GIOVANNI SEGANTINI: “La culla vuota”
Piergiorgio Fanti
T
ra i pittori italiani del secolo diciannovesimo il Segantini (Arco, 15
gennaio 1858 – monte Schafberg, 28 settembre 1899) godette presso la
critica di un prestigio da nessuno eguagliato. Soltanto più tardi,
quando si rivalutò l’esperienza macchiaiola, gli si incominciò ad
anteporre il Fattori, in nome di una maggior ‘genuinità’ di ispirazione
di quest’ultimo.
Per comprendere l’opera di Segantini, bisogna inquadrarla nell’ambito
della scuola lombarda, sempre attenta al vero, e affascinata dallo
studio della luce.
È peculiarità del Nostro, come di altri artisti lombardi, l’interesse
per la vita degli umili in un’epica solenne, presentatosi ben prima
della nascita del partito socialista (1892), a cui Segantini aderì
convintamente.
Il lavoro del pittore è stato suddiviso in vari momenti: un primo
periodo milanese dal 1877 al 1881; il periodo della Brianza dal 1881 al
1886; quello di Savognino nei Grigioni dal 1886 al1894, nel quale
prende forza l’esperienza divisionistica; infine il momento ultimo del
soggiorno isolato a 3000 metri in una capanna sopra Pontresina.
Il dipinto in esame è opera tipica dell’iniziale propensione a una
tematica di patetismo aneddotico. Sentiamo cosa scrive lo stesso
artista a proposito de La culla vuota:
“Questo dolore di una madre, che non sa rassegnarsi ad abbandonare la
culla dove per qualche giorno e per qualche notte assistette trepidante
e angosciata alla fine crudele del suo tenero amore, mi ha
impressionato”.
Il quadro, purtroppo, è dominato dai colori terrosi, che ne rendono
difficile la godibilità (Segantini schiarirà la tavolozza solo più
tardi). È comunque notevole anche per la sincera partecipazione umana.
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EDITORIALE
Fabio Tolomelli
Diciamo prima di tutto cosa non è
un’emozione. Non è un sentimento, né uno stato d’animo, ma una
situazione istantanea, fortemente legata alla realtà e quindi al
presente. Per Sant’Agostino d’Ippona, grande filoso del IV sec. d.C.,
il presente è quel puntino che separa il passato dal futuro ed è in
continuo, irrefrenabile movimento. Questo puntino è quello in cui si
vivono le emozioni. Per cui posso dire che il presente è la vita, ed è
resa tale grazie all’emozione. Insomma, parafrasando Cartesio, “mi
emoziono quindi sono”.
Secondo Wikipedia le emozioni sono “stati mentali e fisiologici
associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni,
naturali o appresi”. Io non mi sento di fare categorizzazioni rigide di
emozioni, anche se in letteratura ne esistono. Direi invece che ce ne
sono di più o meno belle o più o meno brutte. Ma non è possibile
riprodurle esattamente. Sì, perché le emozioni non sono mai uguali a sé
stesse, cambiano in funzione dei sentimenti, degli stati d’animo e dei
contesti ambientali. Così, quando con la mente vago tra passato,
presente e futuro le emozioni sono sempre diverse. Colori e sfumature
emotive cambiano anche quando ripensiamo a un episodio del passato e
all’emozione ad esso legata.. Faccio un esempio: il giorno del funerale
di mio padre è stato il giorno più brutto della mia vita, in quel
momento non riuscivo a fare altro che piangere: contesto, sentimenti e
stati d’animo mi generavano disperazione. Se ora rivivo con la mente
quel momento, l’emozione che provo è fortemente cambiata. Probabilmente
quell’angoscia è stata elaborata e quindi provo dolore, malinconia e
nostalgia e non più un’emozione di strazio. Le emozioni sono
sensibilissime alla malattia mentale. Quando soffrivo di depressione
anche gli episodi più belli li vivevo negativamente. Nel senso che
tutte le attività, le esperienze, le vivevo come inutili, senza senso,
con un incessante comportamento di chiusura verso l’esterno. L’emozione
provoca una specie di feed-back sociale, nel senso che si manifesta
sempre e comunque con la mimica, il tono della voce e la corporeità, e
l’ambiente sociale, ricevute le informazioni, rimanda al soggetto
risposte emotive. Per un approfondimento rimanderei al testo Pragmatica della comunicazione
di Paul Waslavick, dove si dice tra l’altro che anche chi non vuole
comunicare trasmette attraverso il corpo qualcosa: la chiusura, il
bisogno di non comunicare perché emotivamente indisposto. Io vado
soggetto a momenti di chiusura, che in me è legata al bisogno di
corazzarmi nei confronti di eventuali stimoli esterni che potrebbero
provocarmi emozioni ancora più dolorose e disgregare la mia
personalità. Una cosa curiosa è che quando mi trovo di fronte a una
bella ragazza, che magari non conosco, vado in apnea, non riesco a
respirare e la voce rimane strozzata. Però, cessata l’emozione, la
verbalizzazione orale riprende normale e volendo riesco a
concettualizzarla.
È probabile che il nostro modo di vivere le emozioni sia condizionato
oltre che da aspetti genetici anche dall’educazione; l’emozione in
questo senso ha anche una funzione pedagogica, nel senso che
un’emozione positiva o negativa ci farà agire in modo conseguente,
ricercando il ripetersi di belle emozioni ed evitando quei
comportamenti che generano emozioni negative. Le emozioni sono quindi
anche esperienze che fanno crescere la personalità. La cosa importante
è continuare ad emozionarci, sperando sempre in nuove belle emozioni,
ma senza farci ingabbiare dal timore di essere travolti o di restare
delusi. In fondo poi anche le emozioni più tristi e dolorose col tempo
si stemperano e fanno meno male. Tutto va a formare il nostro bagaglio
culturale, la nostra personalità, il nostro mondo affettivo.
Auguro quindi a tutti i lettori di emozionarsi molto con la lettura del Faro.
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STUDIAMO
Francesca
O
gni dato… pensieri, onde, sensazioni... passa dalla mente, che lo analizza.
Un’emozione viene creata da uno stimolo, reale ma anche immaginario, sempre.
Anche l’inconscio, che lavora soprattutto quando dormiamo, produce emozioni.
La prova: noi siamo sempre in un stato emozionale in qualunque momento
della giornata. Perché? Perché pensiamo. Quindi per me l'emozione è uno
stato mentale capace di essere creato, cambiato, distrutto a volontà.
Per esprimere le emozioni di base utilizziamo la faccia, i gesti e la
voce, con espressioni definite ‘universali’ in quanto non dipendono
dalla cultura alla quale apparteniamo: sono perciò un importante mezzo
di comunicazione, perché vengono condivise con chi ci sta accanto,
tramite un codice che tutti possono interpretare.
Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla
combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita
dell’individuo e con l’interazione sociale. Esse sono legate allo
sviluppo della conoscenza e della società in cui si vive: si tratta di
vergogna, senso di colpa, invidia o gelosia, tanto per citarne alcune.
Costantemente proviamo tante emozioni, che ci accompagnano per tutta la
giornata e nella vita. Una vasta gamma, che varia da quelle positive a
quelle negative. L’emozione consiste in una serie di modificazioni che
avvengono nel nostro corpo sia a livello fisiologico, alterazioni
respiratorie e cardiache, sia di pensieri, ad esempio: “Che paura!", o
"Non c’è speranza”, sia reazioni comportamentali, come il fuggire o
gridare o alterazioni della mimica facciale, che il soggetto utilizza
in risposta a un evento.
Sicuramente, se domani dovessi affrontare un'interrogazione o un
compito scritto, una verifica insomma, potrei provare ansia, dovuta al
fatto che non so bene come potrebbe andare, paura di non aver studiato
abbastanza, di non sapere esattamente quali domande mi faranno e quali
potrebbero essere i risultati. In questo caso, si possono avvertire una
serie di modificazioni a carico del fisico, come le farfalle allo
stomaco, la secchezza delle fauci, mal di testa, respiro affannoso e
così via. Si tratta di indicatori riguardanti lo stato di incertezza
che si sta affrontando, perché le aspettative che si hanno sono
distanti dalla realtà.
Lo psicologo americano Paul Ekman racconta di essere stato in un remoto
villaggio sulle alture della Papua Nuova Guinea per studiare gli
abitanti del posto e verificare se fosse possibile riscontrare anche
tra loro le stesse emozioni provate da altri popoli. Gli indigeni, i
Fore, popolo pre-letterario, alla vista di Ekman che mangiava del cibo
a loro sconosciuto rimasero stupiti. In particolare uno di loro rimase
a guardare Ekman con una particolare espressione. Lo studioso,
entusiasta della loro reazione, fotografò l’espressione di disgusto
evidenziata sul volto di questo membro della tribù e scrisse: “La
fotografia illustra che l’uomo è disgustato dalla vista e dall’odore
del cibo che io consideravo appetitoso”. Questo è solo uno dei tanti
esempi riferiti dallo scienziato. Fu proprio seguendo questa tribù che
Ekman poté notare come le espressioni di base fossero universali,
perché riscontrabili in popolazioni diverse, anche in quella dei Fore
che è isolata dal resto del mondo.
Così decise di stilare una lista di emozioni divise in primarie e secondarie.
Le emozioni primarie o di base sono:
1. rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l’aggressività;
2. paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la
sopravvivenza del soggetto che si trovi in una situazione pericolosa;
3. tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto;
4. gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;
5. sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;
6. disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e
di sdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità
morale o intellettuale;
7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.
Queste sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi
popolazione, per questo sono definite ‘primarie’ ovvero ‘universali’.
Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che hanno origine dalla
combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita
dell’individuo e con l’interazione sociale. Esse sono:
1. allegria, sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo;
2. invidia, stato emozionale in cui un soggetto sente un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede;
3. vergogna, reazione emotiva che si prova in conseguenza della trasgressione di regole sociali;
4. ansia, reazione emotiva dovuta al prefigurarsi di un pericolo ipotetico, futuro e distante;
5. rassegnazione, disposizione d’animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sfortuna;
6. gelosia, stato emotivo che deriva dalla paura di perdere qualcosa che appartiene già al soggetto;
7. speranza, tendenza a ritenere che fenomeni o eventi siano gestibili
e controllabili e quindi indirizzabili verso esiti sperati come
migliori;
8. perdono, sostituzione delle emozioni negative che seguono un’offesa
percepita (es. rabbia, paura) con delle emozioni positive (es. empatia,
compassione);
9. offesa, danno morale che si arreca a una persona con atti o con parole;
10. nostalgia, stato di malessere causato da un acuto desiderio di un
luogo lontano, di una cosa o di una persona assente o perduta, di una
situazione finita che si vorrebbe rivivere;
11. rimorso, stato di pena o turbamento psicologico sperimentato da chi
ritiene di aver tenuto comportamenti o azioni contrari al proprio
codice morale;
12. delusione, stato d’animo di tristezza provocato dalla constatazione
che le aspettative, le speranze coltivate non hanno riscontro nella
realtà.
Quindi, le emozioni più complesse hanno bisogno di più elementi esterni
o pensieri eterogenei per essere attivate. Spesso le emozioni vengono
mascherate da altre espressioni facciali per non far comprendere agli
altri ciò che si sta realmente provando, questo può accadere per
vergogna e pudore dei propri reali sentimenti.
Fine della lezione.
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DIZIONARIO DELLE (MIE) EMOZIONI
Antonio Marco serra
La speranza deve essere sconfinata quanto la dedizione.
Hans Urs von Balthasar
E se voi amate coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Poiché anche i peccatori amano coloro che li amano.
E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, qual è il vostro merito? Anche i peccatori fanno lo stesso.
Vangelo secondo Luca, VI, 32-33
La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi.
Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa
Ho deciso di scrivere questo articolo in maniera rapsodica, facendomi
guidare dalle emozioni che via via mi attraverseranno la mente. Come
scriveva il Sommo Poeta “I’mi son un che, quando / Amor mi spira, noto,
e a quel modo / ch’è ditta dentro vo significando” (Purgatorio XXIV, 52-54).
Emozione: sollievo. Mi trovavo un attimo fa in una condizione
di profonda desolazione (per fatti miei che non starò a raccontarvi) e
nell’esatto momento in cui ho iniziato a pensare a cosa scrivere,
questa non piacevole sensazione si è dissolta, lasciando il posto anzi
a una lieve euforia (non crediate a chissà che, per un temperamento
fortemente melanconico come il mio, l’essere lievemente euforico
corrisponde all’essere lievemente depresso di una persona normale). E
ho avuto la chiara e distinta percezione che ciò era dovuto al solo
fatto che la mia mente, per ovvi motivi, si era messa a girare a una
‘velocità’ maggiore a quella a cui girava prima. Solo questo. Quel
malessere, sebbene io lo attribuissi a tutt’altre cause, non era altro
che il mio cervello che chiedeva alla mia mente di funzionare a pieni
giri, di ingranare la settima. E a quella velocità, tutti i pensieri
che mi avevano rattristato erano spariti, per il solo motivo che non
erano in grado di girare a quella velocità, non c’era sufficiente
ossigeno per loro.
Vedete attraverso quali imperscrutabili vie possa a volte provenire il
benessere mentale. Strade che, penso, nessuna psichiatria, di nessun
orientamento, ha mai preso in considerazione. Ho il sospetto che a
volte la mente degli psichiatri giri troppo lentamente per
sintonizzarsi con la mente di certi pazienti. Un consiglio: riavvolgete
il nastro di ciò che vi dicono i vostri pazienti e fatelo scorrere a
velocità molto ridotta. Ovviamente non voglio certo sostenere che
questo risolva i problemi della salute mentale, voglio solo dire che la
psichiatria, e sì, vogliamo essere magnanimi, anche le psicoterapie,
sono lontanissime dall’occuparsi di tutti gli aspetti che hanno
attinenza con la salute di coloro di cui debbono occuparsi.
Emozione: stupore. Un’amica mi ha recentemente rimproverato per
il fatto che non parlo in continuazione dicendo un cumulo di
sciocchezze una dietro l’altra, che sembra sia la cosa che
preferirebbe. Ma i pensieri davvero significativi, quelli che possono
per me fare la differenza, in un dato istante della mia vita oscillano
tra 12 e 18, non uno di più, forse qualcuno di meno. Sono solo questi
pensieri, queste parole, che possono realmente fare la differenza tra
l’essere spiritualmente vivo e l’essere spiritualmente morto, tra
l’essere in contatto diretto con il mio vero fondo, con ciò che mi
costituisce, con ciò che effettivamente sono (che niente ha a che
vedere con Es, inconsci, subconsci e fanfaluche del genere) e l’esserne
invece escluso: irrimediabilmente straniero in casa propria.
E domani, o magari tra tre minuti, le parole significative saranno
altre: è un’arte difficile quella di saper pronunciare le parole giuste
che, forse, solo tre o quattro persone, nella storia della nostra
specie, sono riuscite a padroneggiare compiutamente (l’ultimo, a quel
che mi riferiscono fonti bene informate, è deceduto circa 32.000 anni
fa, e aveva una deformità al dito mignolo).
Tutto il resto è vano chiacchiericcio. E in questo Universo, che non
brilla certo per clemenza, ciò che è vano, è dannoso, molto dannoso,
estremamente dannoso. E sono pronto a scommettere che anche per
quest’amica le parole importanti non sono più di tante. Ma bisogna
pronunciarle. Necesse est. “Marta,
Marta, tu t’inquieti e ti dai pena di troppe cose, quando bastano poche
cose. Maria infatti ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta. ” (Vangelo secondo Luca, X, 41-42).
Emozione: gioia. Profonda, ma profondamente serena e rilassata. Leggevo proprio qualche giorno fa “Il caso di Ellen West”
del noto psichiatra fenomenologo Ludwig Binswanger. Scriveva il buon
Ludwig al marito di una sua paziente (Ellen West, per l’appunto): “Ho naturalmente atteso di giorno in giorno una sua lettera, e mi sono tranquillizzato quando l’ho letta”.
Qual mai buona notizia recava la lettera? Che Ellen West si era
suicidata! Non scherzo: un profondo senso di sollievo ha invaso il
marito, e tramite lui lo psichiatra, quando ha capito che le atroci
sofferenze psichiche della moglie erano finite, e tra l’altro erano
finite in maniera mirabile: il marito descrive a Binswanger, con
dovizia di particolari, l’ultima giornata della moglie, trascorsa
serenamente, mangiando, lei che era anoressica, cioccolatini e uova di
Pasqua, leggendo poesie di Goethe, Rilke, Storm e Tennyson,
passeggiando mano nella mano col marito in giardino. Serenamente,
perché finalmente scorgeva la fine del suo lungo patire.
Non mi aspetto certo che l’umanità vada incontro a una fine così
indolore, ma mi piace credere che il Padreterno, come Ludwig
Binswanger, proverà un grande senso di sollievo quando apprenderà che
la specie umana è finalmente riuscita a suicidarsi, anzi un sollievo
ben maggiore: un terapeuta non crea i propri pazienti dal nulla (almeno
credo, ma la cosa andrebbe approfondita), un dio sì. Ma se si tratta di
un dio olimpico, non se ne cruccerà più di tanto e si limiterà a dire:
“La prossima volta lavorerò meglio.” Mi prenoto sin d’ora per la
prossima creazione. Come vedete sono un vero ingenuo: mi ostino a
comprare i miei universi dallo stesso piazzista di universi usati, che
già mi ha imbrogliato una volta.
Emozione: rabbia. Sempre su Ellen West. Com’è caduta in basso la psichiatria odierna: è vero che nel giuramento di Ippocrate sta scritto: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”, ma è altrettanto vero che non vi sta scritto: “Giuro di mantenere i miei pazienti in uno stato di sofferenza perenne”.
Se potete fare qualcosa fatelo - ma subito! - se non potete, lasciateli
andare in pace, buon Dio! Dovunque andranno non potranno stare peggio
di quanto stiano qui. Sia gloria a Biswanger, che queste cose non solo
le pensava, ma aveva il coraggio di scriverle.
Emozione: incredulità. Mi è caduto l’occhio su una frase di un
articolo di quattro psichiatri bolognesi, che per carità di patria non
cito (a dire il vero è un articolo di molti anni fa): “Hofmannsthal
scrive la Lettera di Lord Chandos nel corso di una grave crisi
esistenziale che non ci sembra azzardato interpretare come
testimonianza diretta di uno scompenso di matrice psicotica”. A
prescindere dal fatto che, come scriveva benissimo Gilles Deleuze: “Non
si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi, non sono
passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è
interrotto, impedito, chiuso” (Critica e clinica), comunque, se
prendessimo per buone le parole dell’articolo, dovremmo concludere che
gli schizofrenici sono le uniche persone sane di mente che si trovino
in giro. Purtroppo non è vero: gli schizofrenici non comunicano con il
proprio fondo più di quanto ci comunichino le persone sane, cioè molto
poco, solo che vi comunicano in modi diversi. Per gli uni e per gli
altri resta lontanissimo dal realizzarsi l’auspicio di Martin
Heidegger: “Noi non vogliamo andare avanti, vorremmo soltanto ci fosse
dato di giungere là dove già siamo”.
Il sentire di Lord Chandos è l’unico atteggiamento sensato di fronte a
un linguaggio incapace di dire ciò che davvero conta, e a un mondo che,
viceversa, parla un linguaggio che ha molte cose da dirci. Come
possiamo dimenticare che nel momento in cui la specie umana (o quelle
da cui discende) si sviluppava, il mondo, con i suoi pericoli e le sue
opportunità, era già là fuori, allora come oggi, ma del linguaggio non
v’era traccia. È ovvio, allora, che il celebre annaffiatoio di Lord
Chandos abbia molto più da comunicare di una conferenza di Albert
Einstein, per chi sia disposto a mettersi all’ascolto (vedi il mio
articolo L’annaffiatoio di Lord Chandos sul numero del maggio 2013 del Faro).
Emozione: insofferenza. Verso la coscienza, la mia e quella di
chi mi circonda, che percepisco sempre più chiaramente come una grave
malattia, ‘la’ malattia tout-court dell’essere umano. Un
incidente di percorso nello sviluppo della specie umana, che sarebbe
stato meglio, molto meglio, non fosse accaduto. La coscienza è una
malattia grave, che provoca danni irreparabili al mondo (che siamo a un
passo dall’annichilare coi nostri armamenti e con i mutamenti climatici
da noi indotti) ma soprattutto a noi stessi. Né mi convincono coloro
che sostengano che essa sia un costrutto che in qualche modo poggia su
qualcosa di sottostante (in termini psicoanalitici potremmo parlare di
un Io o un Super-Io che si poggiano sull’Es). Il problema e che non c’è
alcun fondo su cui poggiarsi. È come sostenere che le schiume del mare
si appoggiano sul mare sottostante, apparentemente può sembrar vero, ma
cosa significa realmente, visto che il mare sottostante è in perenne
mutamento e ciò su cui l’onda si appoggia è sempre diverso? Il mare e
le sue schiume sono ugualmente mutevoli. Riuscire a spiegare l’uno in
base alle altre appare probabile quanto svuotare quello stesso mare con
un secchiello. Non servirà a molto, ma prima di tutto occorre che la
coscienza si decida a comprendere, ma a comprendere veramente,
interiormente, intimamente, che si trova solo in affitto, in questa
dimora che chiamiamo ‘noi’. L’autentico padrone di casa è un
altro. E se la coscienza, atteggiandosi a reale padrona della dimora,
rifiutasse di pagare puntualmente la pigione, l’unica cosa che
otterrebbe è di venir sfrattata dalla vita.
