Piergiorgio Fanti

Plinio Nomellini: “Sole e brina”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Silvia Fortunato

La luce e la sua storia etimologica nei tempi

Antonio Marco Serra

Foreste e radure

PB 57

Dio disse

Anna Maria Pareschi

Luce

Anna Maria Pareschi

Sole

Patrizia Degli Esposti

Appunti sparsi di luce

Lucia Monaco

La luce attraverso gli occhi

Concetta

Buio e luce

PB 57

Dal buio alla luce

Cesare Riitano

Tu hai visto la luce!!! Sì! Tu hai visto la luce!!!

Luca Gioacchino De Sandoli

Luce, Luca e lux

Matteo Bosinelli

Portisch-Fischer (Santa Monica 1966)

Cesare Riitano

Una luce offuscata

Gabriele Greco

Percorso evolutivo della luce

Lucia

L’importanza di chiamarsi Lucia

Cesare Riitano

Elucubrando sul tema della luce

Maria Angela Soavi

Tutti a casa, tutti a casa

Alessandro Merciaro

L’ombra di Dio

Giuseppe Giannantonj

Remo e l’amicizia

DEDICATO AD ARIANNA LO SPAZIO DELLA POESIA

 

      Sarah Tiralongo     Bambina
      Paolo Colognesi     Domani sarò un pentito
      Paolo Colognesi     Gente per bene
      Paolo Colognesi     Elucubrazione
      Marcella Colaci     Sole rinasci
      Maurizio Leggeri     La gioia dei fiori
      Paola Scatola     La luce
      Sarah Tiralongo     Oceani
      Giorgia Teresa Di Lullo     Il nemico del nemico
      Paolo Veronesi     Luce
      Giorgia Teresa Di Lullo     Canto del cigno
      Maurizio Leggeri     La speranza
      Maurizio Leggeri     Ode al XX secolo… vent’anni dopo
      Susanna Papa     Raggiungo l’ora lieta
      Mariangela Soavi     Coronavirus
      Sarah Tiralongo     Depressione
      Paola Scatola     Piccina
      Joe     La luce cos’è
      Bella Betta     La luce
      Alina

    La luce cos’è
      Susanna Papa     Speranza
      Enomis     È passato (Luce)
      Piergiorgio Fanti     Dov’è la Befana
      Piergiorgio Fanti     Volumi orizzontali (U. Boccioni)
      Matteo Martini     L’erba sui tetti
      Alina     La luce cos’è
      Annalisa Ciacco     Luce
      Giuseppe Giannantonj     La voce
      Sarah Tiralongo     Sola
      Sarah Tiralongo     Assenza d’amore
      Sarah Tiralongo     Signore

Tonino Guastavillani

Sono abbacinato!

INSERTO: FIAT LUX
      Carlo Monaco       Fiat lux
      Autori varii       La luce che cura
DAI GRUPPI DI SCRITTURA
      Gruppo AUSER Io poeto       Poesie
      DiSegno InSegno       Di luce, di buio e tanto altro

L. L.

Il sole sul pavimento

Paolo Sanzani

I Post-It

Mariangela Pezone

Le ‘verità’

IL TIMONE
      Il piccolo Friedrich     I raggi di luce

Marcella Colaci

La fotografia

Giovanni Romagnani

La notte di note

Luca Gioacchino De Sandoli

Cineforum a Sabbiuno: Upside Down

***

La Posta del Faro

I RACCONTI
      Francesco Valgimigli       Il canto del mattino
      Stefano Cittadino       Vicini di fiaba
      Paolo Veronesi       Il ciabattino
      Stefano Cittadino       Il passaggio nel quadro della capanna
      Stefano Cittadino       Ghost
      Maurizio Leggeri       La grande fuga
      Matteo Martini       Il falegname dei pesci

PB 57

Lettera aperta

Gli Artisti Irregolari:
      Sandra Aceresi
Opere
                                                                                                                                         
PLINIO NOMELLINI:
“Sole e brina” (1896, olio)

   Piergiorgio Fanti



 
U n dipinto dai colori squisiti, di rarissima armonia cromatica, un’opera assai ben equilibrata, di grande intensità e delicatezza. Questo quadro è opera di uno dei più alti ingegni che la pittura italiana ebbe tra l’800 e il ’900, Plinio Nomellini, nato a Livorno il 6 agosto 1866. Avviato all’arte dal Betti nella sua città natale, Plinio frequentò in seguito l’accademia fiorentina, dove ebbe per maestro Giovanni Fattori; i suoi primi lavori furono ispirati al realismo macchiaiolo, ma fin dal1886 si distinse con caratteristiche personali di espressione cromatico-luministica, accentuate nel 1988, dopo la conoscenza del post-impressionismo. Plinio espose Il fienaiolo alla promotrice fiorentina del 1889, meritando le lodi di Diego Martelli; ben presto si dimostrò interessato a un percorso altro da quello di “macchia”, dedicandosi a un più diffuso luminismo. Infatti, in una lettera del ’91 il Fattori, che pure lo aveva in grandissima stima, gli rimproverava di aver tradito i suoi insegnamenti per seguire la strada del post-impressionismo, naturale sbocco nell’adesione al divisionismo. Adottata la tecnica puntinista, in seguito il Nomellini fu disponibile al decadentismo preraffaelita e al simbolismo. Del 1893 è La Diana del lavoro ispirata alla vita operaia, dove il socialismo trova l’occasione, cosa non frequente, di diventare pittura sincera. Dagli ultimi anni dell’800 a circa il 1920 il Nomellini si dedicò a un modo di dipingere rutilante ed infuocato. L’ultimo periodo di attività lo portò a darsi a soggetti epici e celebrativi (dannunziani e garibaldini). Plinio Nomellini ebbe anche il merito di aver influenzato positivamente, tra gli altri, Pellizza da Volpedo. Si spense a Firenze, l’8 agosto del 1943.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


La luce è un’onda elettromagnetica che interagisce con la materia ed è fondamentale per la vita, basti pensare alla fotosintesi clorofilliana con cui le piante grazie alla luce trasformano l’anidride carbonica in ossigeno e zucchero, e come ben sappiamo senza ossigeno e zucchero non è possibile la vita per nessun organismo vivente. La luce è importante anche per la salute: esistono diverse malattie come il rachitismo in cui la mancanza di luce solare può causare patologie anche serie.
La luce viene percepita dall’uomo e dalla maggior parte degli animali attraverso gli occhi, esistono però anche animali che non hanno il senso della vista, ma ‘vedono’ in modo alternativo, come ad esempio i pipistrelli, che possono volare liberamente anche al buio captando gli ultrasuoni. Tra gli umani, alcuni non hanno la fortuna di vedere il mondo come la maggior parte delle persone, ma non per questo non possono vivere una vita piena e ricca di emozioni; i non vedenti infatti hanno un limite sensoriale, ma possono usufruire in modo più intenso di altri sensi, come il tatto, l’olfatto e l’udito. Le luci e ombre sono molto studiate, sviluppate e amplificate nelle arti pittoriche e scultoree: gli artisti ci giocano per orientare la nostra attenzione, suggestionandoci fino a procurarci forti emozioni.
Per dire quanto è importante la luce soffermiamoci su alcuni termini. La parola ‘luce’ viene usata per definire il momento più importante per la vita dell’uomo: la nascita. Così diciamo: “È venuto alla luce un bambino”. Col termine ‘luminoso’ si tende a descrivere una persona allegra, aperta e cordiale, mentre col termine ‘cupo’ il suo contrario. Infine il termine ‘luminare’ viene usato per indicare una persona dotata di grandissima conoscenza, esperienza e saggezza in uno o più campi dello scibile umano. Nella mia vita la luce è un elemento molto importante, in particolare per quanto riguarda il tono dell’umore: generalmente sono più attivo e di buon umore durante le lunghe giornate primaverili ed estive rispetto alle fredde e cupe giornate autunnali e invernali. Sinceramente non so spiegare il motivo di questo fenomeno, forse è legato alla possibilità di spaziare, andare oltre ai confini del proprio sé: probabilmente il buio mi costringe all’introversione, al dialogo interiore e alla malinconia, per non dire alla depressione, mentre la luce è un elemento diversivo, che mi distrae dai più ombrosi pensieri per portare la mente a spaziare sul reale. Quando mi trovo in cima alle montagne in giornate di sole e posso spalancare lo sguardo a 360 gradi, provo una felicità immensa: è tutto impressionante, bello e meraviglioso, quasi infinito e senza limiti. Anche quando mi trovo a fantasticare o sognare, nel sonno o a occhi aperti, come per scrivere un racconto, generalmente mi concentro su ambienti, cose o persone in qualche modo ‘lucenti’. E quando mi sono trovato a descrivere situazioni buie, comunque descrivevo quanto poco riuscivo a vedere in quel momento.
Per questo vi invito a utilizzare Il Faro, la cui luce è sempre accesa, per vedere immagini e colori e leggere esperienze sempre nuove e originali che chiariscono e arricchiscono la nostra vita.

LA LUCE E LA SUA STORIA ETIMOLOGICA NEI TEMPI

   Silvia Fortunato


S eguire la luce, è una traccia, una ricerca di sé. Vivere una vita fatta di luce è utopia? Provo a spiegare l’etimologia della parola e la sua storica evoluzione nei tempi. Il nome della luce in greco antico, φῶς (fòs), fa riferimento alla radice del verbo φαίνω (fàino)‘mostrare’, ‘rendere manifesto’. Per i Greci antichi la luce porta l’intelletto umano verso la verità, così come un faro guida dei marinai dispersi in cerca di salvezza. Nel corso dei secoli la luce è sempre stata simbolo di dimensioni superiori, trascendenti, come simbolo di ciò a cui la ragione umana tende. Pitagora riteneva che l’occhio si comportasse come un faro dell’anima, che emanasse cioè luce, per esplorare l’ambiente circostante e consentirne la conoscenza. Gli atomisti, il cui esponente più significativo era Democrito, ritenevano invece che la luce si muovesse dall’oggetto verso l’occhio, provocando così la visione. Nel Medioevo la luce ha rappresentato il divino, nell’Illuminismo ha raggiunto l’apice, diventando metafora della ragione, che permette all’uomo di uscire, come afferma Kant, da uno “stato di minorità di cui lui stesso è colpevole”, rappresentato dall’oscurantismo della Controriforma, inteso come incapacità umana di servirsi autonomamente del proprio intelletto. Perché dunque la luce ha in realtà un significato così profondo? Solo quando la luce è assente e il buio prende il suo posto, l’uomo ne riconosce l’importanza e la magia. La luce è ciò che permette all’uomo di fare esperienza della realtà, traducendo la sua bellezza ai nostri occhi e permettendoci di vivere senza limitarci alla sopravvivenza ma apprezzandone la maestosità. Senza luce, il mondo sarebbe solo un insieme di confuse masse incolori, poiché è grazie ad essa se possono essere percepiti i colori, ingredienti che rendono la realtà un quadro e trasformano banali forme in arte. Dal suo chiarore nascono i colori e dai colori nasce la bellezza, caratteristica primaria della realtà, che l’uomo può percepire solo grazie al bagliore, alla pura energia della luce. La luce è dunque il fulcro, il quinto elemento che dà origine ai primi quattro, perché attraversando i nostri occhi e raggiungendo il nostro intelletto ci permette di prendere coscienza di acqua, aria, terra e fuoco, che senza luce non esisterebbero alla vista. E allora chiudo, con una citazione di Platone: “Possiamo perdonare a un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”.

FORESTE E RADURE

   Antonio Marco Serra

Mentre era in viaggio verso Damasco.
all’improvviso l’avvolse una luce dal cielo
e cadendo a terra udì una voce che gli
diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”
Atti degli Apostoli, IX, 3-4



Primo interrogativo: la luce c’è sempre stata? Sia secondo la Bibbia che secondo la teoria del big-bang la risposta è negativa. Secondo la prima, dopo aver creato il cielo e la terra, il Padreterno ci ha pensato un po’ su, e si è accorto che c’era qualcosa che non andava. Perché non riusciva a vedere nulla. “Ah, adesso ho capito – esclamò - fiat lux!”… E la luce fu, e Dio vide che quella luce era buona e separò la luce dalle tenebre… Per la seconda, invece, c’è voluto un po’ più di tempo, circa 380.000 anni, perché i fotoni (le particelle che costituiscono i raggi di luce) riuscissero a farsi strada tra le altre particelle, smettendo di rimbalzare come palline da ping-pong impazzite, le une contro le altre, e a cominciare un tragitto, che per alcune di esse non si è ancora concluso. Per me un’ipotesi vale l’altra, e ritengo che entrambe abbiano più o meno le stesse probabilità dell’ipotesi che la luce sia stata generata da uno dei forti starnuti di mio zio Venanzio, che notoriamente sono molto potenti; ma lasciamo perdere: basta che la luce ci sia, e siamo contenti tutti.
Facciamo un salto avanti (secondo gli scienziati) di qualche miliardo di anni. Quasi 3400 anni fa, un sovrano ebbe un’idea balzana, quella di modificare la religione ancestrale del proprio popolo, che era rimasta più o meno immutata da almeno un millennio e mezzo. Il faraone egizio Akhenaton (il famoso marito dell’ancor più famosa Nefertiti) decise di portare alla gloria degli altari il dio Aton, personificazione dell’astro solare e, in una sorta di mistica della luce ante litteram, iniziò a farsi ritrarre illuminato dai raggi della luce divina.
In realtà, non conosciamo gli esatti dettagli della rivoluzione religiosa di Akhenaton: per alcuni storici egli intendeva sostituire tout-court il politeismo col monoteismo, per altri invece Aton sarebbe dovuto divenire solo il principale degli dèi. È probabile che ci fosse sotto anche il tentativo politico di togliere potere alla potentissima casta sacerdotale del dio rivale Amon. Comunque siano andate le cose, il tentativo ebbe vita breve. A pochi anni dalla morte di Akhenaton e Nefertiti la religione dei padri fu restaurata e, questa è la vulgata, fu decretata la damnatio memoriae del faraone ‘eretico’, e ogni sua immagine e ogni iscrizione recante il suo nome fu distrutta. Chissà poi se gli storici ce la raccontano giusta: gli antichi Egizi erano persone che sapevano il fatto loro, e se avessero realmente voluto cancellare la memoria di Akhenaton, oggi neanche saremmo a conoscenza della sua esistenza. E invece ci restano ancor oggi decine di sue immagini, statue e bassorilievi, molte più di tanti altri faraoni. Alcune, tra l’altro, molto tenere, e del tutto inusuali per l’iconografia del tempo, in cui Akhenaton e Nefertiti tengono i propri figli in braccio e sulle proprie ginocchia, coccolandoli e sbaciucchiandoli, sempre debitamente illuminati dai raggi della luce solare. A me pare più probabile che i restauratori abbiano voluto cancellare giusto quel tanto da lasciare un chiaro monito ai posteri, tipo: “questo faraone è stato cattivello, non provatevi a seguire il suo esempio”. E infatti, in Egitto, non ci sono stati ulteriori tentativi in questo senso. Beh, poi è arrivato il Cristianesimo, ma questa è un’altra storia. Morale della favola: non sempre rivolgersi all’adorazione della luce risulta un’idea vincente. Se mi consentite la freddura: questo è un modo di vedere le cose… sotto un’altra luce.
Lucus a non lucendo, vale a dire: “[la parola] bosco [deriva] da [ciò che] non è illuminato”. Per questa sua proposta etimologica, il povero Varrone (Marcus Terentius Varro, 116 - 27 a.C.), che l’aveva proposta nel suo trattato De lingua latina, è stato sbeffeggiato, tanto che la frase citata è divenuta proverbiale col significato di ‘ragionamento sconclusionato’ o di ‘ipotesi senza alcun fondamento’. E oggi, forse a dimostrarci quanto le supposte luci della ragione siano ondivaghe e intermittenti, i linguisti sostengono che, no, probabilmente Varrone aveva ragione: lucus (bosco) deriverebbe effettivamente da lux (luce), se pure nel senso opposto a quello proposto da Varrone: Lucus a lucendo, e si riferirebbe alla luce che improvvisamente colpisce gli occhi di chi, provenendo dall’oscurità del bosco, giunge a un tratto in una piccola radura aperta. Quelle radure dove i primitivi latini si recavano per compiere i propri sacrifici, erigendovi degli altari, ritenendole presumibilmente sede di qualche antica divinità, oramai dimenticata. E proprio ‘radura’, è uno dei termini cardine del pensiero del filosofo Martin Heidegger, il termine tedesco, Lichtung, secondo l’interpretazione di Heidegger, deriva sia dal termine ‘luce’ che dal termine ‘diradamento’, ed è dunque etimologicamente parente stretto del lucus latino appena visto. Lungi da me il desiderio di addentrarmi negli oscuri meandri, del pensiero del filosofo tedesco, in cui solo lui, forse, si muoveva con disinvoltura, ma mi intriga questo concetto che alla mia mente richiama luoghi (dello spazio o della mente) dove gli occhi che vedevano male, a causa dell’eccessiva oscurità, ora vedono male per l’eccesso di luce. Un bagliore di luce può rischiarare, ma il suo eccesso abbaglia; quando prendiamo una cantonata, non diciamo forse: “Ho preso un abbaglio”?
Nella pressoché sterminata selva dei significati metaforici che alla luce sono stati attribuiti nella nostra cultura occidentale, forse due filoni, in qualche modo contrapposti, sono quelli preminenti. Da un lato la luce come simbolo del contatto con la divinità, con ciò che è assolutamente altro da noi ma su cui si fonda l’intera esistenza del credente, e senza il quale la sua vita sarebbe priva di senso. Dal lato opposto, invece, la luce come metafora della ragione, che illumina le tenebre dell’ignoranza. Scrive Carlo Monaco, nel suo bell’articolo nell’inserto di questo Faro: “la rivelazione divina [..] sarebbe assolutamente inconsistente, se non ci fosse il rapporto dell’uomo con il divino come fonte vera di ogni illuminazione”… Anche se poi, come scriveva nel IX secolo Giovanni Scoto Eriugena, nemmeno in Paradiso i beati potranno contemplare il volto divino, perché saranno abbacinati dalla sua luce. E forza, Scoto, dai, un po’ di ottimismo, ogni tanto! Preferisco allora la dottrina della scintilla dell’anima (il bagliore che rivela l’impronta divina in ogni uomo) di uno dei maggiori teologi medievali, Meister Eckhart, attraverso cui il maestro sostiene la partecipazione dell’uomo all’essere divino. Quanto alla seconda interpretazione, i più convinti, e forse un po’ presuntuosi, assertori dell’analogia luce – ragione, giunsero a definire il proprio secolo, il Settecento, le siècle des lumières (il secolo delle luci), da cui il termine italiano ‘illuminismo’. Come scriveva uno dei più celebrati illuministi, Denis Diderot: “Se rinuncio alla ragione, non ho più una guida. [...] Perso in un’enorme foresta di notte, ho solo una piccola luce che mi guida.
E ancora la foresta! Francamente, da una specie i cui progenitori abitavano sugli alberi, questo continuo denigrare le foreste un po’ mi sconcerta. “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”. Embè, che sarà mai, Dante! Arrampicati su un albero e vedrai che la strada di casa la ritrovi! Ma chissà, forse si tratta di un odio-amore, forse aveva ragione quello psicoterapeuta (ora non ricordo più chi fosse) che sosteneva che le nostre nevrosi non traessero origine da accadimenti avvenuti nella nostra infanzia, ma da fatti accaduti molti milioni di anni prima, quando qualche nostro progenitore, che oggi non distingueremmo da un comunissimo scimmione, come conseguenza della deforestazione avvenuta nel miocene a causa di cambiamenti climatici, fu costretto a scendere dagli alberi e avviarsi nella savana (o era una radura, forse una Lichtung, ora non ricordo più). Ma ciò che non mi convince, in tutte queste metafore sulla luce, è la loro struttura manichea: o hai ricevuto l’illuminazione, o sei escluso dal novero dei giusti; o hai posto su un piedestallo la ragione raziocinante, o sei un insulso babbeo.
Mettiamo pure che la foresta sia il Caos, l’oscurità, e la radura l’Ordine, la luce. Ma non ci sarebbe illuminazione, sia in senso fisico, sia in senso spirituale, se non ci fosse l’oscurità. Se non ci fosse il buio della foresta fitta, non ci sarebbe il bagliore della radura, che l’interrompe. Mi vengono in mente le parole del poeta cantautore Leonard Cohen (oggi sono in vena di citazioni): “C’è una crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”. Penso che se noi abbiamo tanta paura del caos, dell’oscurità, è perché abbiamo sentore dell’oscurità che domina nel nostro profondo. Peccato che sia profondo proprio perché è oscuro, e che non vi sia autentica profondità se non dove regna l’oscurità. Come ho già scritto su queste pagine in altre occasioni: non c’è nulla che ci deve spaventare in quell’oscurità, che anche (o soprattutto) ci costituisce, e dobbiamo imparare a colloquiare amichevolmente con essa. La nostra luce e la nostra oscurità non si contrappongono, a meno che noi consentiamo loro di farlo: la nostra luce fluttua nella nostra oscurità, come una piuma. E infine, soprattutto, se abbiamo accettato il nostro sorgere, come la luce all’alba, dobbiamo allora anche accettare di tramontare, sereni, come la luce che sfuma dietro all’orizzonte. Come scriveva Marco Aurelio, e ora davvero concludo: “Che cosa c’è di terribile se da questa Città ti scaccia non un tiranno né un giudice ingiusto, ma la Natura che ti ci aveva introdotto? […] Colui che fu causa della formazione e adesso è causa della dissoluzione, definisce il termine ultimo. Tu non sei causa di nessuno dei due. Va’, dunque, sereno, poiché colui che ti congeda è sereno”.

