Piergiorgio Fanti

Giovanni Segantini: “La culla vuota”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Francesca

Studiamo

Antonio Marco Serra

Dizionario delle (mie) emozioni

Augusto Mocella

Emozione/i

Anonimo

L’emozione

Mariangela

Ma cosa sono le emozioni?

Lu Zen pass

Pensiero profondo, anzi subaqueo

Lu Zen pass

L’emozione e lo Zen

Annamaria Pareschi

Ali

Matteo Bosinelli

Milano 1974

Darietto

Il testo non ha emozioni, ma…

Marcella Colaci

Buongiorno

Eva

Scampagnata al Podere Canova

DEDICATO AD ARIANNA LO SPAZIO DELLA POESIA

 

      Piergiorgio Fanti     Polvere in raggi di sole
      Elena Baragatti     Quando
      Elena Baragatti     Dono
      Elena Baragatti     Anima pura
      Piergiorgio Fanti     Grande sinergia
      Piergiorgio Fanti     Sognava di fare la modella
      Annarita Baratti     Nei tuoi occhi
      Elena Baragatti     Sei tutto
      Maurizio Leggeri     Passione
      Mariangela     Emozioni e natura
      Maurizio Leggeri     Pensieri innamorati
      Piergiorgio Fanti     L’emozione sommuove il cuore
      Maurizio Leggeri     Malinconia
      Elena Baragatti     Essenza
      Marcella Colaci     Toc Toc
      Marcella Colaci     Marco
      Marcella Colaci     Se sono una donna

Paolo Sanzani

I Post-It

Cristicchi

Recensione del libro: “Teoria cognitivo sociale delle emozioni”

***

La Posta

IL TIMONE
      Mariangela Pezone     Ho ricevuto qualcosa / Il manicomio
INSERTO: DENTRO / FUORI
      Antonietta Maestri     Le nostre emozioni
      Maria Lucia Mangini     La cordata emotiva
      Luigi Valgimigli     Comunicare emozioni

Luca G.

Paura

Paula Mencarelli

La pancia, la testa e… il tempo

Patrizia Degli Esposti

Le emozioni vivono dentro di noi

Lucia

Condividere le emozioni o no?

Daniela Mariotti

In attesa di un tempo diverso

Francesco Valgimigli

Distesa sulla sabbia

Luca G.

Febbraio 2008

Franco Gisoldi

Per loro e anche con loro

Matteo Bosinelli

A Tina

Giovanni Romagnani

La notte di note

Ricky

La vignetta

Darietto

Dazzenger

I RACCONTI
      Luca G.     Un ragazzo invadente
      Cesare Riitano     E io non vedo più la realtà
      Angela Pezone     Le “Verità”

Matteo Bosinelli

Anche i campioni del mondo perdono

DAI GRUPPI DI SCRITTURA
      Espressamente       Parole e immagini
      Casa San Giacomo       Emozioni e canzoni
      RTP Casa Mantovani       Emozioni

***

Errata Corrige

Francesco Valgimigli

Dipinti

                                                                                                               
GIOVANNI SEGANTINI:
“La culla vuota”

   Piergiorgio Fanti


T ra i pittori italiani del secolo diciannovesimo il Segantini (Arco, 15 gennaio 1858 – monte Schafberg, 28 settembre 1899) godette presso la critica di un prestigio da nessuno eguagliato. Soltanto più tardi, quando si rivalutò l’esperienza macchiaiola, gli si incominciò ad anteporre il Fattori, in nome di una maggior ‘genuinità’ di ispirazione di quest’ultimo.
Per comprendere l’opera di Segantini, bisogna inquadrarla nell’ambito della scuola lombarda, sempre attenta al vero, e affascinata dallo studio della luce.
È peculiarità del Nostro, come di altri artisti lombardi, l’interesse per la vita degli umili in un’epica solenne, presentatosi ben prima della nascita del partito socialista (1892), a cui Segantini aderì convintamente.
Il lavoro del pittore è stato suddiviso in vari momenti: un primo periodo milanese dal 1877 al 1881; il periodo della Brianza dal 1881 al 1886; quello di Savognino nei Grigioni dal 1886 al1894, nel quale prende forza l’esperienza divisionistica; infine il momento ultimo del soggiorno isolato a 3000 metri in una capanna sopra Pontresina.
Il dipinto in esame è opera tipica dell’iniziale propensione a una tematica di patetismo aneddotico. Sentiamo cosa scrive lo stesso artista a proposito de La culla vuota: “Questo dolore di una madre, che non sa rassegnarsi ad abbandonare la culla dove per qualche giorno e per qualche notte assistette trepidante e angosciata alla fine crudele del suo tenero amore, mi ha impressionato”.
Il quadro, purtroppo, è dominato dai colori terrosi, che ne rendono difficile la godibilità (Segantini schiarirà la tavolozza solo più tardi). È comunque notevole anche per la sincera partecipazione umana.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


Diciamo prima di tutto cosa non è un’emozione. Non è un sentimento, né uno stato d’animo, ma una situazione istantanea, fortemente legata alla realtà e quindi al presente. Per Sant’Agostino d’Ippona, grande filoso del IV sec. d.C., il presente è quel puntino che separa il passato dal futuro ed è in continuo, irrefrenabile movimento. Questo puntino è quello in cui si vivono le emozioni. Per cui posso dire che il presente è la vita, ed è resa tale grazie all’emozione. Insomma, parafrasando Cartesio, “mi emoziono quindi sono”.
Secondo Wikipedia le emozioni sono “stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi”. Io non mi sento di fare categorizzazioni rigide di emozioni, anche se in letteratura ne esistono. Direi invece che ce ne sono di più o meno belle o più o meno brutte. Ma non è possibile riprodurle esattamente. Sì, perché le emozioni non sono mai uguali a sé stesse, cambiano in funzione dei sentimenti, degli stati d’animo e dei contesti ambientali. Così, quando con la mente vago tra passato, presente e futuro le emozioni sono sempre diverse. Colori e sfumature emotive cambiano anche quando ripensiamo a un episodio del passato e all’emozione ad esso legata.. Faccio un esempio: il giorno del funerale di mio padre è stato il giorno più brutto della mia vita, in quel momento non riuscivo a fare altro che piangere: contesto, sentimenti e stati d’animo mi generavano disperazione. Se ora rivivo con la mente quel momento, l’emozione che provo è fortemente cambiata. Probabilmente quell’angoscia è stata elaborata e quindi provo dolore, malinconia e nostalgia e non più un’emozione di strazio. Le emozioni sono sensibilissime alla malattia mentale. Quando soffrivo di depressione anche gli episodi più belli li vivevo negativamente. Nel senso che tutte le attività, le esperienze, le vivevo come inutili, senza senso, con un incessante comportamento di chiusura verso l’esterno. L’emozione provoca una specie di feed-back sociale, nel senso che si manifesta sempre e comunque con la mimica, il tono della voce e la corporeità, e l’ambiente sociale, ricevute le informazioni, rimanda al soggetto risposte emotive. Per un approfondimento rimanderei al testo Pragmatica della comunicazione di Paul Waslavick, dove si dice tra l’altro che anche chi non vuole comunicare trasmette attraverso il corpo qualcosa: la chiusura, il bisogno di non comunicare perché emotivamente indisposto. Io vado soggetto a momenti di chiusura, che in me è legata al bisogno di corazzarmi nei confronti di eventuali stimoli esterni che potrebbero provocarmi emozioni ancora più dolorose e disgregare la mia personalità. Una cosa curiosa è che quando mi trovo di fronte a una bella ragazza, che magari non conosco, vado in apnea, non riesco a respirare e la voce rimane strozzata. Però, cessata l’emozione, la verbalizzazione orale riprende normale e volendo riesco a concettualizzarla.
È probabile che il nostro modo di vivere le emozioni sia condizionato oltre che da aspetti genetici anche dall’educazione; l’emozione in questo senso ha anche una funzione pedagogica, nel senso che un’emozione positiva o negativa ci farà agire in modo conseguente, ricercando il ripetersi di belle emozioni ed evitando quei comportamenti che generano emozioni negative. Le emozioni sono quindi anche esperienze che fanno crescere la personalità. La cosa importante è continuare ad emozionarci, sperando sempre in nuove belle emozioni, ma senza farci ingabbiare dal timore di essere travolti o di restare delusi. In fondo poi anche le emozioni più tristi e dolorose col tempo si stemperano e fanno meno male. Tutto va a formare il nostro bagaglio culturale, la nostra personalità, il nostro mondo affettivo.
Auguro quindi a tutti i lettori di emozionarsi molto con la lettura del Faro.

STUDIAMO

   Francesca

O gni dato… pensieri, onde, sensazioni... passa dalla mente, che lo analizza.
Un’emozione viene creata da uno stimolo, reale ma anche immaginario, sempre.
Anche l’inconscio, che lavora soprattutto quando dormiamo, produce emozioni.
La prova: noi siamo sempre in un stato emozionale in qualunque momento della giornata. Perché? Perché pensiamo. Quindi per me l'emozione è uno stato mentale capace di essere creato, cambiato, distrutto a volontà.
Per esprimere le emozioni di base utilizziamo la faccia, i gesti e la voce, con espressioni definite ‘universali’ in quanto non dipendono dalla cultura alla quale apparteniamo: sono perciò un importante mezzo di comunicazione, perché vengono condivise con chi ci sta accanto, tramite un codice che tutti possono interpretare.
Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale. Esse sono legate allo sviluppo della conoscenza e della società in cui si vive: si tratta di vergogna, senso di colpa, invidia o gelosia, tanto per citarne alcune. Costantemente proviamo tante emozioni, che ci accompagnano per tutta la giornata e nella vita. Una vasta gamma, che varia da quelle positive a quelle negative. L’emozione consiste in una serie di modificazioni che avvengono nel nostro corpo sia a livello fisiologico, alterazioni respiratorie e cardiache, sia di pensieri, ad esempio: “Che paura!", o "Non c’è speranza”, sia reazioni comportamentali, come il fuggire o gridare o alterazioni della mimica facciale, che il soggetto utilizza in risposta a un evento.
Sicuramente, se domani dovessi affrontare un'interrogazione o un compito scritto, una verifica insomma, potrei provare ansia, dovuta al fatto che non so bene come potrebbe andare, paura di non aver studiato abbastanza, di non sapere esattamente quali domande mi faranno e quali potrebbero essere i risultati. In questo caso, si possono avvertire una serie di modificazioni a carico del fisico, come le farfalle allo stomaco, la secchezza delle fauci, mal di testa, respiro affannoso e così via. Si tratta di indicatori riguardanti lo stato di incertezza che si sta affrontando, perché le aspettative che si hanno sono distanti dalla realtà.
Lo psicologo americano Paul Ekman racconta di essere stato in un remoto villaggio sulle alture della Papua Nuova Guinea per studiare gli abitanti del posto e verificare se fosse possibile riscontrare anche tra loro le stesse emozioni provate da altri popoli. Gli indigeni, i Fore, popolo pre-letterario, alla vista di Ekman che mangiava del cibo a loro sconosciuto rimasero stupiti. In particolare uno di loro rimase a guardare Ekman con una particolare espressione. Lo studioso, entusiasta della loro reazione, fotografò l’espressione di disgusto evidenziata sul volto di questo membro della tribù e scrisse: “La fotografia illustra che l’uomo è disgustato dalla vista e dall’odore del cibo che io consideravo appetitoso”. Questo è solo uno dei tanti esempi riferiti dallo scienziato. Fu proprio seguendo questa tribù che Ekman poté notare come le espressioni di base fossero universali, perché riscontrabili in popolazioni diverse, anche in quella dei Fore che è isolata dal resto del mondo.
Così decise di stilare una lista di emozioni divise in primarie e secondarie.
Le emozioni primarie o di base sono:
1. rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l’aggressività;
2. paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto che si trovi in una situazione pericolosa;
3. tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto;
4. gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;
5. sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;
6. disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e di sdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;
7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.
Queste sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite ‘primarie’ ovvero ‘universali’.
Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che hanno origine dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale. Esse sono:
1. allegria, sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo;
2. invidia, stato emozionale in cui un soggetto sente un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede;
3. vergogna, reazione emotiva che si prova in conseguenza della trasgressione di regole sociali;
4. ansia, reazione emotiva dovuta al prefigurarsi di un pericolo ipotetico, futuro e distante;
5. rassegnazione, disposizione d’animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sfortuna;
6. gelosia, stato emotivo che deriva dalla paura di perdere qualcosa che appartiene già al soggetto;
7. speranza, tendenza a ritenere che fenomeni o eventi siano gestibili e controllabili e quindi indirizzabili verso esiti sperati come migliori;
8. perdono, sostituzione delle emozioni negative che seguono un’offesa percepita (es. rabbia, paura) con delle emozioni positive (es. empatia, compassione);
9. offesa, danno morale che si arreca a una persona con atti o con parole;
10. nostalgia, stato di malessere causato da un acuto desiderio di un luogo lontano, di una cosa o di una persona assente o perduta, di una situazione finita che si vorrebbe rivivere;
11. rimorso, stato di pena o turbamento psicologico sperimentato da chi ritiene di aver tenuto comportamenti o azioni contrari al proprio codice morale;
12. delusione, stato d’animo di tristezza provocato dalla constatazione che le aspettative, le speranze coltivate non hanno riscontro nella realtà.
Quindi, le emozioni più complesse hanno bisogno di più elementi esterni o pensieri eterogenei per essere attivate. Spesso le emozioni vengono mascherate da altre espressioni facciali per non far comprendere agli altri ciò che si sta realmente provando, questo può accadere per vergogna e pudore dei propri reali sentimenti.
Fine della lezione.

DIZIONARIO DELLE (MIE) EMOZIONI

   Antonio Marco serra


La speranza deve essere sconfinata quanto la dedizione.
Hans Urs von Balthasar

E se voi amate coloro che vi amano, qual è il vostro merito? Poiché anche i peccatori amano coloro che li amano.
E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, qual è il vostro merito? Anche i peccatori fanno lo stesso.
Vangelo secondo Luca, VI, 32-33

La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi.
Pier Paolo Pasolini, Poesia in forma di rosa



Ho deciso di scrivere questo articolo in maniera rapsodica, facendomi guidare dalle emozioni che via via mi attraverseranno la mente. Come scriveva il Sommo Poeta “I’mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’è ditta dentro vo significando” (Purgatorio XXIV, 52-54).

Emozione: sollievo. Mi trovavo un attimo fa in una condizione di profonda desolazione (per fatti miei che non starò a raccontarvi) e nell’esatto momento in cui ho iniziato a pensare a cosa scrivere, questa non piacevole sensazione si è dissolta, lasciando il posto anzi a una lieve euforia (non crediate a chissà che, per un temperamento fortemente melanconico come il mio, l’essere lievemente euforico corrisponde all’essere lievemente depresso di una persona normale). E ho avuto la chiara e distinta percezione che ciò era dovuto al solo fatto che la mia mente, per ovvi motivi, si era messa a girare a una ‘velocità’ maggiore a quella a cui girava prima. Solo questo. Quel malessere, sebbene io lo attribuissi a tutt’altre cause, non era altro che il mio cervello che chiedeva alla mia mente di funzionare a pieni giri, di ingranare la settima. E a quella velocità, tutti i pensieri che mi avevano rattristato erano spariti, per il solo motivo che non erano in grado di girare a quella velocità, non c’era sufficiente ossigeno per loro.
Vedete attraverso quali imperscrutabili vie possa a volte provenire il benessere mentale. Strade che, penso, nessuna psichiatria, di nessun orientamento, ha mai preso in considerazione. Ho il sospetto che a volte la mente degli psichiatri giri troppo lentamente per sintonizzarsi con la mente di certi pazienti. Un consiglio: riavvolgete il nastro di ciò che vi dicono i vostri pazienti e fatelo scorrere a velocità molto ridotta. Ovviamente non voglio certo sostenere che questo risolva i problemi della salute mentale, voglio solo dire che la psichiatria, e sì, vogliamo essere magnanimi, anche le psicoterapie, sono lontanissime dall’occuparsi di tutti gli aspetti che hanno attinenza con la salute di coloro di cui debbono occuparsi.

Emozione: stupore. Un’amica mi ha recentemente rimproverato per il fatto che non parlo in continuazione dicendo un cumulo di sciocchezze una dietro l’altra, che sembra sia la cosa che preferirebbe. Ma i pensieri davvero significativi, quelli che possono per me fare la differenza, in un dato istante della mia vita oscillano tra 12 e 18, non uno di più, forse qualcuno di meno. Sono solo questi pensieri, queste parole, che possono realmente fare la differenza tra l’essere spiritualmente vivo e l’essere spiritualmente morto, tra l’essere in contatto diretto con il mio vero fondo, con ciò che mi costituisce, con ciò che effettivamente sono (che niente ha a che vedere con Es, inconsci, subconsci e fanfaluche del genere) e l’esserne invece escluso: irrimediabilmente straniero in casa propria. E domani, o magari tra tre minuti, le parole significative saranno altre: è un’arte difficile quella di saper pronunciare le parole giuste che, forse, solo tre o quattro persone, nella storia della nostra specie, sono riuscite a padroneggiare compiutamente (l’ultimo, a quel che mi riferiscono fonti bene informate, è deceduto circa 32.000 anni fa, e aveva una deformità al dito mignolo).
Tutto il resto è vano chiacchiericcio. E in questo Universo, che non brilla certo per clemenza, ciò che è vano, è dannoso, molto dannoso, estremamente dannoso. E sono pronto a scommettere che anche per quest’amica le parole importanti non sono più di tante. Ma bisogna pronunciarle. Necesse est. “Marta, Marta, tu t’inquieti e ti dai pena di troppe cose, quando bastano poche cose. Maria infatti ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta. ” (Vangelo secondo Luca, X, 41-42).

Emozione: gioia. Profonda, ma profondamente serena e rilassata. Leggevo proprio qualche giorno fa “Il caso di Ellen West” del noto psichiatra fenomenologo Ludwig Binswanger. Scriveva il buon Ludwig al marito di una sua paziente (Ellen West, per l’appunto): “Ho naturalmente atteso di giorno in giorno una sua lettera, e mi sono tranquillizzato quando l’ho letta”. Qual mai buona notizia recava la lettera? Che Ellen West si era suicidata! Non scherzo: un profondo senso di sollievo ha invaso il marito, e tramite lui lo psichiatra, quando ha capito che le atroci sofferenze psichiche della moglie erano finite, e tra l’altro erano finite in maniera mirabile: il marito descrive a Binswanger, con dovizia di particolari, l’ultima giornata della moglie, trascorsa serenamente, mangiando, lei che era anoressica, cioccolatini e uova di Pasqua, leggendo poesie di Goethe, Rilke, Storm e Tennyson, passeggiando mano nella mano col marito in giardino. Serenamente, perché finalmente scorgeva la fine del suo lungo patire.
Non mi aspetto certo che l’umanità vada incontro a una fine così indolore, ma mi piace credere che il Padreterno, come Ludwig Binswanger, proverà un grande senso di sollievo quando apprenderà che la specie umana è finalmente riuscita a suicidarsi, anzi un sollievo ben maggiore: un terapeuta non crea i propri pazienti dal nulla (almeno credo, ma la cosa andrebbe approfondita), un dio sì. Ma se si tratta di un dio olimpico, non se ne cruccerà più di tanto e si limiterà a dire: “La prossima volta lavorerò meglio.” Mi prenoto sin d’ora per la prossima creazione. Come vedete sono un vero ingenuo: mi ostino a comprare i miei universi dallo stesso piazzista di universi usati, che già mi ha imbrogliato una volta.

Emozione: rabbia. Sempre su Ellen West. Com’è caduta in basso la psichiatria odierna: è vero che nel giuramento di Ippocrate sta scritto: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale”, ma è altrettanto vero che non vi sta scritto: “Giuro di mantenere i miei pazienti in uno stato di sofferenza perenne”. Se potete fare qualcosa fatelo - ma subito! - se non potete, lasciateli andare in pace, buon Dio! Dovunque andranno non potranno stare peggio di quanto stiano qui. Sia gloria a Biswanger, che queste cose non solo le pensava, ma aveva il coraggio di scriverle.

Emozione: incredulità. Mi è caduto l’occhio su una frase di un articolo di quattro psichiatri bolognesi, che per carità di patria non cito (a dire il vero è un articolo di molti anni fa): “Hofmannsthal scrive la Lettera di Lord Chandos nel corso di una grave crisi esistenziale che non ci sembra azzardato interpretare come testimonianza diretta di uno scompenso di matrice psicotica”. A prescindere dal fatto che, come scriveva benissimo Gilles Deleuze: “Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi, non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso” (Critica e clinica), comunque, se prendessimo per buone le parole dell’articolo, dovremmo concludere che gli schizofrenici sono le uniche persone sane di mente che si trovino in giro. Purtroppo non è vero: gli schizofrenici non comunicano con il proprio fondo più di quanto ci comunichino le persone sane, cioè molto poco, solo che vi comunicano in modi diversi. Per gli uni e per gli altri resta lontanissimo dal realizzarsi l’auspicio di Martin Heidegger: “Noi non vogliamo andare avanti, vorremmo soltanto ci fosse dato di giungere là dove già siamo”.
Il sentire di Lord Chandos è l’unico atteggiamento sensato di fronte a un linguaggio incapace di dire ciò che davvero conta, e a un mondo che, viceversa, parla un linguaggio che ha molte cose da dirci. Come possiamo dimenticare che nel momento in cui la specie umana (o quelle da cui discende) si sviluppava, il mondo, con i suoi pericoli e le sue opportunità, era già là fuori, allora come oggi, ma del linguaggio non v’era traccia. È ovvio, allora, che il celebre annaffiatoio di Lord Chandos abbia molto più da comunicare di una conferenza di Albert Einstein, per chi sia disposto a mettersi all’ascolto (vedi il mio articolo L’annaffiatoio di Lord Chandos sul numero del maggio 2013 del Faro).

