, in un
circuito di pensiero malsano. Ne deriva la mancanza di fiducia anche
nei rapporti interpersonali con persone in cui la relazione è spesso di
natura intima. Minati alle fondamenta (rapporti con i genitori) ci
sentiamo spesso non all’altezza della situazione con cui siamo chiamati
a confrontarci nella vita reale, un mix di bassa autostima e scarsa
considerazione da parte di figure di riferimento fa del paziente
psichiatrico una banderuola al vento, sempre alla ricerca di punti di
riferimento più stabili e sicuri di quelli avuti nel passato.
Che pazienza!!!
Psichiatri che vanno, psichiatri che vengono... ma le dimissioni non arrivano mai!!!???
Il finale della storia
Finalmente
siamo giunti alla conclusione di una vicenda che da dieci anni
perdurava (due anni era la prassi ordinaria). Mediando con il medico
per il mantenimento dei farmaci, siamo arrivati alla chiusura ‘cartella
clinica', con una sensazione di aver chiuso una brutta vicenda della
mia vita. Le dimissioni da parte del servizio C.S.M. sono sempre motivo
di ambiguità, vuoi la motivazione che l’utente deve dare per ottenere
il lascia passare così ambito, vuoi la resistenza da parte del medico
ad assumersi tale responsabilità (come ribadito in passato)...
Ognuno, ovviamente ha la propria storia alle spalle e vive tale
rapporto in maniera differente sentendolo spesso come una forma di
costrizione (lo stato vuole avere delle garanzie che tu non sia
pericoloso per te e soprattutto per gli altri).
Chi sono… come pensare
Non avendo né arte né parte nella vita, si prendono lucciole per lanterne...
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CHI SONO GLI HIKIKOMORI
Marco Crepaldi
Presidente e fondatore Hikikomori Italia - marco.crepaldi@hikikomoriitalia.it
H
ikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in
disparte” e viene utilizzato per riferirsi a chi decide di ritirarsi
dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi
anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun
tipo di contatto diretto con il mondo esterno.
È un fenomeno che riguarda principalmente giovani di sesso maschile, ma
anche il numero delle ragazze isolate è in forte crescita.
Al momento in Giappone ci sono di oltre 500.000 casi accertati, ma
secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare
addirittura a un milione (l’1% dell’intera popolazione nipponica). È
evidente che si tratti di un fenomeno incredibilmente vasto, di cui ben
pochi hanno mai sentito parlare, soprattutto al di fuori del Giappone.
Anche in Italia l›attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando.
L’hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale
esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio
sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.
Noi riteniamo che nel nostro paese ci siano almeno 100 mila casi.
Le cause possono essere diverse:
• caratteriali: gli hikikomori sono ragazzi spesso intelligenti, ma
anche particolarmente introversi e sensibili. Questo temperamento
contribuisce alla loro difficoltà nell'instaurare relazioni
soddisfacenti e durature, così come nell'affrontare con efficacia le
inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva;
• familiari: l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento con
la madre sono indicate come possibili cause, soprattutto
nell’esperienza giapponese. I genitori faticano a relazionarsi con il
figlio, il quale spesso rifiuta qualsiasi tipo di aiuto;
• scolastiche: il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli
d’allarme dell’hikikomori. L’ambiente scolastico viene vissuto in modo
particolarmente negativo. Molte volte dietro l’isolamento si nasconde
una storia di bullismo;
• sociali: gli hikikomori hanno una visione molto negativa della
società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione
sociale dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire.
Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del
ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio
rifiuto della stessa.
Anche la dipendenza da internet viene spesso indicata come una delle
principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, ma non è così:
essa rappresenta una conseguenza dell’isolamento, non una causa.
Il principale obiettivo dell’associazione Hikikomori Italia
è quello di informare, sensibilizzare e tentare di accendere una
riflessione critica sul fenomeno. Lo scopo è quello di capire, non
curare. Affrontare il problema senza stigmatizzarlo e senza giudicare.
Un secondo obiettivo, non di inferiore importanza, è quello di fornire
ai ragazzi italiani che si sentono vicini all’ hikikomori, così come ai
genitori che hanno un figlio in questa condizione, la possibilità di
potersi confrontare, di capire che non si è i soli ad affrontare questa
sfida e anche di potersi raccontare nel Forum, nella Chat pensata per i
ragazzi o nel gruppo Facebook dedicato ai genitori.
Se anche voi, come me, desiderate comprendere meglio cosa sia
l’hikikomori e quali siano le sue vere cause, vi invito a leggere i
post presenti all’interno di questo blog e a seguirci sulla pagina
Facebook ufficiale.
Grazie.
tratto dal sito internet: http://www.hikikomoriitalia.it/p/chi-sono-gli-hikikomori.html
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UN CAPOLAVORO ROVINATO
Matteo Bosinelli
D
opo che Fischer ebbe perso questa 'miniatura' (la sua terza sconfitta
consecutiva contro Geller), Kurajica esclamò: "Non è proprio in grado
di resistere a Geller".
Un altro yugoslavo, Trifunovic, si dilungò di più: "Geller è uno dei
giocatori più preparati del mondo quanto alle teoria delle aperture e
Fischer non può superarlo sotto questo aspetto...
Fischer (con il bianco) sceglie una variante molto violenta e moderna,
giocando fin dall'inizio per vincere, come fa sempre, e con successo
contro avversari più deboli. Fischer gioca meglio ed ottiene una
posizione superiore, ma era molto difficile trovare la continuazione
esatta in partita. Ecco il suo errore: avrebbe dovuto scegliere una
variante posizionale, solida, giocando senza la pretesa di vincere
proprio in apertura".
Non fosse stato per un unico errore (20. a3) Fischer avrebbe vinto, a
dispetto dei suoi critici, in venti mosse, una partita che certo
sarebbe stata considerata una 'gemma della scacchiera'.
Commento del grande maestro Larry Evans in: Bobby Fischer, 60 partite
da ricordare, Mursia Editore, 1973 (trad. it. dall’originale del 1969).
Fischer – Geller (Skopje, 1967)
1) e4 c5
2) Cf3 d6
3) d4 cxd4
4) Cxd4 Cf6
5) Cc3 Cc6
6) Ac4 e6
7) Ae3 Ae7
8) Ab3 0-0
9) De2 Da5
10) 0-0-0 Cxd4
11) Axd4 Ad7
12) Rb1 Ac6
13) f4 Tad8
14) Thf1 b5
15) f5 b4
16) fxe6 bxc3
17) exf7+ Rh8
18) Tf5 Db4
19) Df1 Cxe4
20) a3 Db7
21) Df4 Aa4
22) Dg4 Af6
23) TxAf6 Axb3
e la minaccia 24)... - Aa2+ costringe il Bianco ad abbandonare : 0-1
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Fuori di testa
Piergiorgio Fanti
Ai matti la vita
viene imperfetta,
che sia benedetta!!!
Un nodo ai pensieri
un piombo alla testa
si vaga coi ricordi.
Il passato invadente
ti brucia il futuro incerto
(manca l'aria).
Disperati sogni oscuri;
prendi la rincorsa
ed ogni volta un tonfo,
e i ricoveri si susseguono.
I giorni si susseguono uguali
lunghe camerate (poveri letti)
la malattia tormenta:
ci si sente tristi soldati
in un vortice dolente come risucchiati.
È l'isola da cui non si scappa,
ricordati:
solo la terapia può salvarti!
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A Rimini con la nonna - 1960 (dopo la grandine)
Piergiorgio Fanti
Camminare su strade marine
bianche come
quelle della mia città (Bologna)
in un freddo autunno.
Fare smorfie
a vecchie Volkswagen
e a sgangherate Fiat 600
(la faccia stupita
di qualche massaia
intirizzita sulla porta di casa).
Poi, seduti, tirare fuori
la mia conchiglia
e comporle attorno
una foresta di rami spezzati.
Che sia come me golosa
di more e castagne?
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La sincerità
Roberto Mellia
La sincerità è amare sé stessi.
Amare sé stessi è amare la vita.
La sincerità è una luce profonda
che illumina il corpo da una cupa ombra.
La sincerità si vede dal corpo
traspare sofferenza o felicità.
La sincerità è sinonimo di bontà,
perfezione, forma, sicurezza,
bellezza, e intelligenza.
La sincerità è essere unici.
La falsità tutto l’opposto.
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Il sole che nasce
Annarita Baratti
Il sole che nasce
al mattino
con l’aria fresca
del mare e l’acqua
che piano piano
sale.
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Figli fortunati
Piergiorgio Fanti
Il babbo ha un cipiglio austero
è intelligente anche se severo
la mamma è quasi una stella
è davvero brava e bella.
I giovani Fanti-Tubertini
sono buoni ragazzini,
per fortuna nati a Bologna
una città che tutti sogna.
Hanno una casa ben posizionata
e una ditta ben avviata
non son poveri di certo
grazie anche al nonno Umberto.
Hanno proprio un bel giardino
anche se purtroppo piccolino,
han anche dei costosi quadri
al sicuro da tutti i ladri.
Gli regalano belle macchinine
che vengono da importanti vetrine
giuocano sempre col pallone
come porta un vecchio telone.
Loro non fanno tante spese
ma hanno un importante trumeau inglese,
le altre suppellettili son modeste
però girano su una rara auto celeste.
La fanciullezza purtroppo fugge via
come ripete sempre la saggia zia
sperano che il futuro non sia male
ma si capisce che è già finito il Carnevale.
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La mia
Piergiorgio Fanti
La bella Patriziotta
non è certo una bigotta
è una ragazza eccezionale
che non sa fare del male.
La brava Patriziona
con lei sempre si sogna,
si sogna in un futuro migliore
dove a vincere sia l’Amore.
È una donna esilarante
come lei non ce ne son tante,
è carina veramente
e persino sorprendente.
È molto, molto bella
è una luminosa stella,
è molto simpatica
e brava anche in matematica.
Per la brava Patriziotta
mi son preso una gran cotta,
non la lascerò mai
evitando seriamente tutti i guai.
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Speciale
Annarita Baratti
Il nostro amore
è pulito e sincero
speciale
perché tu sei
speciale per me.
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Nella tua mano
Annarita Baratti
Un diamante
che brilla
nella tua mano.
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Fu così
S. D.
Fu così che riconobbi
il vero amore
quando lo persi
in un mare di lacrime.
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Vorrei
Annarita Baratti
Vorrei che tu
fossi un fiore
che vive di me.
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Ossimoro (3 ottobre 2002)
Maurizio Leggeri
itornavano a branchi i contadini dalle vigne,
qualcuno sul somaro in groppa,
con la cupella di acquato pronta accanto
e seduto sopra il basto;
le donne attaccate alla coda,
tutti gli altri davanti, non a poppa,
con in mano la cavezza
e in spalla la verta per un piccolo pasto.
Venivano soprattutto dai colli fertili
e del buon vino: da Crastuccio,
da Colle Ruzzano, da Colle Doddo;
già si facevano nutriti gruppi
e numerosi, prima della piccola piana
della Madonnella di Varoncio,
e via di corsa sull’ultima salita:
lo stato di apnea, li prendeva tutti.
Li vedevo sbucare sopra “La Casettola”
e venire sul viale a mente
tenuto, verso il rione degli “Scacciati”
rannicchiato sulle nuvole.
La stanchezza estrema era evidente
dalle loro ripiegate parvenze,
caratterizzate da passo molto lento,
quasi sempre sdrucciolevole:
come se avessero timore di far male
(con la loro scarpa chiodata
che durava tutta la vita),
al lievemente calpestato selcio stradale,
e avessero appreso (considerata
la vicinanza perpetua e scontata),
l’andatura ondivaga dell’asino,
creatura per loro molto speciale.
Alla fontana del “Portone” giunti,
seguendo il percorso della strada antica,
si mettevano in fila, aggiungendo
alla stanchezza la sana pazienza,
cercando di abbeverare l’animale
arso dal sole e dalla dura fatica,
proprio quanto loro e per scambiare
una dolce parola di speranza.
…Quanto distante è dalla vita di oggi,
questo spaccato, che rubato
sembra a tempi remoti, a noi molto lontani,
e invece è appartenuto
alla generazione nostra,
al secolo passato: che tutti noi ha plasmato,
forgiato, reso consapevoli
del compito arduo che avremmo tenuto.
E siamo andati lontano nel progresso umano:
l’informatica e la computeristica si diffondono;
cellulari in contatto diretto mettono;
la medicina e la chirurgia risultati ottengono;
con la robotica nuovi scenari fremono
e aerei in cielo sfrecciano e interi paesi inghiottono
e navi oceaniche i mari solcano
nuove discipline nella vita irrompono;
televisori su un piatto il mondo presentano;
vetture di cervello dotate a casa conducono;
satelliti meteorologici sul tempo informano;
grattacieli infiniti le stelle avvicinano
e pozzi la terra aprono e il suo polso sentono
e treni super veloci lo spazio mangiano
e macchine agricole la terra governano.
Il sapere umano tocca, oggi, frontiere
che parevano aperte, ieri, solo a sognatori.
Sembrerebbe, a prima vista,
che non ci siano problemi, vana speranza:
spiegatemi il perché la gente nel mondo
muore di fame, oggi, come ieri;
spiegatemi il perché la ricchezza
è tanto cresciuta, ma la morte avanza.
Se anche potessi trasmigrare
verso un altro pianeta, mai ci andrei,
sarebbe una vigliaccheria,
resterei qui, comunque, anche con la bile.
Voglio denunciarvi tutti,
voi vili non mi sfuggirete, e non è che farei,
già faccio, mi attrezzo per far meglio
e a tutti dichiaro: un altro mondo è possibile.
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Come la luna che attende il sole
Marcella Colaci
Ho spento i segreti
che in fondo all'anima
mi pesavano e mi stancavano
non ho più paura della verità
ed i miei occhi sono limpidi
possono vedere oltre lo sguardo
non mi preoccupo di nascondermi
non mi preoccupo di vederti
e salutarti e amarti e sconfiggermi
non sono più giocattolo
non sono più bambola
non sono senza cuore
a volare mi preparo
volare sulla luna
agganciata alla vita
dell'amore sano e puro
di noi prossimi all'amore
che percorriamo in una galleria
quella oscura che vede oltre
la pianura e il mare
oltre tutto oltre noi
che siamo sole, sempre sole
ad aspettare
ma abbiamo spento i segreti
quelli che dentro fanno male
quelli che non hanno saputo aspettare
quelli che non hanno dato futuro
quelli che non hanno dato amore
quelli che solo sogni
solo perduti sogni
come la luna
che attende il sole.
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La speranza
Maurizio Leggeri
L’uccello spera di volare,
la nave spera di salpare,
il vecchio spera di campare
o di morire in pace.
L’albero spera di arrivare al cielo,
il seme di arrivare al melo,
il bimbo di alzarsi su
di camminare e di non cadere più.
Il pozzo spera di non restare vuoto,
la luna di restare in volo, nel vuoto,
il grano spera di diventare pane
e di dar da mangiare a chi ha fame.
Il coriandolo spera di iniziar la festa,
il vino spera di inebriar la testa,
il riso di augurare un matrimonio,
nasceranno Tatiana Luana o anche Antonio.
La montagna spera di rimanere bianca,
la valle di rimanere verde,
il mare di rimanere blu,
tutto ciò sarà realtà se oltre a me
lo penserai pure tu.
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Fuori e Dentro
Mariangela
Bella agli occhi appari
e fai conquiste, ma abile sei
a tender la tua trappola
perché l’anima tua è putrida
ed esala un odore nauseante!
La tua viltà continui a dimostrare
così per sempre ti han respinta.
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Il sentiero dell’amoreedere
Maurizio
L’amore è là
nelle voragini inesplorate del tempo trascorso
dentro i prati battuti dal sentimento
nelle scaglie aguzze dell’inverosimile.
L’amore è là
nelle attese indesiderate che voltano alla bellezza.
L’amore è là
nei racconti dimenticati delle passioni brevi
nel pulviscolo dell’aria che non si vede
nelle carcasse dei sogni sfrenati a due passi fa noi.
L'amore è là
nelle notti di mezzogiorno che ci fanno sorridere...
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Spine
Piergiorgio Fanti
La Patrizia è come un bel mattino
me la sogno fin da bambino,
è una donna molto corretta
all’occorrenza sa tirare la carretta.
È una ragazza molto seria
non le fa paura la miseria,
è una persona volitiva
e sicuramente non retriva.
La Patrizia non teme confronti
non promette mari e monti,
è veramente genuina
non si mette mai in vetrina.
È davvero molto bella
è come una rutilante stella,
star con lei ha molte ragioni
anche la voce dà mille emozioni.
La sua adeguata mimica
è quasi una conturbante ritmica
per me è proprio tra le prime
la canto sempre nelle mie rime.
La bella-brava Patrizia
ha già portato la corona di spine
speriamo che
sia molto lontana la sua fine.
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Nontiscordardimé (Myosotis)
Roberto Grillini
O giorni felici ormai lontani nel tempo
quando il tuo sguardo inondava d’ebbrezza
la mia anima acerba!
Rammento, e mai scorderò,
quell’ultimo incontro
che sussurrasti, in un filo di voce,
“non ti scordare di me”
mentre lenta scendeva
sul viso una lacrima.
Da allora non c’è primavera
che l’azzurro d’un fiore
non torni a rammentarmi i tuoi occhi,
la celestialità del tuo viso,
il profumo dei tuo verdi anni.
Quel fiore, dal nome gentile,
e dal colore delle tue pupille
che mai ho dimenticato
torna a sussurrarmi ancora:
“non ti scordar di me”.
(In ricordo del mio primo amore miseramente avversato).