DIO DISSE

   PB 57


Dio disse: “Sia luce”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte... Tobia gli si buttò al collo e pianse dicendo: “Ti vedo figlio, luce dei miei occhi”... Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia... Egli non era la luce ma doveva render testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo... I primi scritti, che io ricordi, in cui scoprii la parola ‘luce’ erano i testi della sacra Bibbia. Da piccola andavo al catechismo e spesso nel libretto che mi avevano dato da leggere c’erano disegni di persone divine: angeli, santi, Gesù bambino, avvolti o meglio investiti da luce immensa. Il gioco della luce sulle pagine o nei disegni, mi aveva già sedotta, quando, essendo nata con una malformazione congenita, dal letto di ospedale, mia madre mi leggeva fantastici libri di fiabe. Per me quelle letture, in quel luogo pieno di sofferenza e bui di paura, erano veramente sassolini di perle luminose. Poi ci sono sempre stati i presepi di ogni Natale e anche da mamma ho amato tanto questa rappresentazione: lì era pieno di luci: stelline, cometa e ogni 25 dicembre si cantava: “Astro del ciel, pargol divin, mite agnello redentor: tu che i vati da lungi sognar, tu che angeliche voci annunziar... luce dona alle menti, pace infondi nei cuor”...
Nascere, venire al mondo: è una dimostrazione assoluta di grande magnifica LUCE. Ho avuto la fortuna nella mia vita di sciogliermi in questo evento gioioso che spazza via tutto, il dolore e le sofferenze, passati, presenti e ti fa immaginare il futuro pieno di bene di sorrisi e speranze... Ma come dice il proverbio: non è oro tutto quello che luccica. È un attimo, uno scatto imprevisto... perdere la mitica luce. Un matrimonio fallito, la perdita di un lavoro che ti piace, una devastante malattia, prima del padre poi di una madre favolosa, l’allontanamento di un figlio, poi la depressione... Sono stati gli interruttori per un blackout totale. La depressione è seducente: ti spaventa e ti attira, tentandoti con la sua promessa di dolce oblio e poi travolgendoti con un potere quasi sessuale, strisciando al di là delle tue difese, dissolvendo la tua volontà, invadendo la tua anima stanca in modo così completo che diventa difficile ricordare di aver mai vissuto senza di essa. Con scaltrezza satanica, la depressione ti persuade che la sua invasione non è che una tua idea, che l’hai sempre voluta. Annebbia la parte del cervello preposta al ragionamento, che distingue tra il bene ed il male. Ti cattura con i suoi piaceri avvolgenti, colpevoli, destabilizzanti e la cosa peggiore è che diventa familiare. D’un tratto ti ritrovi schiavo di ciò che ti terrorizza. Chissà quanto tempo ancora separa me dalla luce delle origini… Forse nell’eternità ritroverò i suoi sentieri.

LUCE

   Anna Maria Pareschi



E luce fu… per dare vita ad ogni essere vivente.
La luce che primeggia – a parte il sole – è quella che scaturisce dal cuore. Ogni innamorato ha occhi brillanti come piccoli soli splendenti di luce propria, testimoni della loro felicità. Gli innamorati riescono ad azzerare ogni eventuale difficoltà, grazie alla forza insita in loro e nel loro amore. Essi sono avvinti da anelli di luce abbagliante che nessuno può infrangere! Un angelo veglia sempre sul loro amore, come protezione potente.

SOLE

   Anna Maria Pareschi



I l Sole è di uno splendore assoluto. Sabbia e Mare… Poca luce, perché è mattino molto presto. Poi… Un tuffo al cuore! Rosso tenue e rosa… si estendono per quasi tutto l’orizzonte… È l’Aurora. Una specie di miracolo... Poi sparisce pian piano… per cedere il posto all’Alba… Io vedo una piccola porzione di Sole che nasce all’orizzonte, rispecchiando il suo rosso vivo sul mare… È talmente emozionante che mi scendono le lacrime di gioia…e il cuore si arresta! Io ringrazio per questo dono che mi è dato… E… “m’illumino d’immenso”.

APPUNTI SPARSI DI LUCE

   Patrizia Degli Esposti


La giornata è luminosa, il sole la fa da padrone e il riflesso è così forte che è necessario mettere gli occhiali. Eppure la luce esterna è in netto contrasto con il buio interiore. Sarebbe molto meglio se piovesse, se il cielo fosse scuro di nuvole, allora sì che l'umore sarebbe intonato alla giornata. Quante persone vivono nel buio nonostante splenda il sole. Il buio nell'anima, che opacizza tutto, che toglie l'energia e la voglia di fare, di dire, di socializzare. Credo che ognuno di noi abbia vissuto periodi in cui la luce era spenta. Osservo gli anziani, ospiti in una struttura, alcuni dei quali hanno espressioni statiche, quasi annoiate, senza un'ombra di sorriso o di smorfia. Dov’è la luce per loro? E gli ammalati, quelli cui il dolore fisico ha ucciso la speranza? Uno spiraglio di luce, pur piccolo, può illuminare un angolo, formare una linea orizzontale e distendersi, allargarsi, riempire un'intera parete, inondare l'intera stanza. La luce non fa rumore è silenziosa come un abbraccio che scalda e consola.
Da piccola avevo il terrore del buio, mi rannicchiavo sotto le lenzuola e le coperte, temendo chissà quale aggressione se solo avessi avuto un millimetro del mio corpo scoperto, ma se c'era un poco di luce, quella che entrava dalla tapparella non completamente abbassata, allora mi addormentavo tranquilla e serena, senza il rischio di soffocare sotto le coperte... La gioia illumina il viso di chi la prova. I bambini che giocano nei cortili, che si rincorrono, che possono gridare e ridere emanano una luce colma di energia. La luce vibra intorno a noi, possiamo negarla, respingerla, ma se riusciamo a fermarci un attimo ed osservare il mondo che ci circonda possiamo sentire il pulsare della luce che si irradia dai corpi, dalle piante, dai fiori. La luce delle stagioni può colmare la vista e illuminare la nostra consapevolezza: il penetrante bianco della neve e del ghiaccio in inverno; il morbido giallo e marrone delle foglie in autunno; l'allegro e vibrante verde della vegetazione in primavera; il caldo e rassicurante rosso dei pomodori maturi in estate. Anche i non vedenti hanno la loro luce, che scorre con il tatto, con l'odorato, con l'empatia. Potente è l’immagine di un faro che illumina la notte con il suo lungo raggio, allontanando il buio con movimenti gentili, come una danza circolare, perché tutti possano sentirsi protetti oltre l’oscurità.

LA LUCE ATTRAVERSO GLI OCCHI

   Lucia Monaco


La parola ‘luce’, la interpreto in tanti modi, prima di tutto in senso proprio: luce è quella che vediamo quando ci svegliamo al mattino, apriamo le finestre e alziamo gli occhi al cielo, che ci trasmette molta luce interiore. Anche se la nottata è stata tribolata, la luce che ci dona Dio ogni dì ci riempie l’anima, e anche se la giornata è piena di affanni e amarezze, se volgi gli occhi al cielo, risplende l’interiore. E se passi un momento di gioia, che ce l’hai fatta in tutto, nel percorso della giornata… Che luce! Io alzo gli occhi al cielo e dico “Sia lodato Gesù Cristo!”.
Io la luce la vedo negli occhi di una mamma quando sorride a fianco di suo figlio, in un bambino che sa benissimo di aver fatto la marachella e con gli occhietti e il sorriso pieno di luce non vuole essere sgridato.
E luce è anche negli occhi di quelle persone che hanno appena smesso di piangere, e per non far emergere il vittimismo e non essere commiserati dei loro patimenti, sollevano le palpebre e sdrammatizzano con un sorriso, anche se il dramma c’è e persiste.

BUIO E LUCE

   Concetta


Da piccola avevo paura del buio: quelle volte che capitava di dover andare a fare pipì, per non svegliare gli altri andavo in giro sempre con dei moccoli di candela, o con degli zolfanelli, insomma con tutto ciò che il mio animo innocente sentiva di dover portare con sé per combattere le tenebre. Sentivo in me, che una piccola luce mi avrebbe fatto compagnia e aiutato a sconfiggere la paura dell'ignoto, del nulla che ‘vedevo’ e percepivo nell'oscurità. Direbbe Foscolo, a tal proposito, che il buio è davvero pieno di suggestioni, lui che si rivolgeva alla sera dicendo: “Inquiete tenebre e lunghe all'universo meni" …
"Brutta Cagasotto che non sei altro!"… Così venivo apostrofata dai miei fratelli maggiori, le due volte a settimana che dovevano accompagnarmi, tenendomi per mano, alle prove serali del coro che si tenevano nella Parrocchia della Madonna delle Grazie di Rosciolo. Ero terrorizzata dall'oscurità, o se vogliamo da quella ‘libertà’, rappresentata dal buio, libertà di pensiero e di immaginazione, che da sempre sono state presenti in me, specie in età formativa. Col passar degli anni la fobia è naturalmente via via scemata, eccezion fatta per quelle circostanze in cui aver paura è necessario, addirittura ti salva la vita. Per me, come per ogni bambino/adolescente, riuscire a superare la paura del buio ha costituito un grosso impegno, sforzo e fatica quotidiana. In questa fase di elaborazione mi capitava in maniera ondivaga, a seconda delle esperienze che mi trovavo a vivere, di ripiombare nel timore, salvo poi riaffiorare nella luce – sicurezza - tranquillità.
Questo tema in virtù della professione che svolgo, mi porta a considerare che purtroppo c’è una discreta percentuale di persone che, a causa della depressione, sono in un mondo in cui la luce non c'è più. Le loro vite vengono avvolte dalla tenebra e, con essa, anche la leggerezza diventa arida pesantezza.
In alcuni casi si possono iniziare a vedere dei lievi miglioramenti, a seconda dell’entità della malattia, ma soprattutto a seconda degli strumenti e degli operatori coinvolti. La speranza, benché sempre a rischio di essere risucchiata dall'angoscia, torna a fare capolino. Questa speranza contiene in sé un sacco di cose: anche il futuro: se infatti la speranza c’è, e vive dentro di noi, è possibile comunicarla, trasmetterla anche agli altri.

DAL BUIO ALLA LUCE

   PB 57


PERCHÉ?

Oggi 10.6.2020 ho l’angoscia che dentro al mio cuore, alla mia testa, arriva con onde regolari ed intense come una risacca di mare. Sono di malumore, triste, amareggiata, contrariata, senza amore. Piena di solitudini che per troppo tempo mi svuotano l’anima, mi lasciano stordita da una vita quasi senza scopo. L’isolamento sociale di questi tempi mi avrà preservata dal covid19 ma mi ha trascinata indietro nei giorni in cui, ricoverata presso una casa di cura per malattie psichiatriche, smaltivo con tanta fatica spirituale la mia ‘depressione’. Nera senza colore, seducente, serenamente apatica, questa mia malattia è ridiventata, pian piano, di nuovo amica e compagna dei giorni di questi ultimi mesi. Terribile... ti schiaccia l’umore, la volontà, i pensieri positivi e ti rosicchia tutto quello che hai costruito con tanta pazienza per te stessa, tutti gli sforzi dell’‘io’ di emergere dal mare in burrasca dell’esistenza. E il mio cervello, senza parola, si ripete all’infinito... perché… perché... perché... Perché il cancro di Luca, perché questo divorzio conflittuale torturatore, ancora irrisolto, perché questa pandemia: portatrice di morte, di ansia corrosiva e soprattutto di distanziamento dai miei fratelli di Papa Giovanni XXIII e dalle mie amate figlie. Percepisco un malessere fisico generale, difficilissimo da combattere. Certo se la mente non è in sintonia col corpo come si può creare armonia! La negatività è riemersa a macchia di petrolio sulla superficie del cuore... Come si sta male! Vorresti solo ripiegati in posizione fetale ed essere avvolta in una carezza amorevole o da un abbraccio immenso quasi divino. Voglio solo che ogni giorno finisca in fretta sperando che luce di aurora mi illumini di miglior empatia per me stessa.




FINALMENTE!

Dopo tanti giorni di solitudine e abbandono all’apatia, finalmente sono a casa. Casa mia... E come dice Benedetta Rossi mi sto godendo la mia campagna. Il verde mi inonda gli occhi, dopo tanti giorni di riflessi calcarei di una Bologna centro in lockdown, con un mare di foglie di fiori di tanti piccoli ciuffi d’erba. Dopo tanta clausura da persona investita dal malefico Covid, questo spettacolo semplice ma perfetto mi infonde una pace spirituale profonda e lascio che il mio sguardo sfiori le chiome degli olmi, i rami protesi del glicine, le frasche delle viti di uva ancora acerba, ma ricche di pampini ondeggianti nel caldo di luglio. “Coraggio! - dico a me stessa - forse siamo prossimi alla normalità!”. E con questo pensiero ricerco gli spazi verdeggianti dove da bambina correvo coi nonni a scoprire i segreti della natura, quando nascondevo sotto zolle di terra sconnessa piccoli bicchierini di foglie di amarene, o dentro ai tronchi secchi di piante recise animaletti di fango, per ingraziarmi i favori delle fate farfalle dei campi. Guardo, guardo tutto questo verde tutto diverso ma intenso e profumato: il tiglio, l’oleandro, il rosmarino, la salvia e la menta. Solo chi ama ed è cresciuto in campagna può capire l’abbraccio interiore che si riceve camminando per carreggiate o sentieri di trifogli alla ricerca di margherite selvatiche, ranuncoli gialli, edere e fiordalisi e calendule. Voglio scrivere e condividere questo mio ritorno alle origini contadine perché sono felice dopo parecchio tempo di tristezze, sconforto e deserti, deserti nel cuore.

TU HAI VISTO LA LUCE!!! SÌ! TU HAI VISTO LA LUCE!!!