Emozione: perplessità. A distanze di tempo più o meno lunghe torno a interrogarmi sul millenario problema se occorra giungere agli altri (al nostro prossimo,
secondo il termine evangelico) attraverso Dio, o giungere a Dio
attraverso gli altri. O In termini più terreni: se occorra incistarsi
nel proprio ‘fondo’, nel proprio essere più autentico, e di lì riuscire
a istituire un collegamento con l’essere più autentico gli altri,
oppure cercare di scrutare gli altri, con sguardo indagatore, per
scorgere cosa ci accomuna nel profondo e dedurre quindi da cosa
questo profondo sia costituito. Indubitabilmente, dal punto di vista
storico, la seconda possibilità e stata di gran lunga la più seguita,
peraltro con scarsissimi risultati, ma francamente nutro i miei dubbi
che si tratti della strada giusta. Chi deduce e chi è dedotto? Io
percepisco molto più prossimo al mio sentire le parole che Porfirio
rivolgeva a Marcella: “Ma nella purezza tu potrai soprattutto
raggiungermi, presente e unito con te, notte e giorno, nella forma più
pura e indissolubile dell’unione e senza che io possa essere mai
separato da te, se ti eserciti a rientrare in te stessa”.
Emozione: delusione. Per la profonda vanità della Scienza.
Vanità delle vanità, tutto è vanità. Gli scienziati lasciano come
eredità a coloro che li seguiranno qualche informazione su come
manipolare il mondo (ad essere sinceri, allo stato attuale, davvero
pochine), ma nessuna informazione su come manipolare noi stessi. Come
diceva Dilthey: il mondo fisico lo ‘spieghiamo’, ma la vita dell’anima
la ‘comprendiamo’ (vado a memoria).
Emozione: imbarazzo. Devo fare una confessione: a volte per
favorire il mio processo creativo, ascolto in maniera ripetitiva e
quasi ossessiva una data musica: la mia mente entra in sintonia con
questa musica, e l’articolo fluisce molto più naturalmente e
liberamente. C’è chi si fa di anfetamine e chi si accontenta di un
sottofondo musicale. Ma non è questa la cosa imbarazzante. Imbarazzante
è il fatto che questa volta come musica di sottofondo abbia scelto (o
meglio: è lei che ha scelto me) la canzoncina Sei una bomba cantata da
Viola Valentino (1980). Non Claudio Monteverdi, non Arcangelo Corelli,
non Johann Sebastian Bach, ma… Viola Valentino. Questo per dire che è
assurdo fare gli snob, perché non potremo mai sapere anticipatamente
cosa potrà tornarci utile e cosa no (mi perdonino Claudio, Arcangelo e
Johann, che comunque venero; vorrà dire che per farmi perdonare
accenderò un cero sotto il loro altarino).
Emozione: sollievo (terminiamo dove avevamo cominciato).
Sollievo per aver terminato quest’articolo. “Interrompiamo
momentaneamente questa trasmissione per questa comunicazione tra
fratelli. Cambiate canale, cambiate televisione. Cambiate Stato, andate
via, chist'è già preso. ” (Corrado Guzzanti, Il caso Scafroglia).
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EMOZIONE/I
Augusto Mocella
P
rendo spunto da un suggerimento di Luigi Zen che mi ha ricordato un
episodio importante della mia vita. Ho avuto una forte emozione quando
mia moglie mi ha comunicato con un SMS che stavo diventando nonno.
Mi trovavo allora a una festa di compleanno per i cinquant’anni di un
amico di Edoardo, eravamo forse più di cinquanta persone a una tavolata
in una pizzeria. Poiché il festeggiato aveva un microfono e ringraziava
i convenuti per la loro partecipazione, intrattenendo i vari gruppi, in
un momento di pausa io, che sono un tipo piuttosto riservato, mi sono
lasciato prendere e gli ho chiesto di avere il microfono per poter
comunicare a tutti la notizia, a cui è seguito un grande applauso.
Penso che sapere di diventare nonno per la prima volta sia molto
emozionante, e lo stupore si rinnova nel vedere una piccola creatura
crescere e diventare una persona con tutti i pregi e difetti di ogni
uomo.
Ci sono altre emozioni che ricordo bene, ad esempio il mattino che mi
sono trovato in piazza Maggiore all’arrivo della salma di Lucio Dalla.
Il feretro era seguito da una colonna di persone che si allungava da
via D’Azeglio verso l’androne del Comune. La piazza, pur sempre viva,
era come se per un attimo si fosse fermata per dare un saluto a colui
che ne aveva rappresentato l’anima. Non si sentiva un rumore, e questo
mi emozionò molto.
Ricordo un’altra emozione provata in Piazza Maggiore nel 2018: dei
cantanti di strada suonavano un pezzo di musica brasiliana che mi
piaceva ascoltare negli anni Sessanta, Orfeo Negro, di una struggente malinconia. Quanti ricordi e quanta nostalgia mi hanno portato quelle parole e quella musica!
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L’EMOZIONE
Anonimo
L’emozione è qualcosa di impalpabile, può essere positiva o negativa,
io la assocerei agli stati d’animo, ma, per non farsi trarre del tutto
in inganno, può essere anche qualcosa di più concreto, come l’empatia,
l’amore, la solidarietà.
“L’emozione non ha voce”,
cantava Adriano Celentano in una canzone dei primi anni 2000, io
aggiungerei che se ne può solo parlar bene. Può causare pianto o
commozione, ma è qualcosa di più complesso, che si può spiegare solo
vivendolo. Dal mio punto di vista, più uno prova emozioni, più la sua
personalità si forma e raggiunge livelli di alto rango, permettendogli
di essere divertente, loquace, allegro, spiritoso e di sdrammatizzare
così su un mondo che ormai è sempre più lontano dal suo sole…
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MA COSA SONO LE EMOZIONI?
Mariangela
Le emozioni sono l’espressione dei
nostri sentimenti. Possono essere negative, quali la tristezza, la
paura, la rabbia, la solitudine e il dolore, che a lungo andare possono
determinare condizioni di stress cronico e innescare una spirale
negativa. Diversamente le emozioni positive, quali la gioia, la
serenità, l’altruismo, l’appagamento, la gratitudine, sono in grado di
attivare risorse personali sul versante fisico, sociale e psicologico.
Più si coltivano le emozioni positive, più si combattono i loro
opposti.
Le emozioni sono presenti fin dalla nascita dell’individuo, si possono
distinguere in semplici e complesse. Le semplici, come la gioia, la
paura, la rabbia, la tristezza e il disgusto sono quelle che si
manifestano fin dai primi giorni di vita, quelle complesse compaiono
dopo il secondo anno di vita e sono espressione della consapevolezza di
sé e degli altri, quindi della socialità. Tra queste troviamo la
vergogna, l'orgoglio, la colpa e la gelosia. È compito dell'adulto
insegnare ai bambini a differenziarle e successivamente a manifestarle
nel modo più appropriato. Una vera consapevolezza degli stati affettivi
si sviluppa in seguito a una maggiore conoscenza di sé e degli altri e
aumenta maggiormente nell’adolescenza, grazie alla nuova maturazione
cognitiva. È proprio per questo che le emozioni nella vita assumono un
ruolo sempre più importante. Durante l’adolescenza avvengono grandi
cambiamenti soprattutto quelli corporei che hanno profonde risonanze
emotive nell'adolescente che le vive. È una fase importante per le
ragazze e i ragazzi, che devono sviluppare caratteristiche e
potenzialità da adulti. Osservazione e dialogo possono rendere questo
passaggio proficuo e meno rischioso per tutti. Anche la conquista
dell'indipendenza spesso non è percepita nel modo più giusto, gli amici
diventano sempre più importanti e la relazione con i genitori a volte
diventa difficile. Molti cercano emozioni nuove e forti nel
divertimento. Nella società di oggi uno dei maggiori divertimenti è
frequentare le discoteche, solo che a volte i ragazzi presi dalla
voglia del divertimento perdono di vista il rischio che si corre nel
fare determinate cose.
Alcuni preferiscono ubriacarsi o assumere sostanze, tutto questo
perché, come dicono loro, vogliono godersi la vita, in questo modo il
divertimento può trasformarsi in rischio. Ci sono giovani che hanno
perso la vita solo per aver bevuto e aver guidato l’auto a forte
velocità in stato d'ebbrezza. Frequentare sane amicizie può recare
gioia e praticare qualche sport può essere divertente e appagante. Che
dire agli adulti? Fare esperienze di emozioni positive vuol dire
migliorare la nostra capacità di apprendimento, ampliare la varietà del
pensiero, diventare più creativi, vedere maggiori opportunità e
migliorare il legame emotivo con gli altri. Percepire le emozioni degli
altri aumenta l’autostima, ci si sente considerati, amati, apprezzati e
sostenuti. Inoltre rivolgendoci maggiormente agli altri pensiamo meno a
noi stessi. Se i depressi si ripiegano su sé stessi alimentando
sentimenti di solitudine e tristezza, l’altruismo, la gratitudine,
l’affetto incoraggiano ad aprirsi agli altri migliorando il proprio
benessere. Il benessere emotivo è legato allo stato di salute in modo
assai marcato e questo legame aumenta con l’aumentare dell’età. Sembra
che la salute fisica e il benessere psicologico s’influenzino a
vicenda: più ci si sente bene fisicamente più si è contenti.
La predisposizione personale a provare emozioni positive porta a vivere
in modo meno negativo i problemi fisici e permette di raggiungere anche
fisicamente le principali fonti del benessere psichico. È comune
pensare che la gioia e la felicità appartengano alla giovinezza e la
tristezza alla vecchiaia, oppure che i sentimenti degli anziani siano
prevalentemente dolorosi. Personalmente non condivido questo concetto!
Ci sono anziani che coltivano interessi e svolgono attività
gratificanti che stimolano in loro emozioni positive. Avendo
disponibilità di tempo libero si dedicano al ballo, al canto, alla
lettura, alla scrittura, alla pittura oppure preferiscono ascoltare
buona musica o accudire i nipotini o semplicemente passeggiare nel
parco e ammirare un bel tramonto. Una capacità lodevole che mostra
quanto sia importante ricercare emozioni positive che possano influire
sul nostro stato d'animo e rendere piacevoli anche gli ultimi anni
della nostra vita.
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PENSIERO PROFONDO, ANZI SUBAQUEO
Lu Zen pass
A volte
nella vita può succedere che gli uomini si accorgano di aver fatto un
buco nell’acqua e cerchino di correggere sé stessi per non ripetere
l’errore.
Invece i pesci nella vita fanno costantemente buchi nell’acqua…
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L’EMOZIONE E LO ZEN
Lu Zen pass
D
i emozioni ce ne possono essere due tipi principali, come per la
memoria, che c’è quella delle cose materiali o razionali e quella dei
legami o sentimenti; un esempio di emozione materiale può essere, per
qualcuno, quella di vincere una medaglia d’oro, che viene accompagnata
anche da una sorpresa. Un’emozione d’amore o dei sentimenti è quando si
è coinvolti in un’intesa emotiva inaspettata, il che causa un’emozione
secondo il temperamento; le emozioni possono creare in noi
un’alterazione che dura pochi secondi e si manifesta in noi in diverso
modo. Un esempio di emozione affettiva è quella di quel padre che
diceva che si sentiva emozionato nel sentire al telefono suo figlio,
che per vari motivi non poteva vedere e sentire spesso, e che nel
frattempo stava cambiando la voce, perciò faceva fatica a credere che
fosse lui…
Ci sono psicologi che raccontano che si può diventare rossi per
emozione. Io a loro domanderei se diventano rossi anche i neri, per
vedere se diventano rossi nel dirlo.
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ALI
Annamaria Pareschi
Da anni vorrei avere le ali… Per essere
più libera da questo corpo che mi condiziona… Vorrei volare ovunque per
sentire il batticuore nel vedere tanti luoghi stupendi che ancora mi
sono sconosciuti…
Adoro il mistero del deserto con le sue dune che si spostano al vento
come le onde del mare… Vorrei essere là quando finalmente piove e
lasciarmi bagnare da questa pioggia benefica che fa fiorire in un solo
giorno il deserto come il giardino dell’Eden. Ai miei occhi questo è un
miracolo infinito… Le ali restano agli angeli… a me non sono spuntate…
ma ho tanta fantasia che mi fa volare…
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MILANO 1974
Matteo Bosinelli
in
quell'anno che tre ragazzini di La Spezia (Riccardo, quindici anni,
Mauro, quattordici anni e il sottoscritto, dodici anni), riuscirono a
vincere a Milano un impegnativo torneo a squadre juniores di scacchi.
Particolarmente emozionante fu l’ultimo turno, in cui noi spezzini
dovevamo vincere 3-0, e cioè ciascuno la propria partita, senza
concedere neppure un pareggio agli avversari (altrimenti saremmo
arrivati secondi).
Il primo successo fu di Riccardo (che era un autentico talento
naturale), quindi vinse Mauro (con cui son rimasto legato da un bel
rapporto amicale).
Rimanevo io, e dovevo vincere... Ero emozionatissimo, anzi, credo
proprio che il momento più emo-zionante della mia vita, sino a ora, sia
stata quella manciata di secondi che precedettero la mia mossa
vincente.
Mi alzai in piedi, mi risedetti, non potevo sbagliare, mi alzai ancora
e feci la mossa: non scorderò mai il sorriso rassicurante del nostro
capitano non giocatore, che si allontanò tranquillo.
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IL TESTO NON HA EMOZIONI, MA…
Darietto
C
on l’avanzare progressivo dei social network
(Facebook, Instagram, Whatsapp, Pinterest e molti altri ancora), quando
ci si parla senza che l’altro veda il tuo sguardo e, quindi, non sa che
cosa stai provando in quel momento, ci si può imbattere in sgradevoli
situazioni.
Se provi, ad esempio, con un messaggio su Whatsapp, a mandare a un tuo
amico il seguente messaggio: “Ma va a cagare!!!”, in un contesto di
simpatia, lui può non capire che in realtà stai solo scherzando e
pensare che tu sia arrabbiato con lui.
Molto spesso ci si può imbattere in situazioni del genere, se il testo
è ‘senza condimento’, cioè lasciato in balia dell’interpretazione di
chi vedrà il messaggio. Se invece il messaggio è ‘condito’ da immagini
espressive delle tue emozioni, chi lo leggerà non potrà altro che
capire ciò che volevi trasmettere emotivamente: questo compito è
affidato alle faccine, dette anche emoji o emoticon. Recentemente, è anche uscito un bellissimo film d’animazione intitolato “Emoji - Accendi le emozioni”, che consiglio a tutti di vedere.
Nell’esempio che ho fatto prima, sarà ben diverso se a fianco del
messaggio: “Ma va a cagare!!!” ci sono tre faccine che ridono :D :D :D
o tre faccine incazzate :C :C :C; il tuo amico, vedendo le tre faccine
che ridono capirà che stai scherzando, altrimenti capirà che non sei
più in un momento scherzoso, anzi…
In un numero scorso del Faro,
precisamente sulla “comunicazione”, a pagina 17, nell’articolo “Le
dolcissime faccine” ho parlato appunto del ruolo importante delle emoticon,
sia per la comunicazione che per le emozioni che se ne ricavano, in
quanto quando leggi un testo, questo non ha sempre un determinato tono
(simpatico, buffo, incazzato e così via) a meno che non lo presupponga
già il contesto o, meglio ancora, non lo dica espressamente la persona
che scrive. Ad esempio, se è scritto nel testo: «Lucia piangendo disse
alla sua mamma: “Va bene, ora vado a letto”, e andò a nanna», si
capisce benissimo che il tono della bimba è triste; diversamente se
troviamo: «Antonio voleva dare un compenso a Dario per aver lavato i
piatti. “Ma va a quel paese!”, rispose Dario», non si sa se Dario
stesse scherzando amichevolmente o al contrario si fosse offeso per la
proposta.
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BUONGIORNO
Marcella Colaci
Cielo,
oh cielo... buongiorno a te, a voi, al mondo... donami l'essenza,
l'estasi, la stanza dei sogni anche in questo giorno che brucia, finirà
nella noia del tempo che passa... Colorami!
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SCAMPAGNATA AL PODERE CANOVA
Eva (a nome del Centro “Stella” Bologna)
21 settembre 2018
Alla mia tenera età, mi sento a repentaglio
a fare un brindisi qui al Ventaglio,
veramente un posto bello, ameno, eccezionale,
che al mondo non ce n’è uno uguale.
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Polvere in raggi di Sole
Piergiorgio Fanti
Il risveglio è un sussulto
una fuga dall’antro
Ma poi, la mattina scorre
leggera e magica
come polvere
in raggi di Sole
Sole
che dalla finestra
attraversa la stanza in un sorriso
forse ignaro
che anche oggi
la guerra, orribile e putrida
stravolge
le trame dell’eternità.
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Quando
Elena Baragatti
Quando io ti guardo
non capisco più nulla…
… ma…
Quando tu mi guardi
capisco di più tutto!
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Dono
Elena Baragatti
Tu dai sollievo ad ogni piaga col tuo sorriso…
Tu non hai alcuna piega su tuo viso…
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Anima pura
Elena Baragatti
Il tuo viso
è così tanto
pulito e candido,
come un fiocco di neve
ancora immerso e sospeso
nell’aria…
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Grande sinergia
Piergiorgio Fanti
La solitudine ti confonde la via
in due è grande sinergia.
La solitudine interiore
è tutto il contrario dell’amore.
La solitudine è spaventosa
come una passerella fortemente corrosa.
È il buio oltre la porta
ti senti una foglia morta.
Un uccellino caduto dal nido
un nodo alla gola strozza il grido.
Un sogno nato morto
e sembra tu abbia sempre torto.
È come un lucchetto chiuso a chiave
non ci sono più persone sagge, brave.
Quando sei solo
anche se divori un buon piatto di minestra
ti prepari ad un salto dalla finestra
anche se ti mangi un’energetica bistecca
sei proprio certo di far cilecca
e se assaggi delle deliziose patatine
pensi lo stesso che sia prossima la tua fine
se gusti una succosa pera
è certo che per te è subito sera
e per ultimo, anche se bevi un fresco bicchier di vino
ti sembra esser caduto dal motorino.
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Sognava di fare la modella
Piergiorgio Fanti
Dà un’emozione sfilare
proprio come amare
la Patrizia era tra i belli e i buoni
lei viveva di dolcissimi sogni
coll’immaginazione:
sfilava per il grande Armani
accompagnata da due cani
e sfilava per Versace
con simboli di amore e pace
faceva la modella per Missoni
avviluppata da soavissimi suoni
sfilava per Gucci
al guinzaglio il gatto Pucci
e sfilava anche per Napoleon-Erba
assieme ad un’alta serba
la giovane Patrizia
sfilava elegante per Krizia
calcava la passerella per Moschino
accompagnata da un bel bambino
sfilava per Ferragamo
mettendo ben in evidenza ogni ricamo
e faceva la modella per Valentino
supportata dallo zio Dino
infine colla frizzante zia Luisa
portava le borse della Carpisa.
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Nei tuoi occhi
Annarita Baratti
Nei tuoi occhi c’è lui,
il tuo amore
l’uomo della tua vita
la vita in due
lui, la tua felicità
le giornate passate
insieme
e un gelato da gustare
una notte insieme
la complicità
e l’amore
mille cose insieme
poi un cuscino per due
un caffè
una canzone
per ricordare
il vostro amore
acqua nel deserto
sole caldo
un tramonto meraviglioso
e l’aurora del mattino
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Sei tutto
Elena Baragatti
Sei tutto quello che avrei voluto e che desideravo…
Sei tutto quello di cui avevo bisogno e che cercavo…
Sei tutto quello che sognavo e per cui sorridevo…
Sei tutta la felicità!
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Passione
Maurizio Leggeri
Voglio entrare nella tua vita,
voglio entrare nelle tue carni,
voglio entrare nei tuoi ragionamenti.
Voglio far parte del tuo sangue,
voglio far parte del tuo respiro,
voglio far parte del tuo pensiero.
Voglio entrare nel tuo volto,
voglio far parte del tuo sorriso.
Voglio entrare nei tuoi capelli,
voglio entrare nelle tue pupille,
voglio entrare nella tua ombra.
Voglio far parte del tuo vento,
della tua luce, della tua notte.
Voglio entrare nella tua pelle,
voglio far parte del tuo colore
e voglio far parte del tuo calore.
Voglio accomunare le nostre siepi:
che facciano parte dello stesso prato;
la sua erba innaffierò
con l’acqua sorgiva e pura
attinta dalle viscere
della tua terra di carne.
Scoverò il sentiero segreto dell’amore
che conduce al prato sempre verde,
al pozzo mai asciutto,
alla gioventù mai trascorsa.
Poi, un giorno lontano,
quando il tempo, maledetto,
presenterà il conto, purtroppo,
delle sue antiche insindacabili ragioni,
le nostre leggiadre e leggiere figure
resteranno per sempre scolpite
nei raggi del sole, della luna e delle stelle
che, assiduamente visitandoci, un tempo,
splendidamente ci illuminarono
e dolcemente ci forgiarono nell’aria.
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Emozioni e natura
Mariangela
Castelli di sabbia
calpestati,
dal mare giunge
l’odore di salsedine
quando la luna
batte sulle onde
cupe e profonde
e la fiamma
di un falò
rischiara l’ombre.
Suona per me,
chitarra, una romantica
canzone,
per non lasciar
fuggire un amore.
Mille stelle
il ciel punteggiano,
vorrei contarle
ad una ad una
e percepir così
un’emozione!
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Pensieri innamorati
Maurizio Leggeri
Vorrei… rubare luce all’aurora
e trovare la strada che conduce
ai tuoi occhi… al tuo corpo… al tuo animo turbolento.
Vorrei… appropriarmi della notte
e farti dono della luna
… intima amica… della vita serena.
Vorrei… essere il profumo del fiore da te colto
per poterti vedere da vicino
ed esplorare… gli anfratti… dei tuoi desideri.
Vorrei… volare più veloce del vento
ed affrancarti… dai lacci
… che circondano i tuoi pensieri.
Vorrei… percepire il battito delle tue palpebre
e avvolgermi… nella dolce sensazione
…dei tuoi sogni profondi.
Vorrei… allontanarti su tratturi sconosciuti
per offrirti il sentimento del calore coinvolgente
… e poi ricondurti su sentieri antichi
… per congiungere ciò che non può essere diviso.