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Stelle
Annarita Baratti
Sei una miriade
di stelle che brillano
nel cielo.
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Luna
Annarita Baratti
Luna per sognare
e illuminare
il nostro amore.
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Chiusi
Piergiorgio Fanti
Merlin e Basaglia
le leggi sono scritte.
Inesorabilmente
da tempo chiuse le ‘case’
fortunatamente
da meno aperti i cancelli.
I salon non ci son più:
pappagalli e pappagalle
sulla strada, poverini!
L’amore pagato
sfruttamento fisico e morale
(stillicidio senza sbocchi).
Per i matti
flebo e pastiglie
(il sostegno della mutua).
Ma la pazzia stravolge tutto
resta un dolore che anche se passa
dà un disagio senza fine!
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No, non devo
Marcella Colaci
No, non devo
pensare ancora
non devo, no
portarti dentro
sentirti dentro
assaporarti
e darti di me
la passione
del pensiero
del cuore.
No, non devo
ferirmi di questo
straziante amore
ma far sì che di tutto
questo nulla sia
dentro, ancora dentro.
No, non devo
fare la strada
della memoria
la strada deve
andare altrove
per poter vivere
in pace.
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Però
Loopa Sonivree
Però non vale se tu mi detti e io scrivo!
Però la vita è corta e va vissuta in ogni suo attimo…
Però non dire mai di no te ne potresti pentire.
Però l’amore è una cosa meravigliosa anche se complicata.
Però se andavi a letto con un altro a me non andava bene.
Però io voglio vivere superando problemi e fatica.
Però non guardarmi con odio anche se io ti amavo…
Però non correre troppo veloce, rischi grosso.
Però ti guardo ti osservo e non ti giudico.
Però ognuno ha una sua visione del mondo.
Però lo sguardo o la bugia rovesciano la sincerità!
Però di chi ha amato in passato non ci si può fidare…
Però non so più a chi credere.
Però devo avere certezze e credere in qualcuno.
Però non respirarmi sul collo.
Però l’aspetto estetico non è tutto!
Però correre veloce per andare dove?
Però non guardare solo i momenti passati!
Però ama chi credi lo meriti!
Però lascia vivere ognuno come vuole.
Però non voglio credere che possa esistere un mondo migliore.
Però pochi credono in un mondo migliore.
Io credo in un mondo migliore.
Però manca l’ultima riga.
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La donna
Roberto Mellia
La donna è bella, la donna è vita,
è creatura che va capita.
È come un prato pieno di viole
dove tuffarsi respirandone l’odore.
La donna è come un fiore, va curato,
accarezzato, poi amato.
La donna è creatura,
è patrimonio della natura.
Per un uomo vero è cosa grande.
Se è amor vero naturalmente.
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Patrizia Pia
Piergiorgio Fanti
La Patrizia è una delizia
Non più afflitta da mestizia
La Patrizia è una primizia
Non più colpita da pigrizia
La simpatica Patriziotta
È buona cruda e buona cotta
La speciale Patriziotta
È bella sovra e bella sotta
La struggente Patriziona
È proprio una brava persona
L’eccellente Patriziona
Con lei sempre si sogna
La Patrizia è poco appariscente
Ma è super sorprendente
La Patrizia è veramente esilarante
Ma di sicuro è anche molto eccitante.
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Di fronte alla mia finestra
Marcella Colaci
Di fronte alla mia finestra
c'è un albero innevato
e il merlo posa il suo canto
ma io non ascolto
ho troppa confusione
nell'animo che non scaldato
si rifugia nel ricordo disperato.
La neve viene giù
come lacrime soffuse
ovatta bianca mista a pioggia
e non so dov'è quel merlo
creatura solitaria come me
senza rifugio senza eco.
La finestra chiusa
ed il cuore malato
diventerò muta
come muto è il paesaggio.
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L’amore
Roberto Mellia
L’amore è bello,
l’amore è grande,
ti dà la forza come un gigante,
cantare è amore,
amare è sole,
è come giocare e fare l’amore.
Fare l’amore si fa giocando
col sentimento
si fa volando nel cielo azzurro
si fa cantando.
Volare è bello
volare è vita
e anche la mente è più pulita.
Senza l’amore non si può stare,
è cosa che nutre cervello e cuore.
Sono parole di chi sa amare.
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ENTRIAMO NEL TEMA
LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani
A me piace stare dentro per stare al centro dell’attenzione e fuori
quando ho bisogno di stare tranquillo. Dentro ho un’idea e fuori la
dipingo.
Stefano G.
Fuori è una tempesta
Il momento più buio, l’attimo
il frammento di un unico momento.
La parola viene fuori come una lumaca
viscida e disgustosa sulla lingua.
I miei capricci sono i coltelli del diavolo,
una serpe sul tuo seno.
Ecco cosa vivo, mille errori per mille parole
e dentro ti amo come la prima volta.
Ilia A.
Quando la fantasia rappresenta una via di fuga dalla realtà: la
percezione è quella di entrare e uscire allo stesso tempo. Stessa cosa
per la realtà, ovunque si entri o si esca. E anche se il tema proposto
mi fa pensare all’amplesso, vi assicuro che non c’entra. La voglia di
assomigliare agli altri spesso m’induce a entrare il più possibile
dentro me stesso, anche se, volendo ricreare un nuovo me stesso,
l’impressione è quella di uscire da me stesso. E anche in questo
semplice parere scritto le entrate e le uscite sono numerose. Ad
esempio entro dentro a un tema semplicemente scrivendo ed esco dalla
realtà.
Davide P.
A me piace stare dentro al gruppo e fuori dai miei sogni e dai miei pensieri.
Filippo T.
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UN DOVEROSO INCONTRO
LABORATORIO di ARTETERAPIA – C.R.E.I. CASA SAN GIACOMO - COOP. SOC. NAZARENO
Ognuno di noi vede dentro ciò che
è fuori e fuori ciò che è dentro.
https://www.instagram.com/loradellapoesia/
Una premessa
Casa San Giacomo nasce nell’ottobre 2016 dall’esperienza nel lavoro riabilitativo della RTR–E Casa M.D. Mantovani
con i giovani pazienti seguiti dal Dipartimento di Salute Mentale di
Bologna, nel tentativo di iniziare a lavorare con i ragazzi in
adolescenza per evitare, ove possibile, di arrivare nelle comunità
terapeutiche per adulti già particolarmente segnati dalla
psicopatologia. È una comunità educativa integrata, che ospita sei
adolescenti dai quindici ai diciotto anni, con disturbi psichici.
Svolge principalmente una funzione terapeutica e riparatrice, di
sostegno e di recupero delle competenze e capacità relazionali di
minori in situazione di forte disagio in seguito a traumi e sofferenze
di natura psicologica, che non necessitano di assistenza
neuropsichiatrica in strutture terapeutiche intensive o post-acuzie, e
fornisce azioni di supporto psicologico e socio - educativo, dotate di
particolare intensità, continuità e fortemente integrate con quelle
svolte dai servizi territoriali. Casa S. Giacomo è una palestra
di vita, che dal dentro aiuta i giovani a relazionarsi e affrontare la
vita fuori. In comunità si svolgono tutti i giorni diversi laboratori,
tra i quali uno di Arteterapia che, di recente, si impegna
periodicamente a realizzare dei lavori per il giornale Il Faro. Di seguito vengono riportati i lavori realizzati dagli ospiti partendo da due canzoni: Dentro e Fuori di Tormento e Dentro o Fuori di Niccolò Fabi. Abbiamo realizzato quindi dei disegni con delle didascalie che li commentano.
Commento finale del gruppo di arteterapia
Il dentro e il fuori sono aspetti della nostra vita che non devono
essere isolati. L’isola può essere un rifugio in cui si resta per
curare nel tempo le ferite ma, come sostiene la canzone di Fabi, può
diventare isolamento.
Il dentro e il fuori a un certo punto devono incontrarsi perché, come canta Tormento, tutto acquisti un senso.
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DENTRO E FUORI
Gruppo del Laboratorio Espressamente
Brainstorming
L:
Mi viene subito in mente il nastro di Möbius o un quadro di Escher,
dove dentro e fuori coincidono e quello che c’è dentro si vede fuori.
A:
Bologna vista dall’alto della torre: si vede la vita, dentro il cuore rosso blu.
MC:
Fuori sono le relazioni che abbiamo con le altre persone, dentro c’è la solitudine.
N:
Respirare è far entrare e far uscire l’aria.
St:
Fuori è quando andavo a Venezia, dentro è Bologna che è sempre la stessa. Bologna è una prigione, Venezia è la libertà.
G:
Fuori il mondo che ci circonda e dentro quello nostro, interiore.
L:
Mi viene in mente la rotonda che ha un’entrata e un’uscita.
N:
Dentro le tue paure e anche il coraggio.
Canzoni
Fuori o dentro
di
Niccolò Fabi
Visto da qui tutto tutto sembra lontano
convulso e insensato agitato per niente
come fosse distratto o indifferente
a ciò che è importante
visto da qui è solo vuoto che urla
è il pensiero scucito dalla realtà
passanti qualunque in una strada qualunque
la mia città
sarà anche che il gioco si cambia da dentro
ma alla fine è giocare che ti cambia dentro
sarà anche che spesso lontano dal centro
ognuno si scopre un nuovo talento
magari fuggire non è la soluzione
magari fuggire è una resurrezione
è come sfidare il niente
stare qui
io non so se ritornare
quale vuoto sia peggiore
se avrò forza per trattare
e se il mio destino è stare
fuori o dentro
visto da qui è solo una piccola parte
che è davvero convinta di essere tutto
che non sente più urgenza ma solo la fretta
e l'affanno è un respiro che non si rispetta
a volte un’isola è la cura del tempo
a volte un’isola è solo isolamento
è come cadere al buio
scegliere
Una vita in vacanza
di
Lo stato sociale
E fai il cameriere, l’assicuratore
Il campione del mondo, la baby pensione
Fai il ricco di famiglia, l’eroe nazionale
Il poliziotto di quartiere, il rottamatore
Perché lo fai?
E fai il candidato poi l’esodato
Qualche volta fai il ladro o fai il derubato
E fai opposizione e fai il duro e puro
E fai il figlio d’arte, la blogger di moda
Perché lo fai?
Perché non te ne vai?
Una vita in vacanza
Una vecchia che balla
Niente nuovo che avanza
Ma tutta la banda che suona e che canta
Per un mondo diverso
Libertà e tempo perso
E nessuno che rompe i coglioni
Nessuno che dice se sbagli sei fuori, sei fuori, ...
E fai l’estetista e fai il laureato
E fai il caso umano, il pubblico in studio
Fai il cuoco stellato e fai l’influencer
E fai il cantautore ma fai soldi col poker
Perché lo fai?
E fai l’analista di calciomercato
Il bioagricoltore, il toyboy, il santone
Il motivatore, il demotivato
La risorsa umana, il disoccupato
Perché lo fai?
Perché non te vai?
Una vita in vacanza (...)
Vivere per lavorare
O lavorare per vivere
Fare soldi per non pensare
Parlare sempre e non ascoltare
Ridere per fare male
Fare pace per bombardare
Partire per poi ritornare
Una vita in vacanza (...)
Canzone dell’appartenenza
di
Giorgio Gaber
L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
L’appartenenza non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un’apparente aggregazione
l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.
Uomini, uomini del mio passato
che avete la misura del dovere
e il senso collettivo dell’amore
io non pretendo di sembrarvi amico
mi piace immaginare
la forza di un culto così antico
e questa strada non sarebbe disperata
se in ogni uomo ci fosse un po’ della mia vita
ma piano piano il mio destino
é andare sempre più verso me stesso
e non trovar nessuno.
L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme (...)
L’appartenenza è assai di più della salvezza personale
è la speranza di ogni uomo che sta male
e non gli basta esser civile.
È quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
che in sé travolge ogni egoismo personale
con quell’aria più vitale che è davvero contagiosa.
Uomini, uomini del mio presente
non mi consola l’abitudine
a questa mia forzata solitudine
io non pretendo il mondo intero
vorrei soltanto un luogo un posto più sincero
dove magari un giorno molto presto
io finalmente possa dire questo è il mio posto
dove rinasca non so come e quando
il senso di uno sforzo collettivo per ritrovare il mondo.
L’appartenenza non è un insieme casuale di persone (...)
L’appartenenza è un’esigenza che si avverte a poco a poco
si fa più forte alla presenza di un nemico,
di un obiettivo o di uno scopo
è quella forza che prepara al grande salto decisivo
che ferma i fiumi, sposta i monti
con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.
Sarei certo di cambiare la mia vita
se potessi cominciare a dire “noi”.
Vengo anch’io. No tu no.
di
Enzo Jannacci
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch’io? No, tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare “Aiuto aiuto è scappato il leone”
e vedere di nascosto l’effetto che fa
Vengo anch’io? No, tu no
Vengo anch’io? No, tu no
Vengo anch’io? No, tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch’io? No, tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l’effetto che fa
Vengo anch’io? No, tu no (...)
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch’io? No, tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore
e vedere di nascosto l’effetto che fa
Vengo anch’io? No, tu no (...)
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch’io? No, tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che per tutti è una cosa normale
e vedere di nascosto l’effetto che fa
Vengo anch’io? No, tu no (...)
Disegni individuali sul dentro
Disegno di gruppo sul fuori
Testi sul dentro e fuori
Nadia
Dentro: paure, solitudine, ferite, bisogno d’amore, ricordi belli e
brutti, ma anche intimità con sé stessi. Fuori: cercare di ‘apparire’
felice e serena, non ascoltare l’inquietudine che c’è dentro, la
frustrazione, ma anche fare ciò che ti fa stare meglio (cinema, cibo,
letture, arte) affinché il dentro migliori.
Stare bene significa accettare e ascoltare il dentro e armonizzarlo con
il fuori, prima di tutto amandosi con indulgenza e senza giudicare le
nostre debolezze e i nostri difetti. Si può avere un buon fuori
nonostante tutto.
Samantha
Andare ‘fuori’ significa riuscire a guardarsi ‘dentro’, avere
soprattutto il coraggio di perdonarsi e di accettare tutte le proprie
debolezze per rimarginare le ferite, solo in questo modo è possibile
godere della verità del ‘fuori’, che altrimenti risulterebbe non
autentico perché visto attraverso il dolore e la sofferenza del proprio
sé.
Antonio
Il significato di essere dentro vale a dire non una prigione, ma un
involucro dove solo se sei veramente bravo uscirai dalle persecuzioni.
Il fuori significa la libertà di muoversi come uno vuole senza barriere
né sotterfugi che possono essere di intralcio al proprio svago o
intraprendenza.
Carmela
Oggi mi sveglio: sarò dentro o sarò fuori? Sarò costretta dalla mia
mente a guardare in faccia tutte le mie paure? Paure che non mi danno
tregua, che mi assillano, o invece guardare fuori nel futuro che voglio
augurarmi gioioso, pieno di imprevedibili belle sorprese? Spero che
prevalga la seconda ipotesi. La notte fa la tregua al dentro o fuori,
posso finalmente rilassarmi con il sonno.
Oriano
Il dentro è corroborante. Il fuori è edificante. Il dentro è bello. Il
fuori è apatico. Il dentro è aberrante. Il fuori è capzioso.
Stefanone
Dentro casa
Dentro la famiglia
Dentro casa di amici
Dentro un ospedale
Fuori da un ospedale
E così è la mia vita
dentro in ospedale, fuori dall’ospedale
In un luogo rinchiuso, legato
che non puoi uscire.
E la libertà quando sei forte.
Dentro una prigione con le sbarre.
Fuori la libertà.
Stella
entro: la canzone di Niccolò Fabi Fuori o dentro ti sprona a guardarti
dentro, la solitudine, il non sentirti amato, il non sentirti
importante per quello che fai o credi di fare. Ricordi, valori perduti.
Fuori: guardando fuori, il pensiero invece vola al cielo azzurro.
Pensieri e desideri ti creano un po’ di felicità. Ti dà la forza di
sperare sempre al meglio e combattere per ottenerlo. È anche importante
crearsi delle amicizie e circondarsi di persone sincere.
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Testi su quando mi hanno mandato fuori (esclusione)
Fabrizio
Ero insieme a un gruppo di scommettitori d’azzardo, ma senza liquidi
contanti e sono stato buttato fuori, per paura di non portare credito
alla loro...
Quando puntavo sopra un vincente loro abbassavano il prezzo del gioco
per non pagarmi.
Maria Carmela
Conoscendo le regole della società organizzata, ho fatto in modo di non
trasgredirle e farmi mettere fuori. Ho mantenuto in questo modo le
amicizie che mi sono costruita. Penso che senza le amicizie non
riuscirei a vivere, che sono come il pane quotidiano.
Leonardo
Nessuno mi ha mai escluso, comunque hanno fatto in modo che mi
autoescludessi. Io penso che questa cosa faccia parte della vita
perché, se non corrispondi ai canoni della società o più
specificatamente del gruppo, o ti emargini o ti emarginano. Poi ti fai
mille domande su dove hai sbagliato, perché proprio a te… e non trovi
la soluzione, entrando in crisi
Samantha
Io mi sono sentita esclusa dalla squadra di pallavolo perché non
abbastanza brava e soprattutto poco competitiva. Mi dicevano che si
gioca per vincere e non per partecipare o divertirsi.
Oriano
sono sentito un reietto quando mi hanno escluso dalla compagnia per
quanto concerne la droga. È stata una fortuna, nessun rimpianto. Addio.
Stefanino
I ragazzi del mio quartiere, con cui andavo per divertirmi, erano per
la maggior parte dei delinquenti che mi prendevano in giro e mi
escludevano.