   Cesare Riitano


U rlando, sbraitando passionali e coinvolgenti note a ritmo di gospel, il pastore battista James Brown, sta rivelando all’ignaro occasionale avventore della sua chiesa, John Belushi, che proprio lui, bluesman peccatore dedito al malaffare, ha avuto il privilegio di essere stato ‘toccato’ dalla Luce di Dio. Ebbene… Un piccolo, insignificante, modesto e convenzionale scrittore di periferia, che fu nomato Cesare dalla sua ‘santa’ madre, sì, anche lui, ‘sente’, avverte, che è stato divinamente folgorato dalla Luce della Verità e della Giustizia. Posizionata questa pietra angolare del colosso architettonico della sua vita, incisa sulla sua ampia fronte questa imprescindibile ‘mosaica’ legge, determinata dal celeste fulmine che l’ha trafitto, egli dichiara, proferisce, sentenzia con voce ieratica e devota, la sua assoluta, convinta, irremovibile conversione! “Dove sei stato fino ad ora - riflette di sé Cesare con lo sguardo fisso nel vuoto - cosa hai cercato, costruito, realizzato in questi cinquant’anni della tua inutile vita… Ti hanno visto, sì, ubriaco scalare la statua dell’evangelista Giovanni a Persiceto; ti hanno notato, è vero, correre nudo e defecare su un campo di bietole a Zenerigolo; sei stato segnalato, è certo, per aver suonato con gran destrezza l’armonica davanti a un cinema porno, ma ora… no! Tu non cadrai mai più nell’abisso del peccato, mai più sarai tentato dalle lusinghe del demonio, mai e poi mai ripercorrerai la buia strada della perdizione! Tu sei cambiato. Ecco perché, a piedi nudi, incoronato di spine e vestito di sacco, t’incamminerai, solitario e flagellato dal cilicio, lungo la strada impervia che ti porterà al salvifico Golgota della tua esistenza. Arrivato all’ambita meta, chiederai perdono a vittime e carnefici, subirai di buon grado il supplizio della frusta e poi… e poi ti ‘eleverai’… fondendoti indissolubilmente con la lucente e misericordiosa anima del Divino”… “Cesare!”, una voce lo chiama… “Chi è? Chi è che mi ha parlato?”, risponde Cesare, turbato e scosso dalla profonda tonalità di quella paterna voce. “Sei pronto a seguire il tuo Signore lungo le più alte vette della Verità, della Giustizia e della Conoscenza?”, domanda tonante l’Altissimo, facendo fremere il suo umile servitore. “Signore - replica Cesare con voce tremante - Dio onnipotente e misericordioso… Io non son degno di partecipare alla Tua mensa, ma dì soltanto una parola, donami un segno della tua regale magnificenza, e questo tuo piccolo, compiaciuto prigioniero della tua beltà, ti seguirà fino alla fine dei suoi giorni”… “Ebbene sia, mio piccolo grande uomo - proferisce l’Altissimo - sappi che il fuoco dello Spirito Santo ha purificato la tua anima di peccatore; sappi che la tua mente, il tuo corpo e il tuo cuore, ora mi appartengono. Tu sarai il mio più fedele luogotenente, ma che dico, il mio più audace e vittorioso generale, quell’ardito alfiere che cambierà le sorti dell’umanità”… “Signore - risponde Cesare in ginocchio e a mani giunte - questo tuo umile servo è pronto a bere l’amaro calice del sacrificio e delle privazioni: ordinami senza tentennamenti di solcare mari, di scalare impervie e innevate montagne, di attraversare aridi deserti martellati dal sole, lo farò! Senza proferir parola, senza batter ciglio, senza mai dubitare! Eseguirò ogni tuo ordine! Per far sì che il mio Signore Iddio, sia perennemente osannato e regni sovrano in ogni dove, per tutti i secoli dei secoli. Dimmi cosa devo fare!”… “Vai a oriente!”, è il perentorio ordine dell’Altissimo; “D… dove mio Signore?”, replica balbettando il suo suddito; “A oriente ti dico!”, ribadisce con forza il Creatore; “Ma… a fare che?”, domanda Cesare, colpevolmente titubante. “Segui le orme dell’Apostolo delle Indie - comanda il Dio al suo discepolo - percorri la sua strada, parla la sua lingua, condividi il suo pensiero. Quando giungerai nella patria dei Ching, una stella ti guiderà nella terra di Lu; qui rincorrerai la traccia vibrante dell’anima di K’ung-fu-tzu: chiedi lumi sulla sua mirabile vita, sii interessato al religioso zelo della sua buona e giusta filosofia; predica Cristo, non citare la Trinità o la Resurrezione, evidenzia invece le manifeste similitudini tra questi due grandi uomini… Parla di amore, correttezza, lealtà, impegno sociale, difesa degli ultimi, ergi sì la Croce, ma non impugnare mai la spada. Fatto ciò, t’incamminerai deciso verso le alte montagne dove “dimorano le nevi”; non temere! La fame e il freddo non saranno i tuoi nemici; guardati invece dal Maligno: egli è audace, subdolo, tentatore, pronto a coglierti in fallo; non ascoltare la sua voce! Non cedere alle sue lusinghe! Non toccarlo! Scappa dalle sue grinfie! Fuggi dalla sua oscura bellezza! Cammina a piè veloce verso la Luce del tuo Unico Dio senza girarti indietro, mai!”… “Sì, mio Signore, sarà fatto - risponde arrendevole Cesare, completamente rapito dal magnetico ascendente del suo meraviglioso Nume - ma istruiscimi ancora, parlami con parole che scaldano il cuore, dimmi qual è il destino di questo umile servitore della tua vigna”… “Giungerai nelle terre dove si venera il Buddha - annuncia l’Altissimo - qui, non parlare con alcuno, ma guarda… guarda il bagliore di pace e serenità che avvolge gli illuminati figli del Principe indiano; recati poi in un tempio, brucia incensi, offri denaro e cibo ai piedi dell’Idolo; non pregare! Ma registra tutto, annota, fotografa ogni segno della presenza della Luce del Bene, dopodiché… sali sulle ‘Ali dell’Aquila’ e ritorna nella tua terra natia.
Quando finalmente rimetterai piede nella tua cara pianura, concepita dal Grande Fiume… agisci! Con la tua potente parola, resa luminosa dallo Spirito Santo, annuncerai la fine dei tempi; il popolo corrotto, traditore del Figlio dell’Uomo, crederà di udire le sette trombe e, cadendo in ginocchio terrorizzato da cotanta incommensurabile potenza, ti eleggerà pastore delle loro anime. Predicherai, sì, ma un nuovo credo, una nuova fede, sì certo, generata da quell’inevitabile sincretismo, che unisce la saggezza del Buddha e di Confucio, con l’incommensurabile Amore di un Nuovo Cristo, necessariamente privato della sua matrice divina. Cesare! Ora sai qual è il tuo destino! Addio!”… “Dio Onnipotente! - grida il ‘Prescelto’, in lacrime, piegato dal dolore - ti prego, non abbandonarmi! Saziami ancora con la tua lucente manna! Non lasciarmi solo in preda delle grinfie del demonio!”… Ma la Luce abbagliante che lo aveva stregato con la sua superlativa bellezza, si allontana sempre più, fino a diventare un puntino, fino ad eclissarsi definitivamente.
Un momento… ma che succede?! Una paurosa ombra olivastra si erge davanti ai suoi occhi; essa appare, al paralizzato servo di Dio, come un abnorme mostro con grandi spalle taurine e uno spaventoso volto barbuto dai tratti lupini. “Cesare! Cesare!”, grida rauco il tenebroso fantasma… “Chi è!... Chi è che mi ha parlato? - è l’angosciata risposta a quel cavernoso richiamo - Non ti avvicinare, lurido demonio! Non mi toccare! Ritorna tra i vapori sulfurei di Geenna! Vade retro Satana! Aiuto!”, sbraita Cesare in preda al terrore. “Ma quale demonio! Ma quale San Gennà! Sono Rocco, l’infermiere do’ manicomio!”, si rivela ridendo l’operatore psichiatrico; “Rocco?!... d... dove siamo? Nell’oscurità dell’inferno?”, domanda Cesare frastornato; “Nessun Inferno, Cecè, sei nella sala video dell’ospedale psichiatrico di San Giovanni! Il DVD dei Blues Brothers è finito! Dormivi al buio e hai fatto un brutto sogno; dai, forza, è l’ora della terapia e poi a letto! Jammo ja’! , conclude sbrigativamente Rocco. Dopo aver ingurgitato la quotidiana bomba farmacologica, lo scalcagnato Messia sognatore, si dirige, mesto e traballante, verso la sua asettica cella manicomiale; ma un pensiero gli frulla ancora per la testa: “E se quella voce tonante che mi ordinava di cambiare il mondo fosse realmente esistita? Potrebbe tornare, è possibile, perché no! Devo solo aspettare e la sentirò nuovamente! Ne sono certo!”… “Cesare!”, una voce lo chiama… “Chi è!... Chi è che mi ha parlato?”, urla Cesare, elettrizzato e speranzoso di risentire il suo Dio… “Sono sempre io, Rocco! - risponde scocciato il nerboruto infermiere, buttando nello sconforto quello che fu l’Unto del Signore - Ti volevo dire che spengo la luce! E… bonanotte!”.

LUCE, LUCA E LUX

   Luca Gioacchino De Sandoli


L uce. Cos’è la luce? Luce è il contrario di buio. Così è chiamata quella cosa che illumina il nostro pianeta e che arriva dal Sole. Una cosa che è sia ondulatoria, come dice Newton, che corpuscolare, come dice Huygens. Una cosa che pur viaggiando a 300.000 chilometri al secondo, anzi proprio per questo, impiega ben otto minuti ad arrivare qui sulla Terra. E ha anche dato il nome alla canzone con la quale Elisa ha vinto il Festival di Sanremo nel 2001, Luce (Tramonti a nord est) . Persino l’ex attrice porno Selen, di cui non ho mai visto un film, in realtà si chiama Luce di nome. Luce Caponegro. Lo so perché l’ho sentito una volta in televisione e poi l’ho ritrovato su Wikipedia. È una cosa che so grazie a una mia reminiscenza, non per aver visto un porno, anzi i porno mi ripugnano. Sapere chi è un’attrice non vuol dire necessariamente avere visto un suo film. Luce non è un nome di battesimo molto comune, però esiste, e deriva dalla sua traduzione in latino che è lux. Si ritiene che sempre da lux vengano nomi più comuni come Lucio e le sue versioni alterate Luca e Luciano. I Romani chiamavano con questi nomi i loro figli se costoro nascevano in un giorno luminoso. Era un prenome, usato poi come gentilizio. Un altro significato è: “Nato nelle prime ore del giorno”. Non è esattamente il caso mio. Io sono un settimino venuto al mondo con un cesareo e due mesi di anticipo alle 12:05 dell’11 febbraio 1987, in una Bologna dai tetti sepolti sotto la neve e probabilmente sotto un cielo bianchissimo, senza sole, come quelli tipicamente invernali. Cinque minuti dopo mezzogiorno. Di febbraio. Non sono nato di notte, ma neanche in una giornata inondata dal sole come sicuramente fa intendere il significato di lux e di Luca. Non so se la gente ritiene luminose quelle giornate d’inverno col cielo bianco e senza sole. Io no di sicuro, per me una giornata veramente luminosa è una giornata con un cielo terso e azzurro, limpido e con un bel sole. Non mi importa se sono giornate calde o fredde, per me le giornate luminose sono quelle con il sole. E quando sono nato io il sole non c’era, o al limite era nascosto. Secondo altri il nome ‘Luca’ deriverebbe dal greco, e il significato sarebbe “proveniente dalla Lucania”. E qui mi riconosco un po’ di più: mi sento bolognese, ma ho sangue pugliese nelle vene, anche un po’ lucano pur non venendo dalla Basilicata, detta anche Lucania. Le mie origini sono foggiane, però il mio nonno materno aveva le sue origini a Ripa Candida, che sta appunto in Basilicata. Mio padre come la sua famiglia era pugliese al 100%, e per un certo periodo ha preso in giro mia madre dicendo che era lucana e facendomelo pure credere vero. Non lo è: mia madre è anche lei pugliese, ma ho comunque sangue in parte lucano nelle vene. Più pugliese che lucano, comunque. Quindi tutti coloro che si chiamano Luca, Lucio, Lucia, Luciano e Luciana portano un nome che vuol dire luminoso. Anche se c’è qualche persona che si chiama con uno di questi nomi e non è luminosa di carattere, ma tenebrosa, chiusa, timida, misteriosa. E pure io certe volte sono timido e chiuso.
Secondo un foglio che abbiamo in casa e che sta attaccato sullo specchio del comò, Luca è il nome di persone non illuminate, ma che emanano luce “serena, armoniosa, costante, fedele. Luca è un messaggero di pace, di bontà, di meraviglia, di amicizia, calore, compassione. È sulla terra per annunciare a tutti che la vita è una cosa meravigliosa e che bisogna viverla con coraggio ed energia”.
Io non sono esattamente così, anzi penso che non tutti i Luca siano dotati di queste caratteristiche. Da una parte sarebbe bello perché porterebbero tanto bene agli altri, anzi porterebbero idealmente una grande luce nell’animo della gente, dall’altra sono contento che non tutti i Luca siano così, perché un mondo in cui sono tutti uguali non è desiderabile. Non mi specchio fedelmente neanche in altri tratti del carattere di chi si chiama Luca tracciato da quel foglio. Per esempio il colore. Arancio, dice il foglio. Colore che indica forza vitale e successo in amore. A me piace il blu, prima mi piaceva il rosso. So di certo di avere una bella forza d’animo, ma sono sempre stato poco fortunato in amore, perché per evitare di fare figuracce o di sembrare invasivo non ci ho mai provato con le ragazze che mi piacevano. Sono riuscito a farle diventare mie amiche, e a me va bene anche così. Se un giorno dovessi riuscire a fidanzarmi con una ragazza, ben venga. L’acacia è il vegetale dei Luca, dice il foglio. L’acacia rappresenta l’amore platonico e l’amicizia. C’è chi pensa che ne ho tanti, di numero, chi pensa che ne abbia pochi ma buoni, io dico che hanno ragione entrambi perché sono convinto di avere degli amici. E l’amore platonico per una donna famosa è un sentimento che mi soddisfa. Ma l’acacia non mi piace da impazzire, anzi non mi piacciono le piante in generale. L’animale dei Luca è il cavallo, che rappresenta libertà e potere personale. Io ho cavalcato un cavallo solo una volta a undici anni, e poi a me piacciono di più i gatti. Non me la sento di andare su un cavallo. E se cado da cavallo e rimango paralizzato come è successo a Christopher Reeve?
La pietra è il berillo. Badate bene, è berillo, non berillio. Indica capacità di sopportare il dolore. E io da sempre sopporto stoicamente i mal di pancia e anche altre ferite simili. Almeno il berillo lo sento mio. Ci sono pure altri elementi. Il segno zodiacale è Gemelli, e questa è una fesseria: ci sono tantissimi Luca al mondo, e non tutti sono dei Gemelli, io sono dell’Acquario. Il giorno è il martedì (io sono nato che era un mercoledì, e mi piace di più il sabato). I numeri sono il 5, il 13 e il 35 (io ho sempre preferito il 6, al massimo il 7). Com’è successo che mi hanno chiamato Luca, se quel giorno non era proprio luminoso? Perché quello era un nome che andava molto di moda nel 1987, molti bambini nati quell’anno sono stati chiamati così. Inoltre, sull’omonimo colle di Bologna sorge la basilica di S. Luca. È stato poi aggiunto il nome di mio nonno Gioacchino. Si è formato così il nome Luca Gioacchino. Ma io sono abituato a sentirmi chiamare Luca, e mi fa anche piacere.
Secondo il Manuale delle Giovanni Marmotte Luca, Lucia e Luciano sono nomi che stanno a indicare lavoratori accaniti e intelligenti. Per essere intelligente io sono intelligente, mia madre si chiama anche lei Lucia, ed è un’accanita lavoratrice, sia come operaia che come madre. Ma esistono, o è plausibile che esistano, persone con questi nomi che sono pigre e meno intelligenti di altre. L’abito non fa il monaco, e il nome non fa la persona. Se posso esserci io che sono un Luca nato che era nevicato molto da pochi giorni e il sole non c’era nel cielo, possono esserci pure delle Lucia indolenti e dei Luca ottusi. I nomi servono per distinguersi dagli altri, e non è certo il nome o il giorno di nascita a delineare a prescindere una persona, lo fa molto di più il carattere e il comportamento. E ci sono dei personaggi ‘luminosi’ che si sono distinti musicalmente e non per l’aspetto fisico: Luca Carboni, Luciano Pavarotti, Lucio Dalla. Che peccato che Lucio sia morto d’infarto improvviso in Svizzera e non nella sua Bologna, lontano dalla sua Piazza Grande. Però posso andare a trovarlo quando voglio alla Certosa, prima in un loculo provvisorio, poi vicino alla tomba di Giosuè Carducci. E per me abitare vicino a un cimitero dove sono sepolti personaggi importanti come loro è una bella fortuna. Anche se alla gente piace molto di più andare in via D’Azeglio a leggere i versi di L’anno che verrà, visitare la piazza su cui si affacciava la sua casa, sedersi sulla panchina dove c’è la sua statua.
Dicevo che Luce è la traduzione italiana di lux ed è un nome poco comune. Però esiste, così come esiste un film drammatico che si chiama Il giardino delle vergini suicide, il primo di Sofia Coppola come regista, la cui protagonista è una ragazza che si chiama proprio Lux. Lux Lisbon, per l’esattezza. Non credo che sia un caso se Jeffrey Eugenides, l’autore del romanzo da cui è tratto il film, l’abbia chiamata Lux. Infatti, lei si distingue dalle sorelle Cecilia, Bonnie, Mary e Therese perché è la più luminosa, la più vitale, la più maliziosa, la più ribelle, la più audace, la più intraprendente. Lux di nome e pure di fatto, dunque, come tutti i Luca e Lucio del mondo, il cui nome in latino è proprio LUX, che significa luce. Magari è anche nata in un giorno molto più luminoso del mio. Nessuna delle cinque ragazze parla molto, a parlare sono i loro visi, i loro gesti, i loro vicini di quartiere: gli adulti sanno che hanno dei genitori severi che le controllano e soffocano il loro desiderio di un’adolescenza normale e serena senza però intervenire, i giovani cercano di avere a che fare con le cinque sorelle o le sognano e immaginano felici e sorridenti, solari e illuminate dal sole. Fantasie che si concentrano soprattutto su Lux, senza però disdegnare le altre. Il quartiere dove abitano le sorelle Lisbon e i loro genitori è sempre assolato. Però ci sono due brutti mali in circolazione: uno è un morbo che infetta gli alberi come in questi giorni fa il coronavirus coi paesi del mondo, l’altro è l’aumento del numero di adolescenti che si suicidano. E quest’ultimo male coinvolge pure la casa dei Lisbon. Cecilia è la prima ad andarsene. Prima tenta di tagliarsi i polsi, poi si butta dalla finestra, in occasione di una festa organizzata dai genitori, durante la quale le figlie fanno conoscenza coi ragazzi del vicinato. Prima della morte di Cecilia, le ragazze simulavano un’adolescenza normale e felice, guardando i passanti o prendendo il sole. Ma dopo, con le scuole che riaprono, ecco che le quattro sorelle hanno un aspetto diverso. La luce, la vitalità che brilla nei loro occhi comincia a spegnersi. Anche quella di Lux. Ma mentre le altre sorelle provano rassegnazione, indifferenza verso gli altri e verso la vita, Lux cerca di godersi questa vita finché può, saltando le lezioni e vedendosi con dei giovanotti. Finché uno di loro, Trip Fontaine, si innamora sinceramente di lei e a sua volta la fa innamorare di sé. Quest’amore è segno di nuova vita per Lux. La sua luce torna a risplendere come prima, il bacio appassionato che dà a Trip dopo che è stato a casa sua a guardare la TV ne è la prova. Trip ottiene dal padre anche il permesso di portarla al ballo della scuola. Purché lui trovi altri tre bei giovanotti per le sorelle e tutte e quattro tornino a casa prima di mezzanotte. Quest’ultima condizione viene soddisfatta e le ragazze, soprattutto Lux, esultano di gioia alla prospettiva di andare al ballo, essendo qualcosa che non hanno mai vissuto prima. Sono ben felici di poter vivere qualcosa di nuovo, magico, diverso. Ballano, ridono, stanno bene coi loro cavalieri. E quindi sono raggianti, luminose. Il ballo della scuola è il loro primo e unico vero momento di gioia. Trip e Lux vengono anche nominati re e reginetta del ballo. Ma poi Lux va contro il diktat dei genitori, andando a fare l’amore sul campo da football con Trip, che il mattino dopo la lascia da sola mentre dorme! Le sorelle capiscono che Lux ha violato il coprifuoco imposto dai genitori e si rassegnano a ciò che le aspetta. La gioia provata e la luce emanata dai loro sorrisi durante la festa si spegne. Lo stesso vale per Lux che il mattino dopo si risveglia e si ritrova da sola, torna a casa in taxi con la corona di reginetta in mano, ma senza più il sorriso sulle labbra sapendo che sarà accolta duramente. Come le sorelle verrà ritirata dalla scuola e chiusa dentro casa, ma a differenza di loro verrà persino obbligata a bruciare i suoi amati dischi rock. Come se fossero quelli la causa di tutto! Il padre non parlerà con nessuno di queste azioni drastiche, la madre penserà di fare bene a essere così dura con le figlie, ma queste ultime diventano tristi, sole, chiuse in una campana di vetro. La loro luce si va affievolendo sempre più, la felicità che provavano o simulavano prima della sera del ballo non c’è più. I loro accompagnatori del ballo non le richiameranno più. E nemmeno loro riescono a chiamare aiuto, non sanno a chi chiederlo. Tanto che per evadere dalla loro prigione, con la mente ordinano riviste di viaggi e immaginano di andare all’estero guardando le fotografie. Lux, addirittura, la notte se ne sta a fumare e far sesso con dei ragazzi sul tetto di casa. Finché i ragazzi del vicinato le chiamano al telefono facendo loro ascoltare dischi pop e rock. Ma questo filo diretto viene tagliato. Un altro tentativo sono le comunicazioni in alfabeto Morse fatte con la luce delle lampade. E anche questo contatto viene tagliato. E come i contatti con l’esterno le ragazze si affievoliscono, come la luce di una torcia le cui pile si stanno scaricando. Un giorno le sorelle Lisbon si preparano a fare l’atto estremo, ma anche quello più logico: fuggire dalla loro casa-prigione. I ragazzi lo vengono a sapere, hanno un’auto pronta con cui scappare via insieme alle ragazze. Lux li accoglie in casa. Sorride, ha una sigaretta in mano. Nella scena seguente si vedono i ragazzi e le sorelle viaggiare lungo una strada sorridenti, con Lux radiosa che sporge le braccia fuori dal finestrino. Ma è solo un sogno, l’ultimo sogno. Entrati in casa, guardandosi intorno, i ragazzi scoprono che le ragazze hanno compiuto loro il gesto estremo per fuggire: si sono suicidate. Una fuga rapida, fatta dall’interno della casa, non andando all’esterno. Le sorelle Lisbon si sono spente del tutto. Se Cecilia è stata la prima ad andarsene, l’ultima a spegnersi è proprio Lux, che si soffoca con i gas di scarico dell’auto. Verrà trovata nell’abitacolo della macchina con la sua sigaretta tra le dita. I genitori non capiranno mai di essere stati loro la causa del suicidio delle figlie, e la madre dirà di aver sempre dato loro il calore di una casa. E infatti la luce regnava in casa Lisbon con la bellezza delle ragazze. Ma non nella loro ‘famiglia’, perché una vera famiglia Lisbon non è mai esistita, e le ragazze volevano una vera vita e l’amore di una famiglia, un amore che i genitori non hanno saputo dare loro. Tra famiglia e casa c’è una bella differenza. C’è più luce in una famiglia senzatetto, ma unita, che in una famiglia benestante ma priva di sentimenti. I ragazzi non sono riusciti ad avvicinare davvero le sorelle Lisbon, però conserveranno sempre le loro cose e capiranno che quelle ragazze, tenute sotto controllo dai genitori, sognavano molto, desideravano fare un po’ di casino tra di loro e con gli altri, e avevano capito l’amore e la morte. L’amore lo desideravano, la morte la contemplavano. Negli anni seguenti i ragazzi conosceranno altre ragazze, ma ammireranno per sempre il giardino della casa appartenuta ai Lisbon. La casa verrà comprata da un’altra coppia, ma per i ragazzi quel giardino sarà sempre il giardino delle vergini suicide. Vergini, perché non hanno mai perso la loro castità, tranne Lux che per amore e per sfogo si è concessa a Trip e ad altri giovanotti. E suicide, perché ormai soffocate non potevano più fuggire se non in questo modo. Quei ragazzi staranno sempre lì a guardare la casa, a chiamare le ragazze pur sapendo che mai risponderanno e mai usciranno “dalle loro stanze, dove sono entrate per stare sole per sempre e dove non troveremo mai i pezzi per rimetterle insieme”.
Ammetto di essermi dilungato un po’ troppo nel raccontare il film, però mi è piaciuto davvero molto quando l’ho visto, ecco perché ne ho parlato tanto. Guardatelo anche voi, e vi accorgerete della luce che splende e si spegne nelle ragazze che sono protagoniste e in Lux soprattutto.