Emozione: insofferenza. Verso la coscienza, la mia e quella di chi mi circonda, che percepisco sempre più chiaramente come una grave malattia, ‘la’ malattia tout-court dell’essere umano. Un incidente di percorso nello sviluppo della specie umana, che sarebbe stato meglio, molto meglio, non fosse accaduto. La coscienza è una malattia grave, che provoca danni irreparabili al mondo (che siamo a un passo dall’annichilare coi nostri armamenti e con i mutamenti climatici da noi indotti) ma soprattutto a noi stessi. Né mi convincono coloro che sostengano che essa sia un costrutto che in qualche modo poggia su qualcosa di sottostante (in termini psicoanalitici potremmo parlare di un Io o un Super-Io che si poggiano sull’Es). Il problema e che non c’è alcun fondo su cui poggiarsi. È come sostenere che le schiume del mare si appoggiano sul mare sottostante, apparentemente può sembrar vero, ma cosa significa realmente, visto che il mare sottostante è in perenne mutamento e ciò su cui l’onda si appoggia è sempre diverso? Il mare e le sue schiume sono ugualmente mutevoli. Riuscire a spiegare l’uno in base alle altre appare probabile quanto svuotare quello stesso mare con un secchiello. Non servirà a molto, ma prima di tutto occorre che la coscienza si decida a comprendere, ma a comprendere veramente, interiormente, intimamente, che si trova solo in affitto, in questa dimora che chiamiamo ‘noi’. L’autentico padrone di casa è un altro. E se la coscienza, atteggiandosi a reale padrona della dimora, rifiutasse di pagare puntualmente la pigione, l’unica cosa che otterrebbe è di venir sfrattata dalla vita.

Emozione: perplessità. A distanze di tempo più o meno lunghe torno a interrogarmi sul millenario problema se occorra giungere agli altri (al nostro prossimo, secondo il termine evangelico) attraverso Dio, o giungere a Dio attraverso gli altri. O In termini più terreni: se occorra incistarsi nel proprio ‘fondo’, nel proprio essere più autentico, e di lì riuscire a istituire un collegamento con l’essere più autentico gli altri, oppure cercare di scrutare gli altri, con sguardo indagatore, per scorgere cosa ci accomuna nel profondo e dedurre quindi da cosa questo profondo sia costituito. Indubitabilmente, dal punto di vista storico, la seconda possibilità e stata di gran lunga la più seguita, peraltro con scarsissimi risultati, ma francamente nutro i miei dubbi che si tratti della strada giusta. Chi deduce e chi è dedotto? Io percepisco molto più prossimo al mio sentire le parole che Porfirio rivolgeva a Marcella: “Ma nella purezza tu potrai soprattutto raggiungermi, presente e unito con te, notte e giorno, nella forma più pura e indissolubile dell’unione e senza che io possa essere mai separato da te, se ti eserciti a rientrare in te stessa”.

Emozione: delusione. Per la profonda vanità della Scienza. Vanità delle vanità, tutto è vanità. Gli scienziati lasciano come eredità a coloro che li seguiranno qualche informazione su come manipolare il mondo (ad essere sinceri, allo stato attuale, davvero pochine), ma nessuna informazione su come manipolare noi stessi. Come diceva Dilthey: il mondo fisico lo ‘spieghiamo’, ma la vita dell’anima la ‘comprendiamo’ (vado a memoria).

Emozione: imbarazzo. Devo fare una confessione: a volte per favorire il mio processo creativo, ascolto in maniera ripetitiva e quasi ossessiva una data musica: la mia mente entra in sintonia con questa musica, e l’articolo fluisce molto più naturalmente e liberamente. C’è chi si fa di anfetamine e chi si accontenta di un sottofondo musicale. Ma non è questa la cosa imbarazzante. Imbarazzante è il fatto che questa volta come musica di sottofondo abbia scelto (o meglio: è lei che ha scelto me) la canzoncina Sei una bomba cantata da Viola Valentino (1980). Non Claudio Monteverdi, non Arcangelo Corelli, non Johann Sebastian Bach, ma… Viola Valentino. Questo per dire che è assurdo fare gli snob, perché non potremo mai sapere anticipatamente cosa potrà tornarci utile e cosa no (mi perdonino Claudio, Arcangelo e Johann, che comunque venero; vorrà dire che per farmi perdonare accenderò un cero sotto il loro altarino).

Emozione: sollievo (terminiamo dove avevamo cominciato). Sollievo per aver terminato quest’articolo. “Interrompiamo momentaneamente questa trasmissione per questa comunicazione tra fratelli. Cambiate canale, cambiate televisione. Cambiate Stato, andate via, chist'è già preso. ” (Corrado Guzzanti, Il caso Scafroglia).

EMOZIONE/I

   Augusto Mocella


P rendo spunto da un suggerimento di Luigi Zen che mi ha ricordato un episodio importante della mia vita. Ho avuto una forte emozione quando mia moglie mi ha comunicato con un SMS che stavo diventando nonno.
Mi trovavo allora a una festa di compleanno per i cinquant’anni di un amico di Edoardo, eravamo forse più di cinquanta persone a una tavolata in una pizzeria. Poiché il festeggiato aveva un microfono e ringraziava i convenuti per la loro partecipazione, intrattenendo i vari gruppi, in un momento di pausa io, che sono un tipo piuttosto riservato, mi sono lasciato prendere e gli ho chiesto di avere il microfono per poter comunicare a tutti la notizia, a cui è seguito un grande applauso. Penso che sapere di diventare nonno per la prima volta sia molto emozionante, e lo stupore si rinnova nel vedere una piccola creatura crescere e diventare una persona con tutti i pregi e difetti di ogni uomo.
Ci sono altre emozioni che ricordo bene, ad esempio il mattino che mi sono trovato in piazza Maggiore all’arrivo della salma di Lucio Dalla. Il feretro era seguito da una colonna di persone che si allungava da via D’Azeglio verso l’androne del Comune. La piazza, pur sempre viva, era come se per un attimo si fosse fermata per dare un saluto a colui che ne aveva rappresentato l’anima. Non si sentiva un rumore, e questo mi emozionò molto.
Ricordo un’altra emozione provata in Piazza Maggiore nel 2018: dei cantanti di strada suonavano un pezzo di musica brasiliana che mi piaceva ascoltare negli anni Sessanta, Orfeo Negro, di una struggente malinconia. Quanti ricordi e quanta nostalgia mi hanno portato quelle parole e quella musica!

L’EMOZIONE

   Anonimo


L’emozione è qualcosa di impalpabile, può essere positiva o negativa, io la assocerei agli stati d’animo, ma, per non farsi trarre del tutto in inganno, può essere anche qualcosa di più concreto, come l’empatia, l’amore, la solidarietà.
L’emozione non ha voce”, cantava Adriano Celentano in una canzone dei primi anni 2000, io aggiungerei che se ne può solo parlar bene. Può causare pianto o commozione, ma è qualcosa di più complesso, che si può spiegare solo vivendolo. Dal mio punto di vista, più uno prova emozioni, più la sua personalità si forma e raggiunge livelli di alto rango, permettendogli di essere divertente, loquace, allegro, spiritoso e di sdrammatizzare così su un mondo che ormai è sempre più lontano dal suo sole…

MA COSA SONO LE EMOZIONI?

   Mariangela



Le emozioni sono l’espressione dei nostri sentimenti. Possono essere negative, quali la tristezza, la paura, la rabbia, la solitudine e il dolore, che a lungo andare possono determinare condizioni di stress cronico e innescare una spirale negativa. Diversamente le emozioni positive, quali la gioia, la serenità, l’altruismo, l’appagamento, la gratitudine, sono in grado di attivare risorse personali sul versante fisico, sociale e psicologico. Più si coltivano le emozioni positive, più si combattono i loro opposti.
Le emozioni sono presenti fin dalla nascita dell’individuo, si possono distinguere in semplici e complesse. Le semplici, come la gioia, la paura, la rabbia, la tristezza e il disgusto sono quelle che si manifestano fin dai primi giorni di vita, quelle complesse compaiono dopo il secondo anno di vita e sono espressione della consapevolezza di sé e degli altri, quindi della socialità. Tra queste troviamo la vergogna, l'orgoglio, la colpa e la gelosia. È compito dell'adulto insegnare ai bambini a differenziarle e successivamente a manifestarle nel modo più appropriato. Una vera consapevolezza degli stati affettivi si sviluppa in seguito a una maggiore conoscenza di sé e degli altri e aumenta maggiormente nell’adolescenza, grazie alla nuova maturazione cognitiva. È proprio per questo che le emozioni nella vita assumono un ruolo sempre più importante. Durante l’adolescenza avvengono grandi cambiamenti soprattutto quelli corporei che hanno profonde risonanze emotive nell'adolescente che le vive. È una fase importante per le ragazze e i ragazzi, che devono sviluppare caratteristiche e potenzialità da adulti. Osservazione e dialogo possono rendere questo passaggio proficuo e meno rischioso per tutti. Anche la conquista dell'indipendenza spesso non è percepita nel modo più giusto, gli amici diventano sempre più importanti e la relazione con i genitori a volte diventa difficile. Molti cercano emozioni nuove e forti nel divertimento. Nella società di oggi uno dei maggiori divertimenti è frequentare le discoteche, solo che a volte i ragazzi presi dalla voglia del divertimento perdono di vista il rischio che si corre nel fare determinate cose.
Alcuni preferiscono ubriacarsi o assumere sostanze, tutto questo perché, come dicono loro, vogliono godersi la vita, in questo modo il divertimento può trasformarsi in rischio. Ci sono giovani che hanno perso la vita solo per aver bevuto e aver guidato l’auto a forte velocità in stato d'ebbrezza. Frequentare sane amicizie può recare gioia e praticare qualche sport può essere divertente e appagante. Che dire agli adulti? Fare esperienze di emozioni positive vuol dire migliorare la nostra capacità di apprendimento, ampliare la varietà del pensiero, diventare più creativi, vedere maggiori opportunità e migliorare il legame emotivo con gli altri. Percepire le emozioni degli altri aumenta l’autostima, ci si sente considerati, amati, apprezzati e sostenuti. Inoltre rivolgendoci maggiormente agli altri pensiamo meno a noi stessi. Se i depressi si ripiegano su sé stessi alimentando sentimenti di solitudine e tristezza, l’altruismo, la gratitudine, l’affetto incoraggiano ad aprirsi agli altri migliorando il proprio benessere. Il benessere emotivo è legato allo stato di salute in modo assai marcato e questo legame aumenta con l’aumentare dell’età. Sembra che la salute fisica e il benessere psicologico s’influenzino a vicenda: più ci si sente bene fisicamente più si è contenti.
La predisposizione personale a provare emozioni positive porta a vivere in modo meno negativo i problemi fisici e permette di raggiungere anche fisicamente le principali fonti del benessere psichico. È comune pensare che la gioia e la felicità appartengano alla giovinezza e la tristezza alla vecchiaia, oppure che i sentimenti degli anziani siano prevalentemente dolorosi. Personalmente non condivido questo concetto! Ci sono anziani che coltivano interessi e svolgono attività gratificanti che stimolano in loro emozioni positive. Avendo disponibilità di tempo libero si dedicano al ballo, al canto, alla lettura, alla scrittura, alla pittura oppure preferiscono ascoltare buona musica o accudire i nipotini o semplicemente passeggiare nel parco e ammirare un bel tramonto. Una capacità lodevole che mostra quanto sia importante ricercare emozioni positive che possano influire sul nostro stato d'animo e rendere piacevoli anche gli ultimi anni della nostra vita.

PENSIERO PROFONDO, ANZI SUBAQUEO

   Lu Zen pass

A volte nella vita può succedere che gli uomini si accorgano di aver fatto un buco nell’acqua e cerchino di correggere sé stessi per non ripetere l’errore.
Invece i pesci nella vita fanno costantemente buchi nell’acqua…

L’EMOZIONE E LO ZEN

   Lu Zen pass


D i emozioni ce ne possono essere due tipi principali, come per la memoria, che c’è quella delle cose materiali o razionali e quella dei legami o sentimenti; un esempio di emozione materiale può essere, per qualcuno, quella di vincere una medaglia d’oro, che viene accompagnata anche da una sorpresa. Un’emozione d’amore o dei sentimenti è quando si è coinvolti in un’intesa emotiva inaspettata, il che causa un’emozione secondo il temperamento; le emozioni possono creare in noi un’alterazione che dura pochi secondi e si manifesta in noi in diverso modo. Un esempio di emozione affettiva è quella di quel padre che diceva che si sentiva emozionato nel sentire al telefono suo figlio, che per vari motivi non poteva vedere e sentire spesso, e che nel frattempo stava cambiando la voce, perciò faceva fatica a credere che fosse lui…
Ci sono psicologi che raccontano che si può diventare rossi per emozione. Io a loro domanderei se diventano rossi anche i neri, per vedere se diventano rossi nel dirlo.

ALI

   Annamaria Pareschi


Da anni vorrei avere le ali… Per essere più libera da questo corpo che mi condiziona… Vorrei volare ovunque per sentire il batticuore nel vedere tanti luoghi stupendi che ancora mi sono sconosciuti…
Adoro il mistero del deserto con le sue dune che si spostano al vento come le onde del mare… Vorrei essere là quando finalmente piove e lasciarmi bagnare da questa pioggia benefica che fa fiorire in un solo giorno il deserto come il giardino dell’Eden. Ai miei occhi questo è un miracolo infinito… Le ali restano agli angeli… a me non sono spuntate… ma ho tanta fantasia che mi fa volare…

MILANO 1974

   Matteo Bosinelli


in quell'anno che tre ragazzini di La Spezia (Riccardo, quindici anni, Mauro, quattordici anni e il sottoscritto, dodici anni), riuscirono a vincere a Milano un impegnativo torneo a squadre juniores di scacchi.
Particolarmente emozionante fu l’ultimo turno, in cui noi spezzini dovevamo vincere 3-0, e cioè ciascuno la propria partita, senza concedere neppure un pareggio agli avversari (altrimenti saremmo arrivati secondi).
Il primo successo fu di Riccardo (che era un autentico talento naturale), quindi vinse Mauro (con cui son rimasto legato da un bel rapporto amicale).
Rimanevo io, e dovevo vincere... Ero emozionatissimo, anzi, credo proprio che il momento più emo-zionante della mia vita, sino a ora, sia stata quella manciata di secondi che precedettero la mia mossa vincente.
Mi alzai in piedi, mi risedetti, non potevo sbagliare, mi alzai ancora e feci la mossa: non scorderò mai il sorriso rassicurante del nostro capitano non giocatore, che si allontanò tranquillo.

  IL TESTO NON HA EMOZIONI, MA…

   Darietto


C on l’avanzare progressivo dei social network (Facebook, Instagram, Whatsapp, Pinterest e molti altri ancora), quando ci si parla senza che l’altro veda il tuo sguardo e, quindi, non sa che cosa stai provando in quel momento, ci si può imbattere in sgradevoli situazioni.
Se provi, ad esempio, con un messaggio su Whatsapp, a mandare a un tuo amico il seguente messaggio: “Ma va a cagare!!!”, in un contesto di simpatia, lui può non capire che in realtà stai solo scherzando e pensare che tu sia arrabbiato con lui.
Molto spesso ci si può imbattere in situazioni del genere, se il testo è ‘senza condimento’, cioè lasciato in balia dell’interpretazione di chi vedrà il messaggio. Se invece il messaggio è ‘condito’ da immagini espressive delle tue emozioni, chi lo leggerà non potrà altro che capire ciò che volevi trasmettere emotivamente: questo compito è affidato alle faccine, dette anche emoji o emoticon. Recentemente, è anche uscito un bellissimo film d’animazione intitolato “Emoji - Accendi le emozioni”, che consiglio a tutti di vedere.
Nell’esempio che ho fatto prima, sarà ben diverso se a fianco del messaggio: “Ma va a cagare!!!” ci sono tre faccine che ridono :D :D :D o tre faccine incazzate :C :C :C; il tuo amico, vedendo le tre faccine che ridono capirà che stai scherzando, altrimenti capirà che non sei più in un momento scherzoso, anzi…
In un numero scorso del Faro, precisamente sulla “comunicazione”, a pagina 17, nell’articolo “Le dolcissime faccine” ho parlato appunto del ruolo importante delle emoticon, sia per la comunicazione che per le emozioni che se ne ricavano, in quanto quando leggi un testo, questo non ha sempre un determinato tono (simpatico, buffo, incazzato e così via) a meno che non lo presupponga già il contesto o, meglio ancora, non lo dica espressamente la persona che scrive. Ad esempio, se è scritto nel testo: «Lucia piangendo disse alla sua mamma: “Va bene, ora vado a letto”, e andò a nanna», si capisce benissimo che il tono della bimba è triste; diversamente se troviamo: «Antonio voleva dare un compenso a Dario per aver lavato i piatti. “Ma va a quel paese!”, rispose Dario», non si sa se Dario stesse scherzando amichevolmente o al contrario si fosse offeso per la proposta.

  BUONGIORNO

   Marcella Colaci


Cielo, oh cielo... buongiorno a te, a voi, al mondo... donami l'essenza, l'estasi, la stanza dei sogni anche in questo giorno che brucia, finirà nella noia del tempo che passa... Colorami!

  SCAMPAGNATA AL PODERE CANOVA

   Eva (a nome del Centro “Stella” Bologna)


21 settembre 2018

Alla mia tenera età, mi sento a repentaglio
a fare un brindisi qui al Ventaglio,
veramente un posto bello, ameno, eccezionale,
che al mondo non ce n’è uno uguale.

Polvere in raggi di Sole

   Piergiorgio Fanti


Il risveglio è un sussulto
una fuga dall’antro

Ma poi, la mattina scorre
leggera e magica
come polvere
in raggi di Sole

Sole
che dalla finestra
attraversa la stanza in un sorriso
forse ignaro
che anche oggi
la guerra, orribile e putrida
stravolge
le trame dell’eternità.

Quando

   Elena Baragatti


Quando io ti guardo
non capisco più nulla…
… ma…
Quando tu mi guardi
capisco di più tutto!

Dono

   Elena Baragatti


Tu dai sollievo ad ogni piaga col tuo sorriso…
Tu non hai alcuna piega su tuo viso…

Anima pura

   Elena Baragatti


Il tuo viso
è così tanto
pulito e candido,
come un fiocco di neve
ancora immerso e sospeso
nell’aria…

Grande sinergia

   Piergiorgio Fanti


La solitudine ti confonde la via
in due è grande sinergia.

La solitudine interiore
è tutto il contrario dell’amore.

La solitudine è spaventosa
come una passerella fortemente corrosa.

È il buio oltre la porta
ti senti una foglia morta.

Un uccellino caduto dal nido
un nodo alla gola strozza il grido.

Un sogno nato morto
e sembra tu abbia sempre torto.

È come un lucchetto chiuso a chiave
non ci sono più persone sagge, brave.

Quando sei solo
anche se divori un buon piatto di minestra
ti prepari ad un salto dalla finestra
anche se ti mangi un’energetica bistecca
sei proprio certo di far cilecca
e se assaggi delle deliziose patatine
pensi lo stesso che sia prossima la tua fine
se gusti una succosa pera
è certo che per te è subito sera
e per ultimo, anche se bevi un fresco bicchier di vino
ti sembra esser caduto dal motorino.

Sognava di fare la modella

   Piergiorgio Fanti


Dà un’emozione sfilare
proprio come amare
la Patrizia era tra i belli e i buoni
lei viveva di dolcissimi sogni
coll’immaginazione:
sfilava per il grande Armani
accompagnata da due cani
e sfilava per Versace
con simboli di amore e pace
faceva la modella per Missoni
avviluppata da soavissimi suoni
sfilava per Gucci
al guinzaglio il gatto Pucci
e sfilava anche per Napoleon-Erba
assieme ad un’alta serba
la giovane Patrizia
sfilava elegante per Krizia
calcava la passerella per Moschino
accompagnata da un bel bambino
sfilava per Ferragamo
mettendo ben in evidenza ogni ricamo
e faceva la modella per Valentino
supportata dallo zio Dino
infine colla frizzante zia Luisa
portava le borse della Carpisa.

Nei tuoi occhi

   Annarita Baratti


Nei tuoi occhi c’è lui,
il tuo amore
l’uomo della tua vita la vita in due
lui, la tua felicità
le giornate passate
insieme
e un gelato da gustare
una notte insieme
la complicità
e l’amore
mille cose insieme
poi un cuscino per due
un caffè
una canzone
per ricordare
il vostro amore
acqua nel deserto
sole caldo
un tramonto meraviglioso
e l’aurora del mattino

Sei tutto

   Elena Baragatti


Sei tutto quello che avrei voluto e che desideravo…
Sei tutto quello di cui avevo bisogno e che cercavo…
Sei tutto quello che sognavo e per cui sorridevo…
Sei tutta la felicità!

Passione

   Maurizio Leggeri


Voglio entrare nella tua vita,
voglio entrare nelle tue carni,
voglio entrare nei tuoi ragionamenti.
Voglio far parte del tuo sangue,
voglio far parte del tuo respiro,
voglio far parte del tuo pensiero.

Voglio entrare nel tuo volto,
voglio far parte del tuo sorriso.

Voglio entrare nei tuoi capelli,
voglio entrare nelle tue pupille,
voglio entrare nella tua ombra.
Voglio far parte del tuo vento,
della tua luce, della tua notte.