Manuela
In un gruppo in cui si parla spagnolo e io non so parlare spagnolo, mi
sono sentita fuori, nonostante fossi seduta insieme ad altri. Ero
dentro concretamente, ma sentivo di non farne parte e considerato che i
commensali sapevano della mia ignoranza credo che escludermi sia stato
in parte intenzionale.
Gilda
Sono diverse le persone bifolche, che escludono le persone gentili ed
educate per la loro avidità, ma hanno poca vita perché il loro
obiettivo è quello di rubare soldi alla gente oltre a non avere
educazione (e sono molte queste persone) perché per chi gli porta i
soldi non hanno rispetto né sono riconoscenti e non sanno fare il loro
lavoro. Diversamente le persone oneste non riescono a fare affari e
sono così poche e così introvabili che quando le trovi non le molli più.
Stefanone Figlio di puttana, deficiente
Vada fuori da questo bar, esca
Figlio di puttana, parassita
Lavativo, imbroglione
Bugiardo
Cretino, idiota, deficiente
Pezzo di merda
Rompicoglioni, sei una merda
Vada fuori da questo bar.
Mi spaventai e uscii dal bar
E non ci tornai più.
Gilda È comodo pagare il pizzo quando la soluzione è diversa
da ciò che si prova. Alternando motivi di inclusione sociale dove ci
sono due o più contendenti di una realtà molto libertina, perché
bisogna essere più forti del demone che richiama l’occasione di
tentazioni. Il pericolo lo si vince solo combattendo con forza mentale
e spirituale.
Nadia
Quando facevamo due squadre a karate io non venivo mai scelta e
rimanevo l’ultima scelta. Lo sapevo che ero una schiappa, ma ci
rimanevo male lo stesso, quello che succedeva mi costringeva alla
consapevolezza.
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Testi sul “noi”; chi è fuori e chi è dentro (appartenenza)
Oriano, Stefanone, Stefanino, Samantha
Ogni persona è diversa (per natura) perché deriva da parenti (antenati)
diversi di appartenenza e per radice cronologica. ‘Noi’ vuol dire non
essere soli, avere amici. Siamo un gruppo e ci vogliamo bene. Non siamo
soli, siamo speciali, siamo amici, non importa essere ricchi, non
importa essere belli, si può essere anche cretini. Noi siamo creativi e
belli, siamo riflessivi, siamo socievoli e andiamo d'accordo, non siamo
giudicanti verso gli altri. Noi siamo affidabili. Noi facciamo entrare
tutti, non escludiamo nessuno dal nostro gruppo, né poveri, né ricchi.
Non giudichiamo sulla base degli stereotipi. Facciamo entrare anche gli
egoisti, non lasciamo fuori nessuno, facciamo entrare tutti, anche i
vampiri e gli uomini lupo. Se qualcuno si comportasse male si potrebbe
escludere. Ci sono persone così insopportabili, ma bisogna sopportarle.
Si potrebbero lasciare fuori i bulli ed i venali. Noi di base prendiamo
tutti, però, anche i malvagi.
Gilda, Maria Carmela, Leonardo, Manuela
Noi siamo persone speciali, persone con talenti e prospettive infinite,
siamo persone normali perché non ci adeguiamo a dei mediocri criminali.
Per onestà e lealtà siamo sinceri, perché abbiamo dentro quello che
loro non hanno. Siamo uguali e diversi, perché persone con diritti e
dignità, con personalità, e belli, a differenza di loro che
appartengono a un mondo stereotipato. Dietro il computer credono di
guidare il mondo. Noi siamo sensibili e non ci vergogniamo di esserlo.
Gli altri vivono in noi, nei nostri sguardi e contatti, nei pensieri e
nei gesti, nelle parole e nel quotidiano.
Il laboratorio è tenuto dalla dott. Elena Pasquali nell'ambito del
progetto “Benessere psicofisico ed autonomia delle persone” delle
Associazioni Cercare Oltre, AITSAM, 1X1insieme, Cristina Gavioli, Non andremo mai in Tv, Galapagos, I Diavoli Rossi, Il Ventaglio di ORAV
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SIMILITUDINI
Alessandro
Lo Stato è come il Vaticano; il ministero della Salute è come
l'Arcivescovado; il C.S.M. è come la parrocchia; la terapeuta è come il
prete. L’assoluzione in cambio della rassegnazione, la comprensione al
posto della soluzione radicale del problema, la repressione in caso di
ribellione, la soddisfazione dei propri bisogni rinviata a un domani
sempre posticipato.
Ciao e viva Marx e Lenin.
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ALTERNANZE
Sì Mo’
Ai
tempi dell’asilo nido mi sentivo veramente dentro. Mentre tutti gli
altri bambini facevano il pisolino pomeridiano, le maestre mi
lasciavano stare con loro a dipingere con grandi pennelli: il periodo
più felice che ricordo. A posteriori però ho capito che non era così.
Mi avevano allontanato perché rincorrevo i bambini con in pugno la mia
verità: Babbo Natale è il papà.
Ai tempi del liceo cercavo di essere dentro, ci ho provato: gita a
Roma. A un compagno era venuto il desiderio di andare al museo delle
cere. Non è stata una buona idea. Presa in giro collettiva e rifiuto.
Tranne una. Da allora per cinque anni ultimo banco a destra o (a
sinistra dipende da dove lo vedete).
Ero fuori dal CSM in attesa di entrare dentro. Ero arrivata con la
bici, l’unico mezzo che mi era rimasto. Alla mia uscita non c’era più.
Me l’avevano rubata. La volta dopo sono arrivata direttamente dentro
con la mia bicicletta/copertina. Mi hanno mandato fuori. Non potevo
sapere che qualcuno, tempo prima, aveva tirato una bicicletta a un
operatore.
Nei miei day hospital mi sentivo dentro, accolta e assistita. La
maggior parte delle volte ho incontrato specializzande con empatia e
ognuna con un suo specifico modo di entrare nella relazione. Alla fine
però, e sempre, mi sono sentita sbattuta fuori. Per protocollo,
procedura, assunto implicito? Ogni volta, e in diversi, abbiamo provato
a riempire in qualche modo quel vuoto. Ancora ci proviamo in ricordo di
chi non ce l'ha fatta ad aspettare.
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EMILY
Alberto
Domenica mattina Scandendo ogni passo lentamente ne ascolta
il rumore sul sentiero in salita nel bosco. L'allontanarsi dalla città,
per ogni metro che percorre, gli sembra libertà gratuita nel parco alla
periferia della città.
Alfio Pieri osserva il casuale aggrovigliarsi dei rami degli alberi,
ora un pacchetto vuoto di sigarette, ora uno spiazzo in discesa, sembra
strano, come un antico corridoio testimone del passaggio di qualcosa di
alieno. È arrivato in cima, nel posto dove è solito sedersi per
osservare la vallata del fiume verso mezzogiorno. Sotto di lui la
boscaglia è popolata da cespugli di bacche rosse affusolate. Il sole
delle undici gli sembra freddo pur scaldando un po’ l’atmosfera e
l’autostrada percorre la valle ai suoi piedi delimitando le due
correnti di vetture in opposte direzioni. Mangia un panino al
prosciutto, beve acqua dalla bottiglietta e si confeziona una
sigaretta. Si mette a pensare. Gli piace ricordare i simboli solari e i
carri dei principi etruschi che di solito va ad osservare al museo
della città da cui è venuto e che dista pochi chilometri dal parco. Gli
sembra, in quella civiltà, di poter cogliere qualcosa d’altro, al di là
dello sfacelo socio-ambientale dei tempi che vive. Una specie di
esaltazione non sovrastante, come un respiro semplice tra la terra,
l’uomo e il sole che illumina entrambi.
Ora dalla sottostante boscaglia avverte alcuni schiocchi di arbusti e
dei suoni vocali apparentemente animaleschi. Avverte una presenza,
subito intuisce un ancestrale senso di abbandono di tutto ciò che si è
lasciato alle spalle salendo. Ora torna il silenzio e si sente
osservato, percepisce uno sguardo umano ma differente. Quindi inizia a
scendere tra gli sterpi, supera uno spiazzo erboso raggiungendo
un’altra parte di boscaglia.
Ma ecco che da dietro un grande albero esce una figura umana, è una
ragazza. Ha lo sguardo serio ma non impaurito, appare in uno stato
primitivo ed etereo, in simbiosi con il luogo da cui è uscita. Non
parla e lentamente cammina standogli di fronte. Gli esce un: “E tu chi
sei? “. Lei non dice nulla, spezza un legnetto che ha tra le mani, lo
fulmina con uno sguardo e sparisce nel bosco.
Lunedì mattina
Scrivania dell’ufficio, computer, Alfio Pieri, architetto, deve
risolvere alcuni particolari esecutivi di un edificio artigianale. Come
al solito dà un’occhiata alle notizie sul quotidiano on line.
Oggi notizia sull’allarmante aumento del consumo di droghe sintetiche
come LSD ed extasy nelle fasce giovanili...
(continua)
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ENTRARE FUORI USCIRE DENTRO
Raffaele Di Siena
Sono trascorsi quarant’anni dal 13 maggio 1978, data in cui il
Parlamento italiano approvò la legge 180, detta comunemente ‘legge
Basaglia’, che chiuse definitivamente le porte dei manicomi, veri e
propri centri di detenzione in cui ai malati veniva impedito il
reinserimento sociale. Lucchetti, inferriate, catene avevano lo scopo
di proteggere il mondo esterno dalla pazzia che, inevitabilmente andava
rinchiusa tra le mura. Basaglia per primo introdusse un nuovo concetto
di psichiatria e una nuova visione del pazzo, non più considerato
soggetto socialmente pericoloso e da emarginare, ma malato bisognoso di
cure e assistenza, e soprattutto essere umano con una propria dignità.
Basaglia si rese conto della tragica realtà manicomiale, fatta di
camicie di forza, bagni freddi, elettroshock, letti di contenzione,
lobotomia, vere e proprie torture che allontanavano i malati di mente
dall’umanità. Nacque da tale esperienza il modello della comunità
terapeutica grazie al quale furono aperti i cancelli dei manicomi,
consentendo ai malati di sentirsi liberi e non prigionieri. Un modello
sperimentale che lo stesso Basaglia volle diffondere, tanto che fu la
città di Trieste a essere designata zona pilota per l'Italia nella
ricerca istituita dall'Organizzazione mondiale della Sanità sui servizi
di salute mentale. Fu così avviato un nuovo modo di pensare la
psichiatria che, cinque anni dopo, portò all'approvazione della legge
di riforma. Molte critiche sono state avanzate già sul finire degli
anni ’70 alla legge che, oggi, viene considerata per molti aspetti
approssimativa. Non c'è stata in effetti un’immediata e totale chiusura
dei manicomi: l’effettiva chiusura è avvenuta solamente nel 1994,
perché bisognava consolidare la rete dei servizi ambulatoriali a cui la
legge demandava le cure degli ex-pazienti. Inoltre si lamenta il fatto
che le cure dei degenti sono state affidate a servizi pubblici,
impreparati per farsene carico, e quindi alle famiglie. Questo ha fatto
sì che i pazienti una volta dimessi, si siano trovati scaraventati in
una società di cui non si sentivano di far parte, rimanendo ai margini,
a causa di una malattia considerata uno stigma per la persona che ne
soffriva. Bisogna pensare che era relativamente semplice finire in
manicomio, perché il manicomio era il luogo deputato a contenere tutte
le paure della società. Ci finivano tutte quelle condizioni mentali che
facevano paura, che erano inspiegabili e per tale motivo dovevano
essere tenute lontane dagli occhi dei sani. Si ride amaramente se si
pensa come oggi ognuno di noi si trova a vivere in condizioni di
malessere psicologico, che è la stessa società e i suoi ritmi frenetici
a generare. Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o
meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo
provato che si può fare diversamente: ora sappiamo che c'è un altro
modo di affrontare la questione, anche senza la costrizione. ‘Entrare
fuori uscire dentro’: è il modo in cui l'uomo è invitato a entrare
nella realtà per riappropriarsi delle sue radici, attraverso il
contatto con il suo territorio. ‘Uscire dentro’ significa, infatti,
uscire da quel ‘dentro’ che è sinonimo di costrizione e alienazione per
entrare nel mondo di ‘fuori’ come cittadino a pieno titolo.
Ricerca svolta sui siti internet:
● http://www.neifatti.it/2018/05/12/quarantanni-fa-la-legge-basaglia/
● https://www.ultimavoce.it/la-legge-basaglia/
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L’IMPORTANZA DI UN APPUNTAMENTO
Gruppo Trekking Stelle di Roccia
Venerdì 22 giugno u.s. siamo stati invitati, come membri attivi del
Gruppo Trekking Stelle di Roccia, a partecipare all’incontro delle Parole Ritrovate a Vigheffio (PR) “A quarant’anni dalla Legge Basaglia... come cambia la Salute Mentale”,
appuntamento che avevamo onorato anche lo scorso anno, sempre in
qualità di ospiti-relatori; lo scorso anno abbiamo proiettato in
anteprima il Documentario “Stelle di Roccia - storia di un gruppo di camminatori con le gambe in spalla”,
visibile su
https://www.youtube.com/watch?v=BiUg4-aNEjg che racconta con immagini e
le parole dei protagonisti la vita di questo gruppo di camminatori.
Anche quest’anno quindi, abbiamo partecipato e dato il nostro
contributo all’incontro; la nostra è stata una partecipazione attiva,
con veri e propri interventi frontali destinati ai vari gruppi presenti
(Parma, che ci ospitava, Modena, Trento, Reggio Emilia); anche chi non
se l'è sentita di parlare in pubblico ha comunque prodotto un
contributo scritto che è stato letto dagli altri e che ben illustrava
l’esperienza di partecipazione a questo gruppo trekking e i vantaggi
che ne sono derivati a ciascuno in termini relazionali, di socialità e
di salute mentale e fisica in generale. Il nostro gruppo, di ben undici
persone, era composto sia da utenti che da famigliari, volontari e
operatori, come è nella tradizione del fare assieme, ognuno con la
propria esperienza professionale e/o di vita messa a disposizione degli
altri, in un’ottica di reciprocità e buone pratiche.
Ci tenevamo a rendervi partecipi di questa esperienza; non è la prima
volta che ci sperimentiamo in questo genere di iniziative ma, forse
sbagliando, non ci siamo mai dati il tempo di rendere noto questo
nostro impegno.
Ecco una sintesi del nostro contributo a questa bellissima e interessante iniziativa.
Il Gruppo Trekking Stelle di Roccia
è un gruppo spontaneo di utenti, famigliari, operatori e cittadini
attivi della Salute Mentale con la comune passione per il movimento e
il contatto con la natura. Questo gruppo ha significato per molti di
noi la possibilità di conoscere nuove persone, stare in compagnia,
cominciare a fidarsi degli altri, diventare più spontanei e meno
timidi; avere l’opportunità di uscire e stare più tempo fuori casa,
migliorare l’umore e la salute, dimagrire e quindi sentirsi meglio,
piacersi di più; è faticoso e si ha bisogno a volte di qualcuno che ci
stimoli ad uscire da casa, ad alzarsi dal letto; aiuta ad uscire dalla
solitudine, che è padrona dell’ozio che prende e fa stare a letto tutto
il giorno; camminando insieme si hanno meno pensieri negativi e
diabolici, anche le voci si fanno sentire meno. Parafrasando Franco
Basaglia, in occasione dei quarant’anni dall’approvazione della Legge
180: visto che non ci resta il tempo necessario a cambiare la testa
agli psichiatri, meglio formare una squadra di giovani. E noi una
squadra di giovani e meno giovani abbiamo provato a formarla otto anni
fa, convinti che lavorare al cambiamento significa essenzialmente
vivere la contraddizione del rapporto con l’altro, accettarne la
contestazione, dare valenza positiva al conflitto, alle crisi, alla
sospensione del giudizio, all’indebolirsi dei ruoli e delle identità.
Eugenio Borgna (psichiatra) scrive in L’arcipelago delle emozioni:
“Le forme di relazione sono molteplici, ovviamente; sono significative
e terapeutiche alla sola condizione che siano nutrite, prima di ogni
altra cosa, di spontaneità, di umiltà, di leggerezza e di non violenza,
di rispetto e di attenzione”. Il nostro gruppo cerca di fare proprio
questo. E per concludere, ricordiamo che ci incontriamo da ormai otto
anni ogni martedì alle 17 (orario estivo) o alle 16.30 (orario
invernale) davanti alla Casa della Conoscenza a Casalecchio, oltre ad
organizzare uscite ‘fuori porta’ per trekking più lunghi e più
impegnativi, un appuntamento che molti di noi aspettano con
impazienza…:
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle 4, dalle 3 io
comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora, aumenterà la mia
felicità: quando saranno le 4, incomincerò ad agitarmi e ad
inquietarmi, scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si
sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore”
Antoine de Saint Exupéry, Il Piccolo Principe
Grazie per la vostra attenzione.
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IL CODICE DELL’ANIMA ZEN A Concetta, ricordando Ave
Giovanni
Sono con te e Antonio. Oggi e sempre. Ave, Ave. L’ho definita aquila
nella pioggia, albatros senza marinai. Libera in una parola. E
coerente. Manca anche a me. La prossima volta vi chiedo di venire
anch’io a porgerle un saluto. A donarle la mia piuma. Come piuma mi hai
donato ieri, insieme ai ragazzi delle scuole. Quando si è ragazzi si
vuole credere che i sogni sono possibili. Si vogliono piume robuste per
le proprie ali. Noi. Loro. Insieme. Codice dell’anima, succinto ed
essenziale, Zen, come ci ricorda Luigi, perché nel giardino i ragazzi
sono fiori da non cogliere e da lasciare crescere. Con affetto.