PORTISCH-FISCHER (SANTA MONICA 1966)

    a cura di Matteo Bosinelli


Ignorando un sacrificio di pedone del bianco alla nona mossa, Fischer getta le basi per una trappola posizionale (11... Dd7), in cui Portisch cade (14. D x a8). Di solito le due torri sono un buon compenso per la donna... Ottimo, più che buono, quando il campo d'azione (e quindi la potenza) delle torri risulta formidabile. Ma il giudizio di Portisch è sbagliato: egli non considera la debolezza dei propri pedoni. Questo è uno dei pochi casi in cui la donna può predominare... e lo fa. Resta comunque il problema: come ha fatto il nero a rompere lincantesimo? Giungere in un finale vinto in quindici mosse contro uno specialista di questa apertura, quale era il bianco, non è un’impresa certo facile! (Larry Evans)

PORTISCH–FISCHER (Santa Monica, 1966)

1) d4 Cf6
2) c4 e6
3) Cc3 Ab4
4) e3 b6
5) Ce2 Aa6
6) Cg3 A x c3+

non ... d5 a causa di Da4+

7) b x c3 d5
8) Df3 0-0
9) e4 d x e4
10) C x e4 C x e4
11) D x e4 Dd7

mossa che prepara Cb8 , Cc6, Ca5 premendo sul punto debole 'c4'

12) Ae3 Te8
13) Ad3 f5

forse migliore per il bianco sarebbe stato13) 0-0-0, che però dà luogo a grosse complicazioni

14) D x a8 Cc6

D x a8 è perdente: si basa su un calcolo errato, che sottovaluta l'impedonatura c3/c4

15) D x e8 D x e8
16) 0-0 Ca5
17) Tae1 A x c4
18) A x c4 C x c4

se 18) A x f5 il nero vince con Da4

19) Ac1 c5
20) d x c5 b x c5



21) Af4 h6

preparando l'avanzata dei pedoni sul lato di re, che il bianco non può impedire

22) Te2 g5
23) Ae5 Dd8
24) Tfe1 Rf7
25) h3 f4
26) Rh2 a6
27) Te4 Dd5

e la donna nera spadroneggia: la superiorità del nero, in forza della moltitudine di minacce di cui dispone, è evidente



28) h4 Ce3

guadagnando la qualità
29) T1xe3 f x e3
30) T x e3 D x a2
31) Tf3+ Re8
32) Ag7 Dc4
33) h x g5 h x g5
34) Tf8+ Rd7
35) Ta8 Rc6

la presenza del pedone nero in a6 si rivela decisivo per la vittoria

il bianco abbandona : O – 1








UNA LUCE OFFUSCATA

   Cesare Riitano


G entile Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il mio nome è Tonino Guastavillani; mi ritengo e sono considerato un autentico povero di spirito, che possiede, come unica speranza, la fede nel Regno dei Cieli. Prego molto; trovo inoltre nella lettura del Vangelo, un’irrinunciabile fonte di coraggio e fiducia per il domani, visto che il passato è da dimenticare e il presente appare, oltre che incerto, povero e buio. Le parole e le opere di Cristo sono, per la mia devota e ingenua sensibilità, commuoventi e appaganti; provo inoltre immensa felicità quando, leggendo ad alta voce il Discorso della Montagna, colgo la predilezione del Salvatore per gli umili, i diseredati, gli ultimi. “Ma allora è proprio vero - penso a volte tra me e me - il povero è il vero aristocratico del Cristianesimo! Amando Cristo posso, non solo sperare nel paradisiaco aldilà, ma ambire, facendo miei valori come pace amore e fratellanza, a una vita dignitosa e felice anche sulla Terra!”. Ho disturbato Sua Eminenza, non per piaggeria o vanagloria, ma per esporle un fatto di una rilevante gravità, sciagura, che potrebbe adombrare la meravigliosa Luce attraverso la quale, il Creatore, scalda da sempre il cuore degli uomini. Ho letto che un padre gesuita, Teilhard de Chardin, sosteneva che l’Uomo si fonderà con Cristo laggiù, nel punto Omega: è un’immagine bellissima e commovente che mi piace sempre ricordare. La strada che ci unirà indissolubilmente al Salvatore però, è costellata di evidenti e insidiosi ostacoli; essi, oltre a rallentare ahimè la nostra salvifica marcia verso l’appagante bagliore della salvezza, stanno attentando la vitale stabilità del pilastro portante di Santa Madre Chiesa. Il più clamoroso e mortale intralcio sulla via del Signore, penso che si annidi subdolamente proprio tra le sacre pagine del Vangelo. Quando ho letto il decimo capitolo del sinottico Matteo, non volevo credere ai miei occhi. Gesù, istruendo i suoi Apostoli, pronti ad “andare in mezzo ai lupi” per diffondere la lieta novella, usa una metafora a dir poco sconcertante: “Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe”. È mai possibile? È realistico pensare che il Cristo educhi i suoi discepoli alla vile doppiezza? Mi rifiuto di credere che un Dio possa divulgare un anti valore! Ma purtroppo questo tremendo passo del sacro libro ebbe occasione di turbare fortemente la mia povera anima di semplice servitore della vigna del Signore, in quanto fu utilizzato per umiliarmi, proprio da un ‘uomo di chiesa’, uno che porta sandali alla francescana e il Tau al collo, il quale, dopo avermi gabbato atrocemente, mi pronunciò alle spalle quella frase santa (siate astuti come… eccetera); lui fu fiero della sua dottrina e del suo disprezzo, sentendosi legittimato dalle parole di Cristo.
Sua Eminenza carissima, avrei potuto parlare di preti buoni, che credono nel perdono e parlano con parole che ti fanno piangere (…puoi aver fatto di tutto, le porte di Cristo sono sempre aperte…), ma ho scelto di affrontare l’aspetto del Cristianesimo che mi ha ferito di più. Spero possa perdonare questo mio disperato azzardo, ma esso è giustificato dalla vitale necessità di poter alimentare quella consolatoria speranza, che vede nel Cristo Redentore un modello di giustizia, correttezza e lealtà; ecco perché, Io, Tonino Guastavillani, legittimamente oso pretendere che la Luce benevola del Signore Onnipotente, non sia mai offuscata da una fallace interpretazione delle sacre scritture, ma possa invece limpidamente splendere in eterno, fino alla fine delle sofferenze e delle quotidiane tribolazioni dell’umanità. Confidando nella Sua proverbiale indole saggia e misericordiosa, rimango in attesa di una Sua consolatoria risposta. Cordiali saluti
Tonino Guastavillani

PERCORSO EVOLUTIVO DELLA LUCE

   Gabriele Greco


S in da quando ero bambino la luce mi ha sempre affascinato. Ancora oggi prima di coricarmi mi riservo del tempo per ammirare l’Universo e riflettere sulle sue meraviglie. Sovente mi capita anche di fare un sogno a tema: essere nello spazio e saltellare, come un primate, da una stella a un’altra, da un pianeta a un altro, da un corpo celeste a un altro. Penso e ripenso a come tutto sia iniziato e si sia evoluto a partire dal Big Bang fino a i nostri giorni, dal Caos all’ordine naturale delle cose.
Ho in grandissima considerazione tutti quegli scienziati che studiando hanno reso più confortevole la vita, basti pensare alla luce artificiale, che permette di produrre e lavorare anche di notte, partendo dalle lampade a olio, passando per le candele, siamo arrivati ai nostri lampioni a led. Sono stati superati diversi ostacoli, grazie all’illuminazione. Per esempio, si è ottenuta l’agevolazione dei decolli e degli atterraggi e la vivibilità degli aeroporti stessi, sempre più confortevoli, tanto che in questi contesti le persone possono riposare, in angusti spazi, in attesa del proprio volo. È sempre più incrementata la produzione di energia rinnovabile non inquinante, necessaria oggi più che mai, a causa dell’altissimo tasso di inquinamento atmosferico. Vorrei soffermare la mia attenzione sulla creazione dell’ISS (International Space Station) che si serve di appositi pannelli solari, atti alla produzione di energia pulita.
L’uomo è riuscito così a produrre maggiori beni, per rispondere alle necessità della popolazione mondiale, in continua crescita. Non dimentichiamo tuttavia la grande forbice economica esistente fra i Paesi estremamente poveri e quelli molto ricchi.

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI LUCIA

   Lucia


A mo il mio nome, lo trovo bellissimo, pieno di luce e di armonia, e sono grata ai miei genitori, che lo hanno pensato per me. Nome e cognome, Lucia Luminasi, giocosamente allitterati, si rispondono a tema e il loro suono è musica: liquide, nasali, sibilanti, si intrecciano a vocali in chiaroscuro e lo iato, in fine di parola, si apre in un sorriso… Non è un caso che un nome così bello abbia colpito persino poeti come Quasimodo e Ungaretti, che quand’ero una bimbetta ho avuto la fortuna di incontrare di persona.
Il primo nomignolo, scontato ma non troppo: “Lucetta, la mia piccola luce”, fu coniato alla mia nascita dalla nonna materna. L’anno dopo una scritta in ferro battuto, illustrata come un rebus dal sovrastante grazioso lampioncino, impose questo nome alla casetta costruita in pineta per me. Lo scelsi poi come pseudonimo, quando da adolescente, seguendo la tradizione di famiglia, mi incamminai sul sentiero di Edipo e pubblicai le prime crittografie mnemoniche sulla rivista Penombra... Un’enigmista non poteva non cercare l’anagramma del suo nome e, sorpresa! Ci ho trovato dentro due cose che amo sommamente, i gatti e la luna… lalunasuimici, che per un po' è stato anche il mio indirizzo, accompagnato da una chiocciola @, simbolo di casa semovente, e da un richiamo alla libertà e alla patria libero.it...
Molti hanno affettuosamente giocato col mio nome, per coccolarmi o per farmi i complimenti, alludendo a una mia presunta luminosità. Ricordo la canzoncina di mio zio Pierino: “Il luccichìo non vuol bene allo zuo, povero zuo, come farà!”... Mi chiamava anche ‘Lusengola’, nomignolo che mi faceva pensare a un animale mitologico, fra l’usignolo e la lucertola… Più tardi ho scoperto, grazie al Devoto-Oli, l’esistenza della ‘luscengola’, alias ‘luscignola’ o ‘cecilia’, un rettile molto primitivo, dagli arti rudimentali e quasi cieco. Sempre al dizionario devo un’altra scoperta: ‘lucìa’, con la minuscola, è il nome popolare della coccinella, grazioso coleottero portafortuna, ma anche dell’orbettino, serpentello di poca vista. Questo ricorrere di richiami alla cecità, mi porta direttamente alla mia santa protettrice, Lucia, che, come dicono in bolognese, “l’è sora i ucc”, cioè protegge gli occhi, avendone subito l’asportazione nel corso del martirio. Quando scherzando dissi al mio caro fratone che non ero stata protetta granché, vista la mia ingravescente miopia, quel furbone mi rispose per le rime: “Se poi non ci fosse stata santa Lucia…”. Fra i giochi di parole ricordo con tenerezza che il mio caro professore poeta, Gaetano Arcangeli, vedendomi comparire presso il suo letto d’ospedale, sussurrò: “Ho avuto un’alluciazione!”.

ELUCUBRANDO SUL TEMA DELLA LUCE

   Cesare Riitano


C ara Concy, ti invio il pezzo per il prossimo numero de Il Faro, sul tema: La Luce.
Leggendo il brano, ti accorgerai che parla sì di Luce, Sessualità, Solitudine e Speranza (tematiche vicine alla psicologia di chi soffre), ma affronta, forse, un argomento ancora più importante: il fascino e la bellezza delle donne del Faro. Spero ti piaccia. Saluti.

“Luce, in tutte le sue accezioni”… è una parola! Cosa mai posso scrivere… Proviamo con questa:
Io e Concy eravamo soli nel romantico giardino del Roncati; i nostri corpi si sfioravano, il complice vento arzillo della primavera bolognese ci spingeva l’uno contro l’altra; sentivo d’amare quei suoi capelli raccolti, quella sua seducente magrezza, quella Luce dei suoi occhi che gridava: Baciami! ”…
No. Questo non lo posso scrivere; non perché non sia vero, ma per il semplice fatto che la Concy ha dei fratelli, abruzzesi per giunta, e se per caso il pezzo dovesse passare la censura di Lucia, potrei essere gambizzato a colpi di lupara.
A proposito… Lucia, deriva da Luce! Potrebbe essere un’idea! Proviamo con questa:
La rosea Luce della sala CUFO esaltava il pallore del suo viso; Lucia era di fronte alla mia eccitata figura di homo “Erectus”; si sciolse i capelli e poi si sfilò l’impermeabile, evidenziando il suo aderente completino in latex nero. Con il suo frustino d’ordinanza accarezzava le mie vibranti membra senza veli: “Le tue spalle fanno ombra alla Luce di Dio…”, mi sussurrò da crudele e sadica dominatrice. “Ahi!”, fu il mio primo compiaciuto gemito dovuto alla sua spietata sferza; guardai i suoi occhi: brillavano di una folle Luce, che rivelava la sua coinvolgente anima perversa…”.
Ma cosa sto scrivendo! Se Lucia dovesse leggere questo testo, anche se veritiero, altro che frustino! Mi darebbe un bel calcio nel sedere! Non si può fare, non è opportuno. A pensarci bene però, un grazioso e luminoso appiglio per un gran finale, so dove trovarlo: Sarah.
Poetessa gentile e delicata: ti immagino disegnata con tratti aristocratici, profumata di gelsomino e adornata di foulard bleu. Sei generosa, tenera, malinconica. Nei tuoi versi traspare, sì, il dolore della tua solitudine, ma emerge anche la prepotente e magnetica Luce della speranza; sì, Luce, che col suo straordinario bagliore ha stregato questo rozzo omone ... prigioniero da troppo tempo di una costretta oscurità”.