Vorrei… fossimo domani ancor chi oggi siamo
… per coltivare un sogno
… di rappresentazione delle nostre identità.
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L’emozione sommuove il cuore
Piergiorgio Fanti
Era molto tempo
che non volevo amare
(prospettive ottuse
e dolente ferita).
Allora il buio
ma pensavo che avrei raggiunto
(speranza splendente di vita)
un raggio buono di luce.
Sprofondati in un tetrissimo antro
avviluppati da spire di malattia
ci siamo ritrovati
e ci siamo rialzati
(ci siamo segretamente amati)
e siamo come rinati.
Mi piace pensarti
come allora eri
e quando penso a te
vibro
come un pizzico alla chitarra.
L’emozione sommuove il cuore
così fa l’amore.
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Malinconia (Valencia 23 settembre 2016)
Maurizio Leggeri
Montagne perse
nelle distese valli
senza voce
con le nebbie
che crollano
nei pensieri esausti
senza fine
e i fiori e gli alberi
e gli uomini
stanchi di arrampicarsi
oltre il cielo cupo
troppo alto all’orizzonte
e insieme vivere
con malinconia
l’intreccio sfuggente
tra la natura
e la natura umana…
senza tempo
ma non per sempre.
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Essenza
Elena Baragatti
Prima d’incontrarti
il vuoto mi riempiva,
ora ti conosco e
il pieno mi svuota…
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Toc Toc
Marcella Colaci
Toc toc
batte il cuore
e lascio il ramo cadere
di un improbabile
fantoccio che è la vita
Toc toc
ascoltami
vorrei vederti
sbircio la tua vita
poi scompaio
vivendo di specchi
invecchio eppur la mia mano
vive
Toc toc
indipendentemente
dallo sfiorarci
immergo gli occhi nei tuoi
fino ad estasiarmi
picchio la testa
senza aver capito
la vera distanza che c'è
fra noi
Toc toc
ascoltami, dai
vieni a cercare il mio cuore
Toc toc
giochiamo, dai, è semplice... apri!
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Marco
Marcella Colaci
Marco, adorabilmente.
Adorabili le tue mani
e travolgermi la tua dolcezza
come un fiore che lieve annusi.
Adorabile l'abbraccio
fra braccia silenti
come un delfino nel mare.
Adorabile la voce
che con me fa notte
e canta l'amore.
Adorabilmente fai l'amore
e mi trascini lontana
da ricordi, da discorsi finiti.
Adoro tutto di te
ma so che non c'è da dire
non c'è da fare
se non l'amore..
Così è Marco che del nulla
fa di sé adorabile uomo.
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Se sono una donna
Marcella Colaci
Non vedo sai la strada
è come se gli occhi
si rifiutassero di vedere
è come se l'anima si inaridisse
se l'anima è quel qualcosa che sente
anche se non vede.
Distratta abbraccio l'amica, la figlia, la storia
e mi sento persa nel nulla poi
mi appresto ad adagiarmi
perché nel nulla mi sento ritrovata.
Faccio la strada a ritroso
perché la strada maestra è perduta
eppur la vedo la speranza
di rifare della mia vita una fortuna.
Ho le gambe rotte, l'anca distratta
il filo d'Arianna lo lascio cadere
la favola da bianca a rosa poi nera
mi ha fregata e ingannata.
Faccio quel che posso
senza più illudere me stessa.
Se sono una donna dovrò combattere
se sono una donna voglio giustizia
se sono una donna lasciatemi stare.
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Comune denominatore
Qual è il comune denominatore che lega lo Psichiatra, il Prete e il Poliziotto??? La confessione.
La buona famiglia
Rapporti
di forza basati sul ricatto, una forma di ‘amore’ che assomiglia più ad
un ‘incesto’ (madri e padri flirtano con i figli). Non esiste una reale
voglia di emancipazione, ma qualcosa che richiama per lo più
all’egoismo di entrambi..
Utenti di serie A, utenti di serie B
Come in ogni comunità, il CSM non è da meno, si fa a gara per stabilire
quali siano gli utenti di serie A e gli utenti di serie B. La
conseguenza di tutto ciò è prevedibilissima, ovvero quelli di serie A
hanno le maggiori attenzioni: il servizio è premuroso e non manca di
fornire strumenti di miglioramento dello stile di vita, percorsi di
autonomia, i quali però andrebbero verificati ‘seriamente’ e magari con
qualche aiuto, un posticino di lavoro… eccetera. Quelli di serie B
possono finire ad abitare dentro una cantina per quindici anni, avere
una grave patologia ma esser considerati fortunati dall’assistente
sociale, la quale si giustifica dicendo che altri non hanno nemmeno
quel posto dove dormire. Mi chiedo se in questo caso si dia più
attenzione alla patologia, perdendo di vista il benessere della
persona. Basterebbe veramente poco per festeggiare il quarantennale
della legge Basaglia…
Il potere
Il ricovero volontario è di per sé ammissione di sconfitta… a ogni forma di potere.
Il bandolo della matassa
La
questione dei farmaci e della loro assunzione perdurante nel tempo (lo
stesso farmaco assunto per anni) è motivo di discussione e diatriba sia
tra i medici che tra gli utenti stessi. È ovvio ed evidente che un
farmaco non può avere nel tempo la stessa efficacia che sortisce
all’inizio della cura, ma diviene spesso strumento di ricatto e di
controllo sociale da parte dello psichiatria. Tutto questo ha il sapore
di un vecchio modo di fare psichiatria, ma evidentemente più efficace
perché più muscolare, con il risultato che spesso i farmaci finiscono
in fondo al w.c.
Il tema del ‘complotto’ delle case farmaceutiche riguarda a mio avviso
una buona fetta di utenti, i quali lo evocano, non capacitandosi del
curioso atteggiamento a dir poco irrazionale dei medici nel
somministrare per anni lo stesso farmaco. Il complotto è invece
sinonimo di deresponsabilizzazione.
Alta la guardia!!!
L'esercizio dell’emancipazione è uno sforzo quotidiano.
Il giocatore
Come in
ogni gioco che si rispetti, quello dell'azzardo è il primo. Il
giocatore in fondo è affascinato dal perdere al gioco. Perdere, per
poter scommettere a sua volta, ripuntare, vincere per poter perdere e
così via. Ovviamente tutto in maniera legale, ('legale' significa
'gestito dallo stato'), come gestito è il supporto che, una volta quasi
rovinato, ti concede lo stato tramite lo psicologo che dovrà curarti...
eccetera. Tu chiamale se vuoi ‘emozioni’.
A chi non ha parole adeguate
Allo
svuotarsi della città, come fosse un immenso colino, rimangono loro i
‘matti’. Momento cruciale per tutti, direi topico: i famigliari li
hanno letteralmente scaricati in mano ai CSM perché se ne occupino in
loro assenza. Ne conosco uno che, abbandonato dalla famiglia e semi
abbandonato dal servizio, non si fida più di nessuno e aiutarlo è
praticamente impossibile. Ogni tanto ha momenti di lucidità, mi
racconta che il frequentare i ‘malati di mente’ come lui lo rende
nervoso... eccetera. Lo conosco da almeno una decina di anni e credo
che il frequentare lo stesso ambiente di cooperativa lo porti
letteralmente a regredire. Come a ogni persona a cui non è rimasto
nulla, la fede in lui ha fatto breccia. È una fede a sfondo
miracolistico, a cui ci si affida per guarire dalla malattia mentale.
Provo un senso di rabbia e di impotenza, vorrei fare qualcosa, ma lui
non mi autorizza, vuole cavarsela da solo e dimostrare che è ‘sano di
mente’. Chiaramente soccombendo al volere dell'operatore di turno.
Psichiatri di partito
A volte ti chiedi che tessera abbiano.
Oriente / Occidente
Il
passato riaffiora e non è mai qualcosa di tranquillizzante. Farci i
conti, diventa una pratica che giornalmente ti assorbe tutte le
energie, probabilmente questo momento andrebbe cristallizzato e messo
da parte. La foto, fatta con l'autoscatto, in cui eravamo presenti
anche noi, deve essere necessariamente riposta in un album e lasciata
chiusa in un cassetto, fino a tempi migliori... L'eterno presente fa
capolino, chi ambisce all’illuminazione seguirà pratiche orientali.
Lettera aperta
Vorrei
sapere se il progetto terapeutico nella sua totalità lo si attiva
tenendo conto della persona che si ha davanti (in senso fisico) oppure
è una pura astrazione. Accade a volte che uno psichiatra, non avendo
più la persona sott’occhio perché ritenuta ‘cronica’, continui in
maniera ossessiva nel percorso terapeutico datato magari quindici anni
prima, non tenendo in considerazione i cambiamenti.
Lamento esistenziale
So tutto!!! ... Ma non so chi sono.
Ore 4,30 AM
Manuale DSM, bugiardino farmacologico, tutte cose da evitare di leggere
se non attraverso il filtro di uno psichiatra. Il dubbio sui lati
comportamentali e non solo di alcuni disturbi psichici rimangono.
Ovvero: perché dovrei socializzare a tutti i costi con il genere umano?
Va da sé che avute esperienze negative, sono meno propenso ad una
relazione con il prossimo… Eccetera. Non vi è mai una relazione con il
contesto che ci circonda o quello che è stato il passato. L’esistenza
in fondo è quello che ci scava il solco.
ALTRO da ME
Come
ALTRO da ME un’altalena, uno specchio dove le distanze rimangono ed è
impossibile toccarsi. Ho la percezione che sia ‘tu’, in fondo, ciò che
vado cercando da tempo, ma in fondo ne ho timore. È forse il tuo
ostentato linguaggio irrazionale, non si sa mai se ci sei o ci fai...
Ma credo che la cosa che mi terrorizza di più sia la paura che la tua
incomunicabilità con il mondo sia anche la mia.
Pollaio sociale
Alcuni sono galli, alcuni polli… Troppi nel dire la loro sul disagio mentale…
L’emozione di provare un EMOZIONE
L'emozione di provare una EMOZIONE, è forse l'ambizione più grande a
cui si può ambire. Toccati o no da un disagio psichico, il banco di
prova rimane sempre quello di trasformare l’emozione in qualche cosa di
più duraturo. Troppo breve è l'attimo che fugge…
L’onda delle Emozioni
Ma è proprio vero che per gestire un “Matto” ci vuole un “Matto” ?
Il delirio
La
follia che ti attanaglia non ti dà scampo. Non riuscire ad essere altro
che non sia la follia che ti attanaglia rende il tutto molto complicato
(vedi complotti dappertutto, non riconosci nemmeno te stesso,
figuriamoci i tuoi limiti)… Credo proprio che il punto sia il
riconoscimento dei propri limiti, il problema vero…
L’alibi perfetto
Non sai
quello che dici, getti discredito nei confronti di persone che
credevano di conoscerti, il tuo rapportarti solo con presidenti o
presunti direttori fa di te una persona viscida, peggio ancora un
paraculo, ma hai un alibi perfetto, che è quello di utente psichiatrico
al quale tutto è concesso. Il risultato è che ti ritrovi solo come un
cane con la bava alla bocca.
Chiarezza
Retorico,
ma non per questo semplice è quello di ammettere prima a sé stessi
quello che si è… e forse si potrà progettare una qualsiasi cosa.
Sacrifici umani
Monta la panna… La spirale sta montando con le conseguenze inevitabili che ognuno di noi conosce.
L’eco
Credo
in fondo che la questione sia un enorme rimando, tipo grande eco, dove
il tutto è costantemente fagocitato e rispedito al mittente.
La guerra a salve
Il vero problema è non credere alle proprie provocazioni... che poi non sono proprio provocazioni.
Lo strillo
Lo
strillo del famigliare attira giustamente attenzione... “Così non si
può andare avanti, qualcuno deve fare qualcosa, mi sembra di
impazzire”… E così via. Ma chi un famigliare non lo ha, cosa deve
fare???
Domandone…
Chi
siamo? ... con le nostre aspettative?… Chi sono gli altri?... con le
loro pretese?... Il tutto, spesso non coincide proprio: mantenere la
barra dritta è forse l’unica maniera per sopravvivere…
Chi siamo
In fondo siamo noi, oppure il racconto della nostra vita???
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Singer e Schachter: Teoria cognitivo sociale delle emozioni
P
er questo numero Cristicchi ha letto per voi un libro che appartiene alla collana Hachette, Capire la psicologia. Si tratta di Teoria cognitivo sociale delle emozioni, di Jerome E. Singer e Stanley Schachter. Questo
libro cerca di rispondere a molti quesiti per esempio: che cos'è
l'emozione? Perché ci emozioniamo? E soprattutto: prima mi emoziono nel
corpo e poi penso o prima penso e poi mi emoziono nel corpo, ossia:
viene prima l'attivazione fisiologica o la lettura cognitiva?
Gli autori sono due psicologi molto importanti, che si sono dedicati
alla descrizione analitica degli stati emotivi nell'essere umano e
hanno formulato la ‘teoria dei due fattori’, detta anche ‘teoria del
juke box emotivo’, che spiega il legame tra attivazione psicologica e
cognizione. Secondo questi due studiosi, noi non siamo neutri
sperimentatori di emozioni, isolati nel nostro mondo individuale. Siamo
persone inserite in un contesto, che ci condiziona e ci determina anche
nel modo in cui viviamo le nostre attivazioni fisiologiche. Siamo
quindi ciò che proviamo e ciò che proviamo è influenzato dal contesto
in cui sperimentiamo ciò che proviamo. Tutti noi proviamo emozioni. La
parola ‘emozione’ deriva dal verbo latino emovere
che significa ‘scuotere’ o ‘smuovere’. Le emozioni si manifestano
grazie a un'integrazione di diversi sistemi fisiologici che si attivano
quando le persone si trovano di fronte a situazioni particolari.
Molti psicologi hanno teorizzato sulle emozioni. William James
statunitense e Carl Lange danese, hanno elaborato teorie molto simili
senza che l'uno sapesse del lavoro dell'altro. Essi volevano combattere
la cosiddetta ‘psicologia ingenua’ che, non supportata da alcuna prova
scientifica, parte dal presupposto che le sensazioni siano la causa dei
cambiamenti che avvengono a livello fisiologico ed espressivo, per cui
ridiamo perché siamo felici e piangiamo perché siamo tristi. I due
psicologi affermano il contrario e la loro teoria è detta periferica o
del feedback: le reazioni somatiche sono la base dell'esperienza
emotiva. Si tratta di una radicazione biologica dell’emozione il cui
nome tecnico è arousal
che comprende i tremori, la tachicardia, il rossore delle guance, ed è
l'elemento dal quale si parte per riconoscere un’emozione. James e
Lange sono partiti dagli stessi presupposti, ma il primo si è dedicato
ai cambiamenti a livello di stomaco, intestino ed espressioni facciali,
il secondo si è dedicato alle variazioni di pressione e di frequenza
cardiaca. La loro teoria rovescia le convinzioni della psicologia
ingenua. Essi indirizzarono la ricerca verso le relazioni tra sistema
nervoso ed esperienza emotiva. Qualche anno dopo Walter Cannon spostò
il fulcro della ricerca sui processi neurofisiologici che provocano le
emozioni. Cannon pensa che le emozioni siano attivate, regolate e
controllate dal sistema nervoso centrale e dal talamo. Da qui partono
gli stimoli nervosi che causano le espressioni del viso e del corpo,
sia gli elementi soggettivi provocati dalla connessione con la
corteccia cerebrale. Il talamo diventa la torre di controllo, dotata di
un radar per leggere ciò che avviene all’esterno e di comandi che
servono al mondo interno per dare un significato all’imput e
trasmetterlo all’esterno attraverso la manifestazione fisica
dell’emozione. Philip Bard, un allievo di Cannon, ha fatto ricerche che
hanno confermato il ruolo del talamo nel processo emotivo.
Già Charles Darwin si era occupato delle emozioni, metteva al loro
centro i comportamenti, come risposta per adattarsi all’ambiente fisico
e relazionale. Egli aveva osservato che gioia, tristezza, rabbia, paura
e sorpresa vengono espressi e interpretati nello stesso modo, non solo
da uomini che appartengono a culture diverse ma anche da primati non
umani e altri animali. Darwin però non intendeva formulare una teoria
delle emozioni, ma piuttosto fornire altre prove a sostegno della sua
teoria dell’evoluzione. Secondo lui in tutte le specie le emozioni
svolgono le stesse funzioni di adattamento, che possono essere spiegate
mediante tre principi: 1) Principio delle abitudini utili e associate:
le emozioni si esprimono attraverso atti motori che hanno l'obiettivo
di soddisfare dei bisogni base, come salvarsi da un pericolo o
accoppiarsi per garantire la sopravvivenza della specie. Con
l'evoluzione la loro natura è cambiata, hanno assunto una funzione
diversa legata ad aspetti comunicativi o espressivi. 2) Principio delle
antitesi: a due emozioni opposte sono associate espressioni facciali
opposte che permettono di identificarne il significato. 3) Principio
dell’azione diretta del sistema nervoso: l’espressione delle emozioni
avviene attraverso precisi movimenti che rappresentano il risultato di
una scarica di energia nervosa. Esiste un numero definito di emozioni
basilari che sono innate e biologicamente predeterminate.
Paul Ekman, uno dei più importanti ricercatori del Novecento, ha
approfondito le ricerche sulle espressioni facciali, giungendo a
identificare sei emozioni primarie: collera, disgusto, gioia,
tristezza, paura, sorpresa, che combinate tra loro danno vita a
emozioni più complesse. Egli pensa che le espressioni facciali che
caratterizzano ognuna di queste sei emozioni siano universali in quanto
vengono riconosciute indipendentemente dalla cultura di riferimento.
Un altro studioso di questa materia è Robert Plutchik. Egli ha definito
le emozioni una complessa catena di eventi, che inizia con la
percezione di un dato stimolo e finisce con un’integrazione tra
organismo e stimolo stesso. La sequenza racchiude una valutazione
cognitiva dello stimolo, l'esperienza soggettiva dell’organismo, uno
stato di eccitazione fisiologica, un impulso ad agire e il conseguente
comportamento. Secondo questo scienziato esistono otto emozioni
primarie presentate mediante coppie contrapposte: gioia/tristezza,
fiducia/disgusto, paura/rabbia, sorpresa/ anticipazione. Inoltre egli
afferma che non sono importanti solo le espressioni facciali ma anche
quelle del corpo.
Discepolo di Darwin, Silvan Tomkins, pensa che le emozioni siano legate
alle motivazioni e alle pulsioni, intese come stato di necessità, che
spingono l'organismo all’azione. Le emozioni sono innate e funzionano
come allarmi, previsti geneticamente per garantire l'adattamento
dell’organismo all’ambiente. Carrol Izard, allievo di Tomkins, ha una
teoria che nasce dall’analisi comparata delle configurazioni facciali e
vocali tipiche di ogni emozione. Le diverse emozioni non hanno origine
da una specie di brodo primordiale, ma hanno delle qualità specifiche
che permettono di identificarle in maniera immediata. Le emozioni
rappresentano uno dei sei sistemi che costituiscono la personalità di
un individuo: il sistema omeostatico, che regola i processi di
mantenimento in vita; il sistema pulsionale, dal quale l'individuo
ricava le informazioni sulla necessità del corpo; il sistema
emozionale, che amplifica i bisogni e fa da guida per soddisfarli; il
sistema percettivo, che garantisce il contatto con l’ambiente interno
ed esterno; il sistema cognitivo, che consente l'elaborazione delle
informazioni provenienti dall’ambiente esterno e interno; il sistema
motorio, che permette l’attivazione di specifiche sequenze
comportamentali. Secondo Izard esiste una concordanza biunivoca e
innata tra espressioni del volto ed esperienza emotiva.
Le teorie studiate prima degli anni Sessanta, quella ‘periferica’,
quella ‘centrale’, quelle degli psico-evoluzionisti, hanno dato l’avvio
alla comprensione dei processi emotivi. Ognuno di questi ricercatori
però ha scelto di studiare solo un aspetto specifico dell’emozione, per
cui non sono riusciti a dare una spiegazione completa ed esaustiva.
Negli anni Sessanta del secolo scorso entrano in campo Schachter e
Singer, due psicologi statunitensi, che introducono la dimensione
psicologica e le emozioni per la prima volta vengono studiate come
processo fisiologico. La loro teoria è chiamata teoria
‘cognitivo-attivazionale’ o teoria ‘dei due fattori’, perché spiega le
emozioni come il risultato di due fattori, uno di natura fisiologica
ovvero l’arousal,
cioè lo stato di attivazione diffusa nell’organismo e l'altro di natura
cognitiva, cioè i processi mentali per cui siamo in grado di sentire e
riconoscere i cambiamenti somatici La teoria dei due fattori parte dal
presupposto che le risposte fisiologiche che accompagnano le emozioni
informano il nostro cervello che nel corpo è in corso un cambiamento ma
non dicono nulla sulla natura dell’esperienza emotiva. La definizione
precisa di ciò che ci sta accadendo la ricaviamo nell’ambiente
circostante, dal contesto relazionale, dalle nostre esperienze
precedenti. Si prova un’emozione nel momento in cui si sceglie
un’etichetta cognitiva per definire uno stato diffuso di attivazione
fisiologica, al quale diamo il nome di una precisa sensazione. Il
risultato è che l’emozione è data da un insieme, formato da un arousal
e due diversi processi cognitivi: la percezione dello stato di
attivazione e l’etichettatura lessicale. Facciamo un esempio: sono a
una festa ma nessuno vuole ballare con me, ho le mani sudate. Se non
metto insieme questi due elementi non provo alcuna emozione e invece se
creo un collegamento fra le mani sudate e la sensazione di solitudine
etichetterò come ansia quello che sto vivendo. Le sensazioni funzionano
come juke box: fino a quando non inserisco la monetina non posso
ascoltare nessun disco, ma una volta che inserisco la monetina posso
ascoltare la canzone che preferisco.