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Piero Cipriano: Il manicomio chimico
H
o trovato interessante ogni pagina del libro di Piero Cipriano "Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante". Poiché non lo potevo commentare tutto, ho scritto solo sulle parti che mi hanno incuriosito, commosso, indignato di più. L’autore
è uno psichiatra ‘basagliano’. Subito nel primo capitolo egli riferisce
il caso di un uomo che è stato legato perché ha reagito male a un
maltrattamento dell’infermiere e il caso di un ragazzo che deve essere
ricoverato in un altro ospedale e non vuole, perché in quel luogo è
stato trattato male, ma il direttore lo vuole sedare e spedire
nell’altro ospedale come fosse un pacco. In Italia, afferma, vi sono
luoghi, come a Trieste, dove i reparti psichiatrici non sembrano
reparti ospedalieri, non ci sono sbarre, non ci sono elettrochoc e i
pazienti non vengono legati; ci sono però anche case di cura in cui i
pazienti vengono legati senza motivo, per prevenzione, come un ragazzo
il cui pseudonimo è Ivan Fëdorovič, un caso che dovrebbe scandalizzare
le coscienze.
Cipriano racconta che nel 1793, in piena rivoluzione francese, Pinel
separò i folli dai criminali e inventò i manicomi. Questi manicomi
avevano tre scopi:
- Reclutare per proteggere la società dal pericolo dei pazzi.
- Isolare per fare chiarezza e diagnosticare il tipo di malattia del pazzo..
- Ammaestrare e dominare la volontà deviata del pazzo con la volontà retta dell’alienista.
In Italia dal 1904 vigeva la legge 36, secondo la quale bisogna legare
i pazienti quando sono pericolosi per sé e per gli altri o quando
procurano pubblico scandalo.
La psichiatria italiana nella prima metà del secolo scorso era una
delle più arretrate d’Europa. Secondo l’autore c’erano due tipi di
psichiatria e due tipi di malati: i piccoli psichiatri si occupavano
della grande psichiatria nei manicomi e i grandi psichiatri si
occupavano dei casi meno gravi e dei più abbienti. Per fortuna negli
anni Sessanta irrompe sulla scena uno psichiatra insolito, Franco
Basaglia, che dirige il manicomio di Gorizia e applica il modello
inglese della comunità terapeutica: porte aperte, progressiva
eliminazione delle fasce, riduzione dei rapporti gerarchici. A Trieste
riesce a svuotare un manicomio. Nel 1978 questa pratica si concretizza
nella legge 180, che abroga la legge 36 e con essa abolisce i manicomi.
Non vi è più l’internamento per tutelare la società dal pericolo del
folle e il ricovero è solo per un dovere etico di cura: l’attenzione va
data principalmente alla persona.
Purtroppo negli anni trascorsi dal 1978 a oggi la situazione è
peggiorata, soprattutto negli S.P.D.C. (servizi psichiatrici diagnosi e
cura), reparti di massimo quindici posti, destinati all’emergenza.
Oltre alla contenzione fisica, con la forza, e alla contenzione
meccanica, con fasce o cinghie per bloccare caviglie e polsi del
paziente al letto, vi è la contenzione chimica, cioè la
somministrazione di farmaci tranquillanti e sedativi non per scopo
terapeutico (attenuare l’ansia, la rabbia, l’angoscia e l’agitazione)
ma a scopo anestetico (per annichilire, tramortire un paziente, fino a
ridurlo in uno stato agonico). Leggendo di queste pratiche sono stata
scandalizzata da tanta crudeltà. Ma a mio parere la peggiore di tutte è
la contenzione ambientale: tenere le porte chiuse del reparto, limitare
o impedire le uscite, le visite, isolare il paziente in un’apposita
stanza del reparto. Per fortuna c’è anche quella che viene detta
contenzione ‘relazionale’: l’ascolto, l’osservazione empatica del
paziente, una modalità di comunicazione finalizzata a ridurre
l’aggressività.
Gli esecutori del T.S.O. sono agenti di polizia municipale e sono
autorizzati a condurre il paziente in ospedale, non a legarlo. Sappiamo
però che l’80% dei trecentoventitré S.P.D.C. italiani sono attrezzati
per la contenzione e quindi possiamo immaginare che la pratichino.
Tuttavia esistono S.P.D.C. dove le porte sono aperte e i ricoverati non
vengono mai legati: significa che senza fasce si può. Basterebbe andare
a Trieste a vedere come lavorano i dipartimenti per cambiare idea sulle
coercizioni.
Oggi, afferma l’autore, la contenzione chimica ha il sopravvento,
quindi il vero ‘manicomio’ è costituito dagli psicofarmaci.
Polemizzando con il manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali (DSM), poi, egli aggiunge che agli psichiatri e alle case
farmaceutiche non bastano più i malati da curare, ma servono anche i
sani: lutto, tristezza, rabbia, timidezza, disattenzione non sono
considerati stati d’animo fisiologici, ma patologie da curare con il
farmaco adatto.
Cipriano racconta la storia degli psicofarmaci basandosi sugli scritti
di Carl A. Whitaker. Mi è rimasta impressa l’affermazione che a un
certo punto si curano con lo stesso farmaco il disturbo bipolare e
problemi di tutt’altra natura. Sono stata invece favorevolmente colpita
da come è stata affrontata negli U.S.A. la questione dei bambini con
A.D.H.D. Il disturbo, definito nel 1980 ‘deficit dell’attenzione’ e nel
1987 ‘deficit dell’attenzione con iperattività’, dal 1991 dà diritto
per legge ad assistenza e sostegno scolastico.
Tornando alla storia degli psicofarmaci, mi è rimasto impresso il fatto
che negli U.S.A. i complici nel rilanciare la psichiatria basata sugli
psicofarmaci sono quattro:
American psichiartic association.
American psycofarmaceutic association.
National institute of mental heath.
Associazione di madri di pazienti psichiatrici
Le prime tre istituzioni oltre a scopi scientifici sono ovviamente
mosse anche da interessi economici, mentre la quarta è nata per
protesta contro le teorie freudiane incolpanti le madri. Il farmaco
diventa quindi la panacea per tutti i mali, un modo elegante di fare
terapia dimenticandosi di ricercare le cause vere della malattia.
Un esempio è quello del Prozac: Cipriano racconta che il farmaco si
dimostrò problematico fin dall’inizio della sperimentazione, ma la casa
farmaceutica produttrice riuscì a farlo comunque approvare. Negli anni
successivi alla commercializzazione alcuni pazienti si tolsero la vita,
altri commisero omicidi. Nonostante ciò fu organizzata una campagna
massiccia, vennero diffusi otto milioni di opuscoli. Fu la
commercializzazione della depressione, altro che sensibilizzazione!
Cipriano a proposito degli psicofarmaci fa un parallelo tra la cocaina
e l’antidepressivo. Egli parte da un articolo di Roberto Saviano, che
dice che la cocaina può essere presa da chi ti sta seduto accanto per
svegliarsi la mattina, l’autista al volante dell’autobus che ti porta a
casa, perché vuole farsi gli straordinari, perché non gli venga la
cervicale, tuo padre, tua madre, tuo fratello, tuo figlio, il tuo
capoufficio, la moglie del tuo capoufficio, la sua amante, la sua
segretaria che tira solo di sabato per divertirsi, il camionista che fa
arrivare il caffè nella tua città, l’infermiera che cambia il catetere
a tuo nonno, l’imbianchino che sta verniciando le pareti della stanza
della tua ragazza, la tua ragazza…
Così per Cipriano anche l’antidepressivo può essere assunto da tutti:
chi è seduto accanto a te in treno perché non ce la fa a svegliarsi
tutte le mattine per andare a lavorare in una stireria dieci ore al
giorno per quattro euro all’ora e non si può permettere una seduta
psichiatrica, l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa
perché deve fare degli straordinari senza sentire i crampi della
cervicale o i dolori alle gambe, li può prendere tua madre per l’ansia
accumulata nella giornata, tuo fratello che iniziò con la cocaina,
diventò euforico gli diedero uno stabilizzatore dell’umore, non bastò,
allora si depresse gli diedero un antidepressivo, ma con quello diventò
megalomane, gli diedero un antipsicotico con il quale ingrassò e adesso
prende l’antidiabetico. Oppure la può prendere tuo figlio che a scuola
era un gran casinaro allora la maestra ti consigliò di consultare un
neurologo che, diagnostica una malattia chiamata ADHD, gli prescrisse
delle anfetamine e adesso mi sembra un morto di sonno. Le può prendere
il tuo capoufficio oppure sua moglie, per sopportare il suo destino di
donna tradita, l’amante del tuo capoufficio a cui lui regala la cocaina
al posto degli orecchini, ma lei preferirebbe gli orecchini, allora per
la disperazione prende l’antidepressivo, il camionista che fa arrivare
il caffè nei bar della tua città quando arriva a casa si è strafatto di
cocaina e si prende una boccetta di valium, l’infermiera che sta
cambiando l’etere a tuo nonno (che si è preso un antipsicotico per
stare tranquillo) e l’antidepressivo gli fa sentire leggere anche le
notti, oppure l’imbianchino che imbianca le pareti della camera della
tua ragazza, che prende uno stabilizzatore dell’ umore perché era
troppo impulsiva e a volte si taglia e a volte ha rapporti occasionali…
Cipriano conclude dicendo che la differenza tra antipsicotico e cocaina
è che quest’ultima è illegale. Inoltre, se prendi l’antidepressivo
dimostri di avere qualche problema, se assumi la cocaina dimostri di
essere tossico…
Quello che mi ha più commosso in questo libro è il caso di un padre che
ha il figlio ammalato. Egli è disperato per il fatto che vogliono
sempre legare suo figlio. Questo signore non lavora più da alcuni anni
e ha fatto molte ricerche. Suo figlio sta male e lui vuole curarlo, ma
le medicine che gli danno i medici lo distruggono. Facendo la ricerca
ha scoperto che in Lapponia a partire dagli anni ’70 un gruppo di
psichiatri ha iniziato un tipo di trattamento per le persone che hanno
un primo episodio di psicosi basato sulla terapia famigliare al posto
dei farmaci e con questo nuovo approccio l’esito dei pazienti psicotici
è nettamente migliorato. Tutti gli operatori della Lapponia svolgono
un’azione famigliare e quando capita un episodio di psicosi entro
ventiquattr’ore dalla chiamata vanno a casa del paziente. Parenti e
amici sono inclusi come se fossero operatori. Gli operatori che vanno a
casa del paziente non si sentono i padroni, gli sceriffi, come fanno
qui da noi, che arrivano con pompieri, carabinieri e forze armate che
sfondano la porta e ti prendono per i capelli e ti portano fuori. In
Lapponia se un paziente è in crisi lo si lascia in un’altra stanza e
gli si chiede solo di tenere aperta la porta. Inoltre al primo incontro
non si prescrivono farmaci, talvolta solo un sonnifero o un po’ di
antipsicotico che sospendono dopo alcuni mesi. Con questo metodo si ha
un tasso altissimo di guarigione e i casi di psicosi si stanno
riducendo drasticamente. Quando questo padre gli ha descritto i
risultati della sua ricerca, Cipriano gli ha proposto di curare
personalmente il proprio figlio alla luce di queste conoscenze. Il
padre però ha risposto che lui non può, perché non è un medico: gli
serve uno specialista, ma uno come lui, perché il suo pensiero critico
gli sembra sia un buon punto da cui partire.
Il capitolo che mi ha fatto più indignare è quello intitolato “ ritorno
all’elettroshock” in cui l’autore riferisce di aver partecipato a un
convegno su questa pratica. Lui non si trova d’accordo sull’utilizzo
della terapia elettroconvulsiva e racconta che durante il periodo di
leva come obiettore di coscienza ha incontrato dei ‘basagliani’ che gli
hanno fatto conoscere la psicoterapia e così ha lasciato al loro
destino i farmacologi e gli elettroconvulsori. Sempre in questo
capitolo egli riferisce che il Lazio concentra il maggior numero di
posti letto psichiatrici privati d’Italia e forse è anche per questo
che i servizi pubblici sono malmessi e le case di cura succhiano una
parte dei soldi destinati ai dipartimenti di salute mentale. Basaglia
diceva che la malattia mentale è un grande affare. Le cliniche private
vivono sui matti: più matti più soldi. Il numero dei malati mentali
aumenta anche grazie a questi imprenditori della follia: sarà più
facile chiudere i manicomi che le case di cura. Fa indignare che con i
soldi che i pazienti spendono nelle case di cura si potrebbero tenere
centri di salute mentale aperti per ventiquattr’ore su ventiquattro per
sette giorni alla settimana e potrebbero essere assunti molti operatori
precari.
Ritornando al convegno a un certo punto Cipriano si trova d’accordo col
relatore che sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando
è veramente necessario, a dosi basse per periodi limitati (due o tre
mesi) e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo e
continua dicendo che i medici trattano i pazienti con un dosaggio
uguale per tutti, per sei mesi dopo il primo episodio e per tutta la
vita dopo il terzo episodio. Purtroppo però conclude che anche lui
invia in una clinica privata i pazienti resistenti agli antidepressivi
che non sa come trattare.
Concludo questa mia modesta recensione parlando di un capitolo che mi
ha interessato molto sugli uditori di voci, essendo anche io
un’uditrice di voci. Il nostro psichiatra va a un convegno dove parlano
persone con questo problema. Inizia una ragazza chiamata Cristina
Contini che stupisce Cipriano perché gli uditori di voci sono malmessi
mentre lei no: la donna sostiene di udire le voci da ventisette anni.
Convive con esse e non prende psicofarmaci e secondo lei non è giusto
definire gli uditori di voci come schizofrenici. Poi parla un certo
Rufus May che dice che una persona deve essere “libera di ascoltare le
voci” senza per questo dover necessariamente assumere farmaci. Dopo di
che fa la storia delle voci: durante l’inquisizione chi sentiva le voci
era considerato posseduto dal diavolo e questo timore è rimasto anche
oggi, con la differenza che al posto del fuoco si usa l’antipsicotico.
Durante l’illuminismo “sentire le voci” era nemico della razionalità.
Anche Gesù e gli sciamani sentivano le voci. Il capitolo si chiude con
la relazione di un altro uditore di voci e il suo rapporto con gli
psicofarmaci che dovrebbero fare andare via le voci. Con gli
psicofarmaci prendi coscienza della realtà, ma ti fanno venire tanta
fame, ti fanno ingrassare, la libido sparisce, la vita sessuale diventa
un ricordo, il corpo e la mente non provano più niente. Però sospendere
gli antipsicotici è pericoloso: tornano tutte assieme le emozioni,
torna la libido, in un anno il contatto con la realtà è perso e con
esso la capacità empatica con gli altri. Ricomincia la connessione con
la società: con gli psichiatri e le forze dell’ordine.
Concludo confessando che anch’io, in un certo periodo della mia vita,
ho ridotto di mia iniziativa il dosaggio di antipsicotici prescrittimi:
piangevo e ridevo senza ragione, avevo pensieri negativi, per cui penso
che gli antipsicotici vadano scalati gradualmente.
Consiglio la lettura a tutte le persone che vanno alla ricerca di
terapie alternative al singolare ed esclusivo trattamento delle
patologie psichiatriche con farmaci, cercando di superare gli scogli
della malattia attraverso il dialogo e la terapia famigliare.
Buona lettura.
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Gentile direttore Fabio Tolomelli,
mi chiamo Alberto e sono in cura da diversi anni al CSM ‘Scalo’.
Nonostante i disagi che la depressione porta con sé non ho perso la
voglia di raccontare con la mia attrezzatura fotografica ciò che mi sta
intorno. A voi che per tanti anni mi avete tenuto compagnia mi offro
come fotografo di redazione a titolo gratuito. Sono stato fotografo
anche di cronaca al Corriere della Sera, quando ancora la sede era in
via Cipriani. Non sto a dilungarmi con il curriculum: sono bravino e
gratis. A tutta la redazione, grazie. E speriamo di risentirci.
Alberto Grossi.
Grazie, caro Alberto, ti aspettiamo in redazione!
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IL FUORI E L’INCLUSIONE SOCIALE COME BASE DEL ‘TRATTAMENTO’
Grazia Stella, psicologa
I
o trovo molto stimolante l’anniversario dei quarant’anni della legge 180.
La legge uscì in data 13 maggio 1978, ma poi si è dovuto attendere il
1994 per una normativa che, approvando il cosiddetto “Progetto
obiettivo”, rendesse definitiva l’abolizione degli ospedali
psichiatrici.
Alcuni ospedali psichiatrici necessitarono dell’imposizione della legge
per attivare la loro chiusura, mentre altri, come l’ospedale ricovero
di S. Giovanni in Persiceto, avevano iniziato a dimettere gli internati
prima della legge del 1978, cercando di reinserirli nei territori di
provenienza per restituirgli le loro vite ‘interrotte’.
Il Comitato di ricerca e documentazione sul superamento dell’Ospedale
Ricovero di San Giovanni in Persiceto oggi offre una ricca raccolta di
materiale in proposito ed evidenzia che gli operatori lavorarono
moltissimo anche sul territorio, avviando esperienze di servizi
sociali, sanitari ed educativi e assemblee pubbliche su tematiche di
salute mentale e inclusione.
Cosa troviamo oggi, fuori? Possibilità di trattamenti mediante la
riacquisizione diretta di un ruolo di cittadino attivo, di
appartenenza?