Voglio entrare nella tua pelle,
voglio far parte del tuo colore
e voglio far parte del tuo calore.

Voglio accomunare le nostre siepi:
che facciano parte dello stesso prato;
la sua erba innaffierò
con l’acqua sorgiva e pura
attinta dalle viscere
della tua terra di carne.

Scoverò il sentiero segreto dell’amore
che conduce al prato sempre verde,
al pozzo mai asciutto,
alla gioventù mai trascorsa.

Poi, un giorno lontano,
quando il tempo, maledetto,
presenterà il conto, purtroppo,
delle sue antiche insindacabili ragioni,
le nostre leggiadre e leggiere figure
resteranno per sempre scolpite
nei raggi del sole, della luna e delle stelle
che, assiduamente visitandoci, un tempo,
splendidamente ci illuminarono
e dolcemente ci forgiarono nell’aria.

Emozioni e natura

   Mariangela


Castelli di sabbia
calpestati,
dal mare giunge
l’odore di salsedine
quando la luna
batte sulle onde
cupe e profonde
e la fiamma
di un falò
rischiara l’ombre.
Suona per me,
chitarra, una romantica
canzone,
per non lasciar
fuggire un amore.
Mille stelle
il ciel punteggiano,
vorrei contarle
ad una ad una
e percepir così
un’emozione!

Pensieri innamorati

   Maurizio Leggeri


Vorrei… rubare luce all’aurora
e trovare la strada che conduce
ai tuoi occhi… al tuo corpo… al tuo animo turbolento.

Vorrei… appropriarmi della notte
e farti dono della luna
… intima amica… della vita serena.

Vorrei… essere il profumo del fiore da te colto
per poterti vedere da vicino
ed esplorare… gli anfratti… dei tuoi desideri.

Vorrei… volare più veloce del vento
ed affrancarti… dai lacci
… che circondano i tuoi pensieri.

Vorrei… percepire il battito delle tue palpebre
e avvolgermi… nella dolce sensazione
…dei tuoi sogni profondi.

Vorrei… allontanarti su tratturi sconosciuti
per offrirti il sentimento del calore coinvolgente
… e poi ricondurti su sentieri antichi
… per congiungere ciò che non può essere diviso.

Vorrei… fossimo domani ancor chi oggi siamo
… per coltivare un sogno
… di rappresentazione delle nostre identità.

L’emozione sommuove il cuore

   Piergiorgio Fanti


Era molto tempo
che non volevo amare
(prospettive ottuse
e dolente ferita).

Allora il buio
ma pensavo che avrei raggiunto
(speranza splendente di vita)
un raggio buono di luce.

Sprofondati in un tetrissimo antro
avviluppati da spire di malattia
ci siamo ritrovati
e ci siamo rialzati
(ci siamo segretamente amati)
e siamo come rinati.

Mi piace pensarti
come allora eri
e quando penso a te
vibro
come un pizzico alla chitarra.

L’emozione sommuove il cuore
così fa l’amore.

Malinconia (Valencia 23 settembre 2016)

   Maurizio Leggeri


Montagne perse
nelle distese valli
senza voce
con le nebbie
che crollano
nei pensieri esausti
senza fine
e i fiori e gli alberi
e gli uomini
stanchi di arrampicarsi
oltre il cielo cupo
troppo alto all’orizzonte
e insieme vivere
con malinconia
l’intreccio sfuggente
tra la natura
e la natura umana…
senza tempo
ma non per sempre.

Essenza

   Elena Baragatti


Prima d’incontrarti
il vuoto mi riempiva,
ora ti conosco e
il pieno mi svuota…

Toc Toc

   Marcella Colaci


Toc toc
batte il cuore
e lascio il ramo cadere
di un improbabile
fantoccio che è la vita
Toc toc
ascoltami
vorrei vederti
sbircio la tua vita
poi scompaio
vivendo di specchi
invecchio eppur la mia mano
vive
Toc toc
indipendentemente
dallo sfiorarci
immergo gli occhi nei tuoi
fino ad estasiarmi
picchio la testa
senza aver capito
la vera distanza che c'è
fra noi
Toc toc
ascoltami, dai
vieni a cercare il mio cuore
Toc toc
giochiamo, dai, è semplice... apri!

Marco

   Marcella Colaci


Marco, adorabilmente.
Adorabili le tue mani
e travolgermi la tua dolcezza
come un fiore che lieve annusi.
Adorabile l'abbraccio
fra braccia silenti
come un delfino nel mare.
Adorabile la voce
che con me fa notte
e canta l'amore.
Adorabilmente fai l'amore
e mi trascini lontana
da ricordi, da discorsi finiti.
Adoro tutto di te
ma so che non c'è da dire
non c'è da fare
se non l'amore..
Così è Marco che del nulla
fa di sé adorabile uomo.

Se sono una donna

   Marcella Colaci


Non vedo sai la strada
è come se gli occhi
si rifiutassero di vedere
è come se l'anima si inaridisse
se l'anima è quel qualcosa che sente
anche se non vede.
Distratta abbraccio l'amica, la figlia, la storia
e mi sento persa nel nulla poi
mi appresto ad adagiarmi
perché nel nulla mi sento ritrovata.
Faccio la strada a ritroso
perché la strada maestra è perduta
eppur la vedo la speranza
di rifare della mia vita una fortuna.
Ho le gambe rotte, l'anca distratta
il filo d'Arianna lo lascio cadere
la favola da bianca a rosa poi nera
mi ha fregata e ingannata.
Faccio quel che posso
senza più illudere me stessa.
Se sono una donna dovrò combattere
se sono una donna voglio giustizia
se sono una donna lasciatemi stare.


Comune denominatore

Qual è il comune denominatore che lega lo Psichiatra, il Prete e il Poliziotto??? La confessione.



La buona famiglia

Rapporti di forza basati sul ricatto, una forma di ‘amore’ che assomiglia più ad un ‘incesto’ (madri e padri flirtano con i figli). Non esiste una reale voglia di emancipazione, ma qualcosa che richiama per lo più all’egoismo di entrambi..



Utenti di serie A, utenti di serie B

Come in ogni comunità, il CSM non è da meno, si fa a gara per stabilire quali siano gli utenti di serie A e gli utenti di serie B. La conseguenza di tutto ciò è prevedibilissima, ovvero quelli di serie A hanno le maggiori attenzioni: il servizio è premuroso e non manca di fornire strumenti di miglioramento dello stile di vita, percorsi di autonomia, i quali però andrebbero verificati ‘seriamente’ e magari con qualche aiuto, un posticino di lavoro… eccetera. Quelli di serie B possono finire ad abitare dentro una cantina per quindici anni, avere una grave patologia ma esser considerati fortunati dall’assistente sociale, la quale si giustifica dicendo che altri non hanno nemmeno quel posto dove dormire. Mi chiedo se in questo caso si dia più attenzione alla patologia, perdendo di vista il benessere della persona. Basterebbe veramente poco per festeggiare il quarantennale della legge Basaglia…



Il potere

Il ricovero volontario è di per sé ammissione di sconfitta… a ogni forma di potere.



Il bandolo della matassa

La questione dei farmaci e della loro assunzione perdurante nel tempo (lo stesso farmaco assunto per anni) è motivo di discussione e diatriba sia tra i medici che tra gli utenti stessi. È ovvio ed evidente che un farmaco non può avere nel tempo la stessa efficacia che sortisce all’inizio della cura, ma diviene spesso strumento di ricatto e di controllo sociale da parte dello psichiatria. Tutto questo ha il sapore di un vecchio modo di fare psichiatria, ma evidentemente più efficace perché più muscolare, con il risultato che spesso i farmaci finiscono in fondo al w.c.
Il tema del ‘complotto’ delle case farmaceutiche riguarda a mio avviso una buona fetta di utenti, i quali lo evocano, non capacitandosi del curioso atteggiamento a dir poco irrazionale dei medici nel somministrare per anni lo stesso farmaco. Il complotto è invece sinonimo di deresponsabilizzazione.



Alta la guardia!!!

L'esercizio dell’emancipazione è uno sforzo quotidiano.



Il giocatore

Come in ogni gioco che si rispetti, quello dell'azzardo è il primo. Il giocatore in fondo è affascinato dal perdere al gioco. Perdere, per poter scommettere a sua volta, ripuntare, vincere per poter perdere e così via. Ovviamente tutto in maniera legale, ('legale' significa 'gestito dallo stato'), come gestito è il supporto che, una volta quasi rovinato, ti concede lo stato tramite lo psicologo che dovrà curarti... eccetera. Tu chiamale se vuoi ‘emozioni’.



A chi non ha parole adeguate

Allo svuotarsi della città, come fosse un immenso colino, rimangono loro i ‘matti’. Momento cruciale per tutti, direi topico: i famigliari li hanno letteralmente scaricati in mano ai CSM perché se ne occupino in loro assenza. Ne conosco uno che, abbandonato dalla famiglia e semi abbandonato dal servizio, non si fida più di nessuno e aiutarlo è praticamente impossibile. Ogni tanto ha momenti di lucidità, mi racconta che il frequentare i ‘malati di mente’ come lui lo rende nervoso... eccetera. Lo conosco da almeno una decina di anni e credo che il frequentare lo stesso ambiente di cooperativa lo porti letteralmente a regredire. Come a ogni persona a cui non è rimasto nulla, la fede in lui ha fatto breccia. È una fede a sfondo miracolistico, a cui ci si affida per guarire dalla malattia mentale. Provo un senso di rabbia e di impotenza, vorrei fare qualcosa, ma lui non mi autorizza, vuole cavarsela da solo e dimostrare che è ‘sano di mente’. Chiaramente soccombendo al volere dell'operatore di turno.



Psichiatri di partito

A volte ti chiedi che tessera abbiano.



Oriente / Occidente

Il passato riaffiora e non è mai qualcosa di tranquillizzante. Farci i conti, diventa una pratica che giornalmente ti assorbe tutte le energie, probabilmente questo momento andrebbe cristallizzato e messo da parte. La foto, fatta con l'autoscatto, in cui eravamo presenti anche noi, deve essere necessariamente riposta in un album e lasciata chiusa in un cassetto, fino a tempi migliori... L'eterno presente fa capolino, chi ambisce all’illuminazione seguirà pratiche orientali.





Lettera aperta

Vorrei sapere se il progetto terapeutico nella sua totalità lo si attiva tenendo conto della persona che si ha davanti (in senso fisico) oppure è una pura astrazione. Accade a volte che uno psichiatra, non avendo più la persona sott’occhio perché ritenuta ‘cronica’, continui in maniera ossessiva nel percorso terapeutico datato magari quindici anni prima, non tenendo in considerazione i cambiamenti.



Lamento esistenziale

So tutto!!! ... Ma non so chi sono.



Ore 4,30 AM

Manuale DSM, bugiardino farmacologico, tutte cose da evitare di leggere se non attraverso il filtro di uno psichiatra. Il dubbio sui lati comportamentali e non solo di alcuni disturbi psichici rimangono. Ovvero: perché dovrei socializzare a tutti i costi con il genere umano? Va da sé che avute esperienze negative, sono meno propenso ad una relazione con il prossimo… Eccetera. Non vi è mai una relazione con il contesto che ci circonda o quello che è stato il passato. L’esistenza in fondo è quello che ci scava il solco.



ALTRO da ME

Come ALTRO da ME un’altalena, uno specchio dove le distanze rimangono ed è impossibile toccarsi. Ho la percezione che sia ‘tu’, in fondo, ciò che vado cercando da tempo, ma in fondo ne ho timore. È forse il tuo ostentato linguaggio irrazionale, non si sa mai se ci sei o ci fai... Ma credo che la cosa che mi terrorizza di più sia la paura che la tua incomunicabilità con il mondo sia anche la mia.



Pollaio sociale

Alcuni sono galli, alcuni polli… Troppi nel dire la loro sul disagio mentale…



L’emozione di provare un EMOZIONE

L'emozione di provare una EMOZIONE, è forse l'ambizione più grande a cui si può ambire. Toccati o no da un disagio psichico, il banco di prova rimane sempre quello di trasformare l’emozione in qualche cosa di più duraturo. Troppo breve è l'attimo che fugge…



L’onda delle Emozioni

Ma è proprio vero che per gestire un “Matto” ci vuole un “Matto” ?



Il delirio

La follia che ti attanaglia non ti dà scampo. Non riuscire ad essere altro che non sia la follia che ti attanaglia rende il tutto molto complicato (vedi complotti dappertutto, non riconosci nemmeno te stesso, figuriamoci i tuoi limiti)… Credo proprio che il punto sia il riconoscimento dei propri limiti, il problema vero…



L’alibi perfetto

Non sai quello che dici, getti discredito nei confronti di persone che credevano di conoscerti, il tuo rapportarti solo con presidenti o presunti direttori fa di te una persona viscida, peggio ancora un paraculo, ma hai un alibi perfetto, che è quello di utente psichiatrico al quale tutto è concesso. Il risultato è che ti ritrovi solo come un cane con la bava alla bocca.



Chiarezza

Retorico, ma non per questo semplice è quello di ammettere prima a sé stessi quello che si è… e forse si potrà progettare una qualsiasi cosa.





Sacrifici umani

Monta la panna… La spirale sta montando con le conseguenze inevitabili che ognuno di noi conosce.






L’eco

Credo in fondo che la questione sia un enorme rimando, tipo grande eco, dove il tutto è costantemente fagocitato e rispedito al mittente.



La guerra a salve

Il vero problema è non credere alle proprie provocazioni... che poi non sono proprio provocazioni.



Lo strillo

Lo strillo del famigliare attira giustamente attenzione... “Così non si può andare avanti, qualcuno deve fare qualcosa, mi sembra di impazzire”… E così via. Ma chi un famigliare non lo ha, cosa deve fare???



Domandone…

Chi siamo? ... con le nostre aspettative?… Chi sono gli altri?... con le loro pretese?... Il tutto, spesso non coincide proprio: mantenere la barra dritta è forse l’unica maniera per sopravvivere…






Chi siamo

In fondo siamo noi, oppure il racconto della nostra vita???



Singer e Schachter: Teoria cognitivo sociale delle emozioni

P er questo numero Cristicchi ha letto per voi un libro che appartiene alla collana Hachette, Capire la psicologia. Si tratta di Teoria cognitivo sociale delle emozioni, di Jerome E. Singer e Stanley Schachter.
Questo libro cerca di rispondere a molti quesiti per esempio: che cos'è l'emozione? Perché ci emozioniamo? E soprattutto: prima mi emoziono nel corpo e poi penso o prima penso e poi mi emoziono nel corpo, ossia: viene prima l'attivazione fisiologica o la lettura cognitiva?
Gli autori sono due psicologi molto importanti, che si sono dedicati alla descrizione analitica degli stati emotivi nell'essere umano e hanno formulato la ‘teoria dei due fattori’, detta anche ‘teoria del juke box emotivo’, che spiega il legame tra attivazione psicologica e cognizione. Secondo questi due studiosi, noi non siamo neutri sperimentatori di emozioni, isolati nel nostro mondo individuale. Siamo persone inserite in un contesto, che ci condiziona e ci determina anche nel modo in cui viviamo le nostre attivazioni fisiologiche. Siamo quindi ciò che proviamo e ciò che proviamo è influenzato dal contesto in cui sperimentiamo ciò che proviamo. Tutti noi proviamo emozioni. La parola ‘emozione’ deriva dal verbo latino emovere che significa ‘scuotere’ o ‘smuovere’. Le emozioni si manifestano grazie a un'integrazione di diversi sistemi fisiologici che si attivano quando le persone si trovano di fronte a situazioni particolari.
Molti psicologi hanno teorizzato sulle emozioni. William James statunitense e Carl Lange danese, hanno elaborato teorie molto simili senza che l'uno sapesse del lavoro dell'altro. Essi volevano combattere la cosiddetta ‘psicologia ingenua’ che, non supportata da alcuna prova scientifica, parte dal presupposto che le sensazioni siano la causa dei cambiamenti che avvengono a livello fisiologico ed espressivo, per cui ridiamo perché siamo felici e piangiamo perché siamo tristi. I due psicologi affermano il contrario e la loro teoria è detta periferica o del feedback: le reazioni somatiche sono la base dell'esperienza emotiva. Si tratta di una radicazione biologica dell’emozione il cui nome tecnico è arousal che comprende i tremori, la tachicardia, il rossore delle guance, ed è l'elemento dal quale si parte per riconoscere un’emozione. James e Lange sono partiti dagli stessi presupposti, ma il primo si è dedicato ai cambiamenti a livello di stomaco, intestino ed espressioni facciali, il secondo si è dedicato alle variazioni di pressione e di frequenza cardiaca. La loro teoria rovescia le convinzioni della psicologia ingenua. Essi indirizzarono la ricerca verso le relazioni tra sistema nervoso ed esperienza emotiva. Qualche anno dopo Walter Cannon spostò il fulcro della ricerca sui processi neurofisiologici che provocano le emozioni. Cannon pensa che le emozioni siano attivate, regolate e controllate dal sistema nervoso centrale e dal talamo. Da qui partono gli stimoli nervosi che causano le espressioni del viso e del corpo, sia gli elementi soggettivi provocati dalla connessione con la corteccia cerebrale. Il talamo diventa la torre di controllo, dotata di un radar per leggere ciò che avviene all’esterno e di comandi che servono al mondo interno per dare un significato all’imput e trasmetterlo all’esterno attraverso la manifestazione fisica dell’emozione. Philip Bard, un allievo di Cannon, ha fatto ricerche che hanno confermato il ruolo del talamo nel processo emotivo.
Già Charles Darwin si era occupato delle emozioni, metteva al loro centro i comportamenti, come risposta per adattarsi all’ambiente fisico e relazionale. Egli aveva osservato che gioia, tristezza, rabbia, paura e sorpresa vengono espressi e interpretati nello stesso modo, non solo da uomini che appartengono a culture diverse ma anche da primati non umani e altri animali. Darwin però non intendeva formulare una teoria delle emozioni, ma piuttosto fornire altre prove a sostegno della sua teoria dell’evoluzione. Secondo lui in tutte le specie le emozioni svolgono le stesse funzioni di adattamento, che possono essere spiegate mediante tre principi: 1) Principio delle abitudini utili e associate: le emozioni si esprimono attraverso atti motori che hanno l'obiettivo di soddisfare dei bisogni base, come salvarsi da un pericolo o accoppiarsi per garantire la sopravvivenza della specie. Con l'evoluzione la loro natura è cambiata, hanno assunto una funzione diversa legata ad aspetti comunicativi o espressivi. 2) Principio delle antitesi: a due emozioni opposte sono associate espressioni facciali opposte che permettono di identificarne il significato. 3) Principio dell’azione diretta del sistema nervoso: l’espressione delle emozioni avviene attraverso precisi movimenti che rappresentano il risultato di una scarica di energia nervosa. Esiste un numero definito di emozioni basilari che sono innate e biologicamente predeterminate.
Paul Ekman, uno dei più importanti ricercatori del Novecento, ha approfondito le ricerche sulle espressioni facciali, giungendo a identificare sei emozioni primarie: collera, disgusto, gioia, tristezza, paura, sorpresa, che combinate tra loro danno vita a emozioni più complesse. Egli pensa che le espressioni facciali che caratterizzano ognuna di queste sei emozioni siano universali in quanto vengono riconosciute indipendentemente dalla cultura di riferimento.
Un altro studioso di questa materia è Robert Plutchik. Egli ha definito le emozioni una complessa catena di eventi, che inizia con la percezione di un dato stimolo e finisce con un’integrazione tra organismo e stimolo stesso. La sequenza racchiude una valutazione cognitiva dello stimolo, l'esperienza soggettiva dell’organismo, uno stato di eccitazione fisiologica, un impulso ad agire e il conseguente comportamento. Secondo questo scienziato esistono otto emozioni primarie presentate mediante coppie contrapposte: gioia/tristezza, fiducia/disgusto, paura/rabbia, sorpresa/ anticipazione. Inoltre egli afferma che non sono importanti solo le espressioni facciali ma anche quelle del corpo.
Discepolo di Darwin, Silvan Tomkins, pensa che le emozioni siano legate alle motivazioni e alle pulsioni, intese come stato di necessità, che spingono l'organismo all’azione. Le emozioni sono innate e funzionano come allarmi, previsti geneticamente per garantire l'adattamento dell’organismo all’ambiente. Carrol Izard, allievo di Tomkins, ha una teoria che nasce dall’analisi comparata delle configurazioni facciali e vocali tipiche di ogni emozione. Le diverse emozioni non hanno origine da una specie di brodo primordiale, ma hanno delle qualità specifiche che permettono di identificarle in maniera immediata. Le emozioni rappresentano uno dei sei sistemi che costituiscono la personalità di un individuo: il sistema omeostatico, che regola i processi di mantenimento in vita; il sistema pulsionale, dal quale l'individuo ricava le informazioni sulla necessità del corpo; il sistema emozionale, che amplifica i bisogni e fa da guida per soddisfarli; il sistema percettivo, che garantisce il contatto con l’ambiente interno ed esterno; il sistema cognitivo, che consente l'elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno e interno; il sistema motorio, che permette l’attivazione di specifiche sequenze comportamentali. Secondo Izard esiste una concordanza biunivoca e innata tra espressioni del volto ed esperienza emotiva.
Le teorie studiate prima degli anni Sessanta, quella ‘periferica’, quella ‘centrale’, quelle degli psico-evoluzionisti, hanno dato l’avvio alla comprensione dei processi emotivi. Ognuno di questi ricercatori però ha scelto di studiare solo un aspetto specifico dell’emozione, per cui non sono riusciti a dare una spiegazione completa ed esaustiva. Negli anni Sessanta del secolo scorso entrano in campo Schachter e Singer, due psicologi statunitensi, che introducono la dimensione psicologica e le emozioni per la prima volta vengono studiate come processo fisiologico. La loro teoria è chiamata teoria ‘cognitivo-attivazionale’ o teoria ‘dei due fattori’, perché spiega le emozioni come il risultato di due fattori, uno di natura fisiologica ovvero l’arousal, cioè lo stato di attivazione diffusa nell’organismo e l'altro di natura cognitiva, cioè i processi mentali per cui siamo in grado di sentire e riconoscere i cambiamenti somatici La teoria dei due fattori parte dal presupposto che le risposte fisiologiche che accompagnano le emozioni informano il nostro cervello che nel corpo è in corso un cambiamento ma non dicono nulla sulla natura dell’esperienza emotiva. La definizione precisa di ciò che ci sta accadendo la ricaviamo nell’ambiente circostante, dal contesto relazionale, dalle nostre esperienze precedenti. Si prova un’emozione nel momento in cui si sceglie un’etichetta cognitiva per definire uno stato diffuso di attivazione fisiologica, al quale diamo il nome di una precisa sensazione. Il risultato è che l’emozione è data da un insieme, formato da un arousal e due diversi processi cognitivi: la percezione dello stato di attivazione e l’etichettatura lessicale. Facciamo un esempio: sono a una festa ma nessuno vuole ballare con me, ho le mani sudate. Se non metto insieme questi due elementi non provo alcuna emozione e invece se creo un collegamento fra le mani sudate e la sensazione di solitudine etichetterò come ansia quello che sto vivendo. Le sensazioni funzionano come juke box: fino a quando non inserisco la monetina non posso ascoltare nessun disco, ma una volta che inserisco la monetina posso ascoltare la canzone che preferisco.
L’attivazione fisiologica è la monetina e la scelta del disco è il processo di valutazione cognitiva. Così, se dico “mi sento il cuore in gola” perché devo operarmi o perché esco con il ragazzo che mi piace, il cuore in gola è l'attivazione fisiologica, cioè la monetina, e la paura di essere operata o la gioia di uscire con il ragazzo che mi piace è il disco, cioè la valutazione cognitiva. Nella maggior parte dei casi esiste una forte relazione fra i due fattori. Seguiamo l'esempio proposto dai due psicologi: immaginiamo un uomo che cammina da solo in un vicolo buio. Appare d'improvviso una persona umana con una pistola. Il riconoscimento di questa immagine provoca nell’uomo sudorazione e tachicardia. Questo particolare arousal sarà etichettato come ‘paura’. Lo stesso accade per le emozioni positive, per esempio uno studente che è appena entrato in una scuola prestigiosa non farà fatica a definire ‘gioia’ l’insieme delle reazioni somatiche che ha sperimentato quando l'ha saputo. Segue un capitolo molto interessante sullo stress. Il termine ‘stress’ è inglese e significa ‘tensione’. Nella comunità scientifica lo stress viene considerato come un precursore di uno stato di disagio e di malessere ed è caratterizzato da ansia, angoscia, dissidio interiore. Secondo Singer e i suoi colleghi, lo stress è un meccanismo che prende forma nella relazione fra individuo e ambiente che lo circonda. In tale processo un evento esterno definito ‘stressor’ minaccia la stabilità e il benessere dell’organismo, che risponde alla percezione della minaccia con una reazione di stress vera e propria, ovvero una costellazione di sensazioni come rabbia, paura, alterazione del ritmo sonno /veglia e inappetenza. In termini generali la nostra vita è un costante adattamento all’ambiente che ci circonda nelle sue componenti fisiche. Le situazioni evolvono armonicamente ma, nel momento in cui il meccanismo si inceppa, il processo viene danneggiato e si verifica sensazione di stress. Le conseguenze di questa percezione hanno una ripercussione sull’esterno il quale risponde a una serie di segnali che se non vengono regolati possono causare un circolo vizioso in cui la tensione aumenta in maniera esponenziale. Rispetto agli stressor la letteratura psicologica ha identificato tre tipi di stress:
1) eventi dannosi che colpiscono intere popolazioni (terremoti, uragani, epidemie, guerre). La peculiarità di questa classe è che le sofferenze sono condivise all’interno della comunità nel suo insieme.
2) eventi negativi che colpiscono un piccolo gruppo di persone, una famiglia, un gruppo di amici, una classe scolastica, come incidenti, lutti e perdite. Mentre di fronte al primo caso le persone possono trovare conforto nel fatto che le difficoltà sono una condizione percepita come generale, in questo secondo caso la sofferenza viene condivisa da un gruppo più ristretto di persone e quindi è possibile che emergano sensazioni di isolamento.
3) eventi fastidiosi nei quali ci imbattiamo quotidianamente, di entità lieve e moderata e di durata temporanea (esami, concorsi, traslochi, cambio di lavoro, inizio di una convivenza). La peculiarità di questa classe di stressor è legata alla dimensione temporale.
Consiglio la lettura, perché l'autore spiega con chiarezza concetti importanti e visioni innovative.