L’attivazione fisiologica è la monetina e la scelta del disco è il
processo di valutazione cognitiva. Così, se dico “mi sento il cuore in
gola” perché devo operarmi o perché esco con il ragazzo che mi piace,
il cuore in gola è l'attivazione fisiologica, cioè la monetina, e la
paura di essere operata o la gioia di uscire con il ragazzo che mi
piace è il disco, cioè la valutazione cognitiva. Nella maggior parte
dei casi esiste una forte relazione fra i due fattori. Seguiamo
l'esempio proposto dai due psicologi: immaginiamo un uomo che cammina
da solo in un vicolo buio. Appare d'improvviso una persona umana con
una pistola. Il riconoscimento di questa immagine provoca nell’uomo
sudorazione e tachicardia. Questo particolare arousal
sarà etichettato come ‘paura’. Lo stesso accade per le emozioni
positive, per esempio uno studente che è appena entrato in una scuola
prestigiosa non farà fatica a definire ‘gioia’ l’insieme delle reazioni
somatiche che ha sperimentato quando l'ha saputo. Segue un capitolo
molto interessante sullo stress. Il termine ‘stress’ è inglese e
significa ‘tensione’. Nella comunità scientifica lo stress viene
considerato come un precursore di uno stato di disagio e di malessere
ed è caratterizzato da ansia, angoscia, dissidio interiore. Secondo
Singer e i suoi colleghi, lo stress è un meccanismo che prende forma
nella relazione fra individuo e ambiente che lo circonda. In tale
processo un evento esterno definito ‘stressor’ minaccia la
stabilità e il benessere dell’organismo, che risponde alla percezione
della minaccia con una reazione di stress vera e propria, ovvero una
costellazione di sensazioni come rabbia, paura, alterazione del ritmo
sonno /veglia e inappetenza. In termini generali la nostra vita è un
costante adattamento all’ambiente che ci circonda nelle sue componenti
fisiche. Le situazioni evolvono armonicamente ma, nel momento in cui il
meccanismo si inceppa, il processo viene danneggiato e si verifica
sensazione di stress. Le conseguenze di questa percezione hanno una
ripercussione sull’esterno il quale risponde a una serie di segnali che
se non vengono regolati possono causare un circolo vizioso in cui la
tensione aumenta in maniera esponenziale. Rispetto agli stressor la letteratura psicologica ha identificato tre tipi di stress:
1) eventi dannosi che colpiscono intere popolazioni (terremoti,
uragani, epidemie, guerre). La peculiarità di questa classe è che le
sofferenze sono condivise all’interno della comunità nel suo insieme.
2) eventi negativi che colpiscono un piccolo gruppo di persone, una
famiglia, un gruppo di amici, una classe scolastica, come incidenti,
lutti e perdite. Mentre di fronte al primo caso le persone possono
trovare conforto nel fatto che le difficoltà sono una condizione
percepita come generale, in questo secondo caso la sofferenza viene
condivisa da un gruppo più ristretto di persone e quindi è possibile
che emergano sensazioni di isolamento.
3) eventi fastidiosi nei quali ci imbattiamo quotidianamente, di entità
lieve e moderata e di durata temporanea (esami, concorsi, traslochi,
cambio di lavoro, inizio di una convivenza). La peculiarità di questa
classe di stressor è legata alla dimensione temporale.
Consiglio la lettura, perché l'autore spiega con chiarezza concetti importanti e visioni innovative.
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Cari del Faro,
l'ultimo numero della rivista mi è piaciuto moltissimo, dall'inizio alla fine.
Forse è stato il tema, così aperto e stimolante, che ha favorito
contributi tanto ricchi, vari e profondi. O forse qualche congiuntura
stellare. Ma secondo me è il numero più bello uscito finora. Grazie
alla redazione e a tutti quelli che hanno contribuito. Spero che
riusciate a continuare. Un carissimo saluto.
Michele Filippi
Grazie, caro Michele, della tua costante attenzione e dei complimenti
incoraggianti. Speriamo che il numero più bello sia sempre quello che
non è ancora uscito! Baci.
Carissimi, vi scrivo del Veneto. Un mese fa siamo stati travolti dal
ricovero di mia figlia [...] che è residente a Bologna da dieci anni.
Dopo dieci giorni al reparto di psichiatria [...] di Bologna, mia
figlia è stata indirizzata al Centro di Salute Mentale di Viale Pepoli,
dove l'ho accompagnata nella prima visita [...] Lì ho preso conoscenza
della vostra pubblicazione Il nuovo Faro e ho cercato Fabio Tolomelli
in Facebook ma credo che non sia presente. Sono persa, confusa e senza
riferimenti. Ho bisogno di scambiare informazioni e ho tanto bisogno di
suggerimenti e vicinanza, anche per poter aiutare mia figlia.
Un caro saluto a voi
lettera firmata
Come facciamo di solito in caso di lettere come questa, abbiamo
risposto privatamente, ma poi non abbiamo più avuto notizie. Va meglio
ora? Lo speriamo con tutto il cuore. Un caro saluto
Attendendo l’uscita dell’ultimo numero, ho inviato alla gentile Concy,
l’articolo della prossima edizione. Vi confesso che, anche se mi fa
molto piacere scrivere per il vostro giornale, ritengo molto frustrante
non ricevere commenti, osservazioni, opinioni, anche negative sui miei
lavori. Mi piacerebbe instaurare dei micro-dibattiti, anche via mail,
altrimenti…è come fare all’amore, se lo fai da solo…non c’è gusto, non
vi pare? Il prossimo articolo è volutamente ‘forte’ e
anticonvenzionale… Fatemi sapere cosa ne pensate! Anche un “vai a
cagare” va bene, molto più terapeutico del NULLA. Cordiali saluti.
Cesare Riitano
Caro Cesare, la pensiamo proprio come te e approfittiamo della tua
sollecitazione per lanciare un appello ai lettori: scriveteci,
commentate, criticate!
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HO RICEVUTO QUALCOSA
Mariangela Pezone
D
al 2014, che era giugno, ovvero dal giorno che ho scritto questa cosa,
mi piacerebbe divulgarla tanto, perché ha un’indubbia provenienza...
Ero andata a passeggiare un pomeriggio all’ex Ospedale Psichiatrico
‘Sant’Osvaldo’ di Udine e mentre ero lì da sola ho ricevuto qualcosa,
che è iniziata come forte emozione. Uscita da quel luogo, mentre mi
recavo a fare il turno notturno in una struttura residenziale per
disabilità, ho detto alla collega: “Scusa, scusa, mi assento un
attimo”, e sono andata in una stanza con carta e penna. E già
direttamente in bella ho scritto questa cosa, che penso che io abbia
‘ricevuto’. Non sempre si ricevono, a volte è tutta farina del nostro
sacco, però è risaputo che tanti artisti pittori scrittori musicisti a
volte fanno opere mossi da qualcun altro… Il testo è pubblicato in un
mio precedente libro, che si intitola Possanza di delicati soffi, edito
nel 2014 da Gaspari editore. Sono poesie brevi scritte quando avevo
diciott’anni, a parte questa cosa, ultima nel libro, appunto che ho
scritto nel 2014, intitolata Il manicomio. A me piacerebbe che fosse
divulgata e anche che fosse davanti a ogni cancello degli ex Ospedali
Psichiatrici, non perché scritta da me, ma perché racchiude tutto quel
che è stato. Come preghiera per i clinici, affinché ogni giorno
ricordino, prima di iniziare a lavorare, quell’orrore passato, per
migliorare il loro operato, come punto di presenza.
IL MANICOMIO
Mariangela Pezone
Seduto nella stanza, guardavi dalla
finestra chiusa, sigillata - chiusura ermetica di un'impossibile
libertà - il fumo che usciva dai camini. In quel contesto ombroso anche
il fumo scaldava, più degli sguardi inesistenti e - se vi erano -
interamente diretti per dirigere l’opera del demonio. Il fumo diventava
scottante fuoco. Bruciava le tue emozioni. Ecco la tua metamorfosi: il
manichino chino. A testa bassa guardavi le tue mani: l’unica compagnia.
Tutti uguali... la loro triste preghiera, la loro liturgia: il
monologo. La tua veste ti ricordava il pensiero di quella follia
esteriore, follia appartenente non a te stesso, ma era cosa d’altri...
Era l’espressione della follia praticata dall’uomo che si presentava
come sano di mente. Quello era, secondo se stesso, il guardiano sano.
Tu facevi le veci dell’essere umano: lo straccio. Portavi le veci di te
stesso, parlando di un ipotetico terzo, questo perché non esistevi per
nessuno e anche tu così, per questo, giorno dopo giorno ti
misconoscevi. Quello straccio che indossavi era sempre lo stesso, sia
durante il gelido inverno che d’estate. La tua anima ormai era
diventata come quel vecchio cotone che indossavi. La parola adesso
appassita si ripiegava nel suo contrario: il silenzio. La parola
indebolita senza il suo nutrimento, ossia l’ascolto, moriva nelle tue
ossa. Il tuo viso, emaciato, non perché denutrito, ma perché spogliato
del verbo, del linguaggio e della libera espressione, deperiva... La
parola così chiedeva rifugio nella propria sicurezza: l’anima. Il capo
dell’ordine era il pregiudizio e quello che sicuramente si sa di
conoscere. La previsione era la sua unica tesi nei tuoi riguardi.
Quella stessa sua tesi era la chiave per la tua immancabile - adesso -
prigionia. Le rughe sul volto ti ricordavano l’andare avanti del tempo,
mentre interiormente il disagio era sempre giovane e la situazione
immobile esisteva nella disperazione. Unicamente le tue mani
conoscevano il tuo viso, toccavano il suo trascorrere nel tempo, perché
specchi in quel luogo non vi erano, tutt’al più potevi usare il fondo
della bottiglia. Di sovente alzavi lo sguardo per cercare di intuire di
che umore erano i normali, ma ti preoccupavi di abbassarlo subito,
perché temevi di essere tacitato dalle loro grida, perché giudicato
come pericoloso o come ti chiamavano loro: “Quello è il furioso
silenzioso”…
Ammaestrare rigorosamente il disagio, cosa ha dimostrato... Guardarsi
indietro si può, dove vi è ancora l’emozione a illuminare il dolore.
L’orrore ci presenta la sua chiarezza. A noi la scelta se voltare
indietro lo sguardo e prestargli attenzione. Se non vuoi osservare
allora ascolta. Ascolta perché l’eco di quelle grida permane nel tempo
e si lascia assorbire dal momento presente, ma puoi udire se fai
attenzione realmente. Procediamo realmente oltre ciò che è stato,
perché si è già dimostrato inconsistente per ogni sviluppo umano.
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LE NOSTRE EMOZIONI
Antonietta Maestri
Scondo alcuni studiosi, emozioni come
la rabbia, la gioia, il disgusto e la tristezza sono innate e vengono
chiamate emozioni di base, emozioni fondamentali perché persistono per
tutto l’arco della nostra vita. Man mano che gli individui crescono e
iniziano a cambiare gli obiettivi, le emozioni di base vengono
sollecitate e vengono a svilupparsi emozioni più complesse come la
vergogna, l’imbarazzo, l’invidia, il senso di colpa. Nel tempo le
influenze sociali possono modificare in modo sostanziale l’espressione
delle emozioni; un esempio è dato da come le madri rispondono
diversamente alle emozioni dei loro bambini, ad esempio in base al
sesso del figlio. Questi comportamenti asimmetrici possono dar forma a
determinate differenze nelle espressioni delle emozioni sulla base di
norme culturali, nel caso specifico a stereotipi secondo cui la rabbia
sarebbe un’espressione più accettabile nei maschi che nelle femmine.
Ma dentro di noi cosa succede quando proviamo un’emozione? I processi
attraverso i quali si verificano i nostri stati emotivi, che danno
luogo ad un batticuore, al pallore, alla sudorazione, a tutti quegli
stati interni che ci fanno sentire emozionati, consistono in una
discrepanza di tipo percettivo e cognitivo, tra quelle che sono le
nostre aspettative rispetto a una particolare situazione e le
condizioni del mondo reale. Dipendono da come valutiamo il significato
della situazione specifica.
Ad esempio, è un po’ come pensare di andare a forte velocità sui vagoni
di un ottovolante: si verificano discrepanze tra le nostre
immaginazioni, aspettative e le sensazioni forti che provengono
dall’equilibrio/disequilibrio e da altri fattori che regolano il
movimento dei nostri corpi nello spazio. Il giro dell’ottovolante sarà
piacevole o ansiogeno a seconda di ciò che ci aspettiamo sulla base di
esperienze simili; dipenderà dalla nostra percezione di tenere in mano
la situazione o di esserne invece dominati.
Le emozioni non sono poi meccanismi legati all’istinto, somigliano
molto di più a fotografie istantanee che ci danno informazioni sul
mondo che ci circonda. È l’imperfezione del mondo che ci spinge ad
emozionarci: la nostra mente nota queste situazioni in cui si verifica
qualcosa di inatteso, il momento in cui stiamo procedendo verso i
nostri scopi viene accelerato o bloccato perché in questo momento
un’emozione si manifesta e ci proietta all’evento successivo: se in
quel momento una parte del nostro scopo viene raggiunta siamo felici e
procediamo verso la tappa successiva con uno slancio emotivo di
soddisfazione che viene assimilata dai nostri schemi mentali. Se invece
i nostri piani vengono bloccati, si genera in noi una sensazione di
inappagamento, di ansia che ci induce ad analizzare la situazione in
cui ci siamo calati e i nostri stessi desideri, aspirazioni e scopi: se
la lettura dei nostri insuccessi è negativa può derivare un
ripiegamento depressivo su noi stessi, una fuga dalla realtà. Anche in
questo caso le modifiche al nostro stato interno vengono sentite da noi
come un turbamento, uno stato di instabilità conscia o inconscia che dà
un significato alla realtà.
Questi
momenti di difficoltà sono presenti in ognuno di noi e possono mettere
a dura prova le nostre capacità di superare gli ostacoli; se
un’emozione è dolorosa, con i nostri meccanismi di difesa tendiamo a
relegarla in una parte ben nascosta di noi stessi, è per questo che
molti dei nostri comportamenti sono diventati automatici e vengono
attivati senza riflettere, quasi si mettessero in moto precedendo la
nostra volontà. Quando le difficoltà tendono a provocare emozioni
negative come ansia, paura, rabbia è molto importante riconoscerle e
cercare strategie per farvi fronte, per regolare e ridurre la
sofferenza dell’intensità emotiva. Contrariamente a quanto spesso si
crede, concentrarsi su compiti faticosi e rilevanti nell’intento di
scacciare emozioni negative non è oculato in quanto ciò potrebbe avere
ripercussioni su un lavoro che invece richiede attenzione e buona
disposizione. Probabilmente lavoreremmo male e alla fine della giornata
la nostra emotività avrebbe toni più negativi di prima. Invece è grazie
ad una presa di coscienza che possiamo imparare a riconoscere e
canalizzare le nostre emozioni. Prenderci il nostro tempo per ragionare
sul significato delle emozioni che proviamo ci consente di comprendere
ciò che ci spinge ad agire, sulla base del significato di una
determinata emozione, del motivo per cui si verifica, per potercene
anche servire invece di esserne solo dominati. Fare finta che le
emozioni non esistano, negarle o reprimerle per paura, timidezza -
molto spesso perché nella vita di tutti i giorni la nostra realtà è
imbrigliata in determinati schemi per cui crediamo che prendere
coscienza delle nostre emozioni mini quella parvenza di razionalità -
significa privarsi di segnali importanti e di conseguenza perdere una
parte rilevante di controllo sulle proprie scelte.
Prestare attenzione alle proprie emozioni non significa mettere in
secondo piano la razionalità e la logica ma anzi significa aprirsi una
propria dimensione in cui non ignorare a priori certi segnali che ci
consentono di identificare correttamente i nostri stati umorali e i
nostri sentimenti e a seconda dei casi e delle necessità di esprimerli
e di incanalarli consapevolmente prendendo così la decisone migliore in
ambiti diversi della propria vita: da quello scolastico a quello
professionale, amicale, amoroso. Le persone eccessivamente razionali
invece, troppo rigide e timorose dei propri sentimenti finiscono per
sviluppare un rifiuto radicato non solo nei confronti dei propri stati
emotivi ma anche di quelli degli altri, con conseguenze negative nelle
relazioni sociali. L’intelligenza emotiva è la capacità che ci serve
per conoscere noi stessi e ad essere anche ben disposti a comprendere
gli altri, a intuire le loro intenzioni e i loro desideri, a percepire
il loro umore e le loro reali intenzioni al di la di ciò che possono
dire o fare. Ci aiuta anche ad avere maggiore fiducia in noi stessi;
dobbiamo essere più consapevoli di quelle che sono le emozioni che ci
influenzano positivamente o negativamente, imparando a non subirle e
favorendo perciò un’immagine più positiva di noi stessi.
LA CORDATA EMOTIVA
Maria Lucia Mangini, infermiera CSM San Giorgio di Piano
Sono infermiera a S. Giorgio di Piano e
sono la referente aziendale di un progetto PRISMA. Il mio compito è
quello di fare da ponte fra le associazioni coinvolte in questa
iniziativa e il Dipartimento di Salute Mentale, partecipando
attivamente alla progettazione e agli incontri di coordinamento,
promuovendo le varie azioni e facendole conoscere all’interno dei
servizi. Quando mi è stato proposto di fare la referente ho pensato che
sarebbe stata un’importante esperienza per me, perché avrei avuto
finalmente l’opportunità di lavorare direttamente con le associazioni.
Mi interessava molto anche l’argomento affrontato nell’iniziativa:
“Alimentazione e salute mentale”. Oggi si parla tanto di alimentazione
(riviste, studi, convegni…), sappiamo che un’adeguata alimentazione
interferisce con il benessere psicofisico delle persone. Si sono anche
fatte esperienze importanti, sia nelle associazioni che nell’Azienda
USL, ma questo progetto ha un taglio nuovo, che vede l’alimentazione
come nutrimento non solo del corpo ma anche della mente. Allora, che
dire: nutriamoci e purifichiamoci! Proprio da questa esperienza di
collaborazione che sto vivendo, ho capito com’è importante creare un
clima di rispetto reciproco tra i servizi e le associazioni.
Attraverso il programma PRISMA il Dipartimento promuove e supporta i
progetti delle associazioni, li sostiene e li finanzia. Solo così si
possono offrire alle persone che soffrono di disturbi psichici e ai
loro familiari tante iniziative finalizzate al benessere, opportunità
che da solo il Dipartimento non può dare.
Questo
clima di collaborazione è un’aria nuova, un respiro più ampio, mi fa
pensare a una similitudine: la conquista di una vetta. Immaginiamo una
montagna con dirupi, pendii, vallate. Lo scopo collettivo è di
conquistare la vetta. È importante che ogni scalatore abbia un suo
equipaggiamento: conoscenza, capacità, volontà. Ma sappiamo che per
intraprendere una scalata ci vuole un ‘pezzo’ indispensabile: la corda.
La corda protettiva della cooperazione (collaborazione con altri per il
raggiungimento di un fine comune) è quella che assicura forza,
facilità, entusiasmo. La cordata fornisce infatti a ogni scalatore gli
strumenti per compiere un passo, piccolo o grande che sia, e fa sì che
questi passi portino collettivamente al raggiungimento della vetta, ove
si respira aria nuova. Il PRISMA, secondo me, rappresenta questo, per
il Dipartimento.
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COMUNICARE EMOZIONI
Luigi Valgimigli
Ci guardiamo perplessi aspettando la voce di chi saprà
estrarre dal suo cuore una nuova idea che ponga fine a
questi troppi, troppi anni di debole pensiero.
Gabriele Salvatores
N
ella serie televisiva Star Trek, il terrestre capitano Kirk e
l’ufficiale vulcaniano Spock simboleggiano l’eterno conflitto tra
l’intelligenza emotiva (dove le emozioni sono parte dei processi
decisionali) e la fredda intelligenza razionale senza emozioni. Vince
sempre l’intelligenza emotiva, della quale anche il razionale Spock
finisce per riconoscere il valore.
L’idea che l’unica forma di razionalità venga dal cervello, mentre le
emozioni che arrivano dal cuore siano irrazionali, è stato per molto
tempo oggetto di luoghi comuni come: “bisogna ragionare con il cervello
non con la pancia”. Il significante ‘pancia’ (meno nobile di ‘cuore’)
rafforza l’idea che le emozioni impediscano un ragionamento razionale.
Ma noi Terrestri non siamo Vulcaniani e, oggi nell’era del computer,
stiamo riscoprendo la nostra intelligenza di esseri umani che va oltre
la logica della matematica binaria e ingloba anche le emozioni. Proprio
come avviene nell’Enterprise.
Da alcuni anni il significante ‘comunicazione’ sostituisce sempre più
quello di ‘informazione’. I due termini sembrano sinonimi, ma in realtà
non lo sono, perché ‘informare’ significa trasmettere un’informazione,
un fatto, un’opinione, mentre ‘comunicare’ significa mettere in comune
non solo fatti e opinioni ma anche emozioni. Ovviamente c’è un rovescio
della medaglia perché, mentre i fatti sono oggettivi e verificabili, le
emozioni sono spesso indefinite, soggettive, e possono essere
facilmente strumentalizzate in modo mascherato o subliminale per fini
pubblicitari o di propaganda politico-economica. La strumentalizzazione
più diffusa è quella che fa leva su emozioni forti, come la paura.
Basta l’aggettivo ‘clandestino’ per trasformare un emigrante in un
pericoloso fuorilegge da rimandare al più presto al suo Paese.
Il ‘mettere in comune’ le emozioni, con le sue potenzialità e i suoi
rischi, è un aspetto centrale della moderna comunicazione. Non va
sottovalutato il fatto che la comunicazione delle emozioni privilegia
la caratteristica umana dell’intelligenza emotiva nei confronti della
fredda intelligenza artificiale dei robot. Ma il bombardamento di
messaggi gestiti da professionisti che studiano a fondo i meccanismi
inconsci del cuore e del cervello umano è un segno dei tempi da tenere
sotto controllo. Senza un’adeguata consapevolezza da parte dei media e
dell’opinione pubblica, corriamo il rischio di un futuro paragonabile a
quello raccontato nel capolavoro di Orwell 1984 dove il Grande Fratello
costringe ogni giorno i cittadini a partecipare ai ‘due minuti
dell’odio’.