Il modello di lavoro dell’inclusione sociale guarda la disabilità non
come una caratteristica solo interna all’individuo. Pertanto stimola i
contesti, i saperi disciplinari, le organizzazioni e le politiche a
fornire una risposta adeguata alle differenze delle persone. Realizzare
l’inclusione comporta il dare valore all’individuo e riconoscergli
l’appartenenza alla comunità, per esempio a scuola, nel lavoro, nel
gioco, in famiglia, in ambienti socio culturali e ricreativi eccetera.
Altrettanto utili i modelli della normalizzazione e dell’integrazione
che pongono in risalto le differenze e tendono ad avvicinare il più
possibile le persone con disabilità a una condizione di normalità. Il
diverso deve cambiare e adattarsi alla cultura e alla società in cui
vive.
Cosa costruiamo oggi, fuori? Aumentando le autonomie, le risorse e le
responsabilità delle persone con problemi psichiatrici, aiutandole a
dialogare con i contesti a cui vogliono partecipare, favorendo il loro
empowerment, sostenendole in una vita quotidiana sempre più organizzata
e scelta con loro, stiamo cercando di progettare con l’altro, superando
il progettare per l’altro.
L’attenzione agli aspetti psicosociali - osservare, proporre e cambiare
i contesti sociali, essere inclusivi - richiede una capacità da parte
di tutti di destrutturare e strutturare continuamente le
organizzazioni, i contesti istituzionali e sociali, al fine di poter
vivere insieme tendendo al superamento delle barriere.
La presenza di associazioni di volontariato e del terzo settore
arricchisce il nostro territorio e ne mostra la predisposizione verso
la possibilità di sperimentare inclusione nella normalità della vita di
tutti i giorni. L’obiettivo ovviamente non è ‘psichiatrizzare’ i vari
contesti e le persone, rendendole dipendenti dai servizi di salute
mentale e dagli operatori del settore, ma accompagnare ciascun
individuo nei vari ambiti di vita quotidiana a cui partecipa,
aiutandolo ad innalzare la qualità della vita, come da modello di
recovery.
La persona con problematiche psichiatriche può essere stimolata ad
attivare le sue risorse per cercare di vivere la sua vita nel qui ed
ora e aumentare sempre più le sue autonomie e responsabilità in
ambienti che, grazie ad attività di prevenzione e sensibilizzazione, di
preparazione sociale e culturale per l’inclusione, sono finalizzati a
creare una ‘quotidianità terapeutica’ che le garantisca processi
abilitanti, nei contesti di vita civile a cui vuole partecipare, perché
è lì che intende svolgere la sua vita.
Ciascuna realtà risulta estremamente efficace nell’inclusione e nel
supporto alla persona con problemi psichiatrici, ovviamente quando
riesce ad agire in rete e non in modo isolato. A distanza di
quarant’anni, quello che per me, come persona e professionista, sarebbe
utile rilanciare è il confronto e la condivisione con i colleghi,
familiari e utenti, società civile, per ‘fare insieme’ salute mentale e
anticipare pratiche innovative mentre ci si adopera per creare nuove
leggi che le sostengano.
SCENE DI LAVORO TERRITORIALE QUOTIDIANO
Annalinda Mosca, psichiatra
Scena prima: il dottor A per recarsi al
lavoro, prende la corriera e incontra il signor B, sofferente da più di
vent’anni di una grave psicosi e che il dottor A conosce da poco. Fino
ad allora il dottor A non è riuscito a trovare un terreno comunicativo
né coll’ermetico mondo allucinatorio del signor B né col dolore dei
familiari, provati e richiedenti. In corriera il dottor A e il signor B
si riconoscono e i siedono vicini. Il signor B ride fragorosamente,
divertito da una scena allucinatoria; il dottor A si sente un po’ a
disagio (li guardano tutti!), poi si fa contagiare e ride. Ridendo,
ridendo (e facendo sorridere tutti i viaggiatori) il signor B riesce a
introdurre il dottor A nel proprio mondo allucinatorio, il dottor A lo
condivide. Per parecchi giorni la strana coppia continua a viaggiare in
corriera, divertendo i viaggiatori. Il mondo interno del signor B entra
nel dottor A, la strana coppia entra nella quotidianità dei viaggiatori
e la quotidianità entra nella strana coppia. La strana coppia comincia
a funzionare e avvia un percorso che mai il signor B e i suoi familiari
erano riusciti a iniziare e proseguire.
Scena seconda: Il gruppo C sta ultimando il corso di Psicoeducazione. I
componenti allietano di solito la sala d’attesa e gli operatori del CSM
mettendosi già in cerchio e coinvolgendo gli altri pazienti nella
conversazione, mentre attendono di essere chiamati dai conduttori del
gruppo. Quel pomeriggio però i conduttori non trovano il gruppo C in
sala d’attesa: si sono spostati tutti fuori a soccorrere una compagna,
D, che ha forato e cooperando l’aiutano a cambiare lo pneumatico. “per
forza - commenta la più giovane di loro, E. - siamo un gruppo!”.
Entrambe le scene ci propongono un ribaltamento del punto di vista
abituale, un salto quantico, che permette di passare da uno stato a un
altro nel rapporto tra medico e paziente, delle piccole rivoluzioni.
Cos’è la rivoluzione, in cosa consiste lo spirito rivoluzionario? La
rivoluzione è una rottura epistemologica degli assiomi secondo cui è
ordinato il mondo: “Voglio seguire l’epoca, il rumore e il germogliare
del tempo”… “La natura della rivoluzione è una sete perenne, un’arsura
inestinguibile”… [1] Così scriveva il poeta russo Osip Mandel’štam
negli anni della rivoluzione russa. Mandel’štam finì male: scrisse una
poesia ironica su Stalin, fu spedito in soggiorno coatto nel 1934 per
morire in Siberia nel 1938. Travolto da una rivoluzione che si
cristallizzò e si contorse su sé stessa. La storia ce lo ha insegnato:
le rivoluzioni possono essere tradite, i nuovi pensieri possono
cristallizzarsi in dogmi se il nuovo sistema creato dalla rivoluzione
non include istituzionalmente una spinta permanente alla rivoluzione.
Lo spirito rivoluzionario non accetta logiche a una dimensione, ma
propende per una logica a n dimensioni, multistrato, dandosi così il
compito di rendere evidenti questioni nascoste, presenti nella sua
atmosfera storica, ma non ancora pensate perché destabilizzanti per l’establishment
della comunità o gruppo di cui fa parte. Lo spirito rivoluzionario è
sollecitato dal fuoco interno che lo spinge a perseguire la sua linea
di ricerca e attività, andando dietro la sua intuizione metodologica ed
etica, è preparato al peggio, al sacrificio e a ritrovarsi in errore,
pone più problemi di quanti ne sappia risolvere, sa attendere
ispirazione e opportunità, lieto di avere compagni di viaggio. Negli
anni da Gorizia a Parma a Trieste, Basaglia e i suoi compagni di
viaggio innescarono una vera rivoluzione: seguirono il rumore e il
germogliare del tempo e fecero una battaglia scientifica e politica,
determinando la crisi e il collasso del Manicomio: l’intervento venne a
collocarsi su coordinate spazio-temporali diverse, dall’ospedale al
territorio, in seno al milieu socioeconomico e culturale. Basaglia
formò una generazione di operatori preparati ai tempi nuovi.
A ben guardare i servizi territoriali odierni, ci sembra che lo spirito
rivoluzionario non sia spento; tutti i percorsi sono alimentati da un
anelito condiviso all’autodeterminazione e alla partecipazione: la
revisione del concetto di cronicità, i concetti di empowerment e recovery,
i percorsi riabilitativi secondo il modello degli ambienti supportati,
la valorizzazione delle reti naturali: famiglia, rete parentale e
sociale più prossima. C’è qualcosa che però non quadra, se ascolto il
rumore del tempo: da dove viene la stanchezza, la demotivazione, il
senso di affanno e di soffocamento, se non la resa, di singoli
operatori o di interi gruppi di lavoro? Difficile fornire in poche
battute un’analisi esaustiva. Sottolineo due elementi, tra tanti. Il
contesto socio-economico precario, che sta vedendo negli ultimi anni
l’impoverimento di intere fasce di popolazione, la progressiva perdita
del diritto al lavoro, e quindi di ruolo attivo economico e sociale
degli individui, la concreta riduzione di risorse del sistema pubblico,
scolastico e sanitario. L’istituzione (di cui la psichiatria a buon
diritto fa parte, come materia medica) e i suoi meccanismi regressivi e
potenzialmente repressivi: sembrano messi in crisi infatti quelli che
René Kaës chiama i ‘garanti metapsichici dell’istituzione’, ovvero i
valori fondanti che sottendono il compito che l’istituzione si dà [2].
Come tutte le istituzioni anche quella psichiatrica vive oggi una crisi
e una trasformazione profonda, in cui i valori individuali e
istituzionali, cioè i ‘garanti metapsichici’, rischiano di saltare:
tali schemi cedono sotto la pressione delle mai sopite richieste della
società di relegare il disagio individuale e di classe, di appiattire
le contraddizioni sociali, di occuparsi della sicurezza; in più c’è la
pressione degli imperativi di efficienza economica; queste pressioni
producono effetti alienanti, distruttivi e potenzialmente
desimbolizzanti. Ne risulta un attacco al pensiero e una
dequalificazione del lavoro clinico, vengono così messi a rischio sia
l’attuazione del compito primario che la trasmissione delle capacità
professionali, si immobilizza ogni futuro investimento emotivo e di
competenze. Viviamo oggi sia i buoni frutti e il potenziale avanzamento
delle conquiste della 180 sia un rischio potente di cristallizzazione.
Kafka scriveva che la vera vittoria del male è quando ti costringe a
combatterlo con le sue stesse armi: la psichiatria, nell’angolo di
fronte a tutte le richieste cui obiettivamente non può rispondere,
rischia non solo di arroccarsi, ma di aiutare la società a costruire
arroccamenti. Il Manicomio, sconfitto nelle sue componenti
architettoniche, economiche, sociali e culturali, può dalla
clandestinità abitare le ancora presenti istituzioni dell’esclusione,
ad esempio i campi di raccolta degli immigrati, le baraccopoli dei
vecchi e nuovi poveri e così via, là dove si viola logica, diritto e
umanità.
Come uscirne? Ecco la rottura epistemologica, il colpo d’ala: piuttosto
che negarsi e arroccarsi, la psichiatria col suo quarantennale
patrimonio di conoscenze e pratiche (consentite da una legge che
guardava e permette ancora di guardare al futuro) deve invadere la
medicina, gli ospedali, i poliambulatori, le case della salute, le
scuole, i centri sociali di quartiere. La società intera, insomma.
Perché la psichiatria ha gli strumenti intellettuali per comprendere
l’angoscia destrutturante, il potere fertile e conoscitivo del
conflitto, l’ectopico, la varianza, strumenti che negli anni ‘70 le
hanno permesso non più di reprimere ma di liberare. Certo si apre
autenticamente solo chi poggia su una solida identità; il sapere e il
saper fare alimentano il saper essere e quindi il saper contaminare e
contaminarsi. Il sapere: mai come oggi la psichiatria poggia su un
patrimonio di conoscenze scientifiche che riescono a dialogare con i
diversi approcci metodologici e clinici utilizzati, se non si cede al
riduzionismo e al dogmatismo. Su questo sapere l’operatore psichiatrico
forma la sua identità di ruolo, e la psichiatria può definire la sua
area di intervento. Giacché se si apre la psichiatria non deve farlo
per offrire prestazioni tout court
a chi le chiede (ho un problema con un soggetto difficile nell’ambito
dei servizi sociali: chiamiamo lo psichiatra! Non riesco a comunicare
efficacemente con un paziente in un reparto internistico: chiamiamo lo
psichiatra!) ma consapevole della specificità del suo ruolo può offrire
informazione e formazione. Basilare è la formazione, quella poggiata
sulle evidenze scientifiche e sulle efficaci pratiche cliniche; queste
devono essere patrimonio comune di tutti gli operatori della
psichiatria; formazione che si mette subito in pratica, cosiddetta ‘a
bottega’. Solo così l’esperienza sopravvive a chi la inizia, come fece
Basaglia. Chi sa può e chi può deve fare: solo una formazione
permanente può alimentare il cambiamento organizzativo.
A due o tre spazi: le Case della Salute e, più in esteso, i quartieri
mi sembrano degli avamposti necessari per un’opera di informazione e
formazione e, solo se necessario, di intervento, sulla base di un
fermento di integrazione tra le diverse discipline mediche, con la
medicina di base, con la psicologia di comunità.
Quella potrebbe essere la porta di ingresso del disagio, biunivoca. Il
disagio deve essere già in quell’ambito ben definito e passare
eventualmente a spazi in cui aumentano i gradienti di intensità di
cura, che comprendano il ricorso al Day Hospital e ai Night Hospital. I
ricoveri, sia in urgenza che in residenze terapeutiche intensive,
devono avvenire in luoghi di alta specializzazione, in rete col lavoro
ambulatoriale.
In tutti i settori auspico modalità di lavoro gruppale e di rete,
efficiente, funzionale. La formazione deve comportare anche la
manutenzione dei gruppi di lavoro. Meglio gruppi piccoli, che siano in
una virtuosa rete tra loro, con incontri e aggiornamenti ben cadenzati
e condotti. I responsabili e i coordinatori devono conoscere e gestire
bene le dinamiche di gruppo. Un operatore che sa, sa lavorare e forma
il paziente e il familiare, che sapranno e faranno. Impareranno il
linguaggio comune e si aiuteranno, comprendendosi. Operatori, pazienti
e familiari che sanno e sanno fare, sanno essere e invaderanno la
cultura e la società. Solo questo ribaltamento garantisce la
psichiatria nell’esercizio libero della sua funzione primaria di
assistenza e cura e la società dal pericolo di creare nuovi manicomi,
ovvero luoghi disumani di esclusione.
Non è il libro dei sogni, “l’alternativa è organizzazione” [3] (lo
cantava un cantautore bolognese negli anni Settanta). Ci vuole la
volontà che parte dal basso, ma viene anche garantita dalla dirigenza,
ci vuole una rete, ci vogliono risorse, quanto minimo per allungare una
coperta che ad oggi davvero si accorcia paurosamente.
I pazienti romagnoli mi hanno insegnato che chiedere è già la metà di
ottenere, parafrasando mi dico che immaginare è quasi la metà di
realizzare.
Ultima scena: la dottoressa M. passa in corriera davanti alle ‘Aldini
Valeriani’, dove c’è un murale con il volto e una frase incoraggiante
di Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra
intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro
entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra
forza”.
Note:
1 - Osip Mandel’štam Il rumore del tempo e altri scritti, a cura di Daniela Rizzi, Biblioteca Adelphi, 2012. 2
- “Si tratta degli schemi silenziosi sui quali si fonda la vita
psichica, le alleanze fondate sul compito comune e condiviso… formano
il sottofondo della psiche individuale e più ampie configurazioni di
legami intersoggettivi, familiari e gruppali, sulle quali la realtà
psichica si rafforza” (René Kaës, Il gruppo e il soggetto del gruppo, 1993, trad. it. 1994, Roma, Borla)
3 - Da Anna di Francia in Ho visto anche degli zingari felici di Claudio Lolli
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ANESTESIA? Lettera aperta al cuore dei lettori
Antonello Correale, psichiatra psicoanalista
Caro Bollorino, mi sento spinto a scriverti e, attraverso te, scrivere
ai lettori di Psychiatry on line Italia, perché colpito da un grave
turbamento, che mi lascia nell’animo un senso di sconvolgimento e di
tempestosa impotenza e, quasi, di disperazione.
Mi riferisco alle attuali tragedie in mare, colla sequenza di morti
annegati, di famiglie divise, di adolescenti e bambini senza più
genitori, di madri e padri senza figli. Sto parlando, come tutti sanno,
di persone, che già nei loro paesi soffrono divisioni atroci, violenze
e tormenti, non ultimo la più atroce forma di tortura e desolazione: la
fame, la malattia, l’esposizione del proprio corpo a forze troppo
grandi, che possono annullarlo e distruggerlo.
Ma quello che più mi colpisce, e mi lascia stordito, non è tanto
l’incapacità di affrontare il problema da un punto di vista politico,
incapacità di cui l’Italia e l’Europa stanno dando una miserevole
prova. So pure che il problema è complesso e non può essere risolto da
generici, per quanto importanti, appelli all’umanità e alla
solidarietà. Quello che mi colpisce è l’indifferenza e, fase
immediatamente successiva all’indifferenza, l’odio e la ripulsa. Mi
viene da chiedermi, e da chiedere a tutti noi: che cosa è successo?
Amici, colleghi, cittadini, che cosa è successo? Perché scene atroci,
dolori giganteschi, perdite immense di vite, suscitano al massimo un
breve commento compassionevole e in molti invece quasi un: “Ben gli
sta!”, noi non li vogliamo vedere. Come non pensare, che i traumi che
si abbattono su questi bambini, su questi giovani, su queste famiglie,
diventeranno tra qualche anno sofferenza psichica e fisica, disturbi
psichici, personalità menomate e alterate? Come non pensare che si
stanno preparando con grande zelo e ostinazione, gli infelici del
domani, i disperati di domani, i disadattati di domani? Perché chiudere
gli occhi, trincerandosi dietro le insufficienze - fin troppo evidenti
- dei governi italiani e europei? Veramente siamo convinti che gli
errori politici giustifichino il grave rischio di un tracollo etico?