Cari del Faro,
l'ultimo numero della rivista mi è piaciuto moltissimo, dall'inizio alla fine.
Forse è stato il tema, così aperto e stimolante, che ha favorito contributi tanto ricchi, vari e profondi. O forse qualche congiuntura stellare. Ma secondo me è il numero più bello uscito finora. Grazie alla redazione e a tutti quelli che hanno contribuito. Spero che riusciate a continuare. Un carissimo saluto.
Michele Filippi


Grazie, caro Michele, della tua costante attenzione e dei complimenti incoraggianti. Speriamo che il numero più bello sia sempre quello che non è ancora uscito! Baci.


Carissimi, vi scrivo del Veneto. Un mese fa siamo stati travolti dal ricovero di mia figlia [...] che è residente a Bologna da dieci anni. Dopo dieci giorni al reparto di psichiatria [...] di Bologna, mia figlia è stata indirizzata al Centro di Salute Mentale di Viale Pepoli, dove l'ho accompagnata nella prima visita [...] Lì ho preso conoscenza della vostra pubblicazione Il nuovo Faro e ho cercato Fabio Tolomelli in Facebook ma credo che non sia presente. Sono persa, confusa e senza riferimenti. Ho bisogno di scambiare informazioni e ho tanto bisogno di suggerimenti e vicinanza, anche per poter aiutare mia figlia.
Un caro saluto a voi
lettera firmata


Come facciamo di solito in caso di lettere come questa, abbiamo risposto privatamente, ma poi non abbiamo più avuto notizie. Va meglio ora? Lo speriamo con tutto il cuore. Un caro saluto


Attendendo l’uscita dell’ultimo numero, ho inviato alla gentile Concy, l’articolo della prossima edizione. Vi confesso che, anche se mi fa molto piacere scrivere per il vostro giornale, ritengo molto frustrante non ricevere commenti, osservazioni, opinioni, anche negative sui miei lavori. Mi piacerebbe instaurare dei micro-dibattiti, anche via mail, altrimenti…è come fare all’amore, se lo fai da solo…non c’è gusto, non vi pare? Il prossimo articolo è volutamente ‘forte’ e anticonvenzionale… Fatemi sapere cosa ne pensate! Anche un “vai a cagare” va bene, molto più terapeutico del NULLA. Cordiali saluti.
Cesare Riitano


Caro Cesare, la pensiamo proprio come te e approfittiamo della tua sollecitazione per lanciare un appello ai lettori: scriveteci, commentate, criticate!






HO RICEVUTO QUALCOSA

   Mariangela Pezone


D al 2014, che era giugno, ovvero dal giorno che ho scritto questa cosa, mi piacerebbe divulgarla tanto, perché ha un’indubbia provenienza... Ero andata a passeggiare un pomeriggio all’ex Ospedale Psichiatrico ‘Sant’Osvaldo’ di Udine e mentre ero lì da sola ho ricevuto qualcosa, che è iniziata come forte emozione. Uscita da quel luogo, mentre mi recavo a fare il turno notturno in una struttura residenziale per disabilità, ho detto alla collega: “Scusa, scusa, mi assento un attimo”, e sono andata in una stanza con carta e penna. E già direttamente in bella ho scritto questa cosa, che penso che io abbia ‘ricevuto’. Non sempre si ricevono, a volte è tutta farina del nostro sacco, però è risaputo che tanti artisti pittori scrittori musicisti a volte fanno opere mossi da qualcun altro… Il testo è pubblicato in un mio precedente libro, che si intitola Possanza di delicati soffi, edito nel 2014 da Gaspari editore. Sono poesie brevi scritte quando avevo diciott’anni, a parte questa cosa, ultima nel libro, appunto che ho scritto nel 2014, intitolata Il manicomio. A me piacerebbe che fosse divulgata e anche che fosse davanti a ogni cancello degli ex Ospedali Psichiatrici, non perché scritta da me, ma perché racchiude tutto quel che è stato. Come preghiera per i clinici, affinché ogni giorno ricordino, prima di iniziare a lavorare, quell’orrore passato, per migliorare il loro operato, come punto di presenza.





IL MANICOMIO

   Mariangela Pezone


Seduto nella stanza, guardavi dalla finestra chiusa, sigillata - chiusura ermetica di un'impossibile libertà - il fumo che usciva dai camini. In quel contesto ombroso anche il fumo scaldava, più degli sguardi inesistenti e - se vi erano - interamente diretti per dirigere l’opera del demonio. Il fumo diventava scottante fuoco. Bruciava le tue emozioni. Ecco la tua metamorfosi: il manichino chino. A testa bassa guardavi le tue mani: l’unica compagnia. Tutti uguali... la loro triste preghiera, la loro liturgia: il monologo. La tua veste ti ricordava il pensiero di quella follia esteriore, follia appartenente non a te stesso, ma era cosa d’altri... Era l’espressione della follia praticata dall’uomo che si presentava come sano di mente. Quello era, secondo se stesso, il guardiano sano. Tu facevi le veci dell’essere umano: lo straccio. Portavi le veci di te stesso, parlando di un ipotetico terzo, questo perché non esistevi per nessuno e anche tu così, per questo, giorno dopo giorno ti misconoscevi. Quello straccio che indossavi era sempre lo stesso, sia durante il gelido inverno che d’estate. La tua anima ormai era diventata come quel vecchio cotone che indossavi. La parola adesso appassita si ripiegava nel suo contrario: il silenzio. La parola indebolita senza il suo nutrimento, ossia l’ascolto, moriva nelle tue ossa. Il tuo viso, emaciato, non perché denutrito, ma perché spogliato del verbo, del linguaggio e della libera espressione, deperiva... La parola così chiedeva rifugio nella propria sicurezza: l’anima. Il capo dell’ordine era il pregiudizio e quello che sicuramente si sa di conoscere. La previsione era la sua unica tesi nei tuoi riguardi. Quella stessa sua tesi era la chiave per la tua immancabile - adesso - prigionia. Le rughe sul volto ti ricordavano l’andare avanti del tempo, mentre interiormente il disagio era sempre giovane e la situazione immobile esisteva nella disperazione. Unicamente le tue mani conoscevano il tuo viso, toccavano il suo trascorrere nel tempo, perché specchi in quel luogo non vi erano, tutt’al più potevi usare il fondo della bottiglia. Di sovente alzavi lo sguardo per cercare di intuire di che umore erano i normali, ma ti preoccupavi di abbassarlo subito, perché temevi di essere tacitato dalle loro grida, perché giudicato come pericoloso o come ti chiamavano loro: “Quello è il furioso silenzioso”…
Ammaestrare rigorosamente il disagio, cosa ha dimostrato... Guardarsi indietro si può, dove vi è ancora l’emozione a illuminare il dolore. L’orrore ci presenta la sua chiarezza. A noi la scelta se voltare indietro lo sguardo e prestargli attenzione. Se non vuoi osservare allora ascolta. Ascolta perché l’eco di quelle grida permane nel tempo e si lascia assorbire dal momento presente, ma puoi udire se fai attenzione realmente. Procediamo realmente oltre ciò che è stato, perché si è già dimostrato inconsistente per ogni sviluppo umano.






LE NOSTRE EMOZIONI

   Antonietta Maestri

Scondo alcuni studiosi, emozioni come la rabbia, la gioia, il disgusto e la tristezza sono innate e vengono chiamate emozioni di base, emozioni fondamentali perché persistono per tutto l’arco della nostra vita. Man mano che gli individui crescono e iniziano a cambiare gli obiettivi, le emozioni di base vengono sollecitate e vengono a svilupparsi emozioni più complesse come la vergogna, l’imbarazzo, l’invidia, il senso di colpa. Nel tempo le influenze sociali possono modificare in modo sostanziale l’espressione delle emozioni; un esempio è dato da come le madri rispondono diversamente alle emozioni dei loro bambini, ad esempio in base al sesso del figlio. Questi comportamenti asimmetrici possono dar forma a determinate differenze nelle espressioni delle emozioni sulla base di norme culturali, nel caso specifico a stereotipi secondo cui la rabbia sarebbe un’espressione più accettabile nei maschi che nelle femmine. Ma dentro di noi cosa succede quando proviamo un’emozione? I processi attraverso i quali si verificano i nostri stati emotivi, che danno luogo ad un batticuore, al pallore, alla sudorazione, a tutti quegli stati interni che ci fanno sentire emozionati, consistono in una discrepanza di tipo percettivo e cognitivo, tra quelle che sono le nostre aspettative rispetto a una particolare situazione e le condizioni del mondo reale. Dipendono da come valutiamo il significato della situazione specifica. Ad esempio, è un po’ come pensare di andare a forte velocità sui vagoni di un ottovolante: si verificano discrepanze tra le nostre immaginazioni, aspettative e le sensazioni forti che provengono dall’equilibrio/disequilibrio e da altri fattori che regolano il movimento dei nostri corpi nello spazio. Il giro dell’ottovolante sarà piacevole o ansiogeno a seconda di ciò che ci aspettiamo sulla base di esperienze simili; dipenderà dalla nostra percezione di tenere in mano la situazione o di esserne invece dominati. Le emozioni non sono poi meccanismi legati all’istinto, somigliano molto di più a fotografie istantanee che ci danno informazioni sul mondo che ci circonda. È l’imperfezione del mondo che ci spinge ad emozionarci: la nostra mente nota queste situazioni in cui si verifica qualcosa di inatteso, il momento in cui stiamo procedendo verso i nostri scopi viene accelerato o bloccato perché in questo momento un’emozione si manifesta e ci proietta all’evento successivo: se in quel momento una parte del nostro scopo viene raggiunta siamo felici e procediamo verso la tappa successiva con uno slancio emotivo di soddisfazione che viene assimilata dai nostri schemi mentali. Se invece i nostri piani vengono bloccati, si genera in noi una sensazione di inappagamento, di ansia che ci induce ad analizzare la situazione in cui ci siamo calati e i nostri stessi desideri, aspirazioni e scopi: se la lettura dei nostri insuccessi è negativa può derivare un ripiegamento depressivo su noi stessi, una fuga dalla realtà. Anche in questo caso le modifiche al nostro stato interno vengono sentite da noi come un turbamento, uno stato di instabilità conscia o inconscia che dà un significato alla realtà. Questi momenti di difficoltà sono presenti in ognuno di noi e possono mettere a dura prova le nostre capacità di superare gli ostacoli; se un’emozione è dolorosa, con i nostri meccanismi di difesa tendiamo a relegarla in una parte ben nascosta di noi stessi, è per questo che molti dei nostri comportamenti sono diventati automatici e vengono attivati senza riflettere, quasi si mettessero in moto precedendo la nostra volontà. Quando le difficoltà tendono a provocare emozioni negative come ansia, paura, rabbia è molto importante riconoscerle e cercare strategie per farvi fronte, per regolare e ridurre la sofferenza dell’intensità emotiva. Contrariamente a quanto spesso si crede, concentrarsi su compiti faticosi e rilevanti nell’intento di scacciare emozioni negative non è oculato in quanto ciò potrebbe avere ripercussioni su un lavoro che invece richiede attenzione e buona disposizione. Probabilmente lavoreremmo male e alla fine della giornata la nostra emotività avrebbe toni più negativi di prima. Invece è grazie ad una presa di coscienza che possiamo imparare a riconoscere e canalizzare le nostre emozioni. Prenderci il nostro tempo per ragionare sul significato delle emozioni che proviamo ci consente di comprendere ciò che ci spinge ad agire, sulla base del significato di una determinata emozione, del motivo per cui si verifica, per potercene anche servire invece di esserne solo dominati. Fare finta che le emozioni non esistano, negarle o reprimerle per paura, timidezza - molto spesso perché nella vita di tutti i giorni la nostra realtà è imbrigliata in determinati schemi per cui crediamo che prendere coscienza delle nostre emozioni mini quella parvenza di razionalità - significa privarsi di segnali importanti e di conseguenza perdere una parte rilevante di controllo sulle proprie scelte. Prestare attenzione alle proprie emozioni non significa mettere in secondo piano la razionalità e la logica ma anzi significa aprirsi una propria dimensione in cui non ignorare a priori certi segnali che ci consentono di identificare correttamente i nostri stati umorali e i nostri sentimenti e a seconda dei casi e delle necessità di esprimerli e di incanalarli consapevolmente prendendo così la decisone migliore in ambiti diversi della propria vita: da quello scolastico a quello professionale, amicale, amoroso. Le persone eccessivamente razionali invece, troppo rigide e timorose dei propri sentimenti finiscono per sviluppare un rifiuto radicato non solo nei confronti dei propri stati emotivi ma anche di quelli degli altri, con conseguenze negative nelle relazioni sociali. L’intelligenza emotiva è la capacità che ci serve per conoscere noi stessi e ad essere anche ben disposti a comprendere gli altri, a intuire le loro intenzioni e i loro desideri, a percepire il loro umore e le loro reali intenzioni al di la di ciò che possono dire o fare. Ci aiuta anche ad avere maggiore fiducia in noi stessi; dobbiamo essere più consapevoli di quelle che sono le emozioni che ci influenzano positivamente o negativamente, imparando a non subirle e favorendo perciò un’immagine più positiva di noi stessi.








LA CORDATA EMOTIVA

   Maria Lucia Mangini, infermiera CSM San Giorgio di Piano


Sono infermiera a S. Giorgio di Piano e sono la referente aziendale di un progetto PRISMA. Il mio compito è quello di fare da ponte fra le associazioni coinvolte in questa iniziativa e il Dipartimento di Salute Mentale, partecipando attivamente alla progettazione e agli incontri di coordinamento, promuovendo le varie azioni e facendole conoscere all’interno dei servizi. Quando mi è stato proposto di fare la referente ho pensato che sarebbe stata un’importante esperienza per me, perché avrei avuto finalmente l’opportunità di lavorare direttamente con le associazioni. Mi interessava molto anche l’argomento affrontato nell’iniziativa: “Alimentazione e salute mentale”. Oggi si parla tanto di alimentazione (riviste, studi, convegni…), sappiamo che un’adeguata alimentazione interferisce con il benessere psicofisico delle persone. Si sono anche fatte esperienze importanti, sia nelle associazioni che nell’Azienda USL, ma questo progetto ha un taglio nuovo, che vede l’alimentazione come nutrimento non solo del corpo ma anche della mente. Allora, che dire: nutriamoci e purifichiamoci! Proprio da questa esperienza di collaborazione che sto vivendo, ho capito com’è importante creare un clima di rispetto reciproco tra i servizi e le associazioni. Attraverso il programma PRISMA il Dipartimento promuove e supporta i progetti delle associazioni, li sostiene e li finanzia. Solo così si possono offrire alle persone che soffrono di disturbi psichici e ai loro familiari tante iniziative finalizzate al benessere, opportunità che da solo il Dipartimento non può dare. Questo clima di collaborazione è un’aria nuova, un respiro più ampio, mi fa pensare a una similitudine: la conquista di una vetta. Immaginiamo una montagna con dirupi, pendii, vallate. Lo scopo collettivo è di conquistare la vetta. È importante che ogni scalatore abbia un suo equipaggiamento: conoscenza, capacità, volontà. Ma sappiamo che per intraprendere una scalata ci vuole un ‘pezzo’ indispensabile: la corda. La corda protettiva della cooperazione (collaborazione con altri per il raggiungimento di un fine comune) è quella che assicura forza, facilità, entusiasmo. La cordata fornisce infatti a ogni scalatore gli strumenti per compiere un passo, piccolo o grande che sia, e fa sì che questi passi portino collettivamente al raggiungimento della vetta, ove si respira aria nuova. Il PRISMA, secondo me, rappresenta questo, per il Dipartimento.