TUTTI A CASA, TUTTI A CASA

   Maria Angela Soavi


N on è il ritornello di una canzone, ma un decreto stabilito dalla maggior parte delle autorità governative mondiali e imposto alla popolazione, un forzato isolamento consigliato dall’Organizzazione Sanitaria Mondiale, per impedire il contagio e combattere più facilmente i drammatici effetti della grande pandemia causata da questo virus sconosciuto ed aggressivo che ha colpito il mondo intero, il coronavirus! Una guerra mondiale combattuta senza armi, ma che ha ucciso migliaia di persone di ogni età, soprattutto anziani, che in Italia sono un numero elevato e che appartengono alla categoria più fragile, perché spesso affetti da gravi patologie che impediscono la guarigione. Un dato che mi ha colpito è stato come questa difficile condizione abbia acceso la solidarietà italiana e straniera. Macchinari e materiale sanitario sono stati donati in grande quantità da aziende italiane ed estere. Nel nostro paese, alpini, esercito, protezione civile e forze dell’ordine hanno collaborato per soddisfare i bisogni dell’intera nazione. La Caritas, le associazioni, i cittadini volontari hanno curato l’assistenza agli anziani impossibilitati ad uscire e hanno provveduto al fabbisogno giornaliero di generi alimentari di persone senza tetto o in difficoltà economiche. Grazie a tutti loro, ma soprattutto a quelli che in questa calamità giorno e notte lavorano per la nostra salute. Volontari del 118, medici, italiani e di diverse nazionalità, infermieri e operatori sanitari, come soldati in prima linea tutti in lotta per la nostra sopravvivenza, sono stati accanto a chi ha affrontato la malattia e ancor di più a quelli che tristemente hanno perso la vita, Un comportamento meritevole di essere altamente riconosciuto e ricompensato! Una testimonianza che ha toccato il cuore di molti in Italia e nel mondo, che ci aiuta ad apprezzare maggiormente i valori morali, ma soprattutto il valore della vita, un dono che abbiamo ricevuto gratuitamente, che dobbiamo conservare nel migliore dei modi. Solo il timore di perderla a volte ci induce a considerarne maggiormente la grandezza!
L’osservanza al divieto di uscire, pur essendo restrittiva, mi ha fatto comprendere come anche io come singolo individuo possa essere di aiuto a una comunità che in questa circostanza non comprende solo i vicini di casa ma si estende a tutto il territorio nazionale, a migliaia di persone sconosciute che hanno il diritto di vivere. Quello che mi è stato richiesto è un sacrificio che preso singolarmente ha poco valore, ma sommato ad altri può salvare tante vite umane. L’emergenza coronavirus ha dimostrato che proprio la collaborazione di ogni singolo cittadino nell’osservare i divieti ha permesso al sistema sanitario italiano di arginare la pandemia e contrastare la malattia. Cala la possibilità di contagio, si registrano ancora decessi, ma grazie anche a nuove terapie come ad esempio quella al plasma, aumentano notevolmente le guarigioni che hanno concesso all’Italia di uscire parzialmente da questa terribile situazione. Il giorno 4 maggio è una data che rimarrà nella storia italiana per aver determinato il termine dell’isolamento comune, che ci ha donato il piacere di ritornare alla nostra quotidianità anche se ancora non godiamo di una completa libertà.
È stato come una luce in fondo al buio della tristezza e del dolore che durante questi mesi ci hanno accompagnato e che ha acceso la speranza di ritornare a vivere, seppure con limitazioni e attenzioni, perché la lotta contro il virus non è ancora vinta.
Il percorso da intraprendere per lasciarci alle spalle questa anomalia non è ancora terminato, possiamo solo confidare nella ricerca scientifica che avanza compiendo grandi progressi e attendere che in un futuro poco lontano sia disponibile un vaccino, l’unico rimedio certo contro il virus. Nell’attesa dobbiamo continuare ad attenerci a misure di salvaguardia della nostra salute, come l’igiene delle mani e degli ambienti dove abitiamo, l’obbligo di indossare mascherine, il rispetto del distanziamento sociale o forse rinunciare a gite o a vacanze, ma sono certa che ogni restrizione contribuisca al nostro benessere, anche se difficile da accettare, che sapremo affrontare queste difficoltà con coraggio e ne usciremo più forti, e consapevoli che insieme si combattono le grandi battaglie.

L’OMBRA DI DIO

   Alessandro Merciaro


L a luce: un tema affascinante, suggestivo e misterioso, che si presta a varie interpretazioni o speculazioni. Può essere trattato dal punto di vista scientifico, quello forse più affine alla mia forma mentis. Così mi viene spontaneo fare riferimento ad Albert Einstein. Egli dice che la luce viaggia a velocità costante nel vuoto e indipendentemente dall’energia... Tuttavia, subito dopo questo richiamo, il mio spirito di credente si fa strada… Non posso evitare di pensare che le prime parole del Creatore nella Bibbia sono: “Sia la luce!” “Dio è Luce e in Lui non ci sono tenebre” (Giovanni; 1,5). E di nuovo tutto ciò mi rimanda ad Einstein: questo autentico genio, in un trattato di fisica scrisse: “La luce… ombra di Dio”. Una volta Einstein stava conversando con il suo amico Gustavo Adolfo Rol. A un certo punto lo scienziato alzò una mano e la frappose tra la lampada e il tavolo, dicendo: “Vedi? Quando la materia si manifesta proietta un’ombra scura, perché è materia. Dio è puro spirito e dunque quando si materializza non può manifestarsi se non attraverso la luce. “La luce non è altro se non l’ombra di Dio”.

REMO E L’AMICIZIA

   Giuseppe Giannantonj


O ggi i ragazzi sono partiti presto per il podere Canova e al solito punto di ritrovo siamo rimasti io e Remo. Come di consuetudine beviamo un caffè mentre la conversazione prende sfumature e forme assai più profonde del solito. Ben presto lo scambio verbale si trasforma da quello superficiale e abitudinario, condiviso al mattino tra un volontario e un utente dei servizi sociali, in qualcosa di assai simile al dialogo terapeutico. I disturbi schizofrenici di Remo sembrano scomparire nel momento in cui, tralasciando per un attimo le avversità della sua sorte, egli inizia a dissertare a lungo e con minuziosa sottigliezza dell’importanza della conversazione e dell’amicizia. Non certo quella dichiarata e mantenuta solo per utilità materiale o vantaggio; bensì l’amicizia vera e costante, ispirata in genere da dialoghi profondi e interessati alle sorti altrui. Tanto per fare un esempio, Remo mi rammenta con un po’ di nostalgia quelle che lui definisce come le oramai scomparse ‘amicizie di quartiere’: quelle con cui, all’interno della città, ci si riconosceva come appartenenti a un certo settore di essa e ci si aiutava rispetto agli abitanti del restante agglomerato urbano. Scorgo in quanto mi dice Remo il rimpianto per un’etica della partecipazione, cioè della conversazione; una partecipazione al sentimento altrui da ottenersi con un dialogo non superficiale e apparente tra soggetti con le medesime affezioni, uomini e donne tutti partecipi di una sofferenza cosmica che condiziona la loro umanità.

Bambina

   Sarah Tiralongo


Bambina dallo sguardo impresente,
malinconico e assente il tuo nome.
Guardami,
in queste notti cariche di pianti
piene di volti stanchi
di vecchi rimpianti.
Spogliami da tutti i miei dolori.
Riempimi d’argilla per creare una Dea imperfetta,
la tua vita che conta ogni mio errore,
quando vado di fretta
e manca il tempo per trovare la mia parte perfetta.
Con te bambina
che sei amore,
che sei il cerchio perfetto che distrugge l'infinito.
Ed io,
una virgola senza testo,
il punto mancante dell'Universo
una stella inesplosa,
ferma,
senza posa.

Caos interno.

Ma dentro di me sono l'unico amore,
la mia unica sposa.
Mi prendo per mano
per partorire un mondo mio,
un mondo dove nasce il sole,
un mondo senza peccato
senza quel Dio che nelle notti piene non ci ha salvato.

Domani sarò un pentito (2 agosto 1980)

   Paolo Colognesi


Mi cerchi, e non trovi;
il telefono squilla,
nessuno risponde…
Domani sarò un pentito
Il giorno si allontana
e la sua luce
avvolge la falsa pietà
per i giusti.
Ombre sanguinanti,
borghesi imputriditi
ascoltano divertiti
i rumori nauseabondi della coscienza.
Nella grigia campagna
di un inverno senza tempo
il mio cuore sussurra
orsù… andate!!
Il futuro è nella sala d’attesa
di una stazione centrale

Gente per bene

   Paolo Colognesi


Colori sfumati, angosciosi sogni,
pallida atmosfera di civiltà decaduta,
il giorno è qui.
Siamo gente per bene.
La città concentra nel grembo materno
il grido del non senso,
celeste sensazione
durante la colazione.
Senza fermarci, percorreremo vie solitarie,
infinite frustrazioni nelle costruzioni.
Buongiorno… nuovo giorno!
Come ieri, come domani.

Elucubrazione

   Paolo Colognesi


Disteso su morbide lenzuola, a capo chino,
il risveglio illumina le pareti opposte
della stanza semivuota.
Nella penombra, la luce della piovosa giornata primaverile
trapassa la persiana. Mi alzo, mi siedo
al tavolo del lavoro.
Sulla parte sinistra
la macchina da scrivere,
a destra la lampada spenta.
Sfogliando un libro ottocentesco
rileggo gli antichi versi
di un’antica saggezza.
La fantasia corre tra boschi rigogliosi
e pei verdi prati
l’immaginario ricostruisce architettonici paesaggi.
Muovendo oniriche immagini, ripercorro
strade dimenticate nel labirinto dell’esperienza,
vicoli medioevali, chiese gotiche, palazzi rinascimentali.
Il pensiero empio di viscerale angoscia,
indefinibile
riverbera trasparenti tratti
di un disagio penoso.
Cianotiche espressioni si ripetono costantemente
ceree tonalità scontornano un debole sorriso.
Nel fuoco della stanza
spuntano i satelliti gialli,
Apollo, con fragili ali discende agli inferi,
la Mantis religiosa mastica
imperterrita
la sua solita esistenza.
Immagini reali, assolute si ricompongono
sulla retina proiettando testimonianze drammatiche
di una tragedia umana, che ho vissuto.
Come un respiro ansante,
i personaggi una favola rivivono passate sofferenze
particolari storici della civiltà contadina.
Attraverso quegli occhi privati della luce
calde lacrime scoppiano in secolari silenzi.
Della morte il trionfo.

Sole rinasci

   Marcella Colaci


I corpi erano estranei
addossati come animali
malgrado l'estraneità
non si poteva capire
come fare a sognare
come fare a raggiungere il mare
La sabbia non si vedeva
il mare non c'era
la folla gridava e giocava
senza pensare
non pensava
Stretti come non mai
nemmeno le stelle
nemmeno l'erba e le viole
arrivati nella misera spiaggia
senza capire si stava seduti a guardare
si stava come i polli nelle gabbie affollate
Il sole lontano splendeva
incredulo e solo non ci voleva
bruciava, bruciava, bruciava
Fino a farci da strada
verso le case in paese
gioiva, gioiva
così ci si rintanava
solo splendeva l'indomani mattina
Sole che triste esisti ancorafacci da guida
e sorridi per l'ora di punta
scaldaci e allontana quest'uomo
che sa di petrolio ed è surreale
rinasci ancora per me
fammi vedere la sponda del mare
la stella marina ed il riccio di mare
fa che non siano solo un sogno
un sogno che rischia d'essere
virtuale.

La gioia dei fiori

   Maurizio Leggeri


I nostri amici fiori, mano nella mano,
vestiti a festa sorridenti e
colorati, in girotondo o sparsi nel prato,
ci stanno aspettando per
farci dimenticare innumerevoli
malumori... I nostri amici fiori.

La luce

   Paola Scatola


Qualcuno disse… di te e di me… un bimbo.
Ma anche tu andasti via, e lontano
anche dal bisogno che avevi
di possedere lei.
Rimasi così senza tutto, ma forse era
proprio quel tutto che amavo di più.

Oceani

   Sarah Tiralongo


Occhi profondi,
come le strade che non conosci
come i luoghi che non hai visitato,
le cime
che non hai scalato.
Dentro le moschee che non hai mai guardato,
sui mari
che non hai mai navigato.

Oceani profondi dentro i quali annego,
dentro i quali rinnego l'ego,
l'eco del mio essere immerso in acque profonde
con la pace che mi confonde.

Oceani che non conoscono confini,
oceani dove non vedi la fine.

Poesie senza rime.

Dolore incompreso,
dentro di me
grava tutto il suo peso.
Delle estati non maturate,
dentro ospedali confinati,
finestre sbarrate.

Seduti.

Sedati.

Pensieri che ti sputo in faccia,
non mi importa che ti piaccia.
Io porto la meraviglia oltre i confini,
a chi sa capirla,
a chi sa sentirla.
Immersa sui muri dipinti,
dietro cancelli chiusi,
pianti disillusi.
Guardo le lucciole morire,
per la vita che non le ha portato giustizia,
per un padre che mi ha lasciata,
per la nostra voce
che non viene ancora ascoltata.

Il nemico del nemico

   Giorgia Teresa Di Lullo


Lungo la via della seta
da secoli tracciata
viaggio confortevole per il virus
apocalisse del nostro tempo.
Forte e infestante
biblica cavalletta invisibile
invade l'Europa
insediandosi a Milano
e dintorni predestinati
impreparati alla difesa.
Varca i confini
camuffato da influenza
il COVID infetta con inganno
buoni e cattivi soggetti
decimando laureati
medici e infermieri
sorpresi a mani in alto.
Diventando pandemia
riduce gli arroganti
malaticci e disperati…
Gli scienziati in affanno
rimestano provette
per trovare efficace
nemico del nemico.

Luce

   Paolo Veronesi


È ormai buio
non c’è la luce.
Bisogna cambiare...
Quella maledetta lampadina
si fulmina tutti i giorni.
La notte ci perseguita
dobbiamo aspettare domani.
Tutta la sera al buio
La notte ci circonda
con il silenzio e rumori strani…
Arriverà l’alba prima o poi!

La speranza

   Maurizio Leggeri


L’uccello spera di volare,
la nave spera di salpare,
il vecchio spera di campare
o di morire in pace.
L’albero spera di arrivare al cielo,
il seme di arrivare al melo,
il bimbo di alzarsi su
di camminare e non cadere più.
Il pozzo spera di non restare vuoto,
la luna di restare in volo, nel vuoto,
il grano spera di diventare pane
e di dar da mangiare a chi ha fame.
Il coriandolo spera di iniziar la festa,
il vino spera di inebriar la testa,
il riso di augurare un matrimonio,
nasceranno Tatiana, Luana o anche Antonio…
La montagna spera di rimanere bianca,
la valle di rimanere verde
il mare di rimanere blu,
tutto ciò sarà realtà, se oltre a me,
lo penserai anche tu.

Canto del cigno

   Giorgia Teresa Di Lullo


Immaginazione ardente
fantasia picaresca
libere da tossine
di ozio forzato
apprezzano e godono
pigrizia regalata.
Divano e TV a oltranza
dettagli sociologici
risvegliano intarsi
infiltrazioni vaghi ricordi
di idee marxiste:
conquista del tempo libero
gioco diritto sociale.
Cyclette e ginnastica in casa
tengono i muscoli
del vecchio non decrepito.
Pudica scoperta di sé stesso
rende accettabili
difetti e debolezza
e pur vacillando
prosegue cammino
nel canto del cigno.

Ode al XX secolo… vent’anni dopo

   Maurizio Leggeri


Il secolo breve non è finito:
ancor non ha rinserrato la porta
alle vere rivoluzioni ed esorta
sé stesso ad esser secolo infinito!
Perché il color rosso non è sbiadito,
lo trattiene l'umanità risorta
dalle proprie sconfitte: poco importa
per misurare al tempo il suo vestito!
E ritrovarlo sempre più abbellito
con casa, lavoro, salute e scorta
di beni pubblici: il tutto conforta
ciò che sarà nei secoli acquisito!

Raggiungo l’ora lieta

   Susanna Papa


Raggiungo l’ora lieta
della campagna
più vaga e ambigua
del giorno e afflitta
dal suo sguardo scuro
mi avvio verso il viale
ombrato e seguendo
i passi tuoi
saprò ancora ridare
sorriso al mio volto velato
di una triste agonia.

Coronavirus

   Mariangela Soavi


Piange l'Italia
i tanti figli suoi
lugubri automezzi
i feretri trasportano
Deserte le città
e gli abitanti suoi
fra quattro mura confinati
per evitar l'contagio
Vola il suono di un violino
fino a sfiorare il cielo
per mitigar gli affanni
Trionfa il tricolore
ma tu Italia bella
ancora muori, muori!
Son tutti veri eroi
quelli che giorno e notte
lavorano in corsia
disposti ad accettar la morte
per dar la vita all'Italia tutta
Infuria il virus
l'invisibile e perfido nemico
non ha confini
divora anche gli eroi
ma senza loro che ne sarà di noi...
Ah! La vita...
più bello della vita
non c'è niente
tu italiano gridalo
al mondo intero
ma prima di tutti ricordati che è vero
E tu Italia col cuore
infranto dal dolore
ascolta questo grido di speranza
“Ti ha piegato questa triste sorte
ma non ti spezzerà
rinascerai rinasceremo
perché non c'è notte
che non riveda il giorno!”.

Depressione

   Sarah Tiralongo


Guardo il mondo dietro tre sbarre d’acciaio bianco,
il sole le attraversa.

Io che mi sento sempre diversa.

E l’infinito non mi sembra che una crudele menzogna,
perché col calare del sole
scivola via anche la mia falsa felicità.

Se potessi illuminarmi per sempre.

Se la mia vita si potesse fermare a questo momento magico
non esisterebbe tormento.

Ma quando tu cali e la luna falsa prende il cielo
io mi perdo e non ardo più di luce
ma di angosciosa tenebra
che mi prende alle spalle.

Tocco il fondo di un mare sporco
e grigio, non vedo più il colore
non sento più le parole,
non esiste corpo,
divento l'inconsistenza del terrore.

Tremano le ore.

Non sei più tu.
Tutto crolla, e non esisti più.
La depressione altro non è che il lutto che proviamo per noi stessi,

per la morte,
del nostro essere niente.

Piccina

   Paola Scatola


Quando vedo i tuoi occhi
mi sembro piccina, piccina!
Ma come mai amo solo te,
se anche nel mio cuore c'è lei?
Volevo odiarti, un dì passato,
ma oggi posso solo amarti.