Questi pensieri sulle emozioni mi sono venuti alla mente l’ottobre
scorso mentre visitavo la mostra del Collettivo Artisti irregolari alla
Sala Ercole del Palazzo d’Accursio, sede del comune di Bologna. Poco
prima, a casa, mi ero soffermato su un canale televisivo dove lo
speaker di una galleria d’arte moderna presentava un quadro astratto in
vendita, senza dire una parola sui pregi artistici e sulle emozioni
trasmesse dall’opera. Cercava piuttosto di convincere i telespettatori
che questo quadro era un buon affare: “Invece di investire i vostri
risparmi in BOT che sono in calo, investite in un quest’opera il cui
valore economico è destinato a triplicare entro un anno”. È giusto che
un’opera d’arte venga valorizzata anche economicamente, ma non mi
entusiasma l’idea di un quadro che, anziché essere appeso alle pareti
di un appartamento o di uno studio, venga chiuso in una cassaforte
insieme ai BOT. Ho spento la televisione, sono uscito e poco dopo ho
raggiunto la Sala d’Ercole.
Pur nella loro diversità, i quadri esposti mi hanno fatto riflettere
sulla straordinaria capacità degli artisti di creare e trasmettere
emozioni.
Qualcuno ha scritto che l’arte è un tentativo di dialogo con il divino
ma, mentre osservavo le opere, ho percepito piuttosto un dialogo umano
che parte dal bisogno insopprimibile di dare forme e colori alle
proprie emozioni per metterle in comune con quelle di altri esseri
umani. E ho concluso che, oltre ad emozionarci, esposizioni come quella
del Collettivo Artisti Irregolari hanno anche il merito di ricordarci
che le emozioni sono parte integrante della comunicazione umana e non
devono mai essere né soffocate né strumentalizzate.
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PAURA
Luca G.
Una delle tante emozioni è la paura. È
un sentimento che proviamo quando c’è qualcosa che percepiamo essere un
pericolo imminente, o una prospettiva che non ci piace. Sentiamo paura
quando appare qualcosa che ci angoscia, ci spaventa, da cui non
riusciamo a togliere lo sguardo o l’attenzione e che vorremmo che
sparisse dalla nostra vista, tanto ci infastidisce. Chi ha timore di
qualcosa e soggezione di qualcuno, ha paura quando lo vede apparire,
che sia all’improvviso o meno. Talvolta non c’è neanche bisogno che ci
sia fisicamente la cosa o la prospettiva che temiamo, ci basta anche
solo pensarla che alla fine la paura ci viene. Addirittura la paura può
essere palese a chi ci sta intorno, la manifestiamo non solo con
un’espressione facciale spaventata, ma anche scoppiando a piangere o
con un tremito del corpo o di una parte di esso, di solito le mani. La
paura si può anche tramutare in panico: la prima la si prova quando
un’idea spiacevole come l’avvicinarsi di un delinquente o lo scoppio di
un incendio è solo una teoria, una cosa che sta dentro la nostra testa,
al massimo un pericolo facile da affrontare. Ma quando il delinquente
ci aggredisce o l’incendio scoppia oppure si espande all’improvviso,
dalla paura si passa al panico, perché la cosa per cui si prova timore
si è avverata. E il panico è davvero difficile da gestire, chi opera
come pompiere, soccorritore o addetto alla sicurezza lo sa meglio di
chiunque altro. Una musica lugubre, un’inquadratura scioccante, un
ricordo traumatizzante possono essere cause delle nostre paure,
ricorrenti e non.
Io per esempio ho paura dei cani, e questo perché quando avevo un anno
e mezzo ai giardinetti vidi una pallina che stava venendo verso di me,
la raggiunsi per raccoglierla e poco dopo vidi un enorme pastore
tedesco che stava per saltarmi addosso. Mia madre che era presente già
dava per scontato che sarei rimasto sfigurato o peggio e il padrone del
cane la sgridò pure, perché a sua detta non aveva fatto abbastanza
attenzione a me. Io non rimasi sfigurato o morso da quel cane, ma il
danno era già stato fatto. Da allora, a parte qualche eccezione, io
divento teso ogni volta che vedo un cane di qualsiasi razza.
Non quando ne vedo uno in foto o in televisione, sia ben chiaro, ma dal
vivo sì: quando sono per strada e ne vedo uno percepisco una sensazione
di pericolo, mi si risveglia il trauma che ho subito da piccolo e
quindi mi torna in testa la paura che il cane che mi trovo davanti,
qualunque sia la razza o dimensione, possa saltarmi addosso da un
momento all’altro. E in effetti è successo qualche volta che un cane,
sentendo la mia paura, mi si sia scagliato contro, poggiandomi le zampe
sulle gambe o abbaiando forte, attirando l’attenzione dei padroni, che
prima calmavano o sgridavano gli animali, e poi calmavano me e si
scusavano.
Un mio zio e le sue figlie avevano un cagnetto nero e ricciuto di nome
Crispino, ogni volta che andavo a trovarli abbaiava così forte e mi
correva incontro che mi preoccupavo di non potere entrare in casa. E
anche se può sembrare strano, non mi fanno paura solo i cani grossi,
quelli da guardia, ma anche quelli piccoli e che non se ne stanno
quieti, come i barboncini o i chihuahua, che sono arrivato a
considerare una versione grottesca dei topi, visto l’aspetto fisico che
si ritrovano. Grandi o piccoli, tranquilli o aggressivi, tutti i cani
hanno una caratteristica: scattano all’improvviso, e quando meno te
l’aspetti ti potrebbero anche affondare i denti nella gamba. Per questo
mi fanno paura tutti i cani, a parte quelli che mia nonna tiene per
compagnia e che oltre a essere piccoli sanno starsene tranquilli.
Ma la paura può essere scatenata non solo da cose lunghe e angoscianti,
ma anche da qualcosa di breve ed improvviso, come un urlaccio. Ricordo
che il 4 aprile 2011 andai a fare visita ai miei ex colleghi della
“Borges”, la biblioteca del quartiere Porto. Dopo aver salutato tutti
gli ex colleghi volli pure incontrare Adriano, il responsabile. Provai
a chiedergli se era disposto a organizzare una presentazione del mio
romanzo La Terra è femmina! e non ottenni una risposta esauriente, ma
solo vaga: egli andava un po’ di fretta, aveva anche già preparato la
borsa. Dopo qualche minuto, convinto che Adriano fosse ormai andato
via, andai di nascosto al piano sotterraneo, dove stava il deposito dei
libri, dei giornali e delle riviste vecchie. Diedi un’occhiata in giro,
per vedere se riuscivo a trovare documenti che erano negli scaffali ai
piani superiori quando lavoravo lì, e per accertarmi che nessuno
capitasse nel sotterraneo all’improvviso. Avevo il timore che qualcuno
mi vedesse, e quindi anche la paura che questo qualcuno mi riprendesse.
Notato che non c’era nessuno, dimenticai queste paure e mi rilassai,
facendomi poi prendere dalla nostalgia dei documenti che avevo trovato
disponibili al pubblico fino a tre anni prima. Stetti a sfogliare
qualcosa, tra cui un numero di Ciak vecchio di cinque anni e che aveva
articoli su alcuni miei film preferiti, e poi uscii dalla porta del
deposito come se niente fosse. Dovevo però aspettarmi un richiamo e non
l’avevo più considerato. Invece, appena finito di risalire l’ultima
rampa di scale, sentii una voce dietro di me: “Ehi! E tu da dove
vieni?”…
Non ebbi bisogno di voltarmi per capire che era proprio Adriano che mi
stava chiamando, avevo riconosciuto la sua voce forte. Mi girai
comunque verso di lui per educazione, e gli dissi candidamente: “Dal
deposito”. Da quel momento in poi Adriano gridò una serie di frasi di
rimprovero così forti che io mi sentii colpevole di quello che avevo
fatto. La prima frase ebbe un impatto maggiore, perché faceva da
apertura a quelle seguenti, e per questo mi spaventò e rinverdì la
soggezione che avevo di lui fin da quando l’avevo incontrato il primo
giorno di lavoro in biblioteca.
Adriano mi disse che non dovevo andare in posti che non erano riservati
agli utenti, e io capendo di aver sbagliato e nel tentativo di arginare
il suo disappunto approvai quello che stava dicendo con un: “Giusto”. A
parte quel “Giusto”, però, non riuscii a dire altro, perché Adriano
continuava a parlare con tono alto e di rimprovero. “Tu qui sei ben
accetto, ben accetto – sottolineò - ma non puoi andare oltre il bancone
oppure nel deposito! E anche se hai fatto qui uno stage, questo non ti
giustifica o ti permette di fare cose che hai fatto allora!”. Non
potevo dire niente per contraddirlo, un po’ per paura e soggezione, un
po’ perché sentivo che aveva ragione lui. Non solo perché adesso ero un
utente e dovevo comportarmi come tale, ma pure perché oltre alle frasi
potenti del responsabile che mi aveva beccato, aveva cominciato a farmi
provare paura qualcos’altro: e se qualcuno, non accorgendosi che c’ero
io dentro il deposito, mi ci avesse chiuso dentro a chiave? Se fosse
accaduto questo, forse mi avrebbe colto il panico, perché mi sarei
sentito in trappola, senza possibilità di uscire. E se in tal caso non
avessi avuto neanche il cellulare, il panico mi avrebbe preso del tutto
perché non potevo comunicare con il mondo esterno in nessun modo. Non è
detto che se rimani chiuso da qualche parte non ti vengano a riaprire,
se chiami a gran voce, magari non di notte, perché non ti sentirebbe
nessuno… No, in tal caso il panico mi avrebbe colto non tanto per il
fatto di non poter comunicare la mia presenza e posizione, quanto per
il pensiero delle conseguenze: mia madre o gli ex colleghi che
chiamavano la polizia…E venire liberato per poi essere sgridato per
essermi cacciato in un guaio che potevo e dovevo evitare nel modo più
assoluto.
Ci sono tre soluzioni davanti alla paura: scappare, rimanere immobili e
reagire. A me, come penso anche a tutti gli altri, è capitato di
sperimentarle tutte quante, e sempre in circostanze diverse. La prima è
una circostanza banale, anzi banalissima. Stavo camminando per via
dello Scalo, quando incontrai un uomo con una faccia che non mi piaceva
affatto: “Scusa, dov’è via Pier Crescenzi?”. Non diedi una risposta,
perché mi misi a correre lasciandolo esterrefatto. A distanza di anni
oggi posso pensare che quel tizio non avesse chissà quali cattive
intenzioni, però in quell’esatto momento avevo avuto esperienza di
altre volte in cui avevo incontrato persone a me sgradite o con una
faccia che a vederla mi metteva soggezione. Il tono confidenziale con
cui mi parlò quel passante in particolare mi diede l’impressione di una
persona con la quale non potevo parlare senza venire interrotto o
represso da un commento ironico, sbrigativo o prepotente. La paura di
incontrare per strada dei passanti non troppo educati e che mi possano
mettere a disagio con modi di fare sbrigativi o insistenti, mi aveva
spinto in quell’occasione a credere che il passante volesse usare una
richiesta di indicazione stradale come pretesto per aggredirmi o
stuzzicarmi, e di conseguenza a correre via. Una volta girato l’angolo
e raggiunta una fermata dell’autobus, mi sentii al sicuro. Se incontri
qualcuno che temi, vuoi evitarlo a tutti i costi e se hai disposizione
tanto spazio per scappare, allora scappi. Succede che per strada si
incontri gente che incute timore ai liberi pedoni o agli automobilisti,
come persone poco raccomandabili o venditori ambulanti insistenti, e
allora per evitarle si allunga il passo, oppure si evita di percorrere
le strade o i luoghi in cui essi si trovano: anche queste sono due
forme di fuga dettate dalla paura.
La seconda circostanza di cui voglio parlare è anch’essa banale, ma non
troppo. Il 20 marzo 2010 stavo tornando a casa da via Tasso in autobus,
ed ero seduto tranquillo su una sedia. A un tratto, la signora seduta
davanti a me si girò, mi fissò con un’espressione che mi intimorì e che
intuii subito essere ostile, nonostante indossasse un grosso paio di
occhiali scuri e mi chiese: “Mi ha toccato i piedi?”. Il tono
accusatorio e che non ammetteva repliche della donna mi fece intuire
che non era possibile cercare di spiegarle e dimostrarle che nonostante
avessi le gambe distese la punta dei miei piedi non aveva neanche
sfiorato i suoi talloni, e decisi all’istante di non provarci nemmeno.
“Mi ha toccato i piedi, per caso?”, disse di nuovo la signora con voce
più forte. Avevo voglia di dirle: “Non sono stato io”, oppure: “Non
l’ho fatto apposta”, o anche solo un timido: “No”, ma mi trattenni.
Dire anche solo una parola, una sillaba, secondo me avrebbe fatto
infuriare ancora di più la donna, e questa prospettiva mi faceva
davvero molta paura, ancora più di quella di venire represso per aver
detto anche solo una vocale. Nonostante avessi preso a sudare per
questo, mantenni la calma e continuai a simulare indifferenza non
rispondendo alla signora e cercando persino di guardare fuori dal
finestrino con la coda dell’occhio. “Allora, perché mi ha toccato i
piedi?”… Era inequivocabile che la signora desse per scontato che
l’avessi colpita, e per giunta con intenzione. Era così sicura che
avessi fatto una cosa che non si fa e che lo stessi negando, che se
avessi anche solo emesso un verso selvaggio per farla smettere, avrei
solo peggiorato la situazione. Andò a finire che la signora si alzò, mi
guardò e insultò e peggio ancora si avvicinò a un’altra donna che stava
seduta dall’altra parte del bus per avvertirla che ero un ‘toccapiedi’
e che doveva stare lontana da me. Uno sputtanamento bello e buono. Non
capisco come mai quella donna abbia parlato male di me proprio con
un’altra signora così distante da noi che era impossibile non pensare
che fosse un’estranea. Quando però la signora accusatrice scese
dall’autobus, io mi rilassai, smisi di sudare dalla paura, presi
coraggio e mi avvicinai all’altra passeggera. “Mi scusi, signora - le
dissi, con tono gentile e sentendomi ottimista - guardi che non è vero
niente… Io non ho mai toccato i piedi di quella signora che è venuta da
lei, era una sua impressione, ma nulla più… E poi non avrei mai motivo
per farlo, con nessuno…”. Per mia fortuna, l’altra passeggera mi guardò
benevola e dimostrò di credere molto di più a me che a quell’altra. Ero
rimasto immobile, mantenendo il controllo e una calma almeno apparente,
subendo le poche ma taglienti accuse di quella signora suscettibile e
fingendo di darle ragione. Le avevo lasciato credere che le avessi
toccato i talloni con le mie scarpe, anzi mostrando indifferenza le
avevo pure fatto credere che l’avessi fatto apposta e che non me ne
fossi nemmeno pentito, manco fossi un teppista. In realtà, con quel
modo di fare avevo reagito alla paura che mi aveva messo quella donna e
le avevo pure mandato un messaggio che mai e poi mai avrebbe capito:
che non avevo fatto niente ai suoi piedi.
Finché la persona che ti aggredisce si limita a violenze verbali
neanche troppo forti, senza farti grossi danni fisici e morali (per
esempio ferendo con un coltello te o un tuo familiare), restare
immobili può essere una soluzione. Purtroppo, però, non sempre succede
di capire che è meglio stare zitti e immobili oppure scappare via.
Ed eccomi dunque a raccontare la terza circostanza durante la quale ho
provato paura per qualcosa. Il pomeriggio dell’8 aprile 2014 ero alla
biblioteca di Villa Spada, e stavo all’interno di una delle due stanze
in cui erano collocati i libri disponibili al pubblico. In quella
stanza c’era pure un tavolo con sedia che era una postazione per
computer. Dalle volte precedenti che ero stato lì, ricordavo che c’era
pure un divano su cui sedersi e sfogliare i libri. Non sapevo perché li
avessero spostati, ma quella postazione mi sembrava perfetta come
alternativa al divano e anche più comoda. Avevo pure poggiato il
giubbotto sulla sedia quando vidi entrare un uomo ben più spaventoso e
prepotente della signora incontrata in autobus e che mi aveva accusato,
anzi colpevolizzato, di averle toccato i piedi. Quest’uomo era un tipo
con addosso un cappotto invernale, un cappellino colorato in testa, uno
zaino sulle spalle e una faccia minacciosa: gli occhi ostili,
l’espressione aggressiva, la barba sfatta e la pelle scura (forse era
abbronzata o non lavata da tempo) mi fecero capire che era di sicuro un
punkabbestia. Io mi sono sempre guardato bene dall’averci a che fare,
anche per ordine dei genitori, quando ne avevo incontrato uno un po’
invadente alla fermata dell’autobus, ma davanti a quest’altro non avevo
voglia di scappare. Primo perché non aveva ancora detto niente,
nonostante lo sguardo che mi colpiva, secondo perché non volevo fare
troppo rumore all’interno della biblioteca. Il punkabbestia si avvicinò
a me e attaccò subito: “Non puoi stare qui, vai via!”. Io non mi mossi
né spiccicai parola, pure perché egli non mi diede il tempo di farlo.
“Hai sentito? Ho detto che non puoi stare qui, vai via!”, incalzò
aggressivo. Spaventato dai suoi modi di fare e sbalordito nel vederlo
comportarsi come se fosse il direttore della biblioteca, non riuscii a
dire nulla. Di lì a poco avrei cominciato a sudare copiosamente.
L’impressione che avevo di questo tizio fu confermata quando egli mi
disse: “Ehi, hai letto? Leggi qua!”, e indicò il cartello che diceva
che stavo occupando una postazione multimediale. Io lo guardai ma non
potei fare nulla, perché il punkabbestia stava dicendo: “Tu non puoi
stare qua!”, e subito dopo lo vidi sollevare la tastiera del pc e
sbatterla sul tavolo, facendo pure staccare un pezzettino di plastica
nera. Non ci potevo credere! Un barbone che viene a farmi la predica, a
dirmi come comportarmi dentro una biblioteca, e che addirittura sbatte
una tastiera senza alcun ritegno per l’oggetto pubblico che maneggia,
senza neanche paura di romperla! Se fossi stato io a fare così al suo
posto, sarei stato subito sgridato e cacciato via a suon di urlacci! La
situazione era così assurda che se avessi avuto vent’anni di meno mi
sarei messo a piangere. Eppure vie di scampo ne avevo, potevo e dovevo
uscire dalla stanza, darla apparentemente vinta al punkabbestia e
raccontare tutto agli operatori. Ma non lo feci e decisi di reagire
affrontando con calma quel tizio invadente, convinto che fosse una
situazione che potevo gestire e risolvere da solo. “Lei non è meno
utente di me…”, esordii, guardandolo, speranzoso che si calmasse.
Volevo provare a dirgli che non poteva permettersi di fare il padrone
di un luogo pubblico, né tanto meno sbattere le cose o infastidire gli
altri presenti. Ma non trovando subito altre parole da dire non potei
fare altro che ripetere quanto detto: “Lei non è meno utente di me…”.
Il punkabbestia parve essersi calmato, perché borbottò qualcosa che
capii essere una frase meno ostile e imperativa delle altre. Ma era
comunque deciso a “farmi rispettare le regole”, se così possiamo dire.
Io tentai di frenarlo. “Non faccia così”, gli dissi.
Ma il punkabbestia continuò a borbottare, e prese di nuovo a dirmi che
non potevo fare i miei comodi dentro una biblioteca, quando mi sembrava
palese che li stesse facendo lui. “Io non volevo farla arrabbiare”, gli
dissi, stando al suo gioco. “Ma non si tratta di fare arrabbiare o no!
- disse lui, un po’ più animato - Si tratta di non fare cose che non si
fanno!”. Avrei ancora potuto prendere il giubbotto e schizzare fuori
dalla stanza, ma non lo feci. “Senti, ti muovi? - incalzò di nuovo
prepotente il punkabbestia - Sono fuori di me, stamattina mi hanno
anche rubato il cellulare!”. Mi parve troppo. Non aveva diritto di
trattarmi male, e iniziai a dirglielo: “Non è una buona ragione per…”.
“Ehi! - mi interruppe lui - Non ti permettere di dirmi cosa devo
fare!”. Dopo aver detto a voce alta altre due o tre fesserie, uscì
dalla stanza e io lo seguii, quasi rincorrendolo, desideroso di farlo
ragionare. Si diresse al bancone e raccontò la sua versione dei fatti
all’operatrice. Questa lo ascoltò e non disse o fece nulla. Meglio per
me, perché una volta che il punkabbestia se n’era andato, ebbi modo di
raccontarle la mia versione, senza venire accusato o punito.