COMUNICARE EMOZIONI

   Luigi Valgimigli


Ci guardiamo perplessi aspettando la voce di chi saprà
estrarre dal suo cuore una nuova idea che ponga fine a
questi troppi, troppi anni di debole pensiero.
Gabriele Salvatores

N ella serie televisiva Star Trek, il terrestre capitano Kirk e l’ufficiale vulcaniano Spock simboleggiano l’eterno conflitto tra l’intelligenza emotiva (dove le emozioni sono parte dei processi decisionali) e la fredda intelligenza razionale senza emozioni. Vince sempre l’intelligenza emotiva, della quale anche il razionale Spock finisce per riconoscere il valore.
L’idea che l’unica forma di razionalità venga dal cervello, mentre le emozioni che arrivano dal cuore siano irrazionali, è stato per molto tempo oggetto di luoghi comuni come: “bisogna ragionare con il cervello non con la pancia”. Il significante ‘pancia’ (meno nobile di ‘cuore’) rafforza l’idea che le emozioni impediscano un ragionamento razionale. Ma noi Terrestri non siamo Vulcaniani e, oggi nell’era del computer, stiamo riscoprendo la nostra intelligenza di esseri umani che va oltre la logica della matematica binaria e ingloba anche le emozioni. Proprio come avviene nell’Enterprise.
Da alcuni anni il significante ‘comunicazione’ sostituisce sempre più quello di ‘informazione’. I due termini sembrano sinonimi, ma in realtà non lo sono, perché ‘informare’ significa trasmettere un’informazione, un fatto, un’opinione, mentre ‘comunicare’ significa mettere in comune non solo fatti e opinioni ma anche emozioni. Ovviamente c’è un rovescio della medaglia perché, mentre i fatti sono oggettivi e verificabili, le emozioni sono spesso indefinite, soggettive, e possono essere facilmente strumentalizzate in modo mascherato o subliminale per fini pubblicitari o di propaganda politico-economica. La strumentalizzazione più diffusa è quella che fa leva su emozioni forti, come la paura. Basta l’aggettivo ‘clandestino’ per trasformare un emigrante in un pericoloso fuorilegge da rimandare al più presto al suo Paese.
Il ‘mettere in comune’ le emozioni, con le sue potenzialità e i suoi rischi, è un aspetto centrale della moderna comunicazione. Non va sottovalutato il fatto che la comunicazione delle emozioni privilegia la caratteristica umana dell’intelligenza emotiva nei confronti della fredda intelligenza artificiale dei robot. Ma il bombardamento di messaggi gestiti da professionisti che studiano a fondo i meccanismi inconsci del cuore e del cervello umano è un segno dei tempi da tenere sotto controllo. Senza un’adeguata consapevolezza da parte dei media e dell’opinione pubblica, corriamo il rischio di un futuro paragonabile a quello raccontato nel capolavoro di Orwell 1984 dove il Grande Fratello costringe ogni giorno i cittadini a partecipare ai ‘due minuti dell’odio’. Questi pensieri sulle emozioni mi sono venuti alla mente l’ottobre scorso mentre visitavo la mostra del Collettivo Artisti irregolari alla Sala Ercole del Palazzo d’Accursio, sede del comune di Bologna. Poco prima, a casa, mi ero soffermato su un canale televisivo dove lo speaker di una galleria d’arte moderna presentava un quadro astratto in vendita, senza dire una parola sui pregi artistici e sulle emozioni trasmesse dall’opera. Cercava piuttosto di convincere i telespettatori che questo quadro era un buon affare: “Invece di investire i vostri risparmi in BOT che sono in calo, investite in un quest’opera il cui valore economico è destinato a triplicare entro un anno”. È giusto che un’opera d’arte venga valorizzata anche economicamente, ma non mi entusiasma l’idea di un quadro che, anziché essere appeso alle pareti di un appartamento o di uno studio, venga chiuso in una cassaforte insieme ai BOT. Ho spento la televisione, sono uscito e poco dopo ho raggiunto la Sala d’Ercole.
Pur nella loro diversità, i quadri esposti mi hanno fatto riflettere sulla straordinaria capacità degli artisti di creare e trasmettere emozioni.
Qualcuno ha scritto che l’arte è un tentativo di dialogo con il divino ma, mentre osservavo le opere, ho percepito piuttosto un dialogo umano che parte dal bisogno insopprimibile di dare forme e colori alle proprie emozioni per metterle in comune con quelle di altri esseri umani. E ho concluso che, oltre ad emozionarci, esposizioni come quella del Collettivo Artisti Irregolari hanno anche il merito di ricordarci che le emozioni sono parte integrante della comunicazione umana e non devono mai essere né soffocate né strumentalizzate.

PAURA

   Luca G.


Una delle tante emozioni è la paura. È un sentimento che proviamo quando c’è qualcosa che percepiamo essere un pericolo imminente, o una prospettiva che non ci piace. Sentiamo paura quando appare qualcosa che ci angoscia, ci spaventa, da cui non riusciamo a togliere lo sguardo o l’attenzione e che vorremmo che sparisse dalla nostra vista, tanto ci infastidisce. Chi ha timore di qualcosa e soggezione di qualcuno, ha paura quando lo vede apparire, che sia all’improvviso o meno. Talvolta non c’è neanche bisogno che ci sia fisicamente la cosa o la prospettiva che temiamo, ci basta anche solo pensarla che alla fine la paura ci viene. Addirittura la paura può essere palese a chi ci sta intorno, la manifestiamo non solo con un’espressione facciale spaventata, ma anche scoppiando a piangere o con un tremito del corpo o di una parte di esso, di solito le mani. La paura si può anche tramutare in panico: la prima la si prova quando un’idea spiacevole come l’avvicinarsi di un delinquente o lo scoppio di un incendio è solo una teoria, una cosa che sta dentro la nostra testa, al massimo un pericolo facile da affrontare. Ma quando il delinquente ci aggredisce o l’incendio scoppia oppure si espande all’improvviso, dalla paura si passa al panico, perché la cosa per cui si prova timore si è avverata. E il panico è davvero difficile da gestire, chi opera come pompiere, soccorritore o addetto alla sicurezza lo sa meglio di chiunque altro. Una musica lugubre, un’inquadratura scioccante, un ricordo traumatizzante possono essere cause delle nostre paure, ricorrenti e non.
Io per esempio ho paura dei cani, e questo perché quando avevo un anno e mezzo ai giardinetti vidi una pallina che stava venendo verso di me, la raggiunsi per raccoglierla e poco dopo vidi un enorme pastore tedesco che stava per saltarmi addosso. Mia madre che era presente già dava per scontato che sarei rimasto sfigurato o peggio e il padrone del cane la sgridò pure, perché a sua detta non aveva fatto abbastanza attenzione a me. Io non rimasi sfigurato o morso da quel cane, ma il danno era già stato fatto. Da allora, a parte qualche eccezione, io divento teso ogni volta che vedo un cane di qualsiasi razza.
Non quando ne vedo uno in foto o in televisione, sia ben chiaro, ma dal vivo sì: quando sono per strada e ne vedo uno percepisco una sensazione di pericolo, mi si risveglia il trauma che ho subito da piccolo e quindi mi torna in testa la paura che il cane che mi trovo davanti, qualunque sia la razza o dimensione, possa saltarmi addosso da un momento all’altro. E in effetti è successo qualche volta che un cane, sentendo la mia paura, mi si sia scagliato contro, poggiandomi le zampe sulle gambe o abbaiando forte, attirando l’attenzione dei padroni, che prima calmavano o sgridavano gli animali, e poi calmavano me e si scusavano.
Un mio zio e le sue figlie avevano un cagnetto nero e ricciuto di nome Crispino, ogni volta che andavo a trovarli abbaiava così forte e mi correva incontro che mi preoccupavo di non potere entrare in casa. E anche se può sembrare strano, non mi fanno paura solo i cani grossi, quelli da guardia, ma anche quelli piccoli e che non se ne stanno quieti, come i barboncini o i chihuahua, che sono arrivato a considerare una versione grottesca dei topi, visto l’aspetto fisico che si ritrovano. Grandi o piccoli, tranquilli o aggressivi, tutti i cani hanno una caratteristica: scattano all’improvviso, e quando meno te l’aspetti ti potrebbero anche affondare i denti nella gamba. Per questo mi fanno paura tutti i cani, a parte quelli che mia nonna tiene per compagnia e che oltre a essere piccoli sanno starsene tranquilli.
Ma la paura può essere scatenata non solo da cose lunghe e angoscianti, ma anche da qualcosa di breve ed improvviso, come un urlaccio. Ricordo che il 4 aprile 2011 andai a fare visita ai miei ex colleghi della “Borges”, la biblioteca del quartiere Porto. Dopo aver salutato tutti gli ex colleghi volli pure incontrare Adriano, il responsabile. Provai a chiedergli se era disposto a organizzare una presentazione del mio romanzo La Terra è femmina! e non ottenni una risposta esauriente, ma solo vaga: egli andava un po’ di fretta, aveva anche già preparato la borsa. Dopo qualche minuto, convinto che Adriano fosse ormai andato via, andai di nascosto al piano sotterraneo, dove stava il deposito dei libri, dei giornali e delle riviste vecchie. Diedi un’occhiata in giro, per vedere se riuscivo a trovare documenti che erano negli scaffali ai piani superiori quando lavoravo lì, e per accertarmi che nessuno capitasse nel sotterraneo all’improvviso. Avevo il timore che qualcuno mi vedesse, e quindi anche la paura che questo qualcuno mi riprendesse. Notato che non c’era nessuno, dimenticai queste paure e mi rilassai, facendomi poi prendere dalla nostalgia dei documenti che avevo trovato disponibili al pubblico fino a tre anni prima. Stetti a sfogliare qualcosa, tra cui un numero di Ciak vecchio di cinque anni e che aveva articoli su alcuni miei film preferiti, e poi uscii dalla porta del deposito come se niente fosse. Dovevo però aspettarmi un richiamo e non l’avevo più considerato. Invece, appena finito di risalire l’ultima rampa di scale, sentii una voce dietro di me: “Ehi! E tu da dove vieni?”…
Non ebbi bisogno di voltarmi per capire che era proprio Adriano che mi stava chiamando, avevo riconosciuto la sua voce forte. Mi girai comunque verso di lui per educazione, e gli dissi candidamente: “Dal deposito”. Da quel momento in poi Adriano gridò una serie di frasi di rimprovero così forti che io mi sentii colpevole di quello che avevo fatto. La prima frase ebbe un impatto maggiore, perché faceva da apertura a quelle seguenti, e per questo mi spaventò e rinverdì la soggezione che avevo di lui fin da quando l’avevo incontrato il primo giorno di lavoro in biblioteca.
Adriano mi disse che non dovevo andare in posti che non erano riservati agli utenti, e io capendo di aver sbagliato e nel tentativo di arginare il suo disappunto approvai quello che stava dicendo con un: “Giusto”. A parte quel “Giusto”, però, non riuscii a dire altro, perché Adriano continuava a parlare con tono alto e di rimprovero. “Tu qui sei ben accetto, ben accetto – sottolineò - ma non puoi andare oltre il bancone oppure nel deposito! E anche se hai fatto qui uno stage, questo non ti giustifica o ti permette di fare cose che hai fatto allora!”. Non potevo dire niente per contraddirlo, un po’ per paura e soggezione, un po’ perché sentivo che aveva ragione lui. Non solo perché adesso ero un utente e dovevo comportarmi come tale, ma pure perché oltre alle frasi potenti del responsabile che mi aveva beccato, aveva cominciato a farmi provare paura qualcos’altro: e se qualcuno, non accorgendosi che c’ero io dentro il deposito, mi ci avesse chiuso dentro a chiave? Se fosse accaduto questo, forse mi avrebbe colto il panico, perché mi sarei sentito in trappola, senza possibilità di uscire. E se in tal caso non avessi avuto neanche il cellulare, il panico mi avrebbe preso del tutto perché non potevo comunicare con il mondo esterno in nessun modo. Non è detto che se rimani chiuso da qualche parte non ti vengano a riaprire, se chiami a gran voce, magari non di notte, perché non ti sentirebbe nessuno… No, in tal caso il panico mi avrebbe colto non tanto per il fatto di non poter comunicare la mia presenza e posizione, quanto per il pensiero delle conseguenze: mia madre o gli ex colleghi che chiamavano la polizia…E venire liberato per poi essere sgridato per essermi cacciato in un guaio che potevo e dovevo evitare nel modo più assoluto.
Ci sono tre soluzioni davanti alla paura: scappare, rimanere immobili e reagire. A me, come penso anche a tutti gli altri, è capitato di sperimentarle tutte quante, e sempre in circostanze diverse. La prima è una circostanza banale, anzi banalissima. Stavo camminando per via dello Scalo, quando incontrai un uomo con una faccia che non mi piaceva affatto: “Scusa, dov’è via Pier Crescenzi?”. Non diedi una risposta, perché mi misi a correre lasciandolo esterrefatto. A distanza di anni oggi posso pensare che quel tizio non avesse chissà quali cattive intenzioni, però in quell’esatto momento avevo avuto esperienza di altre volte in cui avevo incontrato persone a me sgradite o con una faccia che a vederla mi metteva soggezione. Il tono confidenziale con cui mi parlò quel passante in particolare mi diede l’impressione di una persona con la quale non potevo parlare senza venire interrotto o represso da un commento ironico, sbrigativo o prepotente. La paura di incontrare per strada dei passanti non troppo educati e che mi possano mettere a disagio con modi di fare sbrigativi o insistenti, mi aveva spinto in quell’occasione a credere che il passante volesse usare una richiesta di indicazione stradale come pretesto per aggredirmi o stuzzicarmi, e di conseguenza a correre via. Una volta girato l’angolo e raggiunta una fermata dell’autobus, mi sentii al sicuro. Se incontri qualcuno che temi, vuoi evitarlo a tutti i costi e se hai disposizione tanto spazio per scappare, allora scappi. Succede che per strada si incontri gente che incute timore ai liberi pedoni o agli automobilisti, come persone poco raccomandabili o venditori ambulanti insistenti, e allora per evitarle si allunga il passo, oppure si evita di percorrere le strade o i luoghi in cui essi si trovano: anche queste sono due forme di fuga dettate dalla paura.
La seconda circostanza di cui voglio parlare è anch’essa banale, ma non troppo. Il 20 marzo 2010 stavo tornando a casa da via Tasso in autobus, ed ero seduto tranquillo su una sedia. A un tratto, la signora seduta davanti a me si girò, mi fissò con un’espressione che mi intimorì e che intuii subito essere ostile, nonostante indossasse un grosso paio di occhiali scuri e mi chiese: “Mi ha toccato i piedi?”. Il tono accusatorio e che non ammetteva repliche della donna mi fece intuire che non era possibile cercare di spiegarle e dimostrarle che nonostante avessi le gambe distese la punta dei miei piedi non aveva neanche sfiorato i suoi talloni, e decisi all’istante di non provarci nemmeno. “Mi ha toccato i piedi, per caso?”, disse di nuovo la signora con voce più forte. Avevo voglia di dirle: “Non sono stato io”, oppure: “Non l’ho fatto apposta”, o anche solo un timido: “No”, ma mi trattenni. Dire anche solo una parola, una sillaba, secondo me avrebbe fatto infuriare ancora di più la donna, e questa prospettiva mi faceva davvero molta paura, ancora più di quella di venire represso per aver detto anche solo una vocale. Nonostante avessi preso a sudare per questo, mantenni la calma e continuai a simulare indifferenza non rispondendo alla signora e cercando persino di guardare fuori dal finestrino con la coda dell’occhio. “Allora, perché mi ha toccato i piedi?”… Era inequivocabile che la signora desse per scontato che l’avessi colpita, e per giunta con intenzione. Era così sicura che avessi fatto una cosa che non si fa e che lo stessi negando, che se avessi anche solo emesso un verso selvaggio per farla smettere, avrei solo peggiorato la situazione. Andò a finire che la signora si alzò, mi guardò e insultò e peggio ancora si avvicinò a un’altra donna che stava seduta dall’altra parte del bus per avvertirla che ero un ‘toccapiedi’ e che doveva stare lontana da me. Uno sputtanamento bello e buono. Non capisco come mai quella donna abbia parlato male di me proprio con un’altra signora così distante da noi che era impossibile non pensare che fosse un’estranea. Quando però la signora accusatrice scese dall’autobus, io mi rilassai, smisi di sudare dalla paura, presi coraggio e mi avvicinai all’altra passeggera. “Mi scusi, signora - le dissi, con tono gentile e sentendomi ottimista - guardi che non è vero niente… Io non ho mai toccato i piedi di quella signora che è venuta da lei, era una sua impressione, ma nulla più… E poi non avrei mai motivo per farlo, con nessuno…”. Per mia fortuna, l’altra passeggera mi guardò benevola e dimostrò di credere molto di più a me che a quell’altra. Ero rimasto immobile, mantenendo il controllo e una calma almeno apparente, subendo le poche ma taglienti accuse di quella signora suscettibile e fingendo di darle ragione. Le avevo lasciato credere che le avessi toccato i talloni con le mie scarpe, anzi mostrando indifferenza le avevo pure fatto credere che l’avessi fatto apposta e che non me ne fossi nemmeno pentito, manco fossi un teppista. In realtà, con quel modo di fare avevo reagito alla paura che mi aveva messo quella donna e le avevo pure mandato un messaggio che mai e poi mai avrebbe capito: che non avevo fatto niente ai suoi piedi.
Finché la persona che ti aggredisce si limita a violenze verbali neanche troppo forti, senza farti grossi danni fisici e morali (per esempio ferendo con un coltello te o un tuo familiare), restare immobili può essere una soluzione. Purtroppo, però, non sempre succede di capire che è meglio stare zitti e immobili oppure scappare via.
Ed eccomi dunque a raccontare la terza circostanza durante la quale ho provato paura per qualcosa. Il pomeriggio dell’8 aprile 2014 ero alla biblioteca di Villa Spada, e stavo all’interno di una delle due stanze in cui erano collocati i libri disponibili al pubblico. In quella stanza c’era pure un tavolo con sedia che era una postazione per computer. Dalle volte precedenti che ero stato lì, ricordavo che c’era pure un divano su cui sedersi e sfogliare i libri. Non sapevo perché li avessero spostati, ma quella postazione mi sembrava perfetta come alternativa al divano e anche più comoda. Avevo pure poggiato il giubbotto sulla sedia quando vidi entrare un uomo ben più spaventoso e prepotente della signora incontrata in autobus e che mi aveva accusato, anzi colpevolizzato, di averle toccato i piedi. Quest’uomo era un tipo con addosso un cappotto invernale, un cappellino colorato in testa, uno zaino sulle spalle e una faccia minacciosa: gli occhi ostili, l’espressione aggressiva, la barba sfatta e la pelle scura (forse era abbronzata o non lavata da tempo) mi fecero capire che era di sicuro un punkabbestia. Io mi sono sempre guardato bene dall’averci a che fare, anche per ordine dei genitori, quando ne avevo incontrato uno un po’ invadente alla fermata dell’autobus, ma davanti a quest’altro non avevo voglia di scappare. Primo perché non aveva ancora detto niente, nonostante lo sguardo che mi colpiva, secondo perché non volevo fare troppo rumore all’interno della biblioteca. Il punkabbestia si avvicinò a me e attaccò subito: “Non puoi stare qui, vai via!”. Io non mi mossi né spiccicai parola, pure perché egli non mi diede il tempo di farlo. “Hai sentito? Ho detto che non puoi stare qui, vai via!”, incalzò aggressivo. Spaventato dai suoi modi di fare e sbalordito nel vederlo comportarsi come se fosse il direttore della biblioteca, non riuscii a dire nulla. Di lì a poco avrei cominciato a sudare copiosamente. L’impressione che avevo di questo tizio fu confermata quando egli mi disse: “Ehi, hai letto? Leggi qua!”, e indicò il cartello che diceva che stavo occupando una postazione multimediale. Io lo guardai ma non potei fare nulla, perché il punkabbestia stava dicendo: “Tu non puoi stare qua!”, e subito dopo lo vidi sollevare la tastiera del pc e sbatterla sul tavolo, facendo pure staccare un pezzettino di plastica nera. Non ci potevo credere! Un barbone che viene a farmi la predica, a dirmi come comportarmi dentro una biblioteca, e che addirittura sbatte una tastiera senza alcun ritegno per l’oggetto pubblico che maneggia, senza neanche paura di romperla! Se fossi stato io a fare così al suo posto, sarei stato subito sgridato e cacciato via a suon di urlacci! La situazione era così assurda che se avessi avuto vent’anni di meno mi sarei messo a piangere. Eppure vie di scampo ne avevo, potevo e dovevo uscire dalla stanza, darla apparentemente vinta al punkabbestia e raccontare tutto agli operatori. Ma non lo feci e decisi di reagire affrontando con calma quel tizio invadente, convinto che fosse una situazione che potevo gestire e risolvere da solo. “Lei non è meno utente di me…”, esordii, guardandolo, speranzoso che si calmasse. Volevo provare a dirgli che non poteva permettersi di fare il padrone di un luogo pubblico, né tanto meno sbattere le cose o infastidire gli altri presenti. Ma non trovando subito altre parole da dire non potei fare altro che ripetere quanto detto: “Lei non è meno utente di me…”. Il punkabbestia parve essersi calmato, perché borbottò qualcosa che capii essere una frase meno ostile e imperativa delle altre. Ma era comunque deciso a “farmi rispettare le regole”, se così possiamo dire. Io tentai di frenarlo. “Non faccia così”, gli dissi.
Ma il punkabbestia continuò a borbottare, e prese di nuovo a dirmi che non potevo fare i miei comodi dentro una biblioteca, quando mi sembrava palese che li stesse facendo lui. “Io non volevo farla arrabbiare”, gli dissi, stando al suo gioco. “Ma non si tratta di fare arrabbiare o no! - disse lui, un po’ più animato - Si tratta di non fare cose che non si fanno!”. Avrei ancora potuto prendere il giubbotto e schizzare fuori dalla stanza, ma non lo feci. “Senti, ti muovi? - incalzò di nuovo prepotente il punkabbestia - Sono fuori di me, stamattina mi hanno anche rubato il cellulare!”. Mi parve troppo. Non aveva diritto di trattarmi male, e iniziai a dirglielo: “Non è una buona ragione per…”. “Ehi! - mi interruppe lui - Non ti permettere di dirmi cosa devo fare!”. Dopo aver detto a voce alta altre due o tre fesserie, uscì dalla stanza e io lo seguii, quasi rincorrendolo, desideroso di farlo ragionare. Si diresse al bancone e raccontò la sua versione dei fatti all’operatrice. Questa lo ascoltò e non disse o fece nulla. Meglio per me, perché una volta che il punkabbestia se n’era andato, ebbi modo di raccontarle la mia versione, senza venire accusato o punito. Mantenendo il tono di voce basso, mi sfogai con la bibliotecaria mostrandole il pezzetto di plastica che il punkabbestia aveva rotto sbattendo la tastiera e persino mostrandole Fantozzi totale, un’antologia degli scritti sul ragioniere presa in prestito dalla Sala Borsa e che mi ero portato dietro perché la volevo confrontare con il libro Fantozzi subisce ancora, di cui appunto Villa Spada aveva una copia. La bibliotecaria mi stette a sentire, prese il pezzetto di plastica e mi suggerì di sedermi su un altro divano che era posto al muro, proprio fuori dalla stanza in cui il punkabbestia mi aveva tormentato. Pensai che si trattassero degli stessi divani che avevo veduto in precedenza dentro le stanze degli scaffali, e io mi sedetti. Dopo quell’esperienza però non tornai più a Villa Spada per molto, moltissimo tempo. La paura di incontrare di nuovo il punkabbestia era davvero grande. E anche dopo esserci tornato, per paura di venire richiamato per una scorrettezza anche piccola o per essermi seduto a un posto non autorizzato o contemplato, agii con estrema cautela, accontentandomi di stare seduto a uno dei due tavoli circolari usati dagli utenti per studiare o sfogliare il giornale. Un posto meno comodo rispetto alle volte precedenti, ma più sicuro. Non tutte le persone che si incontrano sono disposte a calmarsi o a ragionare, e quindi non sempre si capisce quando è il caso di affrontarle. C’è chi lo fa a muso duro o con gentilezza, c’è chi se la cava o l’ha vinta oppure chi le becca e perde l’incontro. Non tutti sono uguali, ed è un bene e un male nello stesso tempo. Estranei, ambulanti, punkabbestia. Tutte persone che mi mettono timore, e che quando incalzano, si fanno più vicine o invadenti, più fanno paura. Discorso che vale anche i conoscenti che mi piacciono di meno, come ex compagni di scuola o prof che mi hanno fatto del male, o coetanei che mi hanno fatto dei dispetti e che non capiscono come mi sono sentito per colpa loro. Però se esiste la regola, che mai passa di moda, che consiste nel non dare credito agli sconosciuti, un motivo ci sarà. E questo motivo, forse, è proprio la paura che si ha verso di loro.