La luce cos’è

   Joe (Gruppo DiSegno InSegno)


La luce per me è lo spazio che si forma tra me e te.
Alcuni lo chiamano Amore;
io preferisco definirlo colore.
Nei giorni di pioggia diventa arcobaleno.
La pioggia ne forma i raggi diventandone luce.
Forse il tutto non è più una teoria
ma una forma di energia.
E luce fu.
Dio bono che bella!

La luce

   BellaBetta (Gruppo DiSegno InSegno)


Il barlume di luce
all'ottimismo induce.
Essa è bella e non rara
sicuramente mai amara,
se poi il buio arriva
c'è la notte che di essa è priva:
del nuovo giorno c'è certezza
che giunga come una carezza.
Ed il sole sorgerà
e nuova vita avrà
già s'intravede l'alba
qualche volta un poco scialba.
Se la giornata è serena
non ci mette affatto pena
perché l'astro è brillante
di un giallo assai sgargiante.
Poi arriva il mezzogiorno
e di luce tutto è adorno
la mattina è terminata
e a metà è la giornata.
Pomeriggio giunge presto
e di solito è lesto
a trascorrere il tempo
è quasi come un lampo.
Quando arriva l'imbrunire
anche il sole va a dormire
e la luce cala piano.
Il dì è finito, ma non invano
perché domani la giornata
lo rivedrà, la stella è rinata.

La luce cos’è

   Alina (Gruppo DiSegno InSegno)


Luce che delimita il buio,
determina quell’ombra chiara che invoca raccoglimento,
e l’abbraccio morbido che avvolge e mi avvolge
come grembo accogliente e protetto.
Delimita lo spazio in cui, racchiusa in me stessa,
scendo nel profondo e contatto
insolite visioni, sensazioni profonde.
Racchiusa accolgo in me lo spazio.
Vedo e vado oltre.

Speranza

   Susanna Papa


Tu mi deludi sempre più
nel giorno dell’avvenire.
Mia creatura celeste
sei la luce dei miei occhi
la speranza della mia vita.
Vedo in te l’immagine dei giorni miei,
frutto della mia gioventù
vissuta nel tempo senza fine.

È passato (Luce)

   Enomis (Gruppo DiSegno InSegno)


Ricordo quel lumicino
suono sordo di un camino
si espandeva per ardere il legno
e dipingeva come un disegno.
Ricordo quella casa come fioco bagliore
una luce accesa e nelle nubi un colore
lo si intravedeva durante la nevicata
quando rallentava mostrando la vallata.
Una luce può portare
lei conduce ad arrivare.
Ricordo un fuoco bruciare all'aperto
che nel suo luogo donava le ombre
alto e maestoso nel suo ardere certo
caldo e luminoso alle tenebre sgombre.
Una luce può mostrare
e produce scintille al mare.
Ricordo durante il temporale
un tuono sordo nella notte rimbombare
ma la luce del lampo che l'aveva preceduto
svelò lo spazio e il tempo col suo bagliore acuto.
Al mattino con il sole
ogni raggio tutto mostra
ogni cosa luce vuole
rimarrebbe sennò nascosta.
Questa luce mi fa scrivere
benedice il quieto vivere.

Dov’è la Befana

   Piergiorgio Fanti


Il brillio dell’albero
luce su luce
si muove
tra le zampe di sedie.

Oltre la porta agitati a comporre regali
mio padre: un fortino
mia madre:
la casa stregata,
la casa stregata di Hänsel e Gretel.

Dov’è la Befana?
Non pensare, la vita ha misteri...

Sto quasi sognando
scale d’oro
e profumi d’incenso.
Non spegnete la luce!

(Inverno ’87-’88)

Volumi orizzontali (U. Boccioni)

   Piergiorgio Fanti


Cartolina e saluti
caro PG!
Un’elica per la madre Robot!
Vivi una Monaco (dici)
di quadri biblioteche
serate musicali
A Bologna il vuoto
è quasi un insulto
Ardui i punti di fuga.

(Inverno ’87-’88)

L’erba sui tetti

   Matteo Martini


Nasce sui tetti l'erba da calpestare,
esile e forte come licheni lunari.
Sotto, la fiamma raccoglie la speranza,
pettina le fatiche,
perché la forza dell'uomo
prende forma nei rifugi,
tra il legno di pietra e polvere di foglie,
nel gusto affumicato del conservare,
nei cuscini di muschio
che costruiscono il sonno.

La luce cos’è

   Alina (Gruppo DiSegno InSegno)


Bagliore improvviso e assoluto
Squarcia buio e noia
Attiva movimento e scoperta
In un tempo che è il qui e ora.

Luce

   Annalisa Ciacco


Luce
bagliore,
splendore,
stupore.
Brilla, scintilla,
intensa, immensa, nutrita,
meravigliosa.

La voce

   Giuseppe Giannantonj


La vorrei prendere tra le mani
È lì che gira in tondo
Dentro la mia testa.

Sto attento alle sue parole
Ascolto quello che vuole lei
Qualcosa che è più forte e sempre più.

Mi mantiene così vivo
Sono così preso da lei
Una voce fissa che non svanisce mai.

Sola

   Sarah Tiralongo


Guardo al mio essere infinito,
al mio essere finito,
ad una rosa che fiorisce,
a questo tempo pieno.

Guardo al cielo sereno
al mio tempo che corre in eterno,
ad un petalo
che vola, in alto,
scappa da me.

Guardo al mondo sulle mie spalle,
dentro la mia pelle,
alle mie farfalle.
Al loro volteggiare,
al loro vivere
un secondo,
per sempre.

Guardo la luce che mi illumina
dentro di me
non mento.
È nel momento in cui mi tocca
e trabocca essenzialmente
la mia essenza,
composta dal niente.

Sono un vaso vuoto
che aspetta la pioggia,
pronta a ricevere la terra madre,
fiorire insieme a un padre.

Sola, cresco.
Sola, ci riesco.
Sola, esco.

Sola,
con un segreto in gola
con il mio sangue, che cola.

Assenza d’amore

   Sarah Tiralongo


Riconoscerci in questi specchi in frantumi
i cieli bui,
le nostre anime che scorrono piano, come fiumi.
Le mie nausee,
i tuoi profumi.
L’amore che dentro è nostro
che lo abbiamo nascosto
per paura che ce lo potessero rubare.
Tu che reciti un copione
io, che ti dico che è tutto da rifare.
Ma poi andiamo,
piangiamo per chi soffre il dolore
noi che ne conosciamo bene il sapore.
Andiamo,
per chi ha un dolore senza nome,
senza amore.
I nostri letti disfatti
noi sopra i tetti,
randagi
come i gatti.
Cantiamo per una luna senza voce
tu che mi accompagni piano
e il tempo che ci sfugge di mano.
Amami,
come quella notte,
le ossa rotte
un destino a pezzi
cade
da alti palazzi
le tue magnolie
sui terrazzi.
Amami
come una sera d’estate
il sapore presente,
le stelle abbandonate.
Amami come Dea dorata,
amami spensierata,
quando sono sul letto e sono malata
quando ti cerco
ma la tua mano
non l’ho ancora trovata.

Signore

   Sarah Tiralongo


Io che dentro sto male,
ma nessuno riesce a vedere,
solo io riesco ad assaporare la fragranza del niente
un pianto che non si sente
e io che mi chiedo:
a chi devo rivolgermi Signore?
Se ogni giorno il mare regala tempesta
e io ho solo il vuoto del mondo dentro la testa.
A chi devo rivolgermi Signore?
Perché spesso mi sono rivolta a te,
ma le tue parole mi sono risuonate mute.






Sono abbacinato!

   Cesare Riitano


Gentilissimo direttore Fabio Tolomelli,
sono Tonino Guastavillani, incaricato di scrivere, per la rubrica Il Cattivista, una critica al suo ultimo editoriale, dedicato al tema de ‘La Luce’. Sono costretto ad ammettere, caro direttore, che in questo momento sto vivendo una situazione di grave e imbarazzante buio creativo. Come lei ben sa, il ‘cattivissimo’ Guastavillani, si scaglia, nella sezione assegnatagli, contro ‘plebei’ e ‘teste coronate’ del giornale, mitragliando spietate e violente recensioni, al limite dell’ingiuria, forzatamente coerenti con la sua ‘fittizia’ personalità bastian contraria. Direttore! A questo punto esigo il silenzio più assoluto, in quanto sto per farle una confessione non ritrattabile… Eccola: dietro la mia apparentemente innocua maschera di sagace redattore di giornale, si nasconde… sì!... un delinquente! Ebbene… questo scellerato, questo misero ladro di polli, questo ridicolo ‘cattivista’ scalcagnato, ammette, per la prima volta nella sua vita, la sua totale inadeguatezza nell’articolare una qualsivoglia criminale critica negativa del suo abbagliante articolo di fondo. Tonino Guastavillani, noto alle cronache per aver vituperato, irriso, calunniato senza pietà i testi di nobili letterati della più bell’acqua, di fronte alla sua notevole opera, direttore, deve solo togliersi il cappello. Fabio! Posso chiamarla Fabio? Sì? La ringrazio moltissimo, Lei… TU… sei molto gentile; devi sapere Fabio che mi sento a pezzi; questa prima colossale cilecca della mia storia letteraria, mi deprime e mi fiacca assai il morale. Ecco perché ti dico, che sto meditando seriamente di arruolarmi nella Legione Straniera, o magari di affiliarmi alla setta coreana del Reverendo Moon, senza parlare del mio pensiero ricorrente di depilarmi completamente ed esercitare la professione di Trav passivo; Fabio! Io voglio farla finita! Vista questa drammatica situazione, non posso non chiederti una cortesia: perché non mi vieni incontro? Non potresti mica modificare parzialmente il tuo articolo, scrivendo qualche coglioneria? Magari aggiungendo alcune inutili volgarità! O sbagliare almeno un congiuntivo, per Dio! Sarebbe molto utile per lo svolgimento del mio contro-editoriale, in quanto mi daresti il coerente pretesto d’utilizzare una necessaria violenza verbale nei tuoi confronti, utile a chi ti sta scrivendo, per sfamare la sua numerosa famiglia. Fabio ragiona! Se TU sei perfetto, come posso essere IO cattivo? E se io non posso esercitare la mia cattiveria, caro Fabio, sai cosa succede? Succede che ‘acqua cheta’ Lucia mi licenzierà o, ancora peggio, il ‘mite’ Antonio mi declasserà a pulire i cessi del Roncati! Fabio… mettiti una mano sulla coscienza… io sono un padre di famiglia… Fabio! Se mi aiuterai a superare questo difficile scoglio, sappi che per te il caffè corretto con la sambuca al bar Saragozza sarà sempre pagato; inoltre, potrai contare su due sigarette Camel Light 100’s al giorno, e in più un regalo speciale: l’introvabile 45 giri del 1984 dei Dead or Alive, You Spin Me Round. Fabio! Fai splendere la Luce della clemenza verso il tuo sottoposto bisognoso… Non mi rovinare! Con la massima e immutabile stima.






FIAT LUX
Conversazioni storico filosofiche sui colli

   Carlo Monaco

1. Introduzione
Metti cinque sere d’estate sui colli di Bologna presso il podere Canova di via Gaibara. Metti che non se ne poteva più dell’isolamento da Coronavirus. Metti pure il fascino del tema delle conversazioni. Lascio stare il relatore, che è il sottoscritto, il cui giudizio compete solo al pubblico. La conclusione è che coloro che si sono persi questi appuntamenti hanno di che pentirsi.
L’orario era quello del tramonto e il tema era Le metafore della luce.
Sulla natura della luce la scienza ha fatto straordinari progressi. Tutto è legato alle reazioni nucleari tra elio e idrogeno all’interno del sole. Il calore e la luce nascono da lì e poi si irradiano nei dintorni fino al nostro pianeta terra che gode della fortuna di trovarsi a una distanza tale da consentire a noi mortali di non avere né troppo freddo né troppo caldo, di non essere totalmente abbagliati dalla luce né di essere immersi nell’oscurità asfissiante dei buchi neri.
Ma, studiando e ristudiando, si verifica il paradosso che assieme all’ampliamento delle nostre conoscenze, si espande anche la consapevolezza crescente della nostra ignoranza. Tutto diventa più difficile e complicato. La velocità della luce costituisce la cornice insuperata o insuperabile dello spazio-tempo e se uno di due gemelli, come racconta Einstein, riuscisse a viaggiare a una velocità superiore a quella della luce, al termine del viaggio tornerebbe più giovane e il suo fratello gemello sarebbe già morto di vecchiaia. La nostra ignoranza cresce al punto che la domanda sulla natura della luce (è fatta di particelle corpuscolari che si muovono, oppure di onde?) diventa antinomica o paralogica, cioè irrisolvibile, come tutte le idee metafisiche individuate nella dialettica trascendentale di Kant.
Eppure la nostra cultura occidentale ha messo la luce al centro di quasi tutte le sue riflessioni più suggestive. Si tratta inevitabilmente di metafore: i molteplici significati della parola si spostano dal terreno proprio della ricerca astrofisica verso qualcos’altro considerato equivalente o analogo.

2. I miti della luce
Della luce si occupano abbondantemente i miti, che costituiscono la forma originaria, immaginifica e narrativa, della conoscenza umana.
Nel racconto ebraico della Genesi Dio, subito dopo aver creato il mondo, si accorse che l’abisso tenebroso in cui esso si trovava collocato era insostenibile e subito pronunciò il mitico: Fiat Lux. E la luce fu fatta e Dio vide che era una cosa buona.
Nella mitologia greca all’origine di tutto c’era il Caos, cioè il buio totale, un uccello dalle ali nere. Ma poi il vento fecondò il suo uovo che a un certo punto si aprì generando il cielo e la terra. La luce trovò mille altre rappresentazioni poetiche. Il grande carro del dio Elio veniva guidato per le vie del cielo verso la terra dal dio Apollo, il simbolo più efficace della finalizzazione della luce al servizio dell’uomo.
La luce poi regna sovrana nel mito platonico della caverna, che in realtà è un mito-non mito, inventato da Platone maestro, a puro scopo didattico. Le cose che noi vediamo non sono reali, ma solo ombre misteriose. La nostra anima è chiusa nel buio di una caverna e non ha ancora riscoperto la luce. Il mondo della luce e del sole è un vero paradiso perduto verso cui Eros ci spinge prepotentemente a ritornare. Se gli diamo retta. Nella filosofia di un neoplatonico come Plotino, l’universo tutto è immaginato come un grande sole che irradia luce e calore in quantità decrescente rispetto al nucleo centrale. Il buio non è in sé stesso una realtà. È solo mancanza di luce.
All’interno del pensiero cristiano si è sviluppata una vera e propria “teologia della Luce” specialmente lungo un asse che va dal quarto vangelo di Giovanni, alle lettere di Paolo, ad Agostino e Lutero. La rivelazione divina che pure è contenuta nel Libro Sacro (Bibbia) e nel grande libro della natura (parole di Galilei), sarebbe assolutamente inconsistente, se non ci fosse il rapporto dell’uomo con il divino come fonte vera di ogni illuminazione. Gesù è la vera luce divina che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Una tale teologia della luminosità si contrappone oggettivamente a una idea di religione tutta statutaria e a una pratica devota che vede in Dio il dominus di tutto e nell’uomo il suo servo sottomesso.

3. Illuminismo
È stato dato il nome illuminismo a un progetto umano finalizzato alla costruzione di una rete di illuminazione artificiale. In quanto tale la spinta chiarificatrice è presente nell’intero corso della storia occidentale, dai sofisti greci alla modernità. Anche se è accaduto solo nel Settecento che abbia raggiunto la massima intensità e la piena consapevolezza di sé. Gli illuministi pensano che nella testa degli uomini via sia una lampada, la ragione, capace di garantire, se opportunamente e correttamente utilizzata, sia una piena evidenza scientifica per la migliore conoscenza del mondo, sia una guida pratica capace di organizzare al meglio la vita propria e quella della società. Simboli dell’illuminismo sono Descartes e Bacon che, anche se contrapposti nella costruzione di un metodo scientifico (razionalista e matematico il primo, empirista e tecnico il secondo), hanno in comune l’idea che solo il corretto uso della ragione possa guidare l’uomo a capire il mondo e a migliorarlo a proprio vantaggio.
Nel Settecento l’illuminismo divenne l’idea dominante nella società europea. Adam Smith e gli altri economisti individuarono nel lavoro e nella sua produttività la causa prima della ricchezza delle nazioni. Montesquieu, Voltaire e altri si occuparono della migliore natura delle leggi, del loro spirito, della divisione del potere, e della tutela piena dei diritti individuali. Cesare Beccaria sviluppò la riflessione sulla natura dei delitti e delle pene fino al punto da sostenere l’assurdità della pena di morte e la necessità della sua eliminazione dalla scena pubblica. Ci furono nazioni che cercarono di seguire i suggerimenti dei filosofi e riuscirono in qualche misura a illuminarsi, altre, ad esempio la Francia, pur essendo la patria di tanti pensatori illuministi, non realizzarono alcun progetto di illuminazione sociale e politica e alla fine precipitarono nella rivoluzione. Il massimo teorico di questi progetti illuminotecnici fu certamente Kant che, interrogandosi sulla natura dell’illuminismo, rispose che esso consiste nel passaggio dell’uomo da una condizione di minorità e sudditanza verso le autorità a quella della maggiore età e della piena autonomia personale e sociale.

4. Tramonto e aurora
Nietzsche, durante una vita dal corso breve e sofferente, si convinse che sia l’illuminazione divina che quella dell’illuminismo umano non fossero nient’altro che processi di decadenza da una condizione originaria di spirito eroico e titanico verso un crescente processo di addomesticamento. Insomma, da eroi quali erano in una imprecisata età originaria, gli uomini sono andati diventando sempre più simili alle pecore. Dio è morto e l’uomo è diventato solo un servo insignificante. L’illuminismo, sanzionando anche sul piano giuridico l’uguaglianza degli uomini, la democrazia come regola di governo, l’emancipazione femminile, e ogni altra forma di cosiddetto progresso, ha finito per spingere alle estreme conseguenze la trasformazione degli uomini in pecore e dell’umanità in gregge. Dove porterà questo processo? Verso il trionfo del nichilismo, cioè verso la distruzione totale della volontà di potenza e dei valori che possono dare un senso alla vita. A meno che, non spunti una nuova aurora, cioè che la realtà abbia carattere circolare e ci sia perciò un eterno ritorno dell’uguale. Proprio come annuncia un immaginario Zarathustra. Dopo l’ultimo uomo, ridotto a pecora, non ci sarà l’arrivo di un superuomo, non ci sono razze superiori, e neppure un uomo nuovo, come indicano i moralisti alla Rousseau, ma un oltreuomo, un modello che può essere immaginato solo pensando agli eroi dell’antica mitologia greca. Agli inizi del Novecento il tedesco Spengler scrisse un libro di successo, nel quale annunciava il tramonto dell’Occidente. Rispetto a Nietzsche la differenza è netta: l’occidente secondo Splegler è come un organismo vivente che orami è in uno stato di avanzata senescenza. Tutte le società, alla stessa stregua degli esseri viventi, invecchiano e muoiono. Il destino dell’Occidente è segnato. I sintomi di invecchiamento sono molti e riconoscibili. E intanto nuovi popoli giovani si affacciano prepotentemente sulla scena della storia. Proprio come diceva Hitler, che non a caso aveva scelto come simbolo il sole della svastica.