Mantenendo
il tono di voce basso, mi sfogai con la bibliotecaria mostrandole il
pezzetto di plastica che il punkabbestia aveva rotto sbattendo la
tastiera e persino mostrandole Fantozzi totale, un’antologia degli
scritti sul ragioniere presa in prestito dalla Sala Borsa e che mi ero
portato dietro perché la volevo confrontare con il libro Fantozzi
subisce ancora, di cui appunto Villa Spada aveva una copia. La
bibliotecaria mi stette a sentire, prese il pezzetto di plastica e mi
suggerì di sedermi su un altro divano che era posto al muro, proprio
fuori dalla stanza in cui il punkabbestia mi aveva tormentato. Pensai
che si trattassero degli stessi divani che avevo veduto in precedenza
dentro le stanze degli scaffali, e io mi sedetti. Dopo quell’esperienza
però non tornai più a Villa Spada per molto, moltissimo tempo. La paura
di incontrare di nuovo il punkabbestia era davvero grande. E anche dopo
esserci tornato, per paura di venire richiamato per una scorrettezza
anche piccola o per essermi seduto a un posto non autorizzato o
contemplato, agii con estrema cautela, accontentandomi di stare seduto
a uno dei due tavoli circolari usati dagli utenti per studiare o
sfogliare il giornale. Un posto meno comodo rispetto alle volte
precedenti, ma più sicuro. Non tutte le persone che si incontrano sono
disposte a calmarsi o a ragionare, e quindi non sempre si capisce
quando è il caso di affrontarle. C’è chi lo fa a muso duro o con
gentilezza, c’è chi se la cava o l’ha vinta oppure chi le becca e perde
l’incontro. Non tutti sono uguali, ed è un bene e un male nello stesso
tempo. Estranei, ambulanti, punkabbestia. Tutte persone che mi mettono
timore, e che quando incalzano, si fanno più vicine o invadenti, più
fanno paura. Discorso che vale anche i conoscenti che mi piacciono di
meno, come ex compagni di scuola o prof che mi hanno fatto del male, o
coetanei che mi hanno fatto dei dispetti e che non capiscono come mi
sono sentito per colpa loro. Però se esiste la regola, che mai passa di
moda, che consiste nel non dare credito agli sconosciuti, un motivo ci
sarà. E questo motivo, forse, è proprio la paura che si ha verso di
loro.
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LA PANCIA, LA TESTA E… IL TEMPO
Paula Mencarelli
uando
pensiamo e ci concentriamo sulla parola ‘emozione’, in realtà… io sono
tentata di dire che sia un input che parte dalla ‘pancia’, o
dall’intestino, definito da studiosi ‘il nostro secondo cervello’.
Ricordo dalla scuola che lo stimolo del tratto intestinale parte sempre
dalla parte nervosa primordiale (la cauda equina o coda) o meglio dai
fasci di nervi che escono dall’osso più conosciuto e più importante del
corpo, chiamato ‘osso sacro’ non a caso. Questi fasci nervosi
determinano il controllo degli sfinteri e degli organi genitali ed è
ciò che rimane della nostra coda atavica e fa parte di un passato che
ci sembra molto, molto lontano, perché non ci appartiene più; la coda è
la parte più vanitosa e curiosa di molte creature viventi, ma non
voglio fare un trattato scientifico, bensì riflettere sulle emozioni,
che partono, sì, dalla pancia, ma iniziano dal cervello, quindi le
emozioni dipendono dal pensiero, che nasce all’interno della teca
cranica: concetto sostenuto in primis da cattedratici di valore, che mi
sento di condividere. Le emozioni dipendono dal pensiero... E qui,
tutti d’accordo! Mi piacerebbe un attimo soffermarmi invece sul
concetto di emozioni legate al tempo, su cui Lucia proprio ieri mi ha
fatto riflettere (nel gruppo di auto mutuo aiuto all’aula Francesco
Roncati delle 18 di ogni giovedì pomeriggio non festivo). È vero... il
tempo, da quando ho smesso di lavorare, mi sta sfuggendo di mano ed è
diventato il mio datore di lavoro più intransigente... Ma sappiamo che
i datori di lavoro più severi sono anche quelli che meritano la nostra
ammirazione e il nostro rispetto. Il mio errore più grave è di
percepire il tempo come padrone della mia vita, dimenticando me stessa
come parte di un universo o magari più universi armonici dove tutto ha
un senso. È importante per me ricordare ciò che desidero, ma
soprattutto lasciare che gli eventi e le relazioni abbiano il loro
corso, dove le emozioni siano padrone, ma allo stesso modo... il tempo
scandisca... il battito del mio cuore. Così non ho più padroni ma,
libera, vivo il presente, che si dilata all’infinito o si
rimpicciolisce correndo veloce come un bambino contento, a seconda
della mia percezione. Libera, perché la vita diventa un vero dono da
condividere e il trascorrere del tempo diventa piacevole e soprattutto
pieno di belle emozioni... In realtà possono passare due minuti,
quattro minuti, venti minuti di estremo benessere fisico e mentale
semplicemente chiacchierando ma soprattutto ascoltando una cara amica,
ed ecco che il tempo non scandisce più la mia vita ma il piacere di
vivere la riempie. E allora si realizza il miracolo: il tempo non è né
poco né troppo, è quello giusto che mi determina benessere e piacere;
in questo caso anche la mia sofferenza acquista una valenza positiva,
perché riporta il mio cervello alla quotidianità e alle cose della vita
e tutto diventa essenziale, anche il mio caro e amato disturbo
bipolare, che a volte vivo come un privilegio e a volte con vergogna.
Kindly
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LE EMOZIONI VIVONO DENTRO DI NOI
Patrizia Degli Esposti
Com’è difficile parlare di emozione.
Siamo continuamente sotto l’influsso di qualche emozione: piacere,
delusione, gioia, dolore. Le emozioni ci accompagnano anche nei sogni,
turbandoci o rallegrandoci. Gli anziani sono le persone più sensibili
alle emozioni, non possedendo più l’autonomia della gioventù, dovendo
dipendere dagli altri, basta poco a renderli rabbiosi o infelici.
Osservano e ‘sentono’ quando un gesto viene fatto con amore, con
indifferenza o, peggio del peggio, con cattiveria. Solo le macchine o i
robot non provano emozioni. Sono programmati a eseguire compiti che
svolgono senza porsi domande e se si inceppano non è sicuramente a
causa di un’emozione. Siamo noi esseri umani che a volte ci rivolgiamo
a questi oggetti come fossero vivi e potessero parlare con noi. Perché
l’essere umano ha necessità di esprimersi, rendersi unico con
atteggiamenti e comportamenti e vivere le proprie emozioni. Le emozioni
risiedono nel nostro corpo astrale, vivono dentro noi e si esprimono
con sorrisi, lacrime, tremori, rossori. L’emozione non ha atomi né
cellule e non si può osservare al microscopio, eppure ha un grande
potere sul nostro corpo e sulla nostra salute. Le emozioni negative
possono farci ammalare e lentamente consumano ed esauriscono le nostre
energie. Le emozioni positive ci riempiono i pori di gioia e riescono a
farci affrontare le difficoltà con leggerezza. Osservare la natura,
accarezzare un animale, sentire l’odore di un fiore, possono regalarci
splendide emozioni che agiscono nel nostro profondo. Lasciamoci cullare
dalle emozioni con una bella musica o osservando un’opera d’arte e
doniamo sorrisi e abbracci al nostro prossimo. Rabbia, paura,
tristezza, gioia da raccontare e disegnare, da condividere per
emozionarsi insieme.
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CONDIVIDERE LE EMOZIONI O NO?
Lucia
Le persone a prima vista si possono
collocare in due categorie: gli introversi e gli estroversi.
L’estroverso in genere è più socievole, aperto, spontaneo. Ama
condividere le emozioni positive, ma sa anche lasciarsi andare ad
esprimere il dolore e il disappunto. L’introverso è più, introspettivo,
schivo, riservato, assapora le gioie con pacatezza, spesso evita di
raccontare i suoi guai e di esprimere apertamente sofferenza. I due
atteggiamenti psicologici si riflettono persino nell’aspetto, nel modo
di atteggiarsi, nel tono della voce, nella scelta dell’abbigliamento.
Un tipo ‘solare’ è ben distinguibile da un ‘tenebroso’, un ‘amicone’ da
un ‘orso’… Naturalmente fra il bianco e il nero ci sono ampie scale di
grigio e tutti oscilliamo più o meno fra i due estremi e in certe
occasioni possiamo anche passare drasticamente dall’uno all’altro.
Dipende, tutto dipende … Dal carattere, dall’età, dall’educazione,
dalle esperienze di vita, dal contesto, dalla compagnia, dall’umore del
momento…
Mi è capitato di farmi questa domanda: è meglio condividerle, le
emozioni, o tenersele per sé? Io infatti sono una che non solo tende a
condividere, ma proprio si sente frustrata se non lo riesce a fare,
invece ho conosciuto persone che sembrano ‘emozionalmente
autosufficienti’. A me sembra così strano! Vedere o sentire qualcosa di
emozionante o commovente, un paesaggio, una scena, una musica, un’opera
d’arte, e non poterlo dire a nessuno mi toglie un po’ di gioia, sento
forte il bisogno almeno di raccontarlo poi. Per questo difficilmente
vado da sola a vedere un film o un museo o a fare una gita: ho bisogno
di qualcuno che viaggi sulla mia lunghezza d’onda per godermeli
davvero. Se poi mi accorgo che a chi ho vicino, soprattutto se è
qualcuno a cui voglio bene, non interessa ciò che ha colpito la mia
fantasia, lo ignora, lo snobba… ci resto male, tanto da perdere gran
parte del piacere e sentirmi quasi offesa. Lo so che non abbiamo tutti
gli stessi gusti, ma le mie emozioni sono importanti!
Eppure anch’io provo fastidio a volte di fronte a certi entusiasmi che
mi sembrano esagerati e sono insofferente se qualcuno cerca con
insistenza di coinvolgermi quando non ne ho voglia. Mi è capitato però
di osservare un fatto interessante: la gente allegra, che scherza,
balla e si diverte, se la guardi tenendoti in disparte ti sembra
chiassosa, ridanciana, invadente, magari anche stupida, se invece ti
fai coinvolgere è tutta un’altra musica… L’alchimia delle emozioni è
davvero sorprendente! Un piccolo sforzo iniziale, dunque, forse vale la
pena…
Ma attenzione: può capitare anche l’inverso, e cioè di farsi
coinvolgere in emozioni demotivanti, distruttive. Il contatto con
persone abuliche, tristi, malevole o rabbiose, può contagiarci o
comunque logorarci. Ma anche in questo caso credo convenga la politica
della condivisione… Intavolare una conversazione, ascoltare le loro
ragioni, emozionarci, anche empaticamente, accogliere il dolore, sì, ma
cercare in qualche modo di rimbalzare positività, credo sia l’unica
strada possibile… Non teniamoci troppo dentro le brutte emozioni, né le
nostre, né quelle altrui.
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IN ATTESA DI UN TEMPO DIVERSO
Daniela Mariotti
Ti scrivo, cara Concetta, scusa i miei
scarabocchi, ma questa è la mia scrittura. Come un tempo, speriamo che
almeno i pensieri siano chiari a te, amica ormai da tanti anni, e al
Faro. Ecco, il Faro ci unisce ancora, in questa sera d’autunno. Non
importa se l’estate è finita, se il tempo è poco… Sei qui, Antonio, con
me e Concetta. Andiamo grati avanti, nell’autunno umido e uggioso,
eccoci qui come in attesa di un tempo diverso. Chi sono io per te,
Concetta? Chi sei tu per me? Due donne che si sono incontrate sull’orlo
della disperazione. Le storie di vita e la poesia vanno avanti, non
sempre all’unisono. Ma non importa, l’importante è essere qui.
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DISTESA SULLA SABBIA
Francesco Valgimigli
Lei era distesa sulla sabbia, indossava
un costume intero azzurro e mi guardava, ed era come la carezza di un
angelo, ripetuta, continua, incessante, che appare e scompare, come
l’attesa nell’intervallo tra una carezza e l’altra che si fa sempre più
dolce. Ma io, di questo, me ne sono accorto soltanto dopo, quando ho
alzato lo sguardo, per il momento giocavo con la sabbia. Quando poi
l’ho vista, sono rimasto estasiato dalla sua bellezza indescrivibile,
dal suo sguardo, dal suo corpo racchiuso in quel costume color cielo e
la libertà di pensiero che quell’immagine mi dava, il mio perdermi
nell’infinito, le mie ali… Sembrava in quel momento che lei ci fosse
sempre stata ed era come trovarsi dentro un sogno, dentro una bolla in
grado di fermare il tempo. Un giorno le chiesi di incontrarci da
qualche parte perché le volevo parlare. Entrati in un bar, il padrone
la salutò con un “Ciao principessa” e il suo nome da principessa russa
in quel momento mi sembrò il più sincero di tutti. Ci sedemmo a un
tavolo e io guardandola già cominciavo ad avere paura, ma comunque
volevo parlarle, avevo assolutamente bisogno di parlarle per cercare di
tenerla vicino a me e non lasciarla andare. Ma le parole non riuscivano
a uscire, a riversarsi sul tavolo come un’invisibile cascata, in quel
momento erano tante le emozioni che mi tormentavano, insieme a quelle
troppe parole che sentivo esplodermi dentro e che cercavo di allacciare
insieme per poi espellerle, ma non riuscivo. In quegli istanti c’era
come un macigno invisibile che mi bloccava dentro e ogni mio tentativo,
ogni mio sforzo di uscire fuori da quell’impasse, risultava nullo. La
mia mente diceva parole dentro la mia bocca chiusa e allora rimanevo
zitto, in preda all’angoscia, aspettavo una soluzione a quel mio
problema, ma sentivo che non sarebbe arrivata. Lei mi guardava, in
attesa di un mio discorso, o al limite di qualche mia parola sparsa che
le facesse capire qualcosa di me, ma non diceva niente, aspettava,
aspettava soltanto, mentre i minuti passavano. Poi, dopo un tempo che
mi sembrò eterno, lei si stufò del mio mutismo e ce ne andammo. In quel
momento mi sentii sollevato, anche se cominciava a mordermi dentro la
consapevolezza che la stavo perdendo e che non l’avrei più rivista, che
quel dolce sorriso e quel saluto discreto che lei mi faceva con la mano
dalla stazione della metropolitana di Numidio Quadrato, quando scendeva
e si allontanava dalla metro, non ci sarebbe più stato.
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FEBBRAIO 2008
Luca G.
I l febbraio 2008 è stato uno dei mesi
più brutti della mia vita. Lasciate che vi racconti. Sabato 9 ero alla
“Borges”, e stavo svolgendo il mio lavoro da tirocinante bibliotecario.
A un certo punto un uomo di mezz’età mi chiede di trovargli due film: Aguirre furore di Dio e L’amico americano.
Io, nella mia ignoranza, non li avevo sentiti nominare, ma ero disposto
ad aiutarlo. Cominciai a cercare, ma purtroppo, proprio perché non
conoscevo quei due film, non sapevo dove trovarli. Chiesi e richiesi
all’uomo di ripetermi i titoli perché non me li dimenticassi, ed egli
prima me li ripeté una volta e poi tre volte. E intanto che cercavo,
egli commentava e si chiedeva com’erano disposti i film. Io gli spiegai
che i film erano disposti in ordine alfabetico di genere (Avventura,
Commedia, Drammatico ecc.) e ogni film dello stesso genere era a sua
volta ordinato in ordine alfabetico. Non sapevo a chi chiedere, non
sapevo che cosa fare, non volevo lasciare da solo quell’uomo. Andò a
finire che quello stava per andarsene insoddisfatto. E mi disse che si
aspettava una classificazione come in “Sala Borsa”, dove i film sono
ordinati per ordine alfabetico del cognome del regista, e poi per
ordine alfabetico di titolo. Sapete poi cosa disse quell’uomo riguardo
alla classificazione dei film della “Borges”? Lo definì un metodo “da
coglioni”. Sì, proprio così, “da coglioni”. Io lo guardai e dissi:
“Puntualizzerò”. Con quella parola era mia intenzione calmarlo, volevo
dirgli che lo avrei riferito ai colleghi. Non solo per la volgare
definizione, ma pure perché egli era disorientato e insoddisfatto del
servizio e della classificazione. Finita qui? Purtroppo no: tra me e il
signore si era messa in mezzo un’altra utente, una donna bassa,
leggermente più vecchia di lui, dai capelli rossi e ricci, che stava
frugando anch’essa tra i DVD. Io e l’uomo tornammo indietro e quella
donna si mise ad aiutare al mio posto quel tizio. Come potevo sapere se
quella donna sapeva o no com’erano collocati i film? E se non ne sapeva
nulla anche lei? Subito dopo, feci un gesto che non le piacque affatto:
misi una mano sul suo fianco, ma non per scansarla o spingerla, lo feci
delicatamente, come una persona che si appoggia su una balaustra o su
una ringhiera delle scale. Ma quella donna si arrabbiò e mi disse con
tono aggressivo: “Non mi spinga!”… “E lei non mi rubi il lavoro,
signora!”, risposi io con lo stesso tono. Lei si arrabbiò di nuovo, mi
maltrattò, mi accusò a più riprese di averla spinta, cercai di farla
ragionare, le giurai che non l’avevo spinta, ma niente. Rimase della
sua convinzione, e io, che avevo cominciato a sudare per la scomoda
situazione e l’ingiusta accusa, subii la sua ira e la vidi andare verso
l’ufficio del responsabile. Che cosa avrei dovuto fare?
Urlarle addosso? Darle uno spintone violento sulle spalle per farle
vedere com’è una vera spinta? Farla cadere dalle scale? Fare una
scenata che mi avrebbe compromesso agli occhi dei colleghi che mi
volevano bene e mi consideravano educato? Compromettermi agli occhi del
responsabile, severo ma giusto? Farmi licenziare da un posto che mi
piaceva moltissimo? Che cosa?! Andò a finire che la rincorsi. “Signora?
Signora? Signora!”… Lei si girò e io le chiesi scusa e le strinsi la
mano, fingendo di darle ragione. Non pensate che la feci fessa, perché
la ragione non viene data ai fessi, ma viene data a chi se la merita e
a chi mostra di sapere usare la testa. In realtà l'assecondai, usai la
diplomazia. Lei accettò le scuse, ma disse a voce alta che quando si fa
una cosa cattiva (che non avevo mai fatto), bisogna poi scusarsi e
rendersi conto di quel che si è fatto. In seguito i due utenti se ne
andarono via e io sfruttai il database per vedere cos’avevano preso in
prestito e risalire ai loro nomi. Ormai me li sono dimenticati e forse
è meglio così.
Mercoledì 13 provai a dire qualcosa ai colleghi in merito e loro mi
dissero che quando succede qualcosa di brutto, bisogna dirglielo
subito. Invece io avevo provato a risolvere la faccenda da solo, senza
parlarne con nessuno, volendo circoscrivere la faccenda a me e a quei
due senza coinvolgere gli altri. Io volevo anche parlarne con la
dottoressa Zucchi, la mia referente aziendale, con cui avevo già
fissato un appuntamento per il 15. Davanti a questa prospettiva mi
sentivo come uno pronto a denunciare un crimine alle autorità… Ma un
brutto imprevisto mi aspettava.
Il 14 stavo dentro casa, era un mio giorno libero, quando
improvvisamente mio padre tornò anzitempo dal lavoro. Non capii subito
cosa fosse successo, né perché a un certo punto si mise a fare avanti e
indietro per il corridoio, ma venni poi informato: era stato
scombussolato da una telefonata da Foggia che diceva che sua madre,
nonna Amelia, era stata dimessa dall’ospedale e rimandata a casa perché
incurabile. Rimandata a casa perché doveva morire. Il babbo non sapeva
se partire subito e togliersi il pensiero di salutarla oppure farlo nel
cuore della notte. Quanto a me, sentivo che stavo provando qualcosa di
molto forte. Oltre che inquietudine, era un miscuglio di sentimenti
negativi che non potevo distinguere o esprimere, tanto non faceva
differenza: avevo già capito che in ogni caso per l’ennesima volta il
babbo avrebbe portato con sé anche me e la mamma. Ogni volta che il
babbo decideva di partire per la Puglia ci portava sempre con sé, come
fossimo sue proprietà personali. Ma c’era un motivo: senza mia madre
lui non sapeva stare, e io senza di lei non potevo stare, quindi era
una catena che difficilmente si poteva spezzare.
Uscii di casa per restituire un VHS noleggiato il giorno prima, ma che
non avevo potuto vedere proprio perché il babbo era stato occupato col
videoregistratore. Ebbene, tornando indietro gridai per la
frustrazione: “Mio padre non è lucido, non ci sta con la testa. E solo
io riesco a vederlo? Solo io riesco a rendermene conto?”.
Forse anche mamma se n’era resa conto che papà era così sconvolto da
non poter guidare l’auto senza impattare, però l’amore per lui
l’accecava, e io oltre a essere sconvolto dall’idea di vedere la nonna
morta (come il babbo, del resto) ero arrabbiato e frustrato perché non
potevo denunciare alla Zucchi i maltrattamenti di quei due utenti
maleducati della “Borges”. Non potevo però oppormi al volere del babbo,
per nessun motivo, quindi o partivamo subito, quel pomeriggio stesso,
oppure la notte seguente, per evitare il traffico, come facevamo quasi
sempre. Alla fine abbiamo convinto il babbo a partire subito per
Foggia, ho chiamato i colleghi della “Borges” per dire cos’era successo
e che non potevo venire a lavorare, e poi siamo partiti. Fu un brutto
pomeriggio e un viaggio allucinante, non per la durata, ma perché a
ogni chilometro percorso io mi sentivo sempre più frustrato e strappato
dalla mia vita e dalla mia quotidianità. Un lato positivo del viaggio
fu che almeno non mi sentii mancare il respiro per le emozioni represse
e per l’odore di chiuso della Fiat Marea del babbo, quindi niente
claustrofobia. Non ho provato nemmeno fame, perché mangiai una bella
porzione di pane e formaggio mentre il babbo non mangiò nulla, ma solo
rabbia e frustrazione, desiderio di uscire da quella situazione e
tornare a casa e fare quello che avevo in programma. Ero agitato al
punto che a stento controllavo i pensieri che avevo dentro. Ad ogni
attimo che guardavo fuori dal finestrino vedevo calare il sole e
l’oscurità farsi sempre più nera, vedevo la strada andare
inesorabilmente verso la stessa direzione, senza mai tornare indietro.