LA PANCIA, LA TESTA E… IL TEMPO

   Paula Mencarelli


uando pensiamo e ci concentriamo sulla parola ‘emozione’, in realtà… io sono tentata di dire che sia un input che parte dalla ‘pancia’, o dall’intestino, definito da studiosi ‘il nostro secondo cervello’. Ricordo dalla scuola che lo stimolo del tratto intestinale parte sempre dalla parte nervosa primordiale (la cauda equina o coda) o meglio dai fasci di nervi che escono dall’osso più conosciuto e più importante del corpo, chiamato ‘osso sacro’ non a caso. Questi fasci nervosi determinano il controllo degli sfinteri e degli organi genitali ed è ciò che rimane della nostra coda atavica e fa parte di un passato che ci sembra molto, molto lontano, perché non ci appartiene più; la coda è la parte più vanitosa e curiosa di molte creature viventi, ma non voglio fare un trattato scientifico, bensì riflettere sulle emozioni, che partono, sì, dalla pancia, ma iniziano dal cervello, quindi le emozioni dipendono dal pensiero, che nasce all’interno della teca cranica: concetto sostenuto in primis da cattedratici di valore, che mi sento di condividere. Le emozioni dipendono dal pensiero... E qui, tutti d’accordo! Mi piacerebbe un attimo soffermarmi invece sul concetto di emozioni legate al tempo, su cui Lucia proprio ieri mi ha fatto riflettere (nel gruppo di auto mutuo aiuto all’aula Francesco Roncati delle 18 di ogni giovedì pomeriggio non festivo). È vero... il tempo, da quando ho smesso di lavorare, mi sta sfuggendo di mano ed è diventato il mio datore di lavoro più intransigente... Ma sappiamo che i datori di lavoro più severi sono anche quelli che meritano la nostra ammirazione e il nostro rispetto. Il mio errore più grave è di percepire il tempo come padrone della mia vita, dimenticando me stessa come parte di un universo o magari più universi armonici dove tutto ha un senso. È importante per me ricordare ciò che desidero, ma soprattutto lasciare che gli eventi e le relazioni abbiano il loro corso, dove le emozioni siano padrone, ma allo stesso modo... il tempo scandisca... il battito del mio cuore. Così non ho più padroni ma, libera, vivo il presente, che si dilata all’infinito o si rimpicciolisce correndo veloce come un bambino contento, a seconda della mia percezione. Libera, perché la vita diventa un vero dono da condividere e il trascorrere del tempo diventa piacevole e soprattutto pieno di belle emozioni... In realtà possono passare due minuti, quattro minuti, venti minuti di estremo benessere fisico e mentale semplicemente chiacchierando ma soprattutto ascoltando una cara amica, ed ecco che il tempo non scandisce più la mia vita ma il piacere di vivere la riempie. E allora si realizza il miracolo: il tempo non è né poco né troppo, è quello giusto che mi determina benessere e piacere; in questo caso anche la mia sofferenza acquista una valenza positiva, perché riporta il mio cervello alla quotidianità e alle cose della vita e tutto diventa essenziale, anche il mio caro e amato disturbo bipolare, che a volte vivo come un privilegio e a volte con vergogna. Kindly

LE EMOZIONI VIVONO DENTRO DI NOI

   Patrizia Degli Esposti


Com’è difficile parlare di emozione. Siamo continuamente sotto l’influsso di qualche emozione: piacere, delusione, gioia, dolore. Le emozioni ci accompagnano anche nei sogni, turbandoci o rallegrandoci. Gli anziani sono le persone più sensibili alle emozioni, non possedendo più l’autonomia della gioventù, dovendo dipendere dagli altri, basta poco a renderli rabbiosi o infelici. Osservano e ‘sentono’ quando un gesto viene fatto con amore, con indifferenza o, peggio del peggio, con cattiveria. Solo le macchine o i robot non provano emozioni. Sono programmati a eseguire compiti che svolgono senza porsi domande e se si inceppano non è sicuramente a causa di un’emozione. Siamo noi esseri umani che a volte ci rivolgiamo a questi oggetti come fossero vivi e potessero parlare con noi. Perché l’essere umano ha necessità di esprimersi, rendersi unico con atteggiamenti e comportamenti e vivere le proprie emozioni. Le emozioni risiedono nel nostro corpo astrale, vivono dentro noi e si esprimono con sorrisi, lacrime, tremori, rossori. L’emozione non ha atomi né cellule e non si può osservare al microscopio, eppure ha un grande potere sul nostro corpo e sulla nostra salute. Le emozioni negative possono farci ammalare e lentamente consumano ed esauriscono le nostre energie. Le emozioni positive ci riempiono i pori di gioia e riescono a farci affrontare le difficoltà con leggerezza. Osservare la natura, accarezzare un animale, sentire l’odore di un fiore, possono regalarci splendide emozioni che agiscono nel nostro profondo. Lasciamoci cullare dalle emozioni con una bella musica o osservando un’opera d’arte e doniamo sorrisi e abbracci al nostro prossimo. Rabbia, paura, tristezza, gioia da raccontare e disegnare, da condividere per emozionarsi insieme.

CONDIVIDERE LE EMOZIONI O NO?

   Lucia


Le persone a prima vista si possono collocare in due categorie: gli introversi e gli estroversi. L’estroverso in genere è più socievole, aperto, spontaneo. Ama condividere le emozioni positive, ma sa anche lasciarsi andare ad esprimere il dolore e il disappunto. L’introverso è più, introspettivo, schivo, riservato, assapora le gioie con pacatezza, spesso evita di raccontare i suoi guai e di esprimere apertamente sofferenza. I due atteggiamenti psicologici si riflettono persino nell’aspetto, nel modo di atteggiarsi, nel tono della voce, nella scelta dell’abbigliamento. Un tipo ‘solare’ è ben distinguibile da un ‘tenebroso’, un ‘amicone’ da un ‘orso’… Naturalmente fra il bianco e il nero ci sono ampie scale di grigio e tutti oscilliamo più o meno fra i due estremi e in certe occasioni possiamo anche passare drasticamente dall’uno all’altro. Dipende, tutto dipende … Dal carattere, dall’età, dall’educazione, dalle esperienze di vita, dal contesto, dalla compagnia, dall’umore del momento…
Mi è capitato di farmi questa domanda: è meglio condividerle, le emozioni, o tenersele per sé? Io infatti sono una che non solo tende a condividere, ma proprio si sente frustrata se non lo riesce a fare, invece ho conosciuto persone che sembrano ‘emozionalmente autosufficienti’. A me sembra così strano! Vedere o sentire qualcosa di emozionante o commovente, un paesaggio, una scena, una musica, un’opera d’arte, e non poterlo dire a nessuno mi toglie un po’ di gioia, sento forte il bisogno almeno di raccontarlo poi. Per questo difficilmente vado da sola a vedere un film o un museo o a fare una gita: ho bisogno di qualcuno che viaggi sulla mia lunghezza d’onda per godermeli davvero. Se poi mi accorgo che a chi ho vicino, soprattutto se è qualcuno a cui voglio bene, non interessa ciò che ha colpito la mia fantasia, lo ignora, lo snobba… ci resto male, tanto da perdere gran parte del piacere e sentirmi quasi offesa. Lo so che non abbiamo tutti gli stessi gusti, ma le mie emozioni sono importanti!
Eppure anch’io provo fastidio a volte di fronte a certi entusiasmi che mi sembrano esagerati e sono insofferente se qualcuno cerca con insistenza di coinvolgermi quando non ne ho voglia. Mi è capitato però di osservare un fatto interessante: la gente allegra, che scherza, balla e si diverte, se la guardi tenendoti in disparte ti sembra chiassosa, ridanciana, invadente, magari anche stupida, se invece ti fai coinvolgere è tutta un’altra musica… L’alchimia delle emozioni è davvero sorprendente! Un piccolo sforzo iniziale, dunque, forse vale la pena…
Ma attenzione: può capitare anche l’inverso, e cioè di farsi coinvolgere in emozioni demotivanti, distruttive. Il contatto con persone abuliche, tristi, malevole o rabbiose, può contagiarci o comunque logorarci. Ma anche in questo caso credo convenga la politica della condivisione… Intavolare una conversazione, ascoltare le loro ragioni, emozionarci, anche empaticamente, accogliere il dolore, sì, ma cercare in qualche modo di rimbalzare positività, credo sia l’unica strada possibile… Non teniamoci troppo dentro le brutte emozioni, né le nostre, né quelle altrui.

IN ATTESA DI UN TEMPO DIVERSO

   Daniela Mariotti


Ti scrivo, cara Concetta, scusa i miei scarabocchi, ma questa è la mia scrittura. Come un tempo, speriamo che almeno i pensieri siano chiari a te, amica ormai da tanti anni, e al Faro. Ecco, il Faro ci unisce ancora, in questa sera d’autunno. Non importa se l’estate è finita, se il tempo è poco… Sei qui, Antonio, con me e Concetta. Andiamo grati avanti, nell’autunno umido e uggioso, eccoci qui come in attesa di un tempo diverso. Chi sono io per te, Concetta? Chi sei tu per me? Due donne che si sono incontrate sull’orlo della disperazione. Le storie di vita e la poesia vanno avanti, non sempre all’unisono. Ma non importa, l’importante è essere qui.

DISTESA SULLA SABBIA

   Francesco Valgimigli


Lei era distesa sulla sabbia, indossava un costume intero azzurro e mi guardava, ed era come la carezza di un angelo, ripetuta, continua, incessante, che appare e scompare, come l’attesa nell’intervallo tra una carezza e l’altra che si fa sempre più dolce. Ma io, di questo, me ne sono accorto soltanto dopo, quando ho alzato lo sguardo, per il momento giocavo con la sabbia. Quando poi l’ho vista, sono rimasto estasiato dalla sua bellezza indescrivibile, dal suo sguardo, dal suo corpo racchiuso in quel costume color cielo e la libertà di pensiero che quell’immagine mi dava, il mio perdermi nell’infinito, le mie ali… Sembrava in quel momento che lei ci fosse sempre stata ed era come trovarsi dentro un sogno, dentro una bolla in grado di fermare il tempo. Un giorno le chiesi di incontrarci da qualche parte perché le volevo parlare. Entrati in un bar, il padrone la salutò con un “Ciao principessa” e il suo nome da principessa russa in quel momento mi sembrò il più sincero di tutti. Ci sedemmo a un tavolo e io guardandola già cominciavo ad avere paura, ma comunque volevo parlarle, avevo assolutamente bisogno di parlarle per cercare di tenerla vicino a me e non lasciarla andare. Ma le parole non riuscivano a uscire, a riversarsi sul tavolo come un’invisibile cascata, in quel momento erano tante le emozioni che mi tormentavano, insieme a quelle troppe parole che sentivo esplodermi dentro e che cercavo di allacciare insieme per poi espellerle, ma non riuscivo. In quegli istanti c’era come un macigno invisibile che mi bloccava dentro e ogni mio tentativo, ogni mio sforzo di uscire fuori da quell’impasse, risultava nullo. La mia mente diceva parole dentro la mia bocca chiusa e allora rimanevo zitto, in preda all’angoscia, aspettavo una soluzione a quel mio problema, ma sentivo che non sarebbe arrivata. Lei mi guardava, in attesa di un mio discorso, o al limite di qualche mia parola sparsa che le facesse capire qualcosa di me, ma non diceva niente, aspettava, aspettava soltanto, mentre i minuti passavano. Poi, dopo un tempo che mi sembrò eterno, lei si stufò del mio mutismo e ce ne andammo. In quel momento mi sentii sollevato, anche se cominciava a mordermi dentro la consapevolezza che la stavo perdendo e che non l’avrei più rivista, che quel dolce sorriso e quel saluto discreto che lei mi faceva con la mano dalla stazione della metropolitana di Numidio Quadrato, quando scendeva e si allontanava dalla metro, non ci sarebbe più stato.

FEBBRAIO 2008

   Luca G.