5. Il sole dell'avvenire
Nella storia del movimento operaio del nostro tempo la metafora del sole dell’avvenire ricorre frequentemente. Tutto cominciò con la costruzione del modello platonico di Repubblica. Perfetta, nella sua divisone del lavoro in tre, dirigenti soldati e lavoratori. Intransigente, nella necessità di abolizione della famiglia e della proprietà privata, almeno per la classe dei dirigenti. Anticipatrice, dunque, di una idea solare di comunismo e di uguaglianza, ma anche di alcune idee naziste sulla selezione della razza umana e sulla eugenetica. Il modello di Platone non ebbe successo in Grecia. L’autore stesso, quando ebbe l’opportunità di realizzare alcune riforme a Siracusa, finì davvero male, politicamente e umanamente parlando. Ma nei secoli successivi i richiami al suo insegnamento non sono mai scomparsi. Dalle regole di vita in alcuni conventi ai progetti politici dei gesuiti nel Paraguay. Il frate calabrese Tommaso Campanella, imitando il modello platonico scrisse la sua Città del sole. Poco prima di lui lo sfortunato Thomas More aveva scritto la sua Utopia, l’isola perfetta dove regnano l’eguaglianza, il comunismo e il culto solare. Quel Thomas More, vittima del suo re Enrico VIII che facendolo uccidere perché rifiutava di aderire alla Chiesa anglicana, lo trasformò in martire e santo. Karl Marx, sostenitore della necessità scientifica di superare la società capitalista, inventò un socialismo nuovo, in aperta polemica con il comunismo primitivo dei platonici e di tutti gli altri sognatori che egli accomunò nell’epiteto di utopisti, cioè di sognatori e dunque sostenitori oggettivi e involontari del sistema capitalistico vigente. Il socialismo di Marx era un ambiziosissimo progetto di trasformazione della società a partire dalla scoperta di leggi e di tendenze in essa presenti e guidati da una volontà politica incentrata sulle lotte della classe operaia sfruttata, sulla proletarizzazione crescente dei lavoratori e sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. Eppure, anche all’interno di questo socialismo reale, nonostante l’allergia di Marx al primitivismo e al facile simbolismo della luce, a poco a poco prese forma e concetto l’idea di una società futura e prossima simile al sole. La metafora del sole dell’avvenire comparve si sviluppò in modo evidente. In tutti i simboli e nei luoghi del lavoro, nelle bandiere e negli slogan, nelle parole e nelle canzoni. Persino nello stemma del più moderato epigono di questa tradizione, il partito socialdemocratico italiano, appariva il simbolo del sole nascente. Karl Popper, critico liberale e anche un po’ socialdemocratico di Marx, finisce per suggerire l’idea che Marx stesso, nonostante la sua dichiarata scientificità, non fosse riuscito a liberarsi di quella tendenza utopica verso il sole nascente che aveva così lucidamente individuata e combattuta.

6. La luna
Di tutte le fonti luminose la luna è certamente il simbolo più umano. Non rappresenta la luce, perché la luna non brilla di luce propria. Ma, come noi del pianeta Terra, la riceve dal sole e la rispecchia pallidamente. Come simbolo la luna non interessa né i teologi né i filosofi della storia né gli illuministi né i rivoluzionari del sole nascente. Interessa soprattutto i poeti, dagli antichi lirici greci a Virgilio e a Leopardi; i narratori, dal Pavese de La luna e i falò al Pirandello di Ciaula scopre la luna; i pittori, da Turner a Van Gogh a Chagall, i musicisti, da Beethoven ai Beatles a Fred Buscaglione (guarda che luna! ). Il chiaro di luna è il simbolo più amoroso, melanconico e sofferente, che i poeti abbiano saputo inventare. Triste e bello, come dice Verlaine. Ha una leggerezza assoluta. Italo Calvino l’ha illustrato con rara efficacia, sia nei racconti delle Cosmicomiche che nella prima delle sue cinque lezioni americane, dedicata alla leggerezza. L’unica scuola filosofica che potrebbe definirsi lunare è quella degli umanisti e in particolare degli esistenzialisti. In tutti i risvolti della paura e dell’angoscia, del terrore e del tremore, degli aut-aut che la vita ci pone incessantemente, regna sovrano lo spirito della luna. Scrive Alda Merini: “la luna grava su tutto il nostro io e anche quando sei prossima alla fine senti odore di luna... Io sono nata zingara, non ho un posto fisso nel mondo, ma forse al chiaro di luna mi fermerò un momento”. Parafrasando un altro poeta (Quasimodo): “Ognuno sta solo nel cuore della terra. Il raggio di sole non lo illumina ma lo trafigge. Ed è subito sera. Per fortuna, a quel punto, qualche volta c’è la luna”. Se il sole è un guerriero combattente che nella sua mascolinità ci trafigge, la luna è donna. Assolutamente umana, anche quando si mostra totalmente lunatica. Ogni uomo ha la sua luna (Magritte).








LA LUCE CHE CURA

   ricerca su siti internet


 


Cos’è la fototerapia

   Giulia Bertelli
Laureata in Biotecnologie Medico-Farmaceutiche
https://www.my-personaltrainer.it/salute-benessere/fototerapia.html


La fototerapia è una tecnica curativa basata sull’uso della luce (dal greco, ‘terapia con la luce’). Solitamente, viene applicata al trattamento di disturbi dermatologici (psoriasi, acne, eczema), del sonno (alterazioni del ritmo circadiano, insonnia) e di alcune malattie psichiatriche (disturbo affettivo stagionale). Durante la seduta di fototerapia il soggetto è posto in prossimità di una fonte di luce naturale (sole, vedi elioterapia) o artificiale (es. light box) per un tempo di esposizione variabile (dalla mezz’ora alle due ore, in genere al mattino). Il principio dell’applicazione di questo trattamento è il seguente: la light box emana luce simulando l’illuminazione naturale esterna (solare); tutto ciò stimola i ‘prodotti chimici’ che agiscono sul cervello, producendo un effetto sull’umore o sincronizzando i ritmi circadiani.
Nella fototerapia, le forme di luce possono variare per tipologia, colori ed intensità: ad esempio, con la luce ad ampio spettro viene simulata la radiazione solare, mentre con il soft laser (a bassa intensità) si focalizza un raggio luminoso allo scopo di alleviare dolori ed infiammazioni.
L’applicazione della fototerapia si è sviluppata negli anni ‘80, a seguito dello studio di una particolare forma di depressione, con sintomi ricorrenti e caratterizzata da un modello di stagionalità: il disturbo affettivo stagionale (SAD). Infatti, la stessa definizione di SAD si basa sull’osservanza che l’esposizione a una fonte di luce artificiale riduce notevolmente i sintomi caratteristici del disturbo. A seguito di tale applicazione, oltre a confermare la propria efficacia come adiuvante la cura di diverse forme di depressione, la fototerapia si è rivelata utile per il trattamento dei disturbi del sonno: può quindi aiutare soggetti che soffrono di insonnia, jet lag, chi svolge turni lavorativi notturni oppure pazienti con più complesse alterazioni dei ritmi circadiani, che coinvolgono, ad esempio, sistemi serotoninergici, noradrenergici e dopaminergici.
La fototerapia è considerata uno strumento terapeutico adatto, in modo particolare, ai pazienti non responsivi ai trattamenti farmacologici o che manifestano effetti collaterali avversi alle cure mediche convenzionali.

Nota. La reale efficacia della fototerapia è dimostrata per la cura della SAD e di alcune malattie dermatologiche; meno convincenti sono i risultati del trattamento per alcune particolari forme di depressione e per l’applicazione ai disturbi alimentari. Per tali patologie è necessario approfondire lo studio d’efficacia della fototerapia, anche in relazione ai meccanismi fisiologici di azione che caratterizzano le varie condizioni patologiche. Questa conoscenza potrebbe rivelarsi utile per adattare la fototerapia a future applicazioni cliniche.







Cos’è la fototerapia

   Ivana Bernardotti
psicologa psicoterapeuta del Centro Medico Santagostino
https://psiche.cmsantagostino.it/2017/10/17/fototerapia-la-luce-potere-sullumore/



S econdo le linee guida internazionali è la terapia della luce, o fototerapia, il trattamento di prima scelta della Depressione Stagionale. C’è poco da fare: una giornata di sole è sempre meglio di una giornata nuvolosa. Non a caso diciamo “che bella giornata” quando fuori c’è luce e “che brutto tempo” quando il cielo è coperto di nuvole. È noto che il tono dell’umore e la percezione soggettiva di energia sono influenzati dal grado di luminosità dell’ambiente in cui viviamo. Durante la stagione estiva, quando le giornate si allungano, ci sentiamo più attivi e riposati, mentre durante la stagione invernale sperimentiamo spesso una maggiore sonnolenza. Ma non è solo il senso comune a dircelo: in psichiatria la luce è da anni ritenuta un potentissimo strumento di regolazione dell’umore.

La fototerapia per la depressione stagionale
Lo sviluppo della fototerapia o terapia della luce (in inglese, Light Therapy) in psichiatria è strettamente legato alla definizione originale di Sindrome Affettiva Stagionale (SAD). La SAD si caratterizza, infatti, per episodi depressivi gravi in corrispondenza dei cambiamenti stagionali, in particolare autunno-inverno con diminuzione nel periodo estivo. Già nel 1984, lo psichiatra e ricercatore Norman E. Rosenthal ipotizzò che all’origine della Sindrome Affettiva Stagionale ci fosse la riduzione invernale della quantità di luce e ne identificò la terapia di prima scelta nella fototerapia.

Gli effetti della luce sull’umore
Nell’uomo quasi tutte le funzioni fisiologiche e comportamentali hanno un andamento ritmico: cicli di circa un giorno (ritmi circadiani), cicli di meno di un giorno (ritmi ultradiani) e cicli di più di un giorno (ritmi infradiani). I Disturbi dell’Umore sono strettamente connessi all’alterazione dei ritmi circadiani: alternanza sonno-veglia, temperatura corporea e livelli ormonali. Alcuni dei sintomi più spesso associati alla Depressione Maggiore e al Disturbo Bipolare includono, infatti, alterazioni del ritmo sonno-veglia (insonnia o ipersonnia), dell’appetito (aumento o perdita di peso) e dei ritmi sociali. Dal momento che è proprio la luce il principale sincronizzatore dei ritmi circadiani, si è pensato di sfruttarne le potenzialità in ambito clinico. Già i primi psichiatri che si occuparono di Disturbi dell’Umore avevano intuito l’importanza giocata dai cicli luce-buio nella Depressione: Vincenzo Chiarugi, noto psichiatra italiano, nel suo Trattato della Pazzia in genere e in ispecie del 1794 consigliava di esporre alla luce le persone che soffrivano di episodi depressivi e al buio coloro che attraversavano fasi di iperattivazione.

Come funziona la fototerapia?
L’occhio rappresenta la parte più superficiale del nostro sistema nervoso centrale. La luce colpisce la retina e stimola il nervo ottico che trasmette gli stimoli a regioni del cervello come l’ipotalamo, che regola la produzione di serotonina (l’ormone del buonumore) e di cortisolo (l’ormone dello stress), e l’epifisi, che regola la produzione di melatonina, migliorando l’umore, l’alimentazione e il sonno. Cortisolo, serotonina e melatonina risultano, infatti, alterati nelle persone che soffrono di episodi depressivi. Nella pratica, la fototerapia consiste nell’esposizione, durante i mesi in cui si manifestano i sintomi depressivi, a una fonte di luce brillante artificiale di intensità equivalente a circa venti volte quella di un ambiente interno illuminato, prodotta con apposite lampade. Di norma, le sedute vengono effettuate a occhi aperti, non necessariamente rivolti verso la fonte luminosa. Il tempo di esposizione varia da trenta minuti fino a tre ore al giorno. Gli orari del giorno indicati, la durata di ogni singola esposizione, il tipo di lampada e l’intensità della luce dipendono dalla valutazione clinica individuale, che si basa oltre che su specifici test diagnostici anche su un’accurata valutazione della qualità del sonno e del ritmo sonno-veglia.

E in Italia?
La fototerapia è ormai affermata, ma ancora poco diffusa in Italia. I dati più importanti sull’efficacia della Light Therapy nel trattamento dei Disturbi dell’Umore provengono dal Centro Disturbi dell’Umore del San Raffaele Turro di Milano. In uno studio pubblicato nel 2001 su Journal of Affective Disorders, il gruppo di Francesco Benedetti ha osservato che i pazienti con disturbo bipolare ricoverati nelle stanze maggiormente esposte alla luce mostravano tempi più brevi di ospedalizzazione (tornavano a casa circa due - tre giorni prima) rispetto a coloro che risiedevano in stanze meno illuminate. Nella stessa direzione si è mosso uno studio retrospettivo canadese (Beauchemin and Hays, 1996): i pazienti ricoverati nelle stanze più luminose avevano avuto una degenza mediamente più breve di 2,6 giorni di quella dei pazienti ospitati in stanze meno illuminate, con effetto maggiore per gli uomini che per le donne.

Cosa ci dice la ricerca?
Nel 2005, una metanalisi di venti studi pubblicata su American Journal of Psychiatry ha confermato che il trattamento con luce brillante è efficace nei disturbi dell’umore, a carattere stagionale e non. Secondo alcuni autori l’uso della fototerapia andrebbe esteso ben oltre l’ambito dei disturbi stagionali e i risultati sarebbero ancora più evidenti in abbinamento al trattamento con antidepressivi. Alcuni studi hanno dimostrato un effetto stagionale e la conseguente efficacia della fototerapia anche nella Depressione Pre-Mestruale, nella Bulimia Nervosa e nell’Anoressia con comportamenti di tipo bulimico, nella Jet Lag Syndrome, nella sindrome dei turnisti e nei disturbi del sonno legati all’alterazione dei ritmi circadiani.







La cronoterapia dei disturbi dell’umore

   Francesco Benedetti
psichiatra e direttore dell’unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele

La conferenza fa parte del ciclo “Incontri con la scienza – per saperne di più” organizzato nel 2019 da Progetto Itaca. Trascrizione a cura di Maria Luisa Bonacchi e Giulia Travaini

https://dbsurfistidellavita.forumattivo.com/t167-la-cronoterapia-nei-disturbi-dellumore-conferenza-del-professor-francesco-benedetti



C he effetti ha la luce sul cervello? Come può influire sull’umore e curare malattie? Ecco i risultati delle ricerche iniziate all’Ospedale San Raffaele di Milano molti anni fa, diventati oggi protocolli di terapia internazionali. Uno dei Paesi con il tasso di suicidi più alto al mondo è il Giappone. A detenere il triste primato è la metropolitana di Tokyo, tredici linee e otto milioni di passeggeri al giorno, accalcati nelle ore di punta soprattutto lungo la linea circolare Yamanote. Nel 2008 proprio lungo la Yamanote furono installate apposite luci blu, capaci di stimolare alcune cellule ganglionari della retina collegate direttamente con il sistema limbico. Il numero di suicidi calò del 75 per cento. Si è visto che, stimolando con luce blu alcune zone cerebrali di un individuo depresso, in pochi minuti si attiva il sistema cortico-limbico del controllo delle emozioni. Si sa che il sesso, l’età e perfino l’andamento del Pil possono incidere in modo significativo sul numero dei suicidi ma proprio i giapponesi, dopo aver registrato la quantità giornaliera di luce solare in un anno, scoprirono che questa è il principale fattore che influenza il numero di suicidi.

La luce del mattino
Molti anni fa, al centro per i disturbi dell’umore dell’Ospedale Ville Turro dove lavoravo, notai che nelle camere esposte a ovest entrava solo la luce del tramonto: una luce calda, con la ‘temperatura di colore’ più bassa, compresa fra i 3000 e i 3500 gradi Kelvin. Molto diversa da quella dell’alba, bianco-azzurra e brillante, con temperatura di colore superiore a 5000 Kelvin e in grado di attivare le cellule ganglionari menzionate in precedenza. Scoprimmo che chi era affetto da depressione o da disturbo bipolare, se ricoverato in camere esposte a est veniva dimesso addirittura una settimana prima. A parità di degenza durante l’inverno, già in primavera si notava una differenza che aumentava in estate quando l’orologio biologico tocca il massimo di sensibilità all’effetto antidepressivo della luce. Si dimostrava per la prima volta che per chi è affetto da depressione bipolare l’esporsi al mattino per un quarto d’ora alla luce del Sole è un potente antidepressivo. Il risultato apparve nel 2004 sul Financial Times. Come si spiega tutto ciò? Si è capito che la Terra è un ambiente ritmico: il nostro cervello e il mondo che lo circonda non sono separabili. Tutti i nostri ritmi sono adeguati alla Terra che ruota: sia gli ormoni che produciamo sia le funzioni intellettive. Quest’area di ricerca, denominata cronobiologia, è nata negli anni Sessanta.