Che si possa far morire qualcuno, far impazzire tanti, far soffrire
quasi tutti, solo per esprimere una critica e una profonda
insoddisfazione? Veramente pensiamo che gli errori di molti
giustifichino la nostra violenza, la nostra brutalità, la nostra
insofferenza infastidita verso il dolore degli altri? Sento dire da
molti: è brutto che qualcuno muoia, ma il governo attuale ha delle
ragioni. Ma che discorso è mai questo? Quale ragione - vera o presunta
- può giustificare la perdita della vita, il disprezzo per i diritti
umani, l’invito a non soccorrere chi chiede aiuto (perfino questo
abbiamo dovuto sentire!), il rispedire in luoghi pieni di dolore e
sofferenza (sia i paesi di origine, sia i campi dei rifugiati) chi
cerca disperatamente di fuggirne? C’è il rischio di un crollo etico,
che non è giustificabile col discorso politico. L’indifferenza e l’odio
che ne è il figlio più immediato, è l’espressione di un avvio verso un
crollo etico, camuffato da fastidio (“cambiamo argomento”) e di una
blanda, rapida, compassione. Peggio, talvolta l’odio non è camuffato,
ma esplicito. Ma perché tutto questo? Insisto colla domanda: che cosa è
successo? Quale oscura, profonda mutazione, si è infiltrata negli animi
per determinare un effetto così drammatico? Non parlo naturalmente di
tanti che combattono tutto questo. Tanti, tantissimi che purtroppo non
trovano un punto di raccordo e di collegamento, Ma non posso non citare
La banalità del male di Hannah Arendt. Il male si ammanta di buon
senso, di normalità, siamo bravi cittadini, non ci disturbate. Un mondo
che privilegia su tutto la “sicurezza” e la “legalità”, senza
preoccuparsi se la legalità deriva da leggi errate, impossibili da
rispettare, è un paese in difesa, chiuso, che preferisce la lettera
alla sostanza, il piatto buon senso al riconoscimento del dolore umano.
Insisto colla domanda: perché tanta indifferenza? Vorrei provare a
rispondere. Credo che il problema fondamentale non sia il timore
dell’invasione (che è ben lungi dall’essere tale) e non sia neanche
solo il razzismo (che pure scivola tra le pieghe del sociale in modo
subdolo), ma sia l’odio per il povero, per il disperato, per l’inerme,
per chi non ha più nulla. Lo spettacolo dell’assoluta indigenza è per
molti insostenibile. L’indigenza causa sensi di colpa, che nessuno
vuole provare, come la paura di essere invidiati (l’africano porge il
cappello all’occidentale, che esce allegro dal ristorante), ma più di
tutti causa il pensiero: potrei essere come lui o come lei. E se
capitasse a me? Non si prova rispetto per chi non ha niente, al massimo
una fugace compassione. Perché in realtà questo specchio dell’umana
fragilità, dell’esposizione alla malattia, alla solitudine, al dolore,
ci richiama al terrore primordiale di poter finire così. E allora
meglio pensare che sono terroristi, imbroglioni, truffatori, ladri,
fanatici, sporchi, violenti, che hanno idee sbagliate, culture assurde,
che sono contrari ai nostri valori. Ma i nostri valori non ci spingono
a ricacciarli nell’impotenza! Ma è in nome di questi valori, che noi
facciamo questa opera contro chi non rispetterebbe i nostri valori! È
chiaro che alcuni di loro sono violenti e negativi, come lo sono molti
italiani (in Italia un uomo uccide una donna quasi una volta al giorno
e sono italiani). Ma invece di criticare la nostra giustizia, che è
lenta e farraginosa, attacchiamo loro e proponiamo la chiusura delle
frontiere. Invece di affrontare le nostre tremende insufficienze
(corruzione, giustizia, sanità, amministrazioni inadempienti, cattivo
funzionamento delle istituzioni), preferiamo attribuire tutta la colpa
dei nostri difetti ai migranti. E quindi potremmo dire: l’indifferenza,
e l’odio che la segue, sono il frutto del rifiuto che alberga ormai nel
mondo occidentale per la debolezza, la solitudine, l’indigenza e
l’inermità e per il riconoscimento onesto delle nostre mancanze. Si
parla molto di tanti poveri italiani (quasi cinque milioni): ma anche
verso di loro io non sento solidarietà e interesse e partecipazione, ma
una compassione un po’ pelosa: sono più importanti i poveri italiani
dei poveri stranieri (ma ricordate Shakespeare: se resta senza cibo,
non ha fame un ebreo, se lo ferisci non perde sangue?). Ma in sostanza
io vedo verso tutta la povertà italiana e straniera lo stesso
atteggiamento indifferente e banalizzante. Come vogliamo chiamare tutto
questo: una gigantesca opera di negazione di massa, il chiudere gli
occhi, il preferire l’ignoranza alla conoscenza perché è più
tranquillizzante? Credo che si possa sintetizzare questa mia
riflessione con una semplice frase: quello di mio che non vorrei
vedere. Io non credo che sia impossibile uno sforzo maggiore per
guardare dentro di sé: in fondo è da questo che mi aspetto un possibile
cambiamento. Ma forse è necessario che molti abbiano il coraggio di
proporlo e di affermare a voce alta e con coraggio questa forte verità,
che richiede la forza di un forte ripensamento su noi stessi e sul
mondo che vogliamo costruire. In conclusione, mi piacerebbe chiedere a
tutti, e in particolare a chi segue pol.it ed è quindi interessato a
porsi la domanda di come funziona la mente umana, a livello individuale
e collettivo: perché queste anestesia strisciante, che colpisce un
numero crescente di persone, perché questa inerzia, questa passività,
questa rinuncia? Ma credo che anestesia sia il termine più
preoccupante, ma anche più preciso. Che cosa è successo? Chiediamocelo
e chiediamo agli altri una riflessione e una discussione su questa
domanda cruciale.
Ricevuto e pubblicato da Francesco Bollorino il 6 luglio 2018 in http://www.psychiatryonline.it/node/7454
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BELLA FACCIA A CATTIVO GIOCO: CHE FATICA!
Concy
L
o slogan coniato alla nascita del Faro, circa undici anni fa: “Il
giornalino di tutti, dove ognuno può scrivere di sé e leggere degli
altri”, l’ho letteralmente adottato e fatto mio. I lettori assidui
avranno potuto constatare la veridicità di quanto affermo: di fatto
tutti gli articoli della sottoscritta, hanno sempre riguardato
esperienze e fatti di vita personali e familiari.
Pur essendo trascorsi più di dieci anni, è ancora così vivido in me il
ricordo della tremenda telefonata ricevuta da mio nipote F.,
primogenito di mio fratello maggiore! Erano le 19.00 o giù di lì, avevo
appena appoggiato la mia borsa da lavoro sul tavolo del salone di casa,
quando squillò il telefono; dall’altro capo, stranamente c’era mio
nipote, che si era accollato, con grande senso di responsabilità,
l’ingrato compito di fare da messaggero di una tragica notizia. Col
tono di voce di chi aveva smesso di piangere da poco, tirando su col
naso e non sapendo da che parte cominciare, tanto era confuso, quasi
sussurrando disse: “Zia, papà questo pomeriggio è stato ricoverato
d’urgenza all’Ospedale di Borgo Trento”. E aggiunse: “Era diventato
completamente giallo… Dagli accertamenti, gli hanno diagnosticato un
tumore alla testa del pancreas”. Alla parola ‘pancreas’, i miei
pensieri improvvisamente hanno cominciato a galoppare come cavalli
imbizzarriti e a briglie sciolte; nel giro di qualche minuto ho
ripercorso, come in un film, tutta la nostra storia familiare,
immaginandola funestata dalla contemporanea perdita di questo mio caro
fratello e di mia madre; questo perché, essendo N. da sempre il figlio
prediletto, sicuramente la notizia le avrebbe spezzato il cuore. La
sottoscritta, per informare gli altri tre fratelli e decidere insieme
la strategia da adottare, dovette far ricorso alle poche energie
residue. Fummo tutti concordi nell’optare per la versione più
verosimile da fornire a mamma: un intervento chirurgico di rimozione
dei calcoli dalla cistifellea. La nostra via crucis ebbe una durata
considerevole.
Settimanalmente prendevo il treno alternando la destinazione: 1)
Verona, città di residenza di mio fratello e famiglia 2) Rosciolo de’
Marsi, dove vivevano mia madre, Nicolina, e Maria, la sua badante
rumena. Le difficoltà maggiori, ovviamente emergevano durante il
viaggio e la permanenza in Abruzzo. Ricordo ancora adesso con grande
ansia e tristezza lo stress al quale ero sottoposta, quando mentalmente
cercavo di ‘esercitarmi’ a non far trasparire il dolore, a soffocare la
sofferenza che mi aveva letteralmente invasa e annichilita. Mio
fratello, appena gli fu possibile, ci resse il gioco, rassicurando di
tanto in tanto mia madre telefonicamente sul suo stato di salute.
Nonostante gli sforzi, tuttavia, mi è capitato in qualche circostanza
di non riuscire a trattenere le lacrime e l’emozione. L’unica cosa da
fare in quei frangenti era sottrarmi alla vista, con qualche scusa di
circostanza. Mi sentivo come su di un palcoscenico, dove l’alternanza
della maschera della ‘normalità’ alla faccia triste era piuttosto
frequente e continua. Per me la vera ancora di salvezza è stata la
fede: pregavo molto, soprattutto di notte, rivolgendomi a Giovanni
Paolo secondo, affinché intercedesse e perorasse presso Dio la nostra
causa. Nonostante gli alti e bassi e le complicazioni serie
sopraggiunte, sono stata ascoltata, tutto si è risolto al meglio. Tutto
è avvalorato dai fatti concreti: mio fratello, dopo la rimozione della
massa tumorale, non ha dovuto sottoporsi ad alcun trattamento
chemioterapico né tantomeno ad altro genere di terapie. Al placet dei
curanti N. affrontò con gioia frammista ad ansia il viaggio alla volta
di Rosciolo. Mamma abbracciandolo si sciolse in un lungo pianto
liberatorio, aggiungendo: “Non ho mai creduto neanche a una sola parola
della storia che mi avete raccontato”. Questo a riprova che, come tutte
le mamme del mondo, che hanno un ‘sentire speciale’ nei momenti
nevralgici che la vita ci riserva, aveva la consapevolezza che suo
figlio, carne della sua carne, stava vivendo una situazione
particolarmente pericolosa e difficile.
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Una certificazione
Matteo Bosinelli
Gent.mo Dott. Leandro Cutti,
ho conosciuto e le presento il giovane Matteo Bosinelli.
A mio parere, il giovane, che è abbastanza intelligente, è adatto ad una vita inte[g]ra.
Il perito filatelico
R.C.
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Gatti & gatti
Lucia
Ai gatti piacciono le porte aperte,
nel caso cambino idea.
Rosemary Nisbet
Anni fa, pensando di adottare una
siamesina spaventata appena approdata al gattile, finii per portarmi a
casa anche la sua compagna di cella, che fu chiamata Pasqualina, perché
era appunto il giorno di Pasqua. Mal me ne incolse, perché Pasqualina
era davvero un uovo con sorpresa e poco dopo mi scodellò cinque
gattini. Qui cominciò l’avventura che mi ha portato a convivere, oltre
che con marito e figli, anche con un numero spropositato di felini
nella mia peraltro grande e ospitale magione.
Per evitare di tenere in casa maleodoranti cassettine igieniche pensai
bene di far aprire un gattaiola, così che il tutto si svolgesse in
giardino. Mi dicono che la gattaiola sia stata inventata nientemeno che
da Newton, per far entrare e uscire la sua gatta senza doverle aprire
continuamente la porta. Non avevo previsto che quell’invitante
sportellino sarebbe poi diventato la porta delle delizie per tutti i
gatti del vicinato, randagi compresi, attirati dal cibo sempre pronto e
dai comodi giacigli che noi umani chiamiamo poltrone, divani, letti
& C. L’anno scorso una micia bianca di facili costumi generò i suoi
primi tre micetti nelle vicinanze e riuscì a crescerli e a farli
sfamare pur non concedendo mai la minima confidenza. Anzi, guai ad
allungare una mano: graffio assicurato, bello duro, e senza ringhio di
preavviso. Quest’anno grazie alla collaborazione di un aitante tigrotto
ancor più selvatico di lei, eccola di nuovo incinta.
E qui scatta il dilemma: chi può entrare in casa mia? Il cuore di
un’irriducibile amante dei gatti ha una sola risposta: “Tutti!”, ma il
cervello della medesima, costretto a venire a patti con la realtà,
tenta una timida difesa: “Siamo al completo…”.
La presenza dei randagi, in effetti, si è dimostrata ben presto più
problematica di quanto potessi immaginare. Il numero dei gatti
circolanti dentro e fuori casa, fra i miei, quelli dei vicini e le new entry rischia di arrivare a quindici, venti…
La quantità di cibo da fornire rispetto all’anno scorso è aumentata a
dismisura, così come le cure veterinarie, sempre più frequenti a causa
delle baruffe e della promiscuità. Oltre tutto, i ‘padroncini di casa’,
dopo aver ceduto forzatamente ai bulli il controllo del giardino,
sentendosi spodestati hanno messo in atto all’interno diverse forme di
rappresaglia, che non sto a illustrare per decenza. Nell’incresciosa
situazione sono stata soccorsa da una fata, la magica ‘cattura-gatti’
della città. C’è solo lei, a quanto mi dicono, che si occupa di questo
problema a Bologna. Lo fa da molti anni e ha catturato centinaia di
gatti, per giunta gratuitamente e con un’abnegazione incredibile. Ha
perfezionato un’ingegnosa trappola, azionata a distanza col telecomando
e resa irresistibile dal penetrante profumo del pâté di sardine.
Vederla all’opera mi ha veramente colpito, per la sua abilità, ma
soprattutto per il rispetto, la delicatezza e il leggero senso di
disagio con cui intrappola le bestiole. In fondo per i gatti, esseri
liberi e sicuri di sé, è piuttosto disdicevole far la fine del topo… Le
dispiace specialmente quando tocca a una gatta incinta. Mi ha spiegato
che non si dovrebbe mai aspettare di arrivare a questo punto: bisogna
prevenire i problemi, perché poi si moltiplicano, e la soluzione non è
mai del tutto indolore.
Nella trappola lei ha premurosamente sistemato un tappetino di gomma,
perché la caduta dello sportello non faccia troppo rumore, e prima di
far scattare la chiusura sta ad aspettare che non rimanga fuori la coda
e che il boccone sia stato ben inghiottito. Poi trasferisce il gatto in
un trasportino, che copre con un ‘cappuccio’ di felpa confezionato con
le sue mani, e se lo porta via nella sua vecchia auto piena di gabbie e
di esche, parlandogli con dolcezza. Provvede in seguito a far sì che i
gatti vengano sterilizzati e li cura di persona, prima di riportarli, a
norma di legge, nel loro territorio. Il Comune, a cui lei offre
spontaneamente un così utile servizio, si limita a garantire la
sterilizzazione dei gatti, ma poi non le rimborsa nemmeno il costo dei
croccantini e degli antibiotici. Da non credere!
Ma torniamo alla nostra storia: il tigrotto libertino, privato degli
attributi virili, è stato già riportato nel mio giardino, da dove è
prontamente e sdegnosamente fuggito. Chissà se tornerà. La micia
bianca, che ora è al gattile, ha partorito quattro nuovi micetti. Le
faranno allattare i piccoli, che si spera vengano adottati, poi anche
lei sarà operata e infine tornerà nei suoi luoghi, cioè - suppongo - di
nuovo fuori e dentro casa mia. Si adatterà… Probabilmente avrà una vita
meno travagliata, camperà più a lungo e in salute, come i miei gatti
domestici, che non possono sentire il richiamo degli amori e della vita
selvaggia. Ma cosa le resterà in mente di questa avventura? Capirà che
abbiamo cercato di fare anche il suo bene o sarà risentita per la
cattura, la prigionia, la castrazione? Sarà triste per l’allontanamento
dai figli?
Un gatto non è un umano, naturalmente, ma questa vicenda mi sembra
offra molti spunti di riflessione a proposito di porte aperte o porte
chiuse.
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Vedere oltre
Mariangela
Nessuna grazia esteriore è completa
se non è compenetrata e vivificata
dalla bellezza interiore.
Victor Hugo
La bellezza esteriore viene ricercata
da molti e nella società contemporanea ha assunto una notevole
importanza, tanto da essere continuamente pubblicizzata e osannata,
peccato però che si parli meno di un’altra forma di bellezza, quella
interiore, la bellezza dell’anima, dell’essere della persona nella sua
profondità. Ci sono persone che si innamorano di una donna o di un uomo
perché sono attratti dall’apparenza, ma col passar del tempo si
accorgono che lo stato interiore del proprio partner non corrisponde
alla bellezza esteriore. La bellezza esteriore è solo a livello di
pelle, mentre quella interiore è così grande e luminosa che può
irradiare anche il nostro viso. Uno sguardo e un piacevole sorriso
possono renderci più belli! Nel mondo odierno regna l’idea che se si è
belli esternamente si avrà più successo nella vita. Ma è davvero così?
Oppure vale la pena di sforzarsi per vedere oltre la bellezza esteriore
di un qualsiasi essere umano? In una società come la nostra essere
belli può portare maggiori vantaggi rispetto all’essere umili, amanti
della giustizia e amorevoli verso gli altri, qualsiasi sia il loro
aspetto esteriore. Sono pochi a credere che questi valori danno un
senso alla vita, dovrebbero avere la priorità e diventare un modello di
riferimento. Ai giorni nostri la bellezza interiore dovrebbe essere il
fulcro della società degna di essere chiamata moderna e progressista
per mostrarne la grandezza.