I l febbraio 2008 è stato uno dei mesi più brutti della mia vita. Lasciate che vi racconti. Sabato 9 ero alla “Borges”, e stavo svolgendo il mio lavoro da tirocinante bibliotecario. A un certo punto un uomo di mezz’età mi chiede di trovargli due film: Aguirre furore di Dio e L’amico americano. Io, nella mia ignoranza, non li avevo sentiti nominare, ma ero disposto ad aiutarlo. Cominciai a cercare, ma purtroppo, proprio perché non conoscevo quei due film, non sapevo dove trovarli. Chiesi e richiesi all’uomo di ripetermi i titoli perché non me li dimenticassi, ed egli prima me li ripeté una volta e poi tre volte. E intanto che cercavo, egli commentava e si chiedeva com’erano disposti i film. Io gli spiegai che i film erano disposti in ordine alfabetico di genere (Avventura, Commedia, Drammatico ecc.) e ogni film dello stesso genere era a sua volta ordinato in ordine alfabetico. Non sapevo a chi chiedere, non sapevo che cosa fare, non volevo lasciare da solo quell’uomo. Andò a finire che quello stava per andarsene insoddisfatto. E mi disse che si aspettava una classificazione come in “Sala Borsa”, dove i film sono ordinati per ordine alfabetico del cognome del regista, e poi per ordine alfabetico di titolo. Sapete poi cosa disse quell’uomo riguardo alla classificazione dei film della “Borges”? Lo definì un metodo “da coglioni”. Sì, proprio così, “da coglioni”. Io lo guardai e dissi: “Puntualizzerò”. Con quella parola era mia intenzione calmarlo, volevo dirgli che lo avrei riferito ai colleghi. Non solo per la volgare definizione, ma pure perché egli era disorientato e insoddisfatto del servizio e della classificazione. Finita qui? Purtroppo no: tra me e il signore si era messa in mezzo un’altra utente, una donna bassa, leggermente più vecchia di lui, dai capelli rossi e ricci, che stava frugando anch’essa tra i DVD. Io e l’uomo tornammo indietro e quella donna si mise ad aiutare al mio posto quel tizio. Come potevo sapere se quella donna sapeva o no com’erano collocati i film? E se non ne sapeva nulla anche lei? Subito dopo, feci un gesto che non le piacque affatto: misi una mano sul suo fianco, ma non per scansarla o spingerla, lo feci delicatamente, come una persona che si appoggia su una balaustra o su una ringhiera delle scale. Ma quella donna si arrabbiò e mi disse con tono aggressivo: “Non mi spinga!”… “E lei non mi rubi il lavoro, signora!”, risposi io con lo stesso tono. Lei si arrabbiò di nuovo, mi maltrattò, mi accusò a più riprese di averla spinta, cercai di farla ragionare, le giurai che non l’avevo spinta, ma niente. Rimase della sua convinzione, e io, che avevo cominciato a sudare per la scomoda situazione e l’ingiusta accusa, subii la sua ira e la vidi andare verso l’ufficio del responsabile. Che cosa avrei dovuto fare? Urlarle addosso? Darle uno spintone violento sulle spalle per farle vedere com’è una vera spinta? Farla cadere dalle scale? Fare una scenata che mi avrebbe compromesso agli occhi dei colleghi che mi volevano bene e mi consideravano educato? Compromettermi agli occhi del responsabile, severo ma giusto? Farmi licenziare da un posto che mi piaceva moltissimo? Che cosa?! Andò a finire che la rincorsi. “Signora? Signora? Signora!”… Lei si girò e io le chiesi scusa e le strinsi la mano, fingendo di darle ragione. Non pensate che la feci fessa, perché la ragione non viene data ai fessi, ma viene data a chi se la merita e a chi mostra di sapere usare la testa. In realtà l'assecondai, usai la diplomazia. Lei accettò le scuse, ma disse a voce alta che quando si fa una cosa cattiva (che non avevo mai fatto), bisogna poi scusarsi e rendersi conto di quel che si è fatto. In seguito i due utenti se ne andarono via e io sfruttai il database per vedere cos’avevano preso in prestito e risalire ai loro nomi. Ormai me li sono dimenticati e forse è meglio così.
Mercoledì 13 provai a dire qualcosa ai colleghi in merito e loro mi dissero che quando succede qualcosa di brutto, bisogna dirglielo subito. Invece io avevo provato a risolvere la faccenda da solo, senza parlarne con nessuno, volendo circoscrivere la faccenda a me e a quei due senza coinvolgere gli altri. Io volevo anche parlarne con la dottoressa Zucchi, la mia referente aziendale, con cui avevo già fissato un appuntamento per il 15. Davanti a questa prospettiva mi sentivo come uno pronto a denunciare un crimine alle autorità… Ma un brutto imprevisto mi aspettava.
Il 14 stavo dentro casa, era un mio giorno libero, quando improvvisamente mio padre tornò anzitempo dal lavoro. Non capii subito cosa fosse successo, né perché a un certo punto si mise a fare avanti e indietro per il corridoio, ma venni poi informato: era stato scombussolato da una telefonata da Foggia che diceva che sua madre, nonna Amelia, era stata dimessa dall’ospedale e rimandata a casa perché incurabile. Rimandata a casa perché doveva morire. Il babbo non sapeva se partire subito e togliersi il pensiero di salutarla oppure farlo nel cuore della notte. Quanto a me, sentivo che stavo provando qualcosa di molto forte. Oltre che inquietudine, era un miscuglio di sentimenti negativi che non potevo distinguere o esprimere, tanto non faceva differenza: avevo già capito che in ogni caso per l’ennesima volta il babbo avrebbe portato con sé anche me e la mamma. Ogni volta che il babbo decideva di partire per la Puglia ci portava sempre con sé, come fossimo sue proprietà personali. Ma c’era un motivo: senza mia madre lui non sapeva stare, e io senza di lei non potevo stare, quindi era una catena che difficilmente si poteva spezzare.
Uscii di casa per restituire un VHS noleggiato il giorno prima, ma che non avevo potuto vedere proprio perché il babbo era stato occupato col videoregistratore. Ebbene, tornando indietro gridai per la frustrazione: “Mio padre non è lucido, non ci sta con la testa. E solo io riesco a vederlo? Solo io riesco a rendermene conto?”.
Forse anche mamma se n’era resa conto che papà era così sconvolto da non poter guidare l’auto senza impattare, però l’amore per lui l’accecava, e io oltre a essere sconvolto dall’idea di vedere la nonna morta (come il babbo, del resto) ero arrabbiato e frustrato perché non potevo denunciare alla Zucchi i maltrattamenti di quei due utenti maleducati della “Borges”. Non potevo però oppormi al volere del babbo, per nessun motivo, quindi o partivamo subito, quel pomeriggio stesso, oppure la notte seguente, per evitare il traffico, come facevamo quasi sempre. Alla fine abbiamo convinto il babbo a partire subito per Foggia, ho chiamato i colleghi della “Borges” per dire cos’era successo e che non potevo venire a lavorare, e poi siamo partiti. Fu un brutto pomeriggio e un viaggio allucinante, non per la durata, ma perché a ogni chilometro percorso io mi sentivo sempre più frustrato e strappato dalla mia vita e dalla mia quotidianità. Un lato positivo del viaggio fu che almeno non mi sentii mancare il respiro per le emozioni represse e per l’odore di chiuso della Fiat Marea del babbo, quindi niente claustrofobia. Non ho provato nemmeno fame, perché mangiai una bella porzione di pane e formaggio mentre il babbo non mangiò nulla, ma solo rabbia e frustrazione, desiderio di uscire da quella situazione e tornare a casa e fare quello che avevo in programma. Ero agitato al punto che a stento controllavo i pensieri che avevo dentro. Ad ogni attimo che guardavo fuori dal finestrino vedevo calare il sole e l’oscurità farsi sempre più nera, vedevo la strada andare inesorabilmente verso la stessa direzione, senza mai tornare indietro. Arrivammo a Foggia che faceva un freddo polare e io ero ancora scombussolato dal viaggio, dalla partenza improvvisa e con le gambe anchilosate. Entrai subito in casa di nonna Amelia, convinto di trovare gli zii disperati al capezzale della nonna, e provai una strana sensazione. Sembrava che l’atmosfera funebre fosse assente… anzi, era per davvero assente! Una volta entrato, la vidi serena sul letto circondata dagli zii, nessuno di loro sconvolto o triste. La nonna era viva! E felice di essere a casa! La dimissione dall’ospedale aveva avuto l’effetto opposto! Altro che morire, pareva guarita da ogni male! E io, dopo averla salutata pensai subito che ero stato male informato, che per un capriccio, per uno sbaglio e una sbandata del nostro capofamiglia la nostra quotidianità era stata bruscamente interrotta. In seguito papà mi avrebbe rimbeccato dicendomi che tutti gli zii avevano visitato la nonna almeno una volta e noi no, e che questa era un’ottima occasione per farlo. Nel frattempo io, dopo aver visitato la nonna, ero andato a casa di mia cugina Daniela a fare a lei e al suo compagno gli auguri di San Valentino, e lei ha ricambiato augurandomi una buona cena. Non avevo fame, però, perché come ho detto avevo mangiato pane e formaggio in macchina, andai invece a letto. Purtroppo fu un problema: poiché la nostra cascina non era stata riscaldata: avevo freddo, era tutto umido, dovetti così dormire in posizione fetale col berretto di lana in testa. Realizzai in quel momento che pur di correre dalla nonna, il babbo non aveva avuto scrupoli a farci correre il rischio di finire congelati, sia durante il viaggio che al momento dell’arrivo! E mentre ascoltavo il babbo masticare mentre mangiava insieme alla mamma, sentivo dentro di me l’impressione che del freddo e del nostro stato di salute ed emotivo se ne fregava! A lui non importava niente di noi, importava solo di sé e di nonna, stavo pensando in quel momento. Pensavo che gli fosse stata detta una bugia, che mi avesse addirittura manipolato, che per lui era importante solo la famiglia che lo aveva generato e non quella che si era creato e di cui doveva prendersi cura. Per l’ennesima volta in tanti anni, pensai che non volevo più levatacce o partenze improvvise con lui, mai più!
Il giorno dopo, 15 febbraio, le condizioni della nonna erano già molto migliorate, e il babbo invece di informarci della cosa e ripartire subito per Bologna, approfittò della circostanza per prendersi qualche giorno di riposo. A sua volta la mamma approfittò di quel che aveva fatto lui per vedere i suoi fratelli. Io non ebbi particolari esternazioni, ma stavo cercando di osservare a mente fredda quello che era successo e di valutarne le conseguenze. Anche quella seconda notte dormii male, perché a causa del freddo e dell’umidità mi era venuta la diarrea, e per via dei dolori andai in bagno per sette volte. Non mi vergogno a dirlo, così come non mi vergogno a dire che pensavo che il babbo, in quanto capofamiglia, pensasse di avere il diritto di far stare male anche noi quando stava male lui. Dopo questo, ero fermamente deciso a dirgli in faccia la mia in modo chiaro, pulito, sincero, ancora ignaro di quanto accaduto per davvero. La mattina dopo, il giorno 16, chiamai il babbo e gli chiesi: “Chi ti ha detto che la nonna stava male e stava per morire?”… “Zio Donato”, rispose lui. “Papà - dissi allora io - zio Donato ha scelto un momento particolarmente adatto per farci questo stupido scherzo”. E glielo dissi chiaro e tondo, senza paura, sicuro che una stagione fredda come quella e un momento lavorativo che mi aveva messo sotto pressione non fosse proprio l’ideale per partire all’improvviso per una presunta morte in famiglia. Il babbo, invece di informarmi, di spiegarmi come stessero le cose, si arrabbiò, ma io mi controllai. Affrontai il suo sfogo e le sue ire rimanendo lucido, fermo e determinato, aspettando che mi spiegasse cos’era successo davvero, ma lui non lo fece, si limitò solo a sgridarmi e confermarmi la versione dei fatti che mi ero fatto io. “Bisogna dire le cose finte o la verità?”, gli chiesi alla fine della sua sfuriata.
Non so se rimase stupito dalla mia calma. Di sicuro non avevo prestato attenzione alle sue frasi, appena intuivo che non erano spiegazioni o giustificazioni a questa partenza a cui aveva costretto me e la mamma. Il giorno 17 ormai il peggio era passato. Sia per la nonna che per il babbo, che ora stavano molto meglio. Io ancora smaniavo dal desiderio di tornare a casa. Ma riguardo a questo lui rimase irremovibile. E visto che era domenica, si preparò a godersi una partita interna del Foggia. Io provavo il desiderio di potergli dire, supplicare, di riportarmi subito a Bologna, l’unica cosa che volevo per davvero, ma sentivo che non era il caso, tanto egli mi avrebbe detto di no, e questo non mi calmava assolutamente, anzi aggiungeva altra frustrazione a quella che avevo già dentro. Prima di andare allo stadio mio padre mi assicurò che avremmo presto ritrovato la nostra quotidianità: “Martedì ritorneremo a casa, mercoledì io tornerò a lavorare, la mamma tornerà a lavorare, e andrai a lavorare anche tu”. Avrei dovuto essere felice come una Pasqua, invece mi sentii un bambino di cinque anni quando me lo disse… E in quel momento mi scoprii addirittura a disprezzarlo per questo. Ma fu un disprezzo passeggero, che durò poco. Non sentii felicità, semmai appagamento. Passai il 18 febbraio ad ascoltare la prima puntata della nuova stagione di Viva Radio Due e a guardare qualche film sempre a casa di Daniela, rinfrancato dal fatto che era la vigilia della mia ripartenza per Bologna, e che quella vacanza forzata ormai stesse per finire. Il 19 tornammo finalmente a casa. Ma parlare alla Zucchi di quei due utenti maleducati incontrati in biblioteca era diventato una cosa vecchia, che ormai avevo stemperato e il cui ricordo era diventato quasi sopportabile. L’impellenza di parlarne alla mia referente era svanita. E la cosa non mi piaceva affatto. Purtroppo mi era successo quel che succede a tutti dopo una vacanza, voluta o forzata che sia: si torna sempre a casa che si ha il cervello come risciacquato. Quanto all’esperienza a cui mio padre ci aveva costretti, posso dire che avrei appreso come stavano davvero le cose solo molti mesi dopo, e non dal babbo che era già gravemente malato, ma da mia madre. Nell’istante in cui mio padre era stato avvertito da zio Donato, la nonna stava davvero per morire, e in quel momento il babbo faceva bene a essere disperato. È stato solo quando siamo arrivati che abbiamo trovato la situazione cambiata: mentre la stavamo raggiungendo, le dimissioni dall’ospedale avevano sortito l’effetto opposto, l’avevano rallegrata al punto da farla stare molto meglio. Le avevano regalato un mese di vita e un po’ di salute in più. Avrei preferito di gran lunga saperlo subito, avrei voluto più sincerità dai miei genitori in quel frangente, perché in quella brutta situazione ero stato coinvolto anch’io, e pagando il prezzo di non poter raccontare nulla alla Zucchi di quei due utenti che mi avevano maltrattato. Mentre ero a Foggia, mi chiedevo: “Perché devo dipendere dai capricci del mio genitore? Perché? Solo perché non sono autonomo?”. Avevo compiuto da poco ventun anni, non volevo passare tutta la vita a essere trascinato dalle sue correnti, a essere manipolato da lui. E volevo dirgli apertamente: “Devi riportarci subito a casa! Adesso!”, ma sapevo che era inutile.
E non sapevo, invece, che un tarlo avrebbe cambiato il mio futuro. Non potevo immaginarlo, nessuno di noi poteva. Nemmeno il babbo poteva immaginare che quel tarlo ce l’aveva già da tempo, che si limitava a sopportarlo e a pensarlo come un banale mal di testa, quando invece era qualcosa di molto peggio. Quando mio padre fu ricoverato alla “Baruzziana” e poi in tutti e tre gli ospedali della città, il cosiddetto mal di testa si rivelò essere una cisti al cervello, ormai troppo grande per essere rimossa, che lo avrebbe portato alla morte quasi nove mesi dopo quella della nonna. Dopo di allora, state sicuri che non ho più dovuto fare levatacce o partenze ‘intelligenti’ o improvvise. Dopo la morte del babbo, io non mi sono quasi mai più sentito obbligato ad andare in Puglia, perché non era più una decisione unilaterale, ma concordata e condivisa da me e mia madre. So che non crederete a quello che sto per dire, ma nell’essere costretto a partire per la Puglia col babbo io mi sentivo come deportato, proprio così, deportato. Pensate: mio padre, convinto com’era di proteggermi e di fare la cosa giusta, mi impedì di raccontare subito quanto mi era successo alla Zucchi, inoltre, non dicendomi niente, finì senza volerlo per farmi credere che volesse portarci a Foggia per un suo capriccio. Papà mi ha distorto la realtà, me l’ha manipolata, e solo molti mesi dopo, mentre era lui a essere malato e vicino alla morte, appresi da mamma come stavano davvero le cose. E a causa di tutto questo non avevo potuto dire subito alla Zucchi quello che era successo alla “Borges”, di quei due utenti che avevo incontrato e che mi avevano fatto quasi disperare. Un’altra cosa brutta, ma molto brutta, di quel 9 febbraio, che accentuò la mia tristezza, fu un fatto di cronaca non proprio nera. Quella serata avevo saputo che Kirsten Dunst aveva avuto proprio nelle ultime ventiquattr’ore una serataccia in discoteca: la notizia diceva che aveva bevuto e preso qualcosa che l’aveva fatta stare male, anzi sbarellare. Tanto che sarebbe stata ricoverata in una rehab nello Utah. Lo raccontai alla mamma, guardando fuori dalla finestra, avvilito dalla giornata che avevo passato tutto triste e timoroso sul futuro della Dunst. E se poi stava peggio? Se avesse avuto una ricaduta? Per fortuna è guarita, anzi tre anni dopo avrebbe fatto tesoro della sua esperienza, interpretando così bene una donna affetta dalla depressione, in Melancholia, da ottenere una Palma d’oro a Cannes. Sapere quella notizia sulla mia attrice preferita mi aveva fatto sentire ancora più abbandonato. Finché hai la famiglia e un lavoro le cose vanno bene, ma se il tuo animo è straziato da una colpa inesistente e sconvolto da una brutta notizia che riguarda chi ti riempie il cuore, non è facile restare bene in piedi. Per lo meno alla “Borges”, davanti a quegli utenti maleducati, mi sono comportato molto meglio di quanto fece un altro collega mio amico che ebbe pure lui a che fare con un utente ancora più maleducato e sfogò contro noi altri colleghi la sua rabbia.
Che dite, sono stato egoista nel considerare solo i dolori miei e non anche quelli del babbo? Va bene, ditelo pure. Ma anche il babbo era un po’ egoista, visto che ascoltava i miei pareri ma spesso poi li ignorava.
E poi non parlerei di egoismo, parlerei invece di amor proprio, dal momento che nonostante i suoi difetti era una brava persona, benevola e bene amata da molte delle persone che lo circondavano. L’amor proprio e per la sua famiglia lo avevano addolorato e accecato. Io ho raccontato la cosa dal mio punto di vista e di mio posso dire che, secondo me, quando una persona sta male, non ha comunque il diritto (o il dovere) di far stare male quelli che stanno vicino a lui. Almeno io ho imparato sulla mia pelle che non devo far stare male chi mi è accanto solo perché sto male io.



PER LORO E ANCHE CON LORO

   Franco Gisoldi


S tasera siamo qui per ricordare tre nostri coristi: Francesco, Tina e Marianne.
Un particolare pensiero va anche ad Anna Aletti, che ci ha lasciati anche lei, da poco tempo. Anna è stata la cofondatrice insieme a Maurizio Sgarzi del Coro ‘Cento Passi’ della nostra associazione ‘Percorsi di Pace’. Come è nata questa iniziativa? Quest’estate, nel giro di pochi mesi, sono mancati Francesco, Tina e Marianne. Eravamo tutti sgomenti dal susseguirsi di queste notizie. Gressi, la nostra direttrice, andava dicendo: “Ma cosa sta succedendo al nostro Coro?”… Non lo sapevamo… Una cosa so, che possiamo fare qualcosa… Abbiamo la possibilità e il dovere di dare un senso alla nostra vita… È stato così che parlando con Lucia Fava e Gressi abbiamo pensato che l’unica cosa che potessimo fare come Coro era continuare a cantare, PER loro ed anche CON loro, per ricordarli. Per questo oggi siamo qui insieme. Non ho conosciuto Francesco, da qualche anno non veniva più al Coro, invito perciò altri a parlare di lui. Io frequento il nostro Coro solo da due anni. Comunque voglio dare un piccolo contributo per ricordare Tina e Marianne.
Tina, ogni tanto l’accompagnavo a casa dopo le prove o dopo qualche concerto, l’ultimo proprio ad ‘Azzurro Sole’, da Grazia Stella. Era spiritosa, ironica e attenta. Soprattutto notavo una certa sua curiosità nelle cose della vita. Gli ultimi mesi era tutta presa, mi raccontava, dalla ristrutturazione in casa sua e ce ne parlava spesso, come spesso ci parlava di suo nipote in Inghilterra. Ho avuto poi conferma di quanto fosse curiosa e generosa, quando ho contattato Lucia Luminasi per questa nostra iniziativa. Lucia si è subito resa disponibile e ha inviato una e-mail di invito a una DECINA di associazioni di volontariato e di laboratori, poesia e teatro, dove lei era attiva! Ci parlava infatti con un certo orgoglio delle sue esperienze teatrali. Ciao Tina, ti pensiamo ancora…
Abbiamo iniziato questo memorial con un brano di Leonard Cohen, So Long Marianne. Una donna di nome Marianne è stata un grande amore di gioventù di Leonard Cohen. Si erano conosciuti in Grecia, nell’isola di Ydra nei primi anni Sessanta. Non conosco bene la storia d’amore di Giuseppe e della nostra Marianne, ma anche nella loro c’è stata un’isola, quando erano giovani innamorati e poi per tutta la vita. Marianne l’ho conosciuta poco, direttamente, però mi piaceva osservarla durante le prove del Coro. Era sempre deliziosa e dolce. Ecco, mi aveva colpito la sua dolcezza nelle espressioni e la sua calma, ma capivo che sotto quella dolcezza e calma c’era una forte personalità. Ho avuto conferma di questo quando poi Marianne si è ammalata, infatti noi del Coro abbiamo il nostro gruppo WhatsApp per comunicare e lei, Marianne, ci aggiornava pacatamente della sua malattia e dei suoi soggiorni in ospedale. Noi del Gruppo, poi, subito rispondevamo con il desiderio di farle coraggio e di farle sentire la nostra vicinanza. Lei ci rispondeva ancora con tutta tranquillità che non avrebbe mollato. Questo ci colpiva molto. Capivamo quanto forte fosse il suo carattere e il suo attaccamento alla vita. Ho chiesto a Giuseppe, suo marito, che canta con noi ora, se voleva raccontarci lui qualche cosa di Marianne, ma ha preferito passarmi alcune riflessioni che vi leggeremo. Sono i pensieri della figlia di Marianne, Nara e del suo compagno Ivan, che sono stati letti durante il rito funebre in ricordo della mamma lo scorso luglio…

A TINA

   Matteo Bosinelli


Cara Tina, voglio ricordarti così, con una tua poesia, bellissima.
Grazie, Tina.

Era un momento di profondo silenzio,
rotto solo dallo sciabordio del mare.
Il tuo cuore mi parlava,
la mia anima ti rispondeva.
(Treno per Bologna, 18 agosto 1988, ore 6)


RISPONDERE A UNO SGUARDO

Credo che sia questo il senso segreto dell’empatia. Non lasciare cadere un’intenzione, amplificare un’emozione. Per questo da ventun anni pratico la meditazione. Credo che nella storia personale di ognuno ci siano dei nodi emotivi.
Come nel nodo piano, più li tiri e più si induriscono. Mentre a volte un approccio indiretto permette a loro semplicemente di affiorare e a noi di scioglierli. Meglio un bacio a troppe parole, meglio troppe parole a un bacio rubato. L’eros si alimenta nell’attesa e nel silenzio e forse cogliere l’attimo è semplicemente avere la pazienza di lasciarlo arrivare.



PERFETTO

https://www.youtube.com/watch?v=hwZNL7QVJjE.
Pensieri che si incrociano. Jim è vivo. Poesie Apocrife. G.iacomo A.lberici. Zen.
Alcuni pensano che Jim Morrison sia morto ma che James Douglas Morrison no.
Come voleva Lui. Sopravvivere in ognuno di noi. Che tra Demonio e Santità ci fosse posto almeno per Lui. E così è… E sempre sarà.
In Vasco. Tra Demonio e Santità. Perché ci sarà sem- pre un tempo in cui le mele saranno acerbe, ma la speranza di aspettarle mature ci farà rimanere qua, tra.
E forse Demonio e Santità saranno solo sponde di un percorso vita meraviglioso che si chiama vita.
A tutti coloro, uomini e donne che hanno il coraggio di ridere e sfi orarsi, sapendo che ci sarà sempre il mondo fuori/fi ori.
https://www.youtube.com/watch?v=vc6y20Yss1E



VIBRAZIONI

Appaiono le stelle dall'orizzonte nero del crepuscolo pronte a ospitare i nostri sogni e ricordandoci che nel buio della notte non tremano ma vibrano.

Nel buio della notte le costellazioni sono maschere che hanno come occhi le stelle.

Quando il cielo è nuvoloso, come oggi, penso che in fondo le nuvole vogliano solo abbronzarsi la schiena.

LA STRISCIA DI RICCARDO

DAZZENGER

   Darietto


... prende le cose a noleggio? Cannolo
... gli piace avere le ali? Cavolo
... non parla? Canuto
... gli piace la rucola? Carrucola
... va spesso in un ostello? Castello
... adora le donne di nome Tina? Cantina
... sa dove ti trovi? Canzone
... è molto vivace? Cabrio
... miracolosamente parla? Carla
... gli piace il pane? Campane
... gli piace il sale? Casale
... gli piace la panna? Capanna
... gli piace leggere un libro? Calibro
... gli piace aprire/chiudere gli sportelli ? Canta
... gli piace suonare l'arpa ? Carpa
... chiama le persone per vedere se ci sono tutte? Cappello
... sbatte fuori le persone da un locale bolognese? Canfora
... si rivolge ad uno sportello (tipo chiedere informazioni) o che chiude uno sportello? Cartello
... ha una folta barba? Carbone
... va in bici, in moto o sul cavallo? Casella
... ama la Vodafone? Cafone
... è un cretino? Catino
... annusa il sedere? Canale
... va spesso in una piazzuola? Cazzuola
... gioca con una giraffa? Caraffa
... ama la musica di Vasco? Casco
... vuol stare vicino al lampione? Campione
... è veloce come un lampo? Campo
... ti porta il giornale? Carlino

UN RAGAZZO INVADENTE

   Luca G.