Arrivammo a Foggia che faceva un freddo polare e io ero ancora
scombussolato dal viaggio, dalla partenza improvvisa e con le gambe
anchilosate. Entrai subito in casa di nonna Amelia, convinto di trovare
gli zii disperati al capezzale della nonna, e provai una strana
sensazione. Sembrava che l’atmosfera funebre fosse assente… anzi, era
per davvero assente! Una volta entrato, la vidi serena sul letto
circondata dagli zii, nessuno di loro sconvolto o triste. La nonna era
viva! E felice di essere a casa! La dimissione dall’ospedale aveva
avuto l’effetto opposto! Altro che morire, pareva guarita da ogni male!
E io, dopo averla salutata pensai subito che ero stato male informato,
che per un capriccio, per uno sbaglio e una sbandata del nostro
capofamiglia la nostra quotidianità era stata bruscamente interrotta.
In seguito papà mi avrebbe rimbeccato dicendomi che tutti gli zii
avevano visitato la nonna almeno una volta e noi no, e che questa era
un’ottima occasione per farlo. Nel frattempo io, dopo aver visitato la
nonna, ero andato a casa di mia cugina Daniela a fare a lei e al suo
compagno gli auguri di San Valentino, e lei ha ricambiato augurandomi
una buona cena. Non avevo fame, però, perché come ho detto avevo
mangiato pane e formaggio in macchina, andai invece a letto. Purtroppo
fu un problema: poiché la nostra cascina non era stata riscaldata:
avevo freddo, era tutto umido, dovetti così dormire in posizione fetale
col berretto di lana in testa. Realizzai in quel momento che pur di
correre dalla nonna, il babbo non aveva avuto scrupoli a farci correre
il rischio di finire congelati, sia durante il viaggio che al momento
dell’arrivo! E mentre ascoltavo il babbo masticare mentre mangiava
insieme alla mamma, sentivo dentro di me l’impressione che del freddo e
del nostro stato di salute ed emotivo se ne fregava! A lui non
importava niente di noi, importava solo di sé e di nonna, stavo
pensando in quel momento. Pensavo che gli fosse stata detta una bugia,
che mi avesse addirittura manipolato, che per lui era importante solo
la famiglia che lo aveva generato e non quella che si era creato e di
cui doveva prendersi cura. Per l’ennesima volta in tanti anni, pensai
che non volevo più levatacce o partenze improvvise con lui, mai più!
Il giorno dopo, 15 febbraio, le condizioni della nonna erano già molto
migliorate, e il babbo invece di informarci della cosa e ripartire
subito per Bologna, approfittò della circostanza per prendersi qualche
giorno di riposo. A sua volta la mamma approfittò di quel che aveva
fatto lui per vedere i suoi fratelli. Io non ebbi particolari
esternazioni, ma stavo cercando di osservare a mente fredda quello che
era successo e di valutarne le conseguenze. Anche quella seconda notte
dormii male, perché a causa del freddo e dell’umidità mi era venuta la
diarrea, e per via dei dolori andai in bagno per sette volte. Non mi
vergogno a dirlo, così come non mi vergogno a dire che pensavo che il
babbo, in quanto capofamiglia, pensasse di avere il diritto di far
stare male anche noi quando stava male lui. Dopo questo, ero fermamente
deciso a dirgli in faccia la mia in modo chiaro, pulito, sincero,
ancora ignaro di quanto accaduto per davvero.
La mattina dopo, il giorno 16, chiamai il babbo e gli chiesi: “Chi ti
ha detto che la nonna stava male e stava per morire?”… “Zio Donato”,
rispose lui. “Papà - dissi allora io - zio Donato ha scelto un momento
particolarmente adatto per farci questo stupido scherzo”. E glielo
dissi chiaro e tondo, senza paura, sicuro che una stagione fredda come
quella e un momento lavorativo che mi aveva messo sotto pressione non
fosse proprio l’ideale per partire all’improvviso per una presunta
morte in famiglia. Il babbo, invece di informarmi, di spiegarmi come
stessero le cose, si arrabbiò, ma io mi controllai. Affrontai il suo
sfogo e le sue ire rimanendo lucido, fermo e determinato, aspettando
che mi spiegasse cos’era successo davvero, ma lui non lo fece, si
limitò solo a sgridarmi e confermarmi la versione dei fatti che mi ero
fatto io. “Bisogna dire le cose finte o la verità?”, gli chiesi alla
fine della sua sfuriata.
Non so se rimase stupito dalla mia calma. Di sicuro non avevo prestato
attenzione alle sue frasi, appena intuivo che non erano spiegazioni o
giustificazioni a questa partenza a cui aveva costretto me e la mamma.
Il giorno 17 ormai il peggio era passato. Sia per la nonna che per il
babbo, che ora stavano molto meglio. Io ancora smaniavo dal desiderio
di tornare a casa. Ma riguardo a questo lui rimase irremovibile. E
visto che era domenica, si preparò a godersi una partita interna del
Foggia. Io provavo il desiderio di potergli dire, supplicare, di
riportarmi subito a Bologna, l’unica cosa che volevo per davvero, ma
sentivo che non era il caso, tanto egli mi avrebbe detto di no, e
questo non mi calmava assolutamente, anzi aggiungeva altra frustrazione
a quella che avevo già dentro. Prima di andare allo stadio mio padre mi
assicurò che avremmo presto ritrovato la nostra quotidianità: “Martedì
ritorneremo a casa, mercoledì io tornerò a lavorare, la mamma tornerà a
lavorare, e andrai a lavorare anche tu”. Avrei dovuto essere felice
come una Pasqua, invece mi sentii un bambino di cinque anni quando me
lo disse… E in quel momento mi scoprii addirittura a disprezzarlo per
questo. Ma fu un disprezzo passeggero, che durò poco. Non sentii
felicità, semmai appagamento. Passai il 18 febbraio ad ascoltare la
prima puntata della nuova stagione di Viva Radio Due e a guardare
qualche film sempre a casa di Daniela, rinfrancato dal fatto che era la
vigilia della mia ripartenza per Bologna, e che quella vacanza forzata
ormai stesse per finire. Il 19 tornammo finalmente a casa. Ma parlare
alla Zucchi di quei due utenti maleducati incontrati in biblioteca era
diventato una cosa vecchia, che ormai avevo stemperato e il cui ricordo
era diventato quasi sopportabile. L’impellenza di parlarne alla mia
referente era svanita. E la cosa non mi piaceva affatto. Purtroppo mi
era successo quel che succede a tutti dopo una vacanza, voluta o
forzata che sia: si torna sempre a casa che si ha il cervello come
risciacquato. Quanto all’esperienza a cui mio padre ci aveva costretti,
posso dire che avrei appreso come stavano davvero le cose solo molti
mesi dopo, e non dal babbo che era già gravemente malato, ma da mia
madre. Nell’istante in cui mio padre era stato avvertito da zio Donato,
la nonna stava davvero per morire, e in quel momento il babbo faceva
bene a essere disperato. È stato solo quando siamo arrivati che abbiamo
trovato la situazione cambiata: mentre la stavamo raggiungendo, le
dimissioni dall’ospedale avevano sortito l’effetto opposto, l’avevano
rallegrata al punto da farla stare molto meglio. Le avevano regalato un
mese di vita e un po’ di salute in più. Avrei preferito di gran lunga
saperlo subito, avrei voluto più sincerità dai miei genitori in quel
frangente, perché in quella brutta situazione ero stato coinvolto
anch’io, e pagando il prezzo di non poter raccontare nulla alla Zucchi
di quei due utenti che mi avevano maltrattato. Mentre ero a Foggia, mi
chiedevo: “Perché devo dipendere dai capricci del mio genitore? Perché?
Solo perché non sono autonomo?”. Avevo compiuto da poco ventun anni,
non volevo passare tutta la vita a essere trascinato dalle sue
correnti, a essere manipolato da lui. E volevo dirgli apertamente:
“Devi riportarci subito a casa! Adesso!”, ma sapevo che era inutile.
E non sapevo, invece, che un tarlo avrebbe cambiato il mio futuro. Non
potevo immaginarlo, nessuno di noi poteva. Nemmeno il babbo poteva
immaginare che quel tarlo ce l’aveva già da tempo, che si limitava a
sopportarlo e a pensarlo come un banale mal di testa, quando invece era
qualcosa di molto peggio. Quando mio padre fu ricoverato alla
“Baruzziana” e poi in tutti e tre gli ospedali della città, il
cosiddetto mal di testa si rivelò essere una cisti al cervello, ormai
troppo grande per essere rimossa, che lo avrebbe portato alla morte
quasi nove mesi dopo quella della nonna. Dopo di allora, state sicuri
che non ho più dovuto fare levatacce o partenze ‘intelligenti’ o
improvvise. Dopo la morte del babbo, io non mi sono quasi mai più
sentito obbligato ad andare in Puglia, perché non era più una decisione
unilaterale, ma concordata e condivisa da me e mia madre. So che non
crederete a quello che sto per dire, ma nell’essere costretto a partire
per la Puglia col babbo io mi sentivo come deportato, proprio così,
deportato. Pensate: mio padre, convinto com’era di proteggermi e di
fare la cosa giusta, mi impedì di raccontare subito quanto mi era
successo alla Zucchi, inoltre, non dicendomi niente, finì senza volerlo
per farmi credere che volesse portarci a Foggia per un suo capriccio.
Papà mi ha distorto la realtà, me l’ha manipolata, e solo molti mesi
dopo, mentre era lui a essere malato e vicino alla morte, appresi da
mamma come stavano davvero le cose. E a causa di tutto questo non avevo
potuto dire subito alla Zucchi quello che era successo alla “Borges”,
di quei due utenti che avevo incontrato e che mi avevano fatto quasi
disperare. Un’altra cosa brutta, ma molto brutta, di quel 9 febbraio,
che accentuò la mia tristezza, fu un fatto di cronaca non proprio nera.
Quella serata avevo saputo che Kirsten Dunst aveva avuto proprio nelle
ultime ventiquattr’ore una serataccia in discoteca: la notizia diceva
che aveva bevuto e preso qualcosa che l’aveva fatta stare male, anzi
sbarellare. Tanto che sarebbe stata ricoverata in una rehab nello Utah.
Lo raccontai alla mamma, guardando fuori dalla finestra, avvilito dalla
giornata che avevo passato tutto triste e timoroso sul futuro della
Dunst. E se poi stava peggio? Se avesse avuto una ricaduta? Per fortuna
è guarita, anzi tre anni dopo avrebbe fatto tesoro della sua
esperienza, interpretando così bene una donna affetta dalla
depressione, in Melancholia,
da ottenere una Palma d’oro a Cannes. Sapere quella notizia sulla mia
attrice preferita mi aveva fatto sentire ancora più abbandonato. Finché
hai la famiglia e un lavoro le cose vanno bene, ma se il tuo animo è
straziato da una colpa inesistente e sconvolto da una brutta notizia
che riguarda chi ti riempie il cuore, non è facile restare bene in
piedi.
Per lo meno alla “Borges”, davanti a quegli utenti maleducati, mi sono
comportato molto meglio di quanto fece un altro collega mio amico che
ebbe pure lui a che fare con un utente ancora più maleducato e sfogò
contro noi altri colleghi la sua rabbia.
Che dite, sono stato egoista nel considerare solo i dolori miei e non
anche quelli del babbo? Va bene, ditelo pure. Ma anche il babbo era un
po’ egoista, visto che ascoltava i miei pareri ma spesso poi li
ignorava.
E poi non parlerei di egoismo, parlerei invece di amor proprio, dal
momento che nonostante i suoi difetti era una brava persona, benevola e
bene amata da molte delle persone che lo circondavano. L’amor proprio e
per la sua famiglia lo avevano addolorato e accecato. Io ho raccontato
la cosa dal mio punto di vista e di mio posso dire che, secondo me,
quando una persona sta male, non ha comunque il diritto (o il dovere)
di far stare male quelli che stanno vicino a lui. Almeno io ho imparato
sulla mia pelle che non devo far stare male chi mi è accanto solo
perché sto male io.
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PER LORO E ANCHE CON LORO
Franco Gisoldi
S
tasera siamo qui per ricordare tre nostri coristi: Francesco, Tina e Marianne. Un
particolare pensiero va anche ad Anna Aletti, che ci ha lasciati anche
lei, da poco tempo. Anna è stata la cofondatrice insieme a Maurizio
Sgarzi del Coro ‘Cento Passi’ della nostra associazione ‘Percorsi di
Pace’. Come è nata questa iniziativa? Quest’estate, nel giro di pochi
mesi, sono mancati Francesco, Tina e Marianne. Eravamo tutti sgomenti
dal susseguirsi di queste notizie. Gressi, la nostra direttrice, andava
dicendo: “Ma cosa sta succedendo al nostro Coro?”… Non lo sapevamo… Una
cosa so, che possiamo fare qualcosa… Abbiamo la possibilità e il dovere
di dare un senso alla nostra vita… È stato così che parlando con Lucia
Fava e Gressi abbiamo pensato che l’unica cosa che potessimo fare come
Coro era continuare a cantare, PER loro ed anche CON loro, per
ricordarli. Per questo oggi siamo qui insieme. Non ho conosciuto
Francesco, da qualche anno non veniva più al Coro, invito perciò altri
a parlare di lui. Io frequento il nostro Coro solo da due anni.
Comunque voglio dare un piccolo contributo per ricordare Tina e
Marianne.
Tina, ogni tanto l’accompagnavo a casa dopo le prove o dopo qualche
concerto, l’ultimo proprio ad ‘Azzurro Sole’, da Grazia Stella. Era
spiritosa, ironica e attenta. Soprattutto notavo una certa sua
curiosità nelle cose della vita. Gli ultimi mesi era tutta presa, mi
raccontava, dalla ristrutturazione in casa sua e ce ne parlava spesso,
come spesso ci parlava di suo nipote in Inghilterra. Ho avuto poi
conferma di quanto fosse curiosa e generosa, quando ho contattato Lucia
Luminasi per questa nostra iniziativa. Lucia si è subito resa
disponibile e ha inviato una e-mail di invito a una DECINA di
associazioni di volontariato e di laboratori, poesia e teatro, dove lei
era attiva! Ci parlava infatti con un certo orgoglio delle sue
esperienze teatrali. Ciao Tina, ti pensiamo ancora…
Abbiamo iniziato questo memorial con un brano di Leonard Cohen, So Long
Marianne. Una donna di nome Marianne è stata un grande amore di
gioventù di Leonard Cohen. Si erano conosciuti in Grecia, nell’isola di
Ydra nei primi anni Sessanta. Non conosco bene la storia d’amore di
Giuseppe e della nostra Marianne, ma anche nella loro c’è stata
un’isola, quando erano giovani innamorati e poi per tutta la vita.
Marianne l’ho conosciuta poco, direttamente, però mi piaceva osservarla
durante le prove del Coro. Era sempre deliziosa e dolce. Ecco, mi aveva
colpito la sua dolcezza nelle espressioni e la sua calma, ma capivo che
sotto quella dolcezza e calma c’era una forte personalità. Ho avuto
conferma di questo quando poi Marianne si è ammalata, infatti noi del
Coro abbiamo il nostro gruppo WhatsApp per comunicare e lei, Marianne,
ci aggiornava pacatamente della sua malattia e dei suoi soggiorni in
ospedale. Noi del Gruppo, poi, subito rispondevamo con il desiderio di
farle coraggio e di farle sentire la nostra vicinanza. Lei ci
rispondeva ancora con tutta tranquillità che non avrebbe mollato.
Questo ci colpiva molto. Capivamo quanto forte fosse il suo carattere e
il suo attaccamento alla vita. Ho chiesto a Giuseppe, suo marito, che
canta con noi ora, se voleva raccontarci lui qualche cosa di Marianne,
ma ha preferito passarmi alcune riflessioni che vi leggeremo. Sono i
pensieri della figlia di Marianne, Nara e del suo compagno Ivan, che
sono stati letti durante il rito funebre in ricordo della mamma lo
scorso luglio…
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A TINA
Matteo Bosinelli
Cara Tina, voglio ricordarti così, con una tua poesia, bellissima.
Grazie, Tina.
Era un momento di profondo silenzio,
rotto solo dallo sciabordio del mare.
Il tuo cuore mi parlava,
la mia anima ti rispondeva.
(Treno per Bologna, 18 agosto 1988, ore 6)
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RISPONDERE A UNO SGUARDO
Credo
che sia questo il senso segreto dell’empatia. Non lasciare cadere
un’intenzione, amplificare un’emozione. Per questo da ventun anni
pratico la meditazione. Credo che nella storia personale di ognuno ci
siano dei nodi emotivi.
Come nel nodo piano, più li tiri e più si induriscono. Mentre a volte
un approccio indiretto permette a loro semplicemente di affiorare e a
noi di scioglierli. Meglio un bacio a troppe parole, meglio troppe
parole a un bacio rubato. L’eros si alimenta nell’attesa e nel silenzio
e forse cogliere l’attimo è semplicemente avere la pazienza di
lasciarlo arrivare.
PERFETTO
https://www.youtube.com/watch?v=hwZNL7QVJjE.
Pensieri che si incrociano. Jim è vivo. Poesie Apocrife. G.iacomo A.lberici. Zen.
Alcuni pensano che Jim Morrison sia morto ma che James Douglas Morrison no. Come
voleva Lui. Sopravvivere in ognuno di noi. Che tra Demonio e Santità ci
fosse posto almeno per Lui. E così è… E sempre sarà.
In Vasco. Tra Demonio e Santità. Perché ci sarà sem- pre un tempo in
cui le mele saranno acerbe, ma la speranza di aspettarle mature ci farà
rimanere qua, tra. E forse Demonio e Santità saranno solo sponde di un percorso vita meraviglioso che si chiama vita.
A tutti coloro, uomini e donne che hanno il coraggio di ridere e sfi orarsi, sapendo che ci sarà sempre il mondo fuori/fi ori.
https://www.youtube.com/watch?v=vc6y20Yss1E
VIBRAZIONI
Appaiono le stelle dall'orizzonte nero del crepuscolo pronte a ospitare
i nostri sogni e ricordandoci che nel buio della notte non tremano ma
vibrano.
Nel buio della notte le costellazioni sono maschere che hanno come occhi le stelle.
Quando il cielo è nuvoloso, come oggi, penso che in fondo le nuvole vogliano solo abbronzarsi la schiena.
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LA STRISCIA DI RICCARDO
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DAZZENGER
Darietto
... prende le cose a noleggio? Cannolo
... gli piace avere le ali? Cavolo
... non parla? Canuto
... gli piace la rucola? Carrucola
... va spesso in un ostello? Castello
... adora le donne di nome Tina? Cantina
... sa dove ti trovi? Canzone
... è molto vivace? Cabrio
... miracolosamente parla? Carla
... gli piace il pane? Campane
... gli piace il sale? Casale
... gli piace la panna? Capanna
... gli piace leggere un libro? Calibro
... gli piace aprire/chiudere gli sportelli ? Canta
... gli piace suonare l'arpa ? Carpa
... chiama le persone per vedere se ci sono tutte? Cappello
... sbatte fuori le persone da un locale bolognese? Canfora
... si rivolge ad uno sportello (tipo chiedere informazioni) o che chiude uno sportello? Cartello
... ha una folta barba? Carbone
... va in bici, in moto o sul cavallo? Casella
... ama la Vodafone? Cafone
... è un cretino? Catino
... annusa il sedere? Canale
... va spesso in una piazzuola? Cazzuola
... gioca con una giraffa? Caraffa
... ama la musica di Vasco? Casco
... vuol stare vicino al lampione? Campione
... è veloce come un lampo? Campo
... ti porta il giornale? Carlino
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UN RAGAZZO INVADENTE
Luca G.
D
urante il periodo delle scuole medie ho dovuto sopportare le burle e i
tormenti di M., un ragazzo di colore che si divertiva a fare a me e
agli altri compagni degli scherzi di cattivo gusto. Io ero la sua
vittima preferita, anche se non l’unica, quindi a differenza degli
altri non riuscivo proprio a sopportarlo, nonostante qualche volta lui
si dimostrasse calmo e composto e si scusasse dopo aver fatto certi
scherzi. Infatti alle volte mi stava addosso, mi scimmiottava se facevo
qualcosa che gli sembrava strano e mi derideva. Purtroppo, anche dopo
le medie non riuscii a liberarmene completamente. Come quasi tutti i
compagni delle medie, abitava nel mio stesso quartiere e non era
difficile incontrarlo. Un giorno, non so perché o per come, il babbo mi
aveva chiamato per dirmi, anzi ordinarmi, di rispondere al citofono. Mi
aveva detto che c’era M. che stava suonando e che nessuno gli stava
rispondendo, dopo che il citofono era rimasto aperto. Io lo presi,
chiamai M., ma non ottenni nessuna risposta. Non so proprio cosa sia
successo, né il perché, non tendo nemmeno a pensare che M. mi avesse
fatto uno scherzo tipo “suona e scappa”, però mi legai al dito questa
faccenda. E alcuni giorni dopo, lo richiamai al cellulare dicendo: “Hai
presente quella sensazione che si prova quando si è coinvolti in un
equivoco al campanello?”. “Sì”. “Bè, provala!”, gli dissi chiudendogli
il telefono in faccia. Purtroppo M., oltre a essere dispettoso e in
vena di scherzi, era anche un tipo vendicativo e me ne resi conto tre
giorni dopo. Dovevo andare da una parrucchiera che da molti anni mi
tagliava i capelli e a cui ero affezionato. L’appuntamento era per le
16. E durante il tragitto, chi incontrai per la strada? Proprio M..
Egli mi venne incontro, mi salutò sorridendo e iniziò a camminare
insieme a me. Nel ritrovarmelo di fianco, mi sentii a disagio, e non
solo per quanto successo tre giorni prima al telefono. M. indossava un
giubbotto color verde militare, con attaccati un patacchino della
bandiera tedesca e uno rosso con la faccia di Che Guevara. La indicai e
lui mi disse che era un grande. Poco dopo M. mi ricordò un ‘numero’ che
facevo alle medie. Dovete sapere che nel trailer del film A ruota
libera, del 2000, c’è una scena in cui Manuela Arcuri molla uno
schiaffo a Carlo Buccirosso urlando: “Amore, sì! Ma quanto mi piaci…”.