Le statistiche invece dimostrano che la ricerca della bellezza
interiore è scomparsa dalla nostra società, perché le persone non
riescono a vedere al di là di questi canoni estetici, si soffermano
sulla forma, tralasciando la sostanza! Considerando questi aspetti,
dobbiamo renderci conto che forse sarebbe necessario un cambiamento.
Non dobbiamo attenderci che siano i sapienti della terra a compiere
questa impresa, perché non ne vedono la necessità, siamo noi come
individui che dobbiamo mostrare un comportamento che produca una
società migliore. Sarebbe sufficiente che tutti abbassassimo le nostre
esigenze estetiche e aumentassimo e sottolineassimo il nostro modo di
essere: questo non significa che la bellezza esteriore non possa essere
ricercata e non possa essere piacevole, ma ciò che appare bello agli
occhi non deve sminuire la bellezza dell’anima!
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P
Luca G.
Padre.
Mio padre è stato una delle persone che nella vita mi hanno
condizionato di più, nel bene e nel male, ed è anche una delle persone
di cui parlo più spesso con gli altri. È l’uomo che mi ha dato la vita,
col quale ho condiviso momenti belli e brutti. Aveva i suoi difetti, ma
era un uomo buono. Era possessivo ed apprensivo, ma anche affettuoso e
tollerante. Non solo io ho dovuto sopportare lui, anche lui ha dovuto
sopportare me. Non l’ho mai rinnegato. E ora che non c’è più, qualche
volta mi ritrovo a essere padre di me stesso, dicendomi cose che mio
padre mi aveva e avrebbe detto quando era ancora vivo. Mi consolava, mi
dava aiuto, mi consigliava, mi insegnava cose, qualche volta me ne
diceva altre per evitare che mi montassi troppo la testa. Egli faceva
tutto questo per rendermi una persona migliore rispetto a prima e
magari anche migliore di lui.
Pancia.
Io somatizzo molto e a volte, a causa dello stress, mi viene il mal di
pancia. Ma fin da piccolo ho sempre avuto e sopportato forti mal di
pancia, per le cause più svariate. Diarrea, gastroenterite emorragica,
indigestione. Ma alla fine il mal di pancia l’ho sempre superato. Non
importa se andando in bagno, o rilassandomi calmando la mente, o con un
tè, il mal di pancia l’ho superato ogni volta che mi veniva.
Pausiniano.
Io sono stato un fan di Laura Pausini, e ascolto le sue canzoni ancora
adesso che non la ammiro più come un tempo, da quando un coetaneo ha
urtato la mia sensibilità cantando una sua cover senza il mio permesso,
violando un accordo che avevamo fatto e quindi distruggendo la nostra
amicizia. Perché la Pausini per me era qualcosa di più che una
cantante: era un punto di riferimento, uno degli amori platonici della
mia adolescenza, addirittura una donna-angelo. E molti di quelli che
sapevano che l’ammiravo, anzi l’amavo, mi prendevano in giro. Credevo
che l’avrei amata per sempre, non è stato così purtroppo. La Pausini
resta sempre e comunque una bella persona, dentro e fuori. Pulita,
sincera, simpatica, spiritosa, semplice. Tanto che per chi l’ammira o
l’ha ammirata è impossibile non volerle bene.
Pelé.
Non è mai stato il mio calciatore preferito in assoluto, però avevo
sempre pensato a lungo che fosse lui il più grande di tutti i tempi.
Pensavo che tre Mondiali vinti, più di mille gol segnati in carriera e
un ottimo comportamento dentro e fuori dal campo fossero sufficienti a
giustificare questa mia opinione. Tanto che mi è capitato di litigare
con quelli che ritenevano che il migliore di tutti fosse Maradona. Fino
a quando parlandone con altri più maturi mi sono reso conto che avevano
ragione loro. Pelé faceva risultato, ma segnava gol contro difese
bucate, ed era buono solo per il calcio sudamericano. Maradona ha
segnato meno gol, però aveva un estro e un talento ineguagliabili, che
rendevano meraviglioso come giocava, sia in America che in Europa, al
di là del risultato sul campo e delle sue vicende personali fuori da
esso. Inoltre, Pelé aveva smesso di giocare in un periodo in cui il
calcio stava iniziando a svilupparsi dal punto di vista tecnico,
Maradona invece giocava in un contesto e in un periodo in cui la
tecnica e le tattiche erano già state aggiornate le squadre avevano
difese più compatte. Quindi onore e gloria a Pelé, ma il suo tempo è
passato, e Maradona l’ha superato.
Pensieroso.
Pensare è una cosa che faccio continuamente, ho sempre qualcosa per la
testa. Anche quando non sono concentrato su qualcosa, penso sempre,
anche a qualcosa di indefinito, immotivato e impreciso. Alle volte
certi pensieri mi passano per la testa salendo dall’anima, oppure
entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Pensieri intrusivi, si
chiamano. Ma sono pur sempre pensieri, e io li ho.
Permaloso.
Mi offendo e mi irrito facilmente quando fanno e mi dicono qualcosa che
non mi va, e quindi sono permaloso. Ma quelli che sono permalosi sono
anche i più sensibili di tutti.
Pignolo.
A volte pretendo che certe cose vadano e siano fatte esattamente come
voglio io. Posso sembrare scontroso quando sono pignolo, ma ci sono
casi che essere pignoli ci vuole davvero.
Polemico.
Purtroppo ho sempre da contestare e da protestare, e di fare sapere la
mia opinione su qualcosa. Però cerco anche di ascoltare e rispettare il
parere degli altri, e questa è una cosa positiva.
Poseidon.
È un film che mi piace più del Titanic, rispetto al quale è più breve,
c’è più azione e soprattutto ci sono molte meno ingiustizie. Il
Poseidon è una nave che affonda, non a causa di un iceberg, ma di
un’onda anomala che prima la colpisce e poi la capovolge. Nel Poseidon
rispetto al Titanic muoiono molte più persone, anzi sono solo in sei a
sopravvivere, ma rimane sempre una storia completamente inventata. E
non ci sono passeggeri di terza classe che solo perché tali vengono
reclusi dietro cancelli e impossibilitati a salvarsi, né passeggeri di
prima classe egoisti e crudeli, né marinai frettolosi e insensibili.
Tutte scene che a differenza dei rovesciamenti e allagamenti del
Poseidon non ho mai potuto sopportare. uoiono molte più persone, è
vero, però è una storia completamente inventata.
Preciso.
Io so essere preciso perché certe cose, alle quali tengo molto, voglio
farle per bene e senza sbagli, con precisione assoluta. E anche quando
devo redigere qualcosa che va pubblicato o devo fare qualcosa sul posto
di lavoro, occorre la massima precisione.
Provare.
Qualche volta, quando non so come fare davanti a un compito o una
difficoltà, io provo a fare qualcosa. Che sia chiedere aiuto a qualcun
altro, o risolvere da solo il problema, o pensare a quale soluzione
adottare, io provo a fare qualcosa. Provarci non vuol dire sempre
riuscirci, ma almeno si esce dall’immobilità e dall’apatia. E d’altra
parte, provare non vuol dire sempre fallire.
Pace.
È la cosa che alle volte desidero più di tutto il resto. Non tanto la
pace nel mondo, ma più che altro la pace interiore. Ma chi non la cerca
e non la desidera?
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Lo schifo non ha mai fine
Darietto
Tempo fa, guardando il telefilm
Streghe, vidi una scena di un bambino demone che doveva essere
distrutto, ma le sorelle erano molto indecise sul da farsi in quanto
ritenevano che, se educato bene, poteva poi usare i suoi poteri per il
Bene e non per il Male. Da qui mi è nata una sorta di teoria, pensando
che anche gli esseri umani sono inclini al Bene o al Male a seconda: 1)
del luogo di nascita, in quanto se si nasce in un paese dove c'è più
libertà di pensiero, di parola e di democrazia, si starà meglio, in
confronto a uno con guerra, distruzione e tirannia; 2) dell’educazione
impartita dai genitori, in quanto non tutti sono uguali e ci sono
quelli che dei figli non gliene frega niente o li trascurano per altre
motivazioni che non conosco e che comunque porteranno il figlio ad
avere comportamenti negativi; 3) dalla società in cui viene accolto, in
quanto ci possono essere delle mancanze, affettive e/o materiali, che
lo porteranno ad avere comportamenti di isolamento, nervosismo,
depressione e, in casi molto più gravi, il suicidio; basta vedere ad
esempio come anche in una società civile sia sufficiente a un ragazzo
molto sensibile essere bersagliato dal bullismo e decidere di farla
finita suicidandosi; 4) di nascere in una famiglia ricca, borghese o
povera; questo ha un’incidenza enorme sul futuro del figlio, in quanto
bisogna però poi vedere se la ricchezza non gli darà alla testa
portandolo a far del male ad altre persone e, al contrario, se la
povertà lo porterà a fare ‘il delinquente’, come dicono nei
telegiornali. Insomma, avere più o meno soldi porterà a un
comportamento buono o a uno cattivo.
Dicono che lesbiche, gay, bisessuali e transgender, sono contro natura.
Sapete cosa vi dico? Penso che allora anche i cattolici italiani e i
musulmani sono contro natura, perché spesso si vedono musulmani
chiedere aiuto per il cibo dentro le nostre chiese (e un sacco di
italiani sono al di fuori delle loro mura); i musulmani dovrebbero
invece chiedere aiuto nelle loro moschee e i cattolici nelle chiese...
Quanti preti pedofili, poi, insegnanti che picchiano gli studenti
(addirittura anche viceversa!), infermiere che picchiano gli allettati
e badanti pubbliche (quelle nelle strutture apposite) che picchiano gli
anziani! Lo schifo non ha mai fine!
Quante cose si potrebbero fare per migliorare e invece si lascia
perdere? Vedi ad esempio i tempi burocratici necessari per allestire
una festa (nella quale magari viene invitato il sindaco). Ti bloccano,
solo per una ventina di fogli che, oltretutto te li inviano in formato
PDF e tu, povero Cristo, non hai i mezzi per compilarli se non hai un
qualcuno che ti aiuta: questo sì che è contro natura, altroché!
Oppure, poter migliorare la situazione idrogeologica, ma no! Continuano
a lasciar stare, tanto chi paga? Come direbbe il buffissimo Totò: “E io
pago! E io pago!” (aaaahhh, aaaahhh, aaaahhh!!!). Allora, cari lettori,
chi è veramente contro natura?
Tempo fa vidi un film horror intitolato Decoys. C’erano queste
bellissime femmine (aliene) che tentavano di fecondarsi attraendo
giovani maschi. Quando però arrivavano al culmine dell’orgasmo,
diventavano bruttissime. Ecco come vedo le ragazze (aaa-aaahhh,
aaaaaahhh, aaaaaaaaaahhh!!!): fuori tutte belle che si truccano, si
tirano i capelli e si danno trecento litri di profumo, poi dentro sono
brutte da far venire il voltastomaco. Si danno delle gran arie e si
credono chissà chi. Un po’ di umiltà e di romanticismo, no? Andate ben
a cagare, zoccole! Son più teneri i gay con quella bella barbetta
cucciolosa, quella panciotta morbidosa (o quei bei muscoli che ti fanno
venire la bava alla bocca) e che almeno hanno molta più femminilità
(come il sottoscritto) di quelle putride e immonde donnelle da quattro
soldi.
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MIELE ALLA SIGNORA DEL LABIRINTO
Antonio Marco Serra
Pa-si te-o-i me-ri;
da-pu-ri-to-jo po-ti-ni-ja me-ri.
Un’anfora di miele a tutti gli Dèi;
alla Signora del Labirinto un’anfora di miele.
Tavoletta di Cnosso KN Gg 702, 1400 a.C.
Io, il minotauro, per qualche strano,
incomprensibile motivo godo di una cattiva stampa tra gli esseri umani,
ma quel che mi più mi offende e che si è voluto far credere che abbia
avuto una vita infelice e che sia stato ripudiato dai miei parenti e
persino ucciso con la complicità di mia sorella. Menzogne! Turpi e
assurde menzogne! Come potete ben constatare dalle immagini di questi
vasi greci qui riprodotti: mia madre che mi culla amorevolmente,
cantandomi una dolcissima ninna nanna, ed io e mia sorella Arianna, che
giochiamo gioiosamente a nascondarello.
Arianna o Ariadne, o Aridela, la purissima. Purissima sì, e da me
amatissima, ma purtroppo ‘schizzata’ senza remissione. Arianna è sempre
stata una carissima ragazza, dolce e affettuosa, e per lei ho sempre
avuto un debole, ma ha sempre avuto una strana fissazione, si è
convinta di poter uscire dal labirinto, il mio labirinto, e per di più
facendo uso di un semplice filo di lana.
Ovviamente a noi divinità sue parenti ciò causava solo una profonda
angoscia, per questa strana forma di disordine psichico che colpiva e
invalidava una così brillante intelligenza, ma, come vi era da
aspettarsi, schiere di esseri umani, il cui desiderio parossistico e
insensato di uscire e rientrare dal mio labirinto è tristemente ben
noto - dentro e fuori, fuori e dentro, e ancora fuori e ancora dentro,
e dentro e dentro, e fuori e fuori, avanti e indietro all’infinito -
non si son lasciati sfuggire l’occasione di prestar fede a questa
curiosa ideazione delirante, e si son messi ad adorare la mia povera
sorella, con fervore degno di miglior causa, cercando ogni modo per
ingraziarsela, ricolmandola di preci e doni: “Miele alla signora del
labirinto” era una delle scritte più frequenti, sulle loro tavolette
d’argilla.
Peccato che il da-pu-ri-to-jo,
il labirinto, non abbia uscite né entrate, e, a ben guardare non abbia
neanche un dentro e un fuori. Voi siete dentro o fuori? O soggiornate
permanentemente sul suo limitare? E cosa significa per voi stare dentro
e cosa stare fuori? Ovviamente, cari mortali, non avete la più pallida
idea di cosa ciò significhi, e di fatto non significa niente, eppure
giurereste che c’è un dentro e un fuori dove stare. E ogni tanto
sostenete che qualcuno vi è entrato, magari sette baldi giovanotti e
sette vergini sensuali, e che poi qualcun altro ha impedito loro di
uscire, magari sono stato io che li ho divorati. Che schifezza! Pensate
davvero che non riesca a procurarmi cibi più gustosi! Ma voi, cari
mortali, non potete entrare e non potete uscire dal labirinto, per il
semplice motivo che siete voi il labirinto stesso, giacché tali vi ha
costituiti il più grande di noi, il glorioso Dedalo: un ampio spazio
per una danza frenetica e sublime, come già riconosceva il buon vecchio
Omero: “E una danza vi ageminò lo storpio glorioso [Efesto], simile
a quella che in Cnosso vasta un tempo Dedalo fece ad Ariadne riccioli
belli” (Iliade, libro XVIII, trad. Calzecchi Onesti). E il caro
storpio ha posto la danza ben in evidenza sullo scudo del più noto e
celebrato tra voi, il piè veloce Achille, nella speranza che
comprendeste. Pia illusione.
Ma questo labirinto non è l’oscura stamberga che ogni tanto descrivete
(o forse lo è perché voi non riconoscendola e non curandovene l’avete
resa tale) un luogo dove perdersi e in cui si annidano pericoli
innominati. È invece, o potrebbe essere, un’enorme lussuosa dimora
dotata di miliardi di stanze, alcune già arredate da alcuni pochi che
vi hanno preceduto, molte di più ancora da arredare, se solo vi
decideste a capire che si tratta della vostra autentica casa, l’unica
dimora di cui potete disporre, e che arredandola elegantemente,
renderete più piacevole l’unica vita di cui disponete. La vostra dimora
non contiene perigliosi trabocchetti, l’unico autentico pericolo è che
voi non la riconosciate per quello che è: la vostra accogliente dimora.
E cercate allora qualcuno che vi spieghi chi siete e come potreste
essere diversi da quello che siete, e come potete addentrarvi nel
vostro personale labirinto senza incorrere in chissà quali terribili
pericoli.
È vero che viviamo in strani tempi in cui vi è chi ha più fiducia in
qualcun altro che in sé stesso, quando si tratta di arredare la propria
casa, ma qui mi sembra che si esageri: è come se Beethoven chiedesse a
Vivaldi di spiegargli l’autentico significato della Pastorale
e questi gli rispondesse: “Sì, d’accordo, te lo spiegherò, ma tu in
cambio mi rivelerai quali erano le mie reali intenzioni quando ho
composto Le quattro stagioni. Ciascuno balla questa ‘danza
delle gru’ secondo il suo proprio ritmo, che lui solo percepisce e che
di fatto lo costituisce, e se non è in grado di dare delle risposte ai
propri interrogativi, nessun altro potrà farlo al suo posto. Neppure
io, che pure presiedo alle regole generali, allo spazio e al tempo in
cui questa danza si esplica concretamente, mi azzarderei a darvi
consigli al riguardo: che vogliate ballare una giga, una ciaccona, una
passacaglia o una sarabanda, son affaracci vostri e io non mi ci
intrometto!
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TENERI ACULEI
Francesco Valgimigli
I“La tua pazzia è un discorso troncato
a metà”, mi diceva un mio compagno di sventura che, come tutti noi,
usciva oggi. Era mattina e un signore aveva svegliato tutti con un
chicchirichì bello e profondo, lo chiamavamo tutti il professore perché
era uno che aveva studiato. Le stanze della grande casa mi guardavano
per l’ultima volta mentre io le esploravo con il cuore leggero, sapendo
che non le avrei più riviste. Ma le pareti sembravano ridere di me,
della mia convinzione, continuavano a provocarmi, ricordandomi: “tanto
ritornerai, ritornerete tutti”. I fantasmi di quel tempo perduto mi
inseguivano a ogni passo e le stanze si succedevano una dopo l’altra e
parevano non avere fine: dopo una stanza ne seguiva sempre un’altra.