D urante il periodo delle scuole medie ho dovuto sopportare le burle e i tormenti di M., un ragazzo di colore che si divertiva a fare a me e agli altri compagni degli scherzi di cattivo gusto. Io ero la sua vittima preferita, anche se non l’unica, quindi a differenza degli altri non riuscivo proprio a sopportarlo, nonostante qualche volta lui si dimostrasse calmo e composto e si scusasse dopo aver fatto certi scherzi. Infatti alle volte mi stava addosso, mi scimmiottava se facevo qualcosa che gli sembrava strano e mi derideva. Purtroppo, anche dopo le medie non riuscii a liberarmene completamente. Come quasi tutti i compagni delle medie, abitava nel mio stesso quartiere e non era difficile incontrarlo. Un giorno, non so perché o per come, il babbo mi aveva chiamato per dirmi, anzi ordinarmi, di rispondere al citofono. Mi aveva detto che c’era M. che stava suonando e che nessuno gli stava rispondendo, dopo che il citofono era rimasto aperto. Io lo presi, chiamai M., ma non ottenni nessuna risposta. Non so proprio cosa sia successo, né il perché, non tendo nemmeno a pensare che M. mi avesse fatto uno scherzo tipo “suona e scappa”, però mi legai al dito questa faccenda. E alcuni giorni dopo, lo richiamai al cellulare dicendo: “Hai presente quella sensazione che si prova quando si è coinvolti in un equivoco al campanello?”. “Sì”. “Bè, provala!”, gli dissi chiudendogli il telefono in faccia. Purtroppo M., oltre a essere dispettoso e in vena di scherzi, era anche un tipo vendicativo e me ne resi conto tre giorni dopo. Dovevo andare da una parrucchiera che da molti anni mi tagliava i capelli e a cui ero affezionato. L’appuntamento era per le 16. E durante il tragitto, chi incontrai per la strada? Proprio M.. Egli mi venne incontro, mi salutò sorridendo e iniziò a camminare insieme a me. Nel ritrovarmelo di fianco, mi sentii a disagio, e non solo per quanto successo tre giorni prima al telefono. M. indossava un giubbotto color verde militare, con attaccati un patacchino della bandiera tedesca e uno rosso con la faccia di Che Guevara. La indicai e lui mi disse che era un grande. Poco dopo M. mi ricordò un ‘numero’ che facevo alle medie. Dovete sapere che nel trailer del film A ruota libera, del 2000, c’è una scena in cui Manuela Arcuri molla uno schiaffo a Carlo Buccirosso urlando: “Amore, sì! Ma quanto mi piaci…”. Ebbene, io alle medie usavo questa scena per imitare Marina La Rosa, la gattamorta della prima edizione del Grande Fratello. M. mi rifece la scena pari pari, non mi colpì in faccia, ma capii perfettamente che aveva capito a cosa mi ero ispirato per l’imitazione di Marina, anche lui doveva aver visto più volte quel trailer. Si avvicinavano intanto le 16, io continuavo a camminare indifferente verso il negozio della parrucchiera, senza palesare troppo a M. il disagio che avevo nello stare con lui. Mi guardai bene dal raccontargli che dovevo andare a farmi tagliare i capelli, anzi: sapevo troppo bene che poteva pensare male all’idea che andavo da qualcuno che per mestiere taglia i capelli alle donne, anche se lei li tagliava anche ai maschi. Sentii di nuovo M. scherzare, e gli raccontai un episodio che mi aveva visto rispondere male a un’educatrice del campo estivo che mi aveva trattato male: “Hai insultato un membro della mia famiglia!”, le avevo detto, e poi avevo fatto scattare una rissa. Poi gli raccontai del fatto che non fumo, che il babbo era contento di questa mia scelta e che al contrario lui, che fumava, non voleva che gli si parlasse di quest’argomento. Ogni volta che tentavo di fargli capire che il fumo fa male, lui si alterava e cambiava subito discorso. Del resto anch’io avevo detto ad alcuni ‘amici’ che il fumo fa male, e nel sentirmi rispondere che il fumo fa bene, io decisi di stare al gioco, solo per farli stare buoni e rendermeli simpatici. Gli feci credere che avevo fumato anch’io, che avevo addirittura provato da fumare l’ovomaltina: ovviamente non è vero. Erano ormai le 16. Era l’ora di entrare dalla parrucchiera. E non mi ero ancora liberato di M. Non potevo dirgli del mio impegno e, visto che dovevo lasciarlo ignaro della cosa perché non mi prendesse in giro, continuai a fingere di nulla. Continuammo a chiacchierare, gli mostrai il cellulare blu che avevo con me, dicendogli che era del babbo e che l’avevo scambiato con il mio perché con il suo ci giocavo sempre al labirinto. M. lo prese e finse di chiamare al telefono proprio il mio babbo, recitando anche le sue battute: “Come?! – disse - Un membro della mia famiglia che fuma?!”. Anche stavolta stetti al suo gioco, assistendo impotente e con disagio alla scena. Non volevo scatenare risse, specie vicino al negozio della parrucchiera. Però rimasi amareggiato dal gioco di M., il quale mi restituì il cellulare inventando che il babbo era molto arrabbiato con me. Ero ormai in ritardo, non potevo più rimandare a oltranza l’appuntamento e allora dissi a M.: “Ho traslocato, ho cambiato casa”… “No, non è vero”… “Oh sì, è vero!”, gli dissi, e gli indicai il portone di un condominio vicino alla porta del negozio. Pensavo di poter entrare facendo credere a M. che stessi in realtà tornando a casa.
Lui si voltò, credetti di essermelo tolto dai piedi, ma appena entrato nel negozio della parrucchiera, mi girai e vidi M. che da perfetta carogna mi guardava bieco sorridendo dalla porta: “Buona acconciatura da frocio”, mi disse. Capii che mi aveva seguito, aveva letto la scritta sulla porta del negozio “P. – acconciature” e aveva capito tutto. Mi avvicinai alla porta per uscire, timoroso per il freddo che faceva, e lui scomparve. Come un fulmine. Mi allontanai e riapparve, ripetendomi la stessa frase. L’idea di essere osservato non mi piaceva per niente. Irritato dalla sua invadenza uscii di nuovo e lui scomparve. Ma per poco. Dissi alla parrucchiera di quello che stava accadendo, uscii un’ultima volta in strada e M. mi disse con tono un po’ più serio che doveva tornare a casa. Non in tono severo, ma serio. Per quel giorno il tormento era finito. Ma io rimasi comunque angosciato dall’idea di rivedermelo di nuovo comparire fuori dalla porta del negozio e sbeffeggiarmi, o seguirmi mentre tornavo a casa per fare la stessa cosa. E avevo capito che si era pure vendicato di quanto accaduto tre giorni prima. Quanto a me, visti i tormenti subiti durante le scuole medie e la vicinanza a casa, ebbi per molto, moltissimo tempo, molta paura di incontrarlo per strada. Ero rassegnato all’idea di subire i suoi fastidi per tutta la vita. Per fortuna non fu così: dopo circa un anno divenne anche molto più pacato e meno impiccione, pure perché io ero riuscito a evitare tutte quelle buone occasioni per ritrovarmelo davanti, per esempio evitando le strade che faceva lui oppure mostrando una calma e una pazienza ancora maggiori rispetto a quell’occasione. E un anno dopo ancora andò a vivere da un’altra parte, sparendo così definitivamente dalla mia vista, e anche dalla mia vita. E questo mi diede uno straordinario sollievo, perché significava che ero stato liberato da qualcuno che non volevo più incontrare, tanto era invadente quel ragazzo.

…E IO NON VEDO PIÙ LA REALTÀ

   Cesare Riitano


Nella redazione di cronaca fa un caldo soffocante; sto sudando. Vorrei denudarmi e liberare il mio pene da quegli inutili boxer aderenti: sto pensando di avere un'erezione. La direttrice sta parlando con foga di CO-MU-NI-CA-ZIO-NE, preoccupandosi di scandire con tono marziale le sillabe di quel parolone così importante. Attorno a lei, i miei colleghi annuiscono in modalità sincrona come robot semi-umani, come ossessionati adepti di Sai Baba, come fedeli estasiati dall'apparizione della Madonna di Lourdes; e capisco perfettamente il perché. Marzia ha labbra ben disegnate e carnose, i suoi capelli castano chiaro sono sciolti e profumano di mare, porta una sorta di poncho rossiccio che esalta la sua pelle ambrata, e inoltre, è sorretta da piedini meravigliosi, incorniciati da sandali infradito di fattezza africana. D’improvviso la ‘vedo’ girarsi verso di me; non riesco a sentire la sua voce, ma il suo labiale è di una chiarezza esaltante, straordinaria, eccitante! Mi dice: “Cesare, ti amo, ti ho sempre amato!”; e poi, accarezzando il mio viso tremante mi sussurra un seducente: “Andiamo?”. “Dove?!”, le rispondo con uno sguardo ebete. “Al mare, no?”, replica, lanciandomi un invitante e sensualissimo bacio. Di colpo mi afferra energicamente la mano e, correndo, usciamo da quella spoglia redazione spalancando la porta. Ci troviamo d’incanto in una spiaggia senza fine, di fronte alla quale si estende un mare calmo e infinito, leggermente oscurato da un tramonto che ha il sapore del primo bacio. La brezza calda che mi colpisce mi rivela che sono completamente nudo. Mi volto verso Marzia, sorride senza veli come Eva, priva di ogni peccato. Mi stringe a sé; sento i suoi seni turgidi comprimere il mio scarno torace e, mentre mi dichiara il suo amore, da uno sperduto jukebox arrivano note e parole... indimenticabili:
…ed io non vedo più la realtà
non vedo più a che punto sta
la netta differenza fra il più cieco amore
e la più stupida pazienza no, io non vedo più la realtà
né quanta tenerezza ti dà la mia incoerenza
pensare che vivresti benissimo anche senza…*
“Cesare tu mi ami? Dimmi che mi ami! Ti prego!”, mi supplica dolcissima, Marzia. Come un vulcano dormiente da mille anni, il mio desiderio per lei esplode fragorosamente e, con foga latina, grido alle stelle: "Sììì! TI AMO, TI AMO Marzia, IO TI HO SEMPRE AMATO!!!”. La stringo forte a me e, come un folle innamorato, chiudo gli occhi, cercando con le mie labbra la sua bocca vogliosa…
D’un tratto sento una voce metallica provenire dal mondo terreno: “Cesare ci sei? Sei tra noi???”. Come un sonnambulo svegliato dal suo delirio, mi ritrovo drammaticamente ancora in quell’afosa redazione, con i miei colleghi giustamente sogghignanti di fronte alla mia inadeguatezza, e con la Dottoressa Marzia Guerreschi, alquanto seccata dalle mie continue ‘assenze’. “Sì, ci sono, Marzia, scusami, ero sovrappensiero”, provo a giustificarmi. “Sovrappensiero?”, ribadisce alterata, “Sono stufa dei tuoi sovrappensiero! Adesso tu mi dici a COSA stavi pensando! Altrimenti quella è la porta!”.
Con la testa bassa, guardando i suoi incantevoli piedini, le dico questo: “Era solo un’emozione… Non da poco”.

*Anna Oxa, Un’emozione da poco


PERCHÈ È LA SOCIETÀ AD AVERE LA MALATTIA E NON I PAZIENTI

C’era un paziente schizofrenico che soffriva e soffriva. Riusciva ad esprimersi bene nel suo dialetto e parlava poco italiano. Un giorno chiese in friulano dove era piazza San Giacomo, perché lui sapeva che la sua casa si trovava lì, ma non ricordava bene la strada. Chiese aiuto a un signore e questo conosceva bene il friulano, ma vedendo il paziente esprimersi balbettando e farfugliando, perse la pazienza e gli disse: “Vai lì, poi lì, vai dritto e non mi rompere più i coglioni!”. Il paziente non capì bene le indicazioni e chiese a un’altra signora, che conosceva bene anche lei il friulano. La signora, vedendo questo paziente diverso e un po' strano nell’esprimersi, si impaurì e gli disse: “Piazza San Giacomo è vicino al castello, sono di corsa… Ciao!”… Il paziente era dispiaciuto, ma una signora che veniva dall’Australia e non sapeva né friulano né italiano, ed era in ferie lì, chiese al paziente se voleva un attimo attraversare la strada e bere un caffè con lei. Così, da seduti, avrebbero cercato di capire cosa e come, con calma. Si capirono. Si salutarono. Il paziente si incamminò da solo e raggiunse piazza San Giacomo e anche casa sua. Fu felice tutto il giorno.



QUANDO LA GENTE VUOLE BUTTARE GIÙ IL MORALE AI SOGNATORI

C’era una volta un paziente che aveva iniziato un percorso di musicoterapia in un CSM e nonostante le sue difficoltà riusciva a continuare a frequentare la scuola.
C’era un compagno di classe che lo prendeva in giro: “Tanto non ti serve a niente la musicoterapia, sei matto…”. A sua volta il musicoterapeuta in CSM si sentiva dire da alcuni clinici: “Ma cosa vuoi fare con la musica, ci sarà un motivo se è pieno di infermieri qua da noi, a quelli devi dargli il farmaco e basta, son matti… Musica… Ma chi vuoi guarire, dai, strimpellando! È giusto che i servizi facciano partire progetti, ma sai meglio di noi che non puoi far nulla con quelle quattro note, il vostro destino è sfortunato: siete come quei mendicanti con la chitarra appresso…”. Il paziente ed il musicoterapeuta invece erano felici del loro incontro.
E un giorno il paziente a scuola lesse una poesia, nell’ora di letteratura:
Tutti dicon che son matto, matto, matto!
A scuola me lo dicon, a casa me lo dicon…
Io fortunatamente non me lo dico ancora.
Faccio brutti pensieri, ma ve n’è uno di bello,
il pensiero di incontrare il mio amico musicoterapeuta
mi dà speranza e sostituisce tanti grigi e cupi pensieri.



LUI NON RIUSCIVA A DARE

C’era una volta, tanto tanto tanto tempo fa, un operatore sempre sfiduciato. Aveva mete elevate, da anni frequentava assiduamente un monaco theravada originario dello Sri Lanka e riceveva insegnamenti seri, era un vero maestro spirituale. Questo operatore era sfiduciato perché tutti i pazienti che lo conoscevano gli chiedevano delle cose (mai gli chiedevano le cicche). Gli chiedevano aiuto, una passeggiata, un favore, di aiutarli a trovare lavoro, o gli domandavano delle cose più su un piano intellettuale, ma lui non riusciva a dare. Il monaco lo ricevette presso il parco delle gazzelle e gli disse di non essere arrabbiato con sé stesso, perché intanto era sulla buona strada: i frutti stavano maturando. Se i pazienti gli chiedevano delle cose, significava che stava lavorando bene sul concetto di generosità e loro che chiedevano ne erano una conferma. “E non correre, il momento di dare arriverà”, aggiunse il monaco.



ANCHE I CAMPIONI DEL MONDO PERDONO!

   Matteo Bosinelli


In questa partita vediamo a confronto il fortissimo Vassily Ivanchuk contro l’attuale campione del mondo, Magnus Carlsen. Dopo una fase di apertura piuttosto ‘sofferta’, Carlsen si trova subito in una situazione sfavorevole, ma è difficile capire dove abbia sbagliato realmente. Tant’è che Ivanchuk, dopo una sfilata di mosse particolarmente incisive, ha la meglio. Invito quindi il lettore a gustare questa breve, ma piacevole ‘miniatura’.


Ivanchuk – Carlsen (Doha, Qatar 2016)
 
1) d4 d5
2) c4 c6
3) Cf3 Cf6
4) Dc2 e6
5) Cbd2 dxc4
6) Cxc4 c5
7) dxc5 Axc5
8) a3 0-0
9) b4 Ae7
10) Ab2 Dc7
11) Tc1 Cbd7
12) e4 b5
 

 
13) Ca5 Dxc2
14) Txc2 Cxe4
15) Axb5 Cd6
16) Ac6 Tb8
17) 0 - 0 Cb6
18) Td1 Td8
19) Ce5 f6
20) Af3 fxe5
21) Cc6 Ab7
22) Cxe7+ Rf8
23) Axe5 Cbc4
24) Axd6 Cxd6
25) Cc6 Axc6
26) Txc6 Cb5
27) Txd8 Txd8
28) Ta6 Tc8
29) h4
 

 
29) Tc7
30) Ag4 e5
31) Ta5 Cd6
32) Txe5 Cc4
33) Tf5+ Re7
34) Tf3 Ce5
35) Te3 Rd6
36) Ae2 h6
37) f4 Ta3+
38) Rf2 Cd7
39) Af3 Tb3+
40) Rg3 Ta2
41) Td3+ Re7
42) Tc3 Rd8
43) Rg4 Td2
44) Tc6 Td3
45) Ta6 Cf6+
46) Rf5 Td7
47) g4 Ce8
48) g5 hxg5
49) hxg5 Cd6+
50) Rg6 Cb5
51) Ta5 Cd4
52) Ag4
 

 
e il nero abbandona: 1-0

PAROLE E IMMAGINI

   Gruppo del Laboratorio Espressamente



 
 
 

 
 
 


EMOZIONI E CANZONI

   LABORATORIO di ARTETERAPIA – C.R.E.I. CASA SAN GIACOMO - COOP. SOC. NAZARENO


Siano benedette tutte le emozioni,
siano esse tetre o luminose.
Nathaniel Hawthorne

Una premessa
Casa San Giacomo nasce nell’ottobre 2016 dall’esperienza nel lavoro riabilitativo della RTR- E Casa M. D. Mantovani con i giovani pazienti seguiti dal dipartimento di Salute Mentale di Bologna nel tentativo di iniziare a lavorare con i ragazzi in adolescenza per evitare, ove possibile, di arrivare nelle comunità terapeutiche per adulti già particolarmente segnati dalla psicopatologia. È una comunità educativa – integrata che ospita sei adolescenti dai 15 ai 18 anni con disturbi psichici e svolge principalmente una funzione terapeutica e riparatrice, di sostegno e di recupero delle competenze e capacità relazionali di minori in situazione di forte disagio in seguito a traumi e sofferenze di natura psicologica che non necessitano di assistenza neuropsichiatrica in strutture terapeutiche intensive o post-acuzie e fornisce azioni di supporto psicologico e socio – educativo, dotate di particolare intensità, continuità e fortemente integrate con quelle svolte dai servizi territoriali.

Il laboratorio di Arteterapia di questa settimana ha affrontato il tema delle emozioni, attraverso l'ascolto di alcuni brani musicali abbiamo avviato una riflessione sul valore dei vissuti emotivi. Di seguito si riportano alcuni estratti delle canzoni scelte, unitamente alle emozioni e ai pensieri che hanno generato negli ospiti:

L'emozione non ha voce di Adriano Celentano
Io non so parlar d'amore
L'emozione non ha voce
E mi manca un po' il respiro
Se ci sei c'è troppa luce
La mia anima si spande
Come musica d'estate


A.G.: questa è una canzone d'amore.
C.B.: felice, amore.
L.A.: amore, gioia e allegria


Grande amore dei Volo
Dimmi che mai
Che non mi lascerai mai
Dimmi chi sei
Respiro dei giorni miei d’amore
Dimmi che sai
Che solo me sceglierai
Ora lo sai
Tu sei il mio unico grande amore


A.G.: lui dice che pensa sempre a lei, vuol dire che è innamorato, è un amore forte.
C.B.: mi ricorda il mio primo bacio e il momento dell'adozione.
L.A.: amore e felicità.


Emozioni di Lucio Battisti
Domandarsi perché quando cade la tristezza
In fondo al cuore
Come la neve non fa rumore […]
E prendere a pugni un uomo, solo perché è stato un po' scortese
Sapendo che quel che brucia non son le offese
E chiudere gli occhi per fermare
Qualcosa che
È dentro me
Ma nella mente tua non c'è
Capire tu non puoi
Tu chiamale, se vuoi
Emozioni


A.G.: mi piace questa canzone, mi fa pensare alle estati passate anche se è un po' triste.
L.A.: mi sento pensieroso ed è stancante.


Ipernova di Mr. Rain
Siamo sette miliardi di persone ma tu hai scelto me
Comunque vada, anche se sarà finita
Sarai sempre la colonna sonora della mia vita
Ci siamo persi insieme.


A.G.: non mi piace questa canzone, anzi mi piace, ma l'ho ascoltata troppo e adesso mi annoia.
C.B.: mi fa sentire triste.
L.A.: mi fa pensare alla depressione, al passato.



Dopo aver raccolto le impressioni scaturite dall'ascolto dei brani, abbiamo chiesto se e in che modo è possibile definire un'emozione, ci siamo immaginati di dover spiegare a un extraterrestre il concetto di emozione per arrivare a una sua definizione. Secondo A.G. L'emozione è “come percepisci te stesso in un certo momento. Ci sono però emozioni a cui non so dare un nome”, similmente L. A. afferma “come una persona si sente in un determinato momento o in un’azione, come reagisce il tuo corpo in un dato momento. Le emozioni le senti nel corpo”. C.B. sostiene che le emozioni hanno diversi colori, come “sentirsi felici, tristi, arrabbiati. L'emozione parte dai ricordi, spesso mi arrabbio o sono triste perché penso a qualcosa che è successo tanto tempo fa”.
Secondo gli ospiti gli aspetti che creano le emozioni sono: la memoria, il cervello, il corpo, le sensazioni e il tempo. Il laboratorio si chiude con una considerazione importante, le emozioni, anche quando sembrano spaventose o indomabili, meritano sempre di essere ascoltate e di avere lo spazio per essere espresse.
Carolina Lamberti

EMOZIONI

   LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani


La parola ‘emozione’ è una parola importante, ci possono essere emozioni belle o brutte. ‘Emozione’ è una parola profonda che suscita tanti tipi di emozioni, eplosive… delicate… Perché l’emozione ha tante sfaccettature.

Luana Fabbri




Le emozioni sono sempre sincere e sono molto ampie. Sono proprie e continuative e sono molto ‘sentibili’ al nostro sentire. Le emozioni sono mie e sono motivate dal coraggio di ascoltarle e far prendere loro emotività o capacità d’intesa, non proprio alle emozioni stesse. La proprietà più audace delle emozioni è quella di renderci sensibili a codeste. Potrei dire che le emozioni sono proprio mie quando non ne ho paura, ma le sento rilevanti per quello che sono e non solo per quello che ci fanno.

Ayenalem Cotrone




Le emozioni sono parte dell’essere umano, forse le più importanti e per questo è giusto valorizzarle e ascoltare il prossimo. Penso che più delle emozioni siano importanti i pensieri che trascinano insieme a loro anche se, pur venendo dopo, generano una causa e ragionamenti.

Davide Palazzo




Io ho spesso delle emozioni negative perché mi sento sempre un pesciolino fuor d’acqua. Sono sempre stata abituata ad appoggiarmi a chi mi era o è accanto, perché so di avere grossi limiti ed emotivamente sono fragile.

Irene Castaldini




Io ero molto emotivo durante la scuola, facevo scena muta all’interrogazione di italiano e la maestra non mi faceva leggere. Ero emotivo anche con il professore delle medie, perché leggere davanti ai miei compagni di classe mi dava una forte emozione.

Stefano Gardini




Non so se le emozioni esistano. Se quando ero innamorato e avevo perso la testa per Margherita fosse qualcosa di vero, se tutto quel sentimento emotivo era reale o solo una realtà interiore che mi nascondeva la voglia di essere adulto. Gli adulti invece, una volta presi dalla realtà delle emozioni, mi sembra diventino tutti uguali, grigi, nei loro giubbotti verdi e opachi. Almeno così mi sembra.

Ilia Attianese

ERRATA CORRIGE

OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI:
FRANCESCO VALGIMIGLI


Francesco Valgimigli è nato a Roma il 13 settembre del 1972. Ha frequentato il Liceo Artistico Giorgio De Chirico di Roma. Da luglio 2016 si è trasferito a Bologna.




I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Francesco Valgimigli