Ebbene, io alle medie usavo questa scena per imitare Marina La Rosa, la
gattamorta della prima edizione del Grande Fratello. M. mi rifece la
scena pari pari, non mi colpì in faccia, ma capii perfettamente che
aveva capito a cosa mi ero ispirato per l’imitazione di Marina, anche
lui doveva aver visto più volte quel trailer. Si avvicinavano intanto
le 16, io continuavo a camminare indifferente verso il negozio della
parrucchiera, senza palesare troppo a M. il disagio che avevo nello
stare con lui. Mi guardai bene dal raccontargli che dovevo andare a
farmi tagliare i capelli, anzi: sapevo troppo bene che poteva pensare
male all’idea che andavo da qualcuno che per mestiere taglia i capelli
alle donne, anche se lei li tagliava anche ai maschi. Sentii di nuovo
M. scherzare, e gli raccontai un episodio che mi aveva visto rispondere
male a un’educatrice del campo estivo che mi aveva trattato male: “Hai
insultato un membro della mia famiglia!”, le avevo detto, e poi avevo
fatto scattare una rissa. Poi gli raccontai del fatto che non fumo, che
il babbo era contento di questa mia scelta e che al contrario lui, che
fumava, non voleva che gli si parlasse di quest’argomento. Ogni volta
che tentavo di fargli capire che il fumo fa male, lui si alterava e
cambiava subito discorso. Del resto anch’io avevo detto ad alcuni
‘amici’ che il fumo fa male, e nel sentirmi rispondere che il fumo fa
bene, io decisi di stare al gioco, solo per farli stare buoni e
rendermeli simpatici. Gli feci credere che avevo fumato anch’io, che
avevo addirittura provato da fumare l’ovomaltina: ovviamente non è
vero. Erano ormai le 16. Era l’ora di entrare dalla parrucchiera. E non
mi ero ancora liberato di M. Non potevo dirgli del mio impegno e, visto
che dovevo
lasciarlo ignaro della cosa perché non mi prendesse in giro, continuai
a fingere di nulla. Continuammo a chiacchierare, gli mostrai il
cellulare blu che avevo con me, dicendogli che era del babbo e che
l’avevo scambiato con il mio perché con il suo ci giocavo sempre al
labirinto. M. lo prese e finse di chiamare al telefono proprio il mio
babbo, recitando anche le sue battute: “Come?! – disse - Un membro
della mia famiglia che fuma?!”. Anche stavolta stetti al suo gioco,
assistendo impotente e con disagio alla scena. Non volevo scatenare
risse, specie vicino al negozio della parrucchiera. Però rimasi
amareggiato dal gioco di M., il quale mi restituì il cellulare
inventando che il babbo era molto arrabbiato con me. Ero ormai in
ritardo, non potevo più rimandare a oltranza l’appuntamento e allora
dissi a M.: “Ho traslocato, ho cambiato casa”… “No, non è vero”… “Oh
sì, è vero!”, gli dissi, e gli indicai il portone di un condominio
vicino alla porta del negozio. Pensavo di poter entrare facendo credere
a M. che stessi in realtà tornando a casa.
Lui si voltò, credetti di essermelo tolto dai piedi, ma appena entrato
nel negozio della parrucchiera, mi girai e vidi M. che da perfetta
carogna mi guardava bieco sorridendo dalla porta: “Buona acconciatura
da frocio”, mi disse. Capii che mi aveva seguito, aveva letto la
scritta sulla porta del negozio “P. – acconciature” e aveva capito
tutto. Mi avvicinai alla porta per uscire, timoroso per il freddo che
faceva, e lui scomparve. Come un fulmine. Mi allontanai e riapparve,
ripetendomi la stessa frase. L’idea di essere osservato non mi piaceva
per niente. Irritato dalla sua invadenza uscii di nuovo e lui
scomparve. Ma per poco. Dissi alla parrucchiera di quello che stava
accadendo, uscii un’ultima volta in strada e M. mi disse con tono un
po’ più serio che doveva tornare a casa. Non in tono severo, ma serio.
Per quel giorno il tormento era finito. Ma io rimasi comunque
angosciato dall’idea di rivedermelo di nuovo comparire fuori dalla
porta del negozio e sbeffeggiarmi, o seguirmi mentre tornavo a casa per
fare la stessa cosa. E avevo capito che si era pure vendicato di quanto
accaduto tre giorni prima. Quanto a me, visti i tormenti subiti durante
le scuole medie e la vicinanza a casa, ebbi per molto, moltissimo
tempo, molta paura di incontrarlo per strada. Ero rassegnato all’idea
di subire i suoi fastidi per tutta la vita. Per fortuna non fu così:
dopo circa un anno divenne anche molto più pacato e meno impiccione,
pure perché io ero riuscito a evitare tutte quelle buone occasioni per
ritrovarmelo davanti, per esempio evitando le strade che faceva lui
oppure mostrando una calma e una pazienza ancora maggiori rispetto a
quell’occasione. E un anno dopo ancora andò a vivere da un’altra parte,
sparendo così definitivamente dalla mia vista, e anche dalla mia vita.
E questo mi diede uno straordinario sollievo, perché significava che
ero stato liberato da qualcuno che non volevo più incontrare, tanto era
invadente quel ragazzo.
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…E IO NON VEDO PIÙ LA REALTÀ
Cesare Riitano
Nella redazione di cronaca fa un caldo
soffocante; sto sudando. Vorrei denudarmi e liberare il mio pene da
quegli inutili boxer aderenti: sto pensando di avere un'erezione. La
direttrice sta parlando con foga di CO-MU-NI-CA-ZIO-NE, preoccupandosi
di scandire con tono marziale le sillabe di quel parolone così
importante. Attorno a lei, i miei colleghi annuiscono in modalità
sincrona come robot semi-umani, come ossessionati adepti di Sai Baba,
come fedeli estasiati dall'apparizione della Madonna di Lourdes; e
capisco perfettamente il perché. Marzia ha labbra ben disegnate e
carnose, i suoi capelli castano chiaro sono sciolti e profumano di
mare, porta una sorta di poncho rossiccio che esalta la sua pelle
ambrata, e inoltre, è sorretta da piedini meravigliosi, incorniciati da
sandali infradito di fattezza africana. D’improvviso la ‘vedo’ girarsi
verso di me; non riesco a sentire la sua voce, ma il suo labiale è di
una chiarezza esaltante, straordinaria, eccitante! Mi dice: “Cesare, ti
amo, ti ho sempre amato!”; e poi, accarezzando il mio viso tremante mi
sussurra un seducente: “Andiamo?”. “Dove?!”, le rispondo con uno
sguardo ebete. “Al mare, no?”, replica, lanciandomi un invitante e
sensualissimo bacio. Di colpo mi afferra energicamente la mano e,
correndo, usciamo da quella spoglia redazione spalancando la porta. Ci
troviamo d’incanto in una spiaggia senza fine, di fronte alla quale si
estende un mare calmo e infinito, leggermente oscurato da un tramonto
che ha il sapore del primo bacio. La brezza calda che mi colpisce mi
rivela che sono completamente nudo. Mi volto verso Marzia, sorride
senza veli come Eva, priva di ogni peccato. Mi stringe a sé; sento i
suoi seni turgidi comprimere il mio scarno torace e, mentre mi dichiara
il suo amore, da uno sperduto jukebox arrivano note e parole...
indimenticabili:
…ed io non vedo più la realtà
non vedo più a che punto sta
la netta differenza fra il più cieco amore
e la più stupida pazienza no, io non vedo più la realtà
né quanta tenerezza ti dà la mia incoerenza
pensare che vivresti benissimo anche senza…*
“Cesare tu mi ami? Dimmi che mi ami! Ti prego!”, mi supplica
dolcissima, Marzia. Come un vulcano dormiente da mille anni, il mio
desiderio per lei esplode fragorosamente e, con foga latina, grido alle
stelle: "Sììì! TI AMO, TI AMO Marzia, IO TI HO SEMPRE AMATO!!!”. La
stringo forte a me e, come un folle innamorato, chiudo gli occhi,
cercando con le mie labbra la sua bocca vogliosa…
D’un tratto sento una voce metallica provenire dal mondo terreno:
“Cesare ci sei? Sei tra noi???”. Come un sonnambulo svegliato dal suo
delirio, mi ritrovo drammaticamente ancora in quell’afosa redazione,
con i miei colleghi giustamente sogghignanti di fronte alla mia
inadeguatezza, e con la Dottoressa Marzia Guerreschi, alquanto seccata
dalle mie continue ‘assenze’. “Sì, ci sono, Marzia, scusami, ero
sovrappensiero”, provo a giustificarmi. “Sovrappensiero?”, ribadisce
alterata, “Sono stufa dei tuoi sovrappensiero! Adesso tu mi dici a COSA
stavi pensando! Altrimenti quella è la porta!”.
Con la testa bassa, guardando i suoi incantevoli piedini, le dico questo: “Era solo un’emozione… Non da poco”.
*Anna Oxa, Un’emozione da poco
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PERCHÈ È LA SOCIETÀ AD AVERE LA MALATTIA E NON I PAZIENTI
C’era un paziente schizofrenico che soffriva e soffriva. Riusciva ad
esprimersi bene nel suo dialetto e parlava poco italiano. Un giorno
chiese in friulano dove era piazza San Giacomo, perché lui sapeva che
la sua casa si trovava lì, ma non ricordava bene la strada. Chiese
aiuto a un signore e questo conosceva bene il friulano, ma vedendo il
paziente esprimersi balbettando e farfugliando, perse la pazienza e gli
disse: “Vai lì, poi lì, vai dritto e non mi rompere più i coglioni!”.
Il paziente non capì bene le indicazioni e chiese a un’altra signora,
che conosceva bene anche lei il friulano. La signora, vedendo questo
paziente diverso e un po' strano nell’esprimersi, si impaurì e gli
disse: “Piazza San Giacomo è vicino al castello, sono di corsa… Ciao!”…
Il paziente era dispiaciuto, ma una signora che veniva dall’Australia e
non sapeva né friulano né italiano, ed era in ferie lì, chiese al
paziente se voleva un attimo attraversare la strada e bere un caffè con
lei. Così, da seduti, avrebbero cercato di capire cosa e come, con
calma. Si capirono. Si salutarono. Il paziente si incamminò da solo e
raggiunse piazza San Giacomo e anche casa sua. Fu felice tutto il
giorno.
QUANDO LA GENTE VUOLE BUTTARE GIÙ IL MORALE AI SOGNATORI
C’era
una volta un paziente che aveva iniziato un percorso di musicoterapia
in un CSM e nonostante le sue difficoltà riusciva a continuare a
frequentare la scuola.
C’era un compagno di classe che lo prendeva in giro: “Tanto non ti
serve a niente la musicoterapia, sei matto…”. A sua volta il
musicoterapeuta in CSM si sentiva dire da alcuni clinici: “Ma cosa vuoi
fare con la musica, ci sarà un motivo se è pieno di infermieri qua da
noi, a quelli devi dargli il farmaco e basta, son matti… Musica… Ma chi
vuoi guarire, dai, strimpellando! È giusto che i servizi facciano
partire progetti, ma sai meglio di noi che non puoi far nulla con
quelle quattro note, il vostro destino è sfortunato: siete come quei
mendicanti con la chitarra appresso…”. Il paziente ed il
musicoterapeuta invece erano felici del loro incontro.
E un giorno il paziente a scuola lesse una poesia, nell’ora di letteratura:
Tutti dicon che son matto, matto, matto!
A scuola me lo dicon, a casa me lo dicon…
Io fortunatamente non me lo dico ancora.
Faccio brutti pensieri, ma ve n’è uno di bello,
il pensiero di incontrare il mio amico musicoterapeuta
mi dà speranza e sostituisce tanti grigi e cupi pensieri.
LUI NON RIUSCIVA A DARE
C’era una volta, tanto tanto tanto tempo fa, un operatore sempre
sfiduciato. Aveva mete elevate, da anni frequentava assiduamente un
monaco theravada originario dello Sri Lanka e riceveva insegnamenti
seri, era un vero maestro spirituale. Questo operatore era sfiduciato
perché tutti i pazienti che lo conoscevano gli chiedevano delle cose
(mai gli chiedevano le cicche). Gli chiedevano aiuto, una passeggiata,
un favore, di aiutarli a trovare lavoro, o gli domandavano delle cose
più su un piano intellettuale, ma lui non riusciva a dare. Il monaco lo
ricevette presso il parco delle gazzelle e gli disse di non essere
arrabbiato con sé stesso, perché intanto era sulla buona strada: i
frutti stavano maturando. Se i pazienti gli chiedevano delle cose,
significava che stava lavorando bene sul concetto di generosità e loro
che chiedevano ne erano una conferma. “E non correre, il momento di
dare arriverà”, aggiunse il monaco.
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ANCHE I CAMPIONI DEL MONDO PERDONO!
Matteo Bosinelli
In questa partita vediamo a confronto
il fortissimo Vassily Ivanchuk contro l’attuale campione del mondo,
Magnus Carlsen. Dopo una fase di apertura piuttosto ‘sofferta’, Carlsen
si trova subito in una situazione sfavorevole, ma è difficile capire
dove abbia sbagliato realmente. Tant’è che Ivanchuk, dopo una sfilata
di mosse particolarmente incisive, ha la meglio. Invito quindi il
lettore a gustare questa breve, ma piacevole ‘miniatura’.
Ivanchuk – Carlsen (Doha, Qatar 2016)
1) d4 d5
2) c4 c6
3) Cf3 Cf6
4) Dc2 e6
5) Cbd2 dxc4
6) Cxc4 c5
7) dxc5 Axc5
8) a3 0-0
9) b4 Ae7
10) Ab2 Dc7
11) Tc1 Cbd7
12) e4 b5
13) Ca5 Dxc2
14) Txc2 Cxe4
15) Axb5 Cd6
16) Ac6 Tb8
17) 0 - 0 Cb6
18) Td1 Td8
19) Ce5 f6
20) Af3 fxe5
21) Cc6 Ab7
22) Cxe7+ Rf8
23) Axe5 Cbc4
24) Axd6 Cxd6
25) Cc6 Axc6
26) Txc6 Cb5
27) Txd8 Txd8
28) Ta6 Tc8
29) h4
29) Tc7
30) Ag4 e5
31) Ta5 Cd6
32) Txe5 Cc4
33) Tf5+ Re7
34) Tf3 Ce5
35) Te3 Rd6
36) Ae2 h6
37) f4 Ta3+
38) Rf2 Cd7
39) Af3 Tb3+
40) Rg3 Ta2
41) Td3+ Re7
42) Tc3 Rd8
43) Rg4 Td2
44) Tc6 Td3
45) Ta6 Cf6+
46) Rf5 Td7
47) g4 Ce8
48) g5 hxg5
49) hxg5 Cd6+
50) Rg6 Cb5
51) Ta5 Cd4
52) Ag4
e il nero abbandona: 1-0
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PAROLE E IMMAGINI
Gruppo del Laboratorio Espressamente
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EMOZIONI E CANZONI
LABORATORIO di ARTETERAPIA – C.R.E.I. CASA SAN GIACOMO - COOP. SOC. NAZARENO
Siano benedette tutte le emozioni,
siano esse tetre o luminose.
Nathaniel Hawthorne
Una premessa
Casa San Giacomo nasce nell’ottobre 2016 dall’esperienza nel lavoro
riabilitativo della RTR- E Casa M. D. Mantovani con i giovani pazienti
seguiti dal dipartimento di Salute Mentale di Bologna nel tentativo di
iniziare a lavorare con i ragazzi in adolescenza per evitare, ove
possibile, di arrivare nelle comunità terapeutiche per adulti già
particolarmente segnati dalla psicopatologia. È una comunità educativa
– integrata che ospita sei adolescenti dai 15 ai 18 anni con disturbi
psichici e svolge principalmente una funzione terapeutica e
riparatrice, di sostegno e di recupero delle competenze e capacità
relazionali di minori in situazione di forte disagio in seguito a
traumi e sofferenze di natura psicologica che non necessitano di
assistenza neuropsichiatrica in strutture terapeutiche intensive o
post-acuzie e fornisce azioni di supporto psicologico e socio –
educativo, dotate di particolare intensità, continuità e fortemente
integrate con quelle svolte dai servizi territoriali.
Il laboratorio di Arteterapia di questa settimana ha
affrontato il tema delle emozioni, attraverso l'ascolto di alcuni brani
musicali abbiamo avviato una riflessione sul valore dei vissuti
emotivi.
Di seguito si riportano alcuni estratti delle canzoni scelte,
unitamente alle emozioni e ai pensieri che hanno generato negli ospiti:
L'emozione non ha voce di Adriano Celentano
Io non so parlar d'amore
L'emozione non ha voce
E mi manca un po' il respiro
Se ci sei c'è troppa luce
La mia anima si spande
Come musica d'estate
A.G.: questa è una canzone d'amore.
C.B.: felice, amore.
L.A.: amore, gioia e allegria
Grande amore dei Volo
Dimmi che mai
Che non mi lascerai mai
Dimmi chi sei
Respiro dei giorni miei d’amore
Dimmi che sai
Che solo me sceglierai
Ora lo sai
Tu sei il mio unico grande amore
A.G.: lui dice che pensa sempre a lei, vuol dire che è innamorato, è un amore forte.
C.B.: mi ricorda il mio primo bacio e il momento dell'adozione.
L.A.: amore e felicità.
Emozioni di Lucio Battisti
Domandarsi perché quando cade la tristezza
In fondo al cuore
Come la neve non fa rumore […]
E prendere a pugni un uomo, solo perché è stato un po' scortese
Sapendo che quel che brucia non son le offese
E chiudere gli occhi per fermare
Qualcosa che
È dentro me
Ma nella mente tua non c'è
Capire tu non puoi
Tu chiamale, se vuoi
Emozioni
A.G.: mi piace questa canzone, mi fa pensare alle estati passate anche se è un po' triste.
L.A.: mi sento pensieroso ed è stancante.
Ipernova di Mr. Rain
Siamo sette miliardi di persone ma tu hai scelto me
Comunque vada, anche se sarà finita
Sarai sempre la colonna sonora della mia vita
Ci siamo persi insieme.
A.G.: non mi piace questa canzone, anzi mi piace, ma l'ho ascoltata troppo e adesso mi annoia.
C.B.: mi fa sentire triste.
L.A.: mi fa pensare alla depressione, al passato.
Dopo aver raccolto le impressioni scaturite
dall'ascolto dei brani, abbiamo chiesto se e in che modo è possibile
definire un'emozione, ci siamo immaginati di dover spiegare a un
extraterrestre il concetto di emozione per arrivare a una sua
definizione. Secondo A.G. L'emozione è “come percepisci te stesso in un
certo momento. Ci sono però emozioni a cui non so dare un nome”,
similmente L. A. afferma “come una persona si sente in un determinato
momento o in un’azione, come reagisce il tuo corpo in un dato momento.
Le emozioni le senti nel corpo”. C.B. sostiene che le emozioni hanno
diversi colori, come “sentirsi felici, tristi, arrabbiati. L'emozione
parte dai ricordi, spesso mi arrabbio o sono triste perché penso a
qualcosa che è successo tanto tempo fa”.
Secondo gli ospiti gli aspetti che creano le emozioni sono: la memoria,
il cervello, il corpo, le sensazioni e il tempo. Il laboratorio si
chiude con una considerazione importante, le emozioni, anche quando
sembrano spaventose o indomabili, meritano sempre di essere ascoltate e
di avere lo spazio per essere espresse.
Carolina Lamberti
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EMOZIONI
LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani
La parola ‘emozione’ è una parola importante, ci possono essere
emozioni belle o brutte. ‘Emozione’ è una parola profonda che suscita
tanti tipi di emozioni, eplosive… delicate… Perché l’emozione ha tante
sfaccettature.
Luana Fabbri
Le emozioni sono sempre sincere e sono molto ampie. Sono proprie e
continuative e sono molto ‘sentibili’ al nostro sentire. Le emozioni
sono mie e sono motivate dal coraggio di ascoltarle e far prendere loro
emotività o capacità d’intesa, non proprio alle emozioni stesse. La
proprietà più audace delle emozioni è quella di renderci sensibili a
codeste. Potrei dire che le emozioni sono proprio mie quando non ne ho
paura, ma le sento rilevanti per quello che sono e non solo per quello
che ci fanno.
Ayenalem Cotrone
Le emozioni sono parte dell’essere umano, forse le più importanti e per
questo è giusto valorizzarle e ascoltare il prossimo. Penso che più
delle emozioni siano importanti i pensieri che trascinano insieme a
loro anche se, pur venendo dopo, generano una causa e ragionamenti.
Davide Palazzo
Io ho spesso delle emozioni negative perché mi sento sempre un
pesciolino fuor d’acqua. Sono sempre stata abituata ad appoggiarmi a
chi mi era o è accanto, perché so di avere grossi limiti ed
emotivamente sono fragile.
Irene Castaldini
Io ero molto emotivo durante la scuola, facevo scena muta
all’interrogazione di italiano e la maestra non mi faceva leggere. Ero
emotivo anche con il professore delle medie, perché leggere davanti ai
miei compagni di classe mi dava una forte emozione.
Stefano Gardini
Non so se le emozioni esistano. Se quando ero innamorato e avevo perso
la testa per Margherita fosse qualcosa di vero, se tutto quel
sentimento emotivo era reale o solo una realtà interiore che mi
nascondeva la voglia di essere adulto. Gli adulti invece, una volta
presi dalla realtà delle emozioni, mi sembra diventino tutti uguali,
grigi, nei loro giubbotti verdi e opachi. Almeno così mi sembra.
Ilia Attianese
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ERRATA CORRIGE
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OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI: FRANCESCO VALGIMIGLI
Francesco Valgimigli è nato a Roma il 13 settembre del 1972. Ha
frequentato il Liceo Artistico Giorgio De Chirico di Roma. Da luglio
2016 si è trasferito a Bologna.
I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Francesco Valgimigli
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