Qualche volta incontravo qualcuno che vagava per il corridoio come me,
e come me ogni tanto si affacciava in una stanza e si introduceva
dentro, guardando i letti vuoti, gli armadi chiusi e dei piccoli
comodini vicino ai letti, a sinistra. Con loro scambiavo qualche
battuta, ma erano più i silenzi che ci scambiavamo che le parole.
Incrociai nel mio girovagare tanti miei compagni, qualcuno camminava
guardando in basso, intento a seguire cosa gli diceva il pavimento, il
professore che indossava abiti scuri, con in testa un cappello a
cilindro sfondato in cima e scuro in volto, parlava da solo e ripeteva
sempre la stessa frase: “Io ti potrei anche amare se tu ci fossi, ci
fossi… ci fossi… Ah, quanto a dir qual era è cosa dura esta selva
selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura!”. Ogni tanto
mi fermavo per riposarmi, mi sembrava di aver passato la vita a
camminare dentro quelle mura. Le correnti d’aria mi tormentavano
infilandosi dentro le ossa e gelandole. In quei momenti l’anima si
nascondeva nei posti più profondi del mio essere, incapace di
affrontare quella nuova glaciazione.
C’eravamo solo noi dentro quel luogo che sembrava esserci sempre stato.
Non c’era nessuno a controllarci, nessun infermiere, e la porta
d’ingresso forse era aperta, ma nessuno osava toccare la maniglia per
paura di essere rimproverato. “Il problema è quando la prigione ce
l’hai dentro”, diceva un’altra mia compagna con il viso scavato e una
gran paura nelle mani. Era ferma dentro una stanza senza mobili: niente
impediva di uscire, eppure non usciva. La lasciai lì, non cercai
d’aiutarla, perché lì nessuno si permetteva di alleviare il dolore di
un altro per paura di essere inopportuno. I fantasmi lo sapevano e ci
tormentavano attraversando i nostri corpi e gridandoci dentro. Poi
venne l’ora del pranzo ma nessuno aveva voglia di mangiare, tutti
continuavamo a camminare, a esplorare tutte le stanze di quell’immenso
edificio. Io mi sentivo sempre più solo, circondato com’ero da gente
che vagava senza una meta. Intanto l’orologio segnava le ore senza
pietà, ed era pomeriggio, l’ora di guardare un po’ di televisione. Ci
riunimmo tutti nella sala di ricreazione, un anziano signore che si
chiamava Pietro, con una lunga barba bianca e una tunica che scendeva
fino ai sandali, infilò l’enorme chiave dentro la serratura della
piccola TV e schiacciò l’interruttore. Era l’unico che aveva quella
chiave, tutti gli avevano sempre accordato quell’onore e nessuno osava
metterlo in discussione. Trascorremmo due ore felici vedendo dentro la
TV uomini con camici bianchi camminare in un paesaggio vulcanico, erano
a una certa distanza l’uno dall’altro e ogni tanto si chiamavano a gran
voce. Nel cielo un sole gigantesco e rovente stava calando e tutto si
tingeva di rosso. “Era solo per parlarti, per vederti che io…” ,
bisbigliava un mio compagno che mi stava accanto. Solo due persone
finirono di essere catturate da quella luce malata, tutti gli altri si
alzarono e ripresero a girovagare. Avevamo deciso di perlustrare tutto
l’edificio anche i posti dove non eravamo mai stati; sapevamo che quei
posti erano chiusi a chiave e quelle erano le uniche porte, oltre
quella d’ingresso. Scoprii una porta che avrebbe dovuto esser chiusa,
invece… Invece dietro la porta c’era un corridoio oscuro e stretto, il
mio corpo ci passava a malapena e per di più il corridoio sembrava
restringersi ulteriormente. Sentivo sotto i piedi un rumore di foglie
secche calpestate e nella parete su cui mi strusciavo i rampicanti mi
graffiavano i vestiti. Provai allora a cambiare parete, ma anche lì
succedeva la stessa cosa. Per fortuna il corridoio era breve, anche se
nella parte finale il mio corpo ci passava a malapena. Stretto tra le
due pareti, martoriato dai rampicanti e con il petto schiacciato e
quasi senza respirare, feci un ultimo sforzo per uscire da lì. Con uno
strattone riuscii nell’impresa e mi trovai in una grande stanza di
forma ovoidale. Alle varie postazioni c’erano dei robot in camici
bianchi con i volti pitturati da pagliacci e la pelle di ceramica.
Sembravano senza vita, o forse erano solo addormentati, ognuno aveva
davanti a sé dei bicchieri e dei piatti di plastica con le briciole di
una torta. Mi avvicinai alla postazione più vicina a me. Vicino al
piatto c’era un libro, dei racconti grotteschi di Edgar Allan Poe. Lo
aprii, lo sfogliai rapidamente e mi fermai a una pagina contrassegnata
da un segnalibro, era una pagina del racconto: “Il sistema del dott.
Catrame e del prof. Piuma”. Lessi qualche passaggio: Un minuto dopo fu
evidente che delle persone stavano cercando di entrare a forza nella
sala, e poi una riga più avanti: In quel preciso momento, l’uomo le cui
predizioni erano tutte per la trottola si mise a piroettare intorno
intorno con prodigiosa energia, le braccia aperte ad angolo retto col
corpo in modo da sembrare una trottola vera e propria che rovesciava e
mandava a gambe per aria quanti si trovavano sul suo passaggio. C’era
la descrizione di un altro commensale che mi colpì molto: Sentendo poi
delle incredibili stappate e dei sibili fenomenali di champagne, capii
trattarsi dell’individuo che, durante il pranzo, aveva sostenuto così
bene la parte
di bottiglia. Seguiva poi la descrizione di altri pazzi. Mentre leggevo
sentivo qualcosa scorrermi dentro, quelle pagine avevano il potere di
risvegliare emozioni antiche. Mi staccai dal libro e mi guardai
intorno. Il pavimento era ricoperto da coriandoli e stelle filanti che
si ammassavano su più strati arrivando a un’altezza di venti
centimetri. Indubbiamente erano i resti di una festa, qualcosa l’aveva
interrotta e tutti si erano addormentati. Nei monitor in bianco e nero
di ogni postazione vedevo gli altri miei compagni esplorare le stanze e
i corridoi; la loro sete di conoscere quel luogo prima di andare via li
divorava, a me succedeva lo stesso. Per questo decisi di continuare a
scoprire altre stanze, altre facce di quel luogo. Apri una porta, anche
questa non chiusa a chiave, e mi trovai in un’altra stanza, una stanza
piena di macchine gigantesche che facevano un rumore assordante.
Sentivo qualcuno chiamare qualcun altro, ma il suo urlo, soffocato dal
brontolare delle macchine, diventava un bisbiglio. Andai subito via da
quella stanza. Cercai di dirigermi verso quella voce che continuava a
chiamare, passai altre stanze, alcune arredate, altre no, e finalmente
incontrai qualcuno che si era perso. La voce proseguiva il suo elenco
di nomi (alcuni di questi era la prima volta che li sentivo), il mio
compagno aveva gli occhi spalancati e si trascinava rasente al muro, lo
lasciai fare e mi allontanai. Trovai altre stanze che non avevo mai
visto, in una stanza spoglia una trottola gigante girava, girava… senza
trovare mai riposo. Una voce pronunciava in maniera spiccicata sempre
lo stesso commento: bello, bello… era la voce di una piccola radio
vicino a una parete. Andai oltre e, dopo aver girato un’altra ora,
trovai altri miei compagni. Era sera. Qualcuno mancava all’appello,
qualcuno che si era perso dentro stanze e corridoi sconosciuti. Non
avevamo più voglia di camminare e ci sedemmo attorno a una tavola
apparecchiata, era ora di cena.
Cominciammo a mangiare. Un libro aperto giaceva accanto al mio piatto e
io lo guardavo mentre davo delle gran forchettate alla pasta, c’era
l’illustrazione di un porcospino, nella pagina destra, e nella sinistra
la descrizione dell’animale, le sue abitudini e tutto il resto. Iniziai
a leggere tra una forchettata e l’altra. La scheda iniziava così: “Il
porcospino è un animale molto noto…”. Poi proseguiva: “È presente in
quasi tutta Europa e in gran parte dell’Asia”. Ancora più avanti: “È
anche cacciatore di serpenti”, e scorrendo le righe un ultimo passaggio
mi intrigò molto: “Il corpo dei piccoli è ricoperto di aculei teneri e
flessibili che si irrigidiscono pochi giorni dopo la nascita”.
Lo chiusi e guardai il titolo: “I mammiferi d’Europa”, la copertina era
occupata dall’illustrazione di un qualche felino appollaiato su un
albero. Per curiosità aprii di nuovo l’atlante illustrato e cercai
l’animale raffigurato in copertina, lo trovai, era una genetta europea.
L’ombra di una mano gigantesca prelevava dalla tavola i convitati
afferrandoli per i capelli con l’indice e il pollice. Li portava via
facendoli diventare delle ombre. Dopo cena ci sentivamo soli, ognuno
nel suo deserto, non avevamo voglia di andare a letto presto, in fondo
era l’ultima notte che passavamo lì, e non eravamo poi così sicuri di
voler uscire. Optammo ancora una volta per la tv. Ci accomodammo nelle
sedie, qualcuno mancava all’appello, Pietro girò la chiave nella
serratura, il cancelletto giallo si aprì con uno scatto e Pietro spinse
il tasto di accensione e poi cominciò a girare per i vari canali. Alla
fine trovò un programma che piaceva a tutti e si mise seduto. Andammo a
dormire all’una e la notte felina era a caccia dei nostri sogni. Ci
svegliammo tardi e facemmo colazione, le sedie di tre compagni erano
vuote… Erano andati a dormire come tutti gli altri, ma il mattino dopo
nessuno li aveva più visti. Uscimmo dall’ingresso principale a
scaglioni, io ero insieme a tre persone, ma camminavano lenti e io
avevo voglia di uscire presto dal cancello della villa. Tutte le paure
della sera prima erano svanite come neve sciolta dal sole. Un cartello
affisso al cancello annunciava che la villa avrebbe ospitato d’ora in
poi un museo del giocattolo e l’intero reparto in cui avevamo vissuto
avrebbe custodito, nelle teche disposte ordinatamente nelle varie
stanze, un vasto assortimento di soldatini, di macchinine e trenini, di
bambole, burattini, marionette e robot, e poi trottole e biglie,
un’intera città costruita con i Lego, le costruzioni di legno e altro,
altro ancora. Fuori dal cancello Pietro gettò a terra la chiave del
televisore mentre un regista ritrovato dirigeva un bruco grande quanto
una mucca e un pugno d’attori. Una ragazza dai capelli turchini
aspettava. Un uomo segaligno alto due metri, con i capelli e i baffi
neri, neri, gli occhi scuri e sottili come quelli di una volpe, era
arrivato lì in bicicletta e anche lui era in attesa. Osil suonava il
piano, battendo i tasti con violenza, e un sorriso largo gli si
stampava in volto a sentire tutte quelle note ordinate da lui. Elisa e
Irene erano amiche e anche loro aspettavano. Una coppia di anziani
discuteva animatamente: erano lì per qualcuno pure loro. Io guardavo
dopo tanto tempo il mondo, mi riempivo gli occhi di quell’aria, di quel
posto. Era l’alba di un nuovo giorno.
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UN ESSERE MERAVIGLIOSO
Tina Gualandi
Mia
madre, morta a cinquantasei anni di ictus cerebrale. Era una mamma
affettuosa, una persona generosa, sembrava potesse capire tutto il
mondo degli altri perché la sua generosità era infinita. Sapeva rendere
le persone speciali, le ascoltava in un modo tutto suo e anche una cosa
semplice diventava straordinaria. Un viaggio raccontato a lei diventava
unico e irripetibile. Dopo la sua morte tornare da una vacanza o da un
viaggio era una tristezza. Quando entrava in una stanza, questa si
illuminava. Era luminosa di luce propria, ma se vi erano altre persone,
queste si illuminavano anch’esse. Da quando è morta nulla è più come
prima. Io non mi rendevo conto di quanto fosse importante per me la sua
persona e anche se lei ripeteva spesso che i figli devono farsi la loro
vita, la sua morte ha lasciato un tale vuoto che niente e nessuno potrà
mai riempire.
Articolo pubblicato sul numero de Il Faro dedicato al ricordo.
Anche tu
Fabio
È così. Te ne sei andata via anche tu, la professoressa di italiano che tutti avremmo voluto avere.
Presto, troppo presto, all’improvviso, senza alcun segnale che mi
potesse allertare. La tua partenza mi ha gelato il sangue: paralizzato,
impotente. Cosa fare, cosa dire… Un grande vuoto mi hai lasciato. Sì,
perché il dolore con il tempo passa, ma il vuoto no. Quello rimarrà per
sempre.
Tutte le volte che entrerò in redazione non potrò fare a meno di
pensarti. Ma come dice la mia amica Tamara, le persone che ti vogliono
bene, quando vanno in paradiso, sono felici di sapere che quaggiù siamo
felici. Per questo ti ricorderò pensando ai momenti felici trascorsi
assieme, e cercherò di mettere a frutto quello che mi hai lasciato.
La lezione di Tina
Lucia
Esserci. Esserci malgrado tutto, a
dispetto dei malesseri, della spossatezza, a volte a dispetto dei
santi. Proprio grazie alla sua tenacia Tina approdò al gruppo Per un linguaggio comune.
È stato molti anni fa… Mi dispiace di non riuscire a essere più
precisa, lei si ricordava perfino la data, invece a me i numeri
sfuggono. Aveva visto un volantino al CSM e aveva chiesto informazioni,
ma – raccontava – le avevano sconsigliato di partecipare: “No, non fa
per lei…”. Invece Tina telefonò e si sentì rispondere: “Prova, vieni
giovedì, se ti trovi bene potrai continuare, altrimenti… libera di
smettere” e lei provò. Non solo rimase, ma diventò una colonna del
gruppo, e da lì cominciò una lunga avventura nell’auto mutuo aiuto e
nel fare insieme. Un’avventura che le diede molte soddisfazioni e un
grande slancio di vitalità, nonostante il disturbo psichico che teneva
faticosamente a bada e le condizioni fisiche non molto buone.
Curiosa,
vivace, generosa di sé, diventò ‘Prezzemolina’, presente in tutte le
occasioni, pronta a darsi da fare, prodiga di amicizia, impegno e
solidarietà. Diventò frequentatrice assidua di tanti gruppi, animatrice
di tanti momenti di incontro, vice presidente di un’associazione, Non andremo mai in TV
(poi però in TV c’è andata, perché l’hanno intervistata i giornalisti
di Rai 3), fondatrice e facilitatrice di un nuovo gruppo AMA … e chi
più ne ha più ne metta.
Era ormai un riferimento importante, in quanto competente per esperienza, per il CUFO e per il Dipartimento di Salute Mentale.
Tina era stata una prof, ma per i suoi modi semplici sembrava più una
scolaretta, perché non se la tirava, era chicchierina, ogni tanto
birichina e candidamente impertinente. Le piaceva andare nelle scuole a
raccontare ai ragazzi la sua esperienza di dolore e di ripresa, ma
anche sedersi in un centro sociale o in un orto a chiacchierare con le
anziane signore.
Le piaceva cantare nel coro Cento Passi, recitare con la compagnia di Arte e Salute
ed era tutta fiera perché Nanni Garella l’aveva nominata aiuto regista.
Amava scrivere, ma più ancora andare in giro a portare il nostro
giornale, Il Faro, per farlo conoscere a più gente possibile.
Dovunque andasse diventava subito un’amica. Le volevamo bene tutti, lo
abbiamo toccato con mano, ora che così repentinamente se n’è andata. In
questi giorni stiamo impaginando il numero intitolato 'Dentro/Fuori',
lo facciamo con fatica, immersi nella tristezza, ma la lezione di Tina
ci incita a continuare. Lei ogni volta aspettava il nuovo numero con
impazienza. Voglio immaginarla contenta, in un luogo di pace, a
sfogliare Il Faro insieme alle altre carissime redattrici,
Arianna, Ave, Stefania, donne meravigliose, che come lei ci hanno
lasciato troppo presto.
LA NON ACCETTAZIONE
Simona
Mi è servito tempo per piangere Tina, perché la rabbia e la non accettazione mi bloccavano. La
morte, no... Come spesso mi accade il modo fu traumatico, conflittuale
e un poco assurdo. Scendo raramente dall’ascensore con il mio compagno,
ma quella volta fu così. Vedo il vicino sempre elegante fuori dalla
porta del palazzo, in mutande. La porta della simpatica signora del
piano terra è aperta e la moglie di lui è in deshabillé, davanti alla
porta del retro aperta. Domando cosa è successo e mi rispondono che la
signora Anna è morta. Il mio compagno dice che il mio viso si è
trasfigurato, da quel momento per me è il nero. Ho urlato e pianto. Ma
scherzavano.
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OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI: DIVINA NIVES
Divina Nives, bolognese, amante
dell’arte da sempre, crea collage utilizzando icone pop del presente ma
anche del passato, suo passato. Nei collage, infatti, sono presenti
frammenti del suo vissuto accostate ad icone del nostro tempo, come ad
esempio le Barbie. Un universo colorato, carico di significati latenti
e di simbologie legate alle dinamiche della nostra contemporaneità.
I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Divina Nives
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