L’orologio biologico
Ci sono due sistemi fondamentali che regolano i nostri ritmi: quello omeostatico (quanto più tempo sto sveglio, tanto più ho sonno, e se vado a dormire la mia sonnolenza si azzera) e quello circadiano: abbiamo un orologio biologico che batte il tempo ritmicamente e fa sì che in certe ore io sia sveglio e, in altre, che io abbia sonno. L’interazione dei due sistemi determina la nostra propensione a dormire, ma anche il modo in cui gli ormoni e i neurotrasmettitori del cervello vengono prodotti e liberati. L’orologio biologico è collocato nell’ipotalamo, nel mezzo del cervello. L’oscillatore molecolare, il bilanciere, è il DNA, il nostro codice genetico: geni che vengono espressi ritmicamente e sincronizzati dalla luce. Nel 2017 i ricercatori statunitensi Jeffrey Hall, Michael Rosbash e Michael Young vinsero il premio Nobel “per le loro scoperte sui meccanismi molecolari che controllano il ritmo circadiano”. Scoprendo cioè che i raggi del mattino entrano dall’occhio, colpiscono la retina e mettono a punto l’orologio biologico. Nella parte periferica della retina si trovano cellule specifiche che trasmettono il segnale all’ipotalamo e lo sincronizzano costantemente con il ritmo di rotazione della Terra su sé stessa. È una macchina complessa: i geni vengono espressi formando proteine che rientrano nel nucleo delle cellule e inibiscono la loro stessa espressione, con un sistema a retro-azione negativa che richiede circa 24 ore. La luce ogni mattina, con un effetto diretto, sincronizza l’espressione di questi geni. Semplificando al massimo: quando la mattina alzo le tapparelle, la luce che entra fa sì che il DNA del mio cervello venga espresso ritmicamente iniziando una trasmissione ritmica e circolare che durerà 24 ore e che organizza tutto il mio organismo. Oggi sappiamo che gli orologi biologici sono espressi da ogni cellula del corpo umano e sono sincronizzati dal pacemaker centrale nel cervello, con una serie di eventi biologici a cascata che sincronizzano tutto l’organismo. Gli ormoni e i neurotrasmettitori cerebrali vengono prodotti secondo cicli e sincronizzati già prima della nascita. Il feto sincronizza il proprio orologio biologico con quello della madre: il cervello della madre è stimolato e messo a punto dalla luce; attraverso la melatonina prodotta dalla ghiandola pineale e i ritmi di temperatura, ormoni e pressione, a livello placentare si attivano gli orologi biologici dall’ipotalamo della madre a quello del figlio e vengono sincronizzati regolando i ritmi circadiani del feto che quindi, attraverso gli occhi della madre, entrano in contatto con la rotazione della Terra su sé stessa. Il concetto fondamentale è che anche i geni dell’orologio biologico hanno delle varianti alleliche (ricordiamo che ogni cromosoma contiene geni che esprimono i caratteri ereditari di un individuo; ogni gene possiede due alleli, uno proveniente dall’informazione genetica del padre, l’altro da quello della madre); questo fa sì che ognuno di noi sia diverso dall’altro. Se fossimo liberi dagli effetti di sincronizzazione della luce ognuno di noi avrebbe un orologio con un ritmo proprio. Chi va a letto presto, si sveglia presto ed è subito attivo, è detto ‘allodola’. Chi si addormenta tardi e si sveglia tardi, preferendo svolgere delle attività pomeridiane, è definito ‘gufo’, mentre il 50 per cento della popolazione è più o meno allineata. Questa preferenza per l’agire di mattina o di sera è legata all’orologio biologico: quando è ritardato rispetto al moto di rotazione della Terra spesso è associato alla depressione. Nel corso stesso della vita c’è un ritmo che determina una fluttuazione, legato a sostanze prodotte dal corpo nelle diverse età (come la citochina del sistema infiammatorio e gli ormoni): i neonati sono straordinariamente mattutini, gli adolescenti hanno un ritardo di fase e diventano sempre più serotini mentre con l’età si ritorna a essere mattutini. La caratteristica individuale è data quindi dall’interazione tra tutti questi fattori: genetici, legati all’età e all’alternarsi di luce e buio.

Melatonina e stagioni
Si è visto inoltre che il cervello è sincronizzato non solo con il ritmo di rotazione della Terra, ma anche con la rotazione della Terra intorno al Sole, quindi con la luce dei ritmi stagionali. Oltre all’orologio biologico, si deve tener conto dell’ormone detto melatonina, prodotto dalla ghiandola pineale secondo un meccanismo complesso, anch’esso sincronizzato dalla retina: in presenza di luce la melatonina non viene prodotta. Con il buio il cervello “prende” serotonina (neurotrasmettitore collegato alla depressione), la trasforma in melatonina e la libera nel sangue, segnalando all’intero organismo che è notte ed è l’ora di passare alla fase notturna dei cicli e andare a dormire. Questo segnale varia moltissimo a seconda del fotoperiodo, cioè la quantità di ore di luce, dall’estate all’inverno. A seconda delle stagioni, cambiano il numero di ore di luce e la loro intensità. Il nostro cervello ne è informato attraverso la quantità di melatonina che viene prodotta: tanto buio, tanta melatonina per tanto tempo. È la luce che sincronizza questi ritmi stagionali: il ritmo di produzione dei neurotrasmettitori (in primis la serotonina) segue esattamente la quantità di luce disponibile. Se al solstizio d’estate il cervello produce circa 1.000 picomole al minuto di serotonina, al solstizio d’inverno la quantità è inferiore a 100. Quindi scende di 10 volte in autunno e sale di 10 in primavera: la depressione coincide con la discesa e la risalita della serotonina. Con la tomografia a emissione di positroni si può dosare nel cervello il trasportatore della serotonina, una molecola che aumenta in tutte le aree cerebrali al calare della luce, e vedere come cambia il sistema di trasmissione della serotonina. Scopriamo che tanto più varia la produzione di serotonina, tanto più le persone predisposte soffrono dei sintomi della depressione stagionale. Se usiamo la luce per curare la depressione, possiamo mappare nel cervello il cambiamento che regola il trasportatore della serotonina: se riusciamo a riequilibrarlo, il paziente guarisce. Riassumendo: nell’ipotalamo parte l’attivazione dei geni dell’orologio biologico, che poi diminuirà durante la notte, e così via con un ritmo ciclico. La luce fa partire la produzione di serotonina, che di notte diminuirà. I tre principali bersagli delle cure depressive (serotonina, dopamina e noradrenalina) seguono lo stesso ritmo ciclico; i farmaci antidepressivi cercano di potenziarne la trasmissione che è soggetta a ritmi circadiani. Sappiamo in più che alcuni neuroni addirittura cambiano trasmettitori e liberano l’attivazione dell’asse periferico dello stress. Sappiamo che alcuni neuroni della retina regolano direttamente il sistema limbico e quindi la capacità di provare emozioni positive o negative. Noi non abbiamo paura “del” buio, ma abbiamo paura “al” buio. Un botto al buio genera paura, una fortissima emozione negativa. Abbiamo mappato con precisione questi circuiti e sappiamo come la luce li sincronizzi, modificando le nostre preferenze diurne e facendo sì che nel cervello umano, in funzione della quantità di luce che si è ricevuta nelle settimane precedenti, i gangli della base cranica, le amigdale e la corteccia cingolata (cioè il sistema cortico-limbico di controllo delle emozioni) reagisca diversamente agli stimoli negativi, influenzando tutti i sistemi ormonali neurotrasmettitoriali (persino gli ormoni della tiroide) con una quantità di effetti. Si deduce che l’orologio biologico controlla l’umore in mille modi regolando i neurotrasmettitori, le risposte immunitarie, l’asse dello stress. Se io lo perturbo (con il jet lag, o cambiando turno di lavoro) oppure lo de-sincronizzo (modificando il mio sonno, la mia attenzione agli stimoli, i miei ritmi di lavoro) possono esserci danni e l’insorgere di depressione.

Luna e maree
Non dimentichiamo poi l’attrazione gravitazionale della Luna che, a seconda della sua posizione rispetto alla Terra e al Sole, determina maree più o meno forti. Oggi Thomas Wehr dell’unità di psicobiologia clinica dell’NIMH, National Institute of Mental Health degli Usa, dimostra scientificamente come i pazienti con disturbo bipolare a cicli rapidi hanno i loro episodi di malattia secondo un ritmo che riproduce quello delle maree lunari o, addirittura, il grande ciclo perigeo, ossia quello delle superlune. Sono ritmi endogeni di tono dell’umore, mini-cicli durante gli episodi depressivi. Conta poco che ci sia il plenilunio o la Luna nuova, ma conta la forza di marea in linea con la quantità di sonno. Oggi è possibile dire (è stato pubblicato su Translational Psychiatry, la sezione di psichiatria sperimentale di Nature) che i cicli di umore bipolare si associano ai cicli della Luna che sincronizzano i ritmi circadiani. L’aveva detto Ippocrate: “L’uomo e il suo ambiente non sono separabili”. Non posso separare il mio cervello dal Sole, dai ritmi della Terra e dall’ambiente che mi circonda. E alla fine, scrivevo anni fa su Biological Psychiatry, ciò che caratterizza i pazienti con depressione bipolare o unipolare rispetto a chi non ne soffre è “solo” il fatto di essere molto più sensibili a questi ritmi e di avere meno meccanismi omeostatici di compensazione. La reazione del cervello agli stimoli positivi o negativi viene modificata e influenzata dalle piccole varianti alleliche dei geni dell’orologio biologico. Esse non causano la malattia bipolare, non causano la depressione, ma se si è depressi fanno sì che si diventi molto più tristi con una differente capacità di elaborarne gli stimoli. Il senso di colpa, l’autoaccusa, il pessimismo variano in funzione delle varianti alleliche, in funzione degli eventi della vita esterna e dei sistemi di sincronizzazione. Abbiamo mappato tutto ciò nel cervello, scoprendo che queste persone tendono di più al suicidio a causa di fattori genetici relativi all’orologio biologico che li rendono più vulnerabili agli effetti distruttivi prodotti dallo stress nell’intero organismo, compresi gli organi periferici.

POETANDO POETANDO

   Gruppo AUSER “Io poeto”
      a cura di Francesca Ventura



Botton d'oro

Semplici fiorellini di campo di colore giallo.
Ne colgo qualcuno e li annuso,
con meraviglia sento un profumo delicato,
che non conoscevo.
Avevo trascurato di annusarlo una vita fa,
quando amavo il profumo delle rose
dei garofani, dei lillà.
Ora in questo aprile dominato dal Coronavirus,
il suo odore mi sembra un miracolo.
E il suo colore una promessa di vita nuova.

Maria Rosa Fiorini


Fantascienza

Quanto mi piacevano i film di fantascienza.
Certe situazioni inverosimili facevano paura,
ma sapevamo che erano remote fantasie.
Ora siamo dentro al film e ci facciamo tante domande.
Ci sarà un dopo? Come vivremo?
Un’incognita che ci lascia perplessi e impauriti.
Il Coronavirus dicono gli scienziati è sconosciuto,
molto pericoloso e ci seguirà per molto tempo ancora.
Dovremmo imparare a conviverci.
Gli scienziati e ricercatori stanno provando di capire
da dove viene e da cosa è nato, per poter creare un vaccino.
Tutti sappiamo che l’inquinamento, l’impoverimento della terra
e i mutamenti climatici sono i principali motivi.
Da parte nostra dovremmo apportare grandi cambiamenti
al nostro modo di vivere.
Molto più semplice, meno consumista, usando il buon senso.

Maria Rosa Fiorini


Covid 19

Siamo in febbraio e l’inverno non è ancora arrivato.
Da qualche giorno aleggia non già l’arrivo della neve
ma di una tempesta che chiamano Coronavirus.
Viene dalla Cina ed è sconosciuto agli scienziati.
È molto contagioso, non ci sono cure adeguate.
Ci sentiamo fragili, esposti, impotenti.
Siamo sospesi in una inquietante insicurezza.
È un incubo!

Il virus si presenta come una corona tempestata di pietre preziose.
La bellezza non è in questo caso un sinonimo benevolo.
Lo stiamo aspettando come nel periodo bellico
si temeva che cadesse una bomba.
Non sai dove piomberà ma farà sempre male.
Sappiamo ormai che l’odierna epidemia non sarà l’ultima.

Maria Rosa Fiorini


Estate

Mare d’oro,
grano maturo,
caldi bagliori.
Veloci
scintillii metallici,
rondini in volo,
sfiorano le spighe
e cantano.
Spettatori stupiti
papaveri, campanule
e azzurri fiordalisi.

Maria Rosa Fiorini


Luci

Gli occhi del bambino felice
brillano di luce.
Il viso degli innamorati
irradia luce.
Un’alba luminosa
incanta.
Il ricordo del lume di candela
della tua vecchia casa
commuove.
Compagna silenziosa di certe notti
lo splendore della luna
consola.

Maria Rosa Fiorini


Alta marea

Quando guardo l’argentea luna,
risplendere sul mare,
sento il cuore
battere più forte
per amore.
Le onde s’innalzano
battendo sugli scogli,
con la loro forza
l’acqua diviene bianca
spumeggiante desiderosa,
di raggiungere la sabbia,
dal sole abbellita
sulla riva,
in una calda giornata d’estate.
Questo movimento,
dura giorno e notte,
per ritornare basso
al mattino,
lasciando sulla spiaggia,
sepolte dalla sabbia,
luccicanti conchiglie
grandi e rosee come rose,
che attendono d’essere raccolte,
i segreti ed i misteri del mare.

Barbara Ventura


Ricominciare a vivere

Nelle testate dei giornali,
la problematica
del virus viene riportata,
affermando che lo stile
di vita che la società
vivendo sta
destinata a cambiare sarà,
sia nel settore del lavoro,
che dello shopping,
senza l’attività fisica
ed in palestra dimenticare
ma nell’ambito sociale
soprattutto quando
ci ritroveremo
nuovamente l’uno
di fronte all’altro
a chiacchierare,
senza trascurare
la gestione della sanità,
negli ospedali
o case di riposo,
ed infine delle modalità
con cui i genitori
educano i bambini.
Quest’epidemia,
per ricercatori e studiosi,
destinata a durare è
per molto tempo ancora
almeno sino a quando
un vaccino vero
e proprio trovato verrà.
Per l’epidemia evitare,
nuovi metodi
di sicurezza
sono stati adottati
attraverso la chiusura di spazi pubblici,
dalle persone frequentati, come
scuole, cinema, arene per concerti,
palestre, stadi,
aeroporti e posti di lavoro,
dai bar, alle pizzerie ai ristoranti, agli uffici.
Dopo l’epidemia,
la società costretta sarà,
ad attenersi al rispetto
di tali norme,
per la libertà un giorno ritrovare,
riunendosi assieme ad altre persone,
senza però trascurare
questa problematica,
apportatrice di diseguaglianza sociale,
rancore e dolore.

Barbara Ventura


Vivere per la libertà

Prima che quest’epidemia,
milioni di persone uccidesse,
la gente felice era
perché le giornate trascorreva
divertendosi fuori casa,
con gli amici e tra una risata e l’altra,
a mangiare,
o a ballare,
si andava
fino a sera tarda.
Prima che quest’epidemia avvenisse,
a lavorare,
al supermercato
ed ovunque volesse,
la gente
poteva andare.
Ora, invece tutto cambiato è,
perché le persone perduto hanno
la loro libertà,
dato che lottare devono
con la noia,
e col tempo,
che non passa mai,
per combattere
quest’epidemia invalicabile
che fine non ha,
uniti cerchiamo di stare,
così un giorno la sconfiggeremo,
per tornare
a vivere
con dignità.

Barbara Ventura


Ombra oscura

Studiosi e ricercatori
studiando stanno
approfonditamente le cause
dell’epidemia apportatrici
nella società,
affermando che quantità lievi
infettare possono
il soggetto,
mentre dosi maggiori
alla morte completa portarlo possono.
Stare lontani
dalle persone malate bisogna,
misure igieniche e preventive
il più possibile adottare,
lontani restare l’uno dall’altro,
quando parliamo
o ci si incontra,
in posti affollati.
Quest’epidemia per la società
è come un’ombra oscura
una nemica invalicabile da sconfiggere
perché costituisce una problematica
mondiale, psicologica, ed economica,
siccome le persone
una vita più normale non riescono
più a vivere
chiedendosi se un giorno,
un vaccino preventivo
trovato verrà,
per essere adottato,
per quest’epidemia combattere.
Perciò di rispettare
cerchiamo le norme preventive,
in casa restando,
sino a quando un giorno
alla normalità si tornerà
ed il sole risplenderà
per il raggiungimento
di un futuro migliore.

Barbara Ventura


La luce

Quando dalla finestra della stanza
mi affaccio, vedo nascere
il sole, con una luce
delicata ed abbagliante
illuminare l'universo.
Coi raggi suoi,
sembra una palla dorata,
che voglia il cuore raggiungere
degli innamorati
che si abbracciano
teneramente lungo
la riva del mar.
La luce del sole,
m'incanta perché brilla
tra le nuvole bianche,
nel cielo azzurro,
facendomi sognare
e sperare
nell'eterno amor.

Barbara Ventura


Passeggiata sul mare

Nuvole grigie offuscano il cielo,
delicato ed azzurro come un velo,
nella fredda mattinata
d’una triste giornata
di dicembre
passeggio in riva al mare
sognando di volare
nell’infinito verso nuovi orizzonti.
Le onde dell’acqua s’increspavano velocemente,
sui grigi e maestosi scogli tenacemente,
come una canzone
che crea nel cuore un’emozione,
regalando mistero
ed amore sincero
dentro l’anima fragile,
d’una donna sensibile
ed amabile.
In lontananza sull’acqua,
gabbiani bianchi volano
spauriti nell’azzurro cielo,
avvicinandosi alla riva del mare,
facendomi sognare,
quasi mi volessero parlare
del loro mondo allontanandosi all’improvviso
quando s’alza l’alta marea,
sugli scogli in riva al mare.

Barbara Ventura

DI LUCE, DI BUIO E TANTO ALTRO

   Gruppo di scrittura DiSegno InSegno – Budrio


RISVEGLIO


La luce tenue e delicata risvegliò la bambina. Non fu un risveglio facile. Il terrore aveva accompagnato la notte appena trascorsa, così come accompagnava le sue notti. E come tante notti aveva cercato rifugio nel grande letto con la madre ed il padre, ma essi l’avevano nuovamente rimandata nella sua camera…Nel buio.
La bambina aveva cercato di spiegare loro come non le fosse possibile dormire in quel letto e in quel buio pieno di mostri, che si rivelavano solo a lei per spaventarla, perché è della sua paura che essi si nutrivano. Non serviva, prima di dormire, scrutare ogni anfratto, ogni angolo. Essi, con la luce, si disperdevano, perdevano consistenza, divenivano invisibili.
Per coglierli di sorpresa la bambina ogni tanto accendeva la luce all’improvviso, ma essi, veloci e perversi, riuscivano sempre ad anticipare le sue mosse nascondendosi.
Lei sapeva che c’erano, ma non li aveva mai visti. Sapeva che doveva prestare estrema attenzione a non sporgere la sua piccola mano dal bordo del letto, perché sicuramente l’avrebbero aggredita e nessuno sarebbe stato con lei a difenderla, non certamente la madre e il padre che, quando si svegliava piangendo, spaventata la sgridavano a voce molto alta, spaventandola ancora di più.
Ma fortunatamente era arrivata la prima luce, che ora filtrava tenue tra gli interstizi degli scuri. Ora finalmente poteva chiudere gli occhi senza timore, la luce l’avrebbe protetta come nessuno al mondo poteva fare. La bambina sapeva che avrebbe potuto riposare per poco tempo: la madre presto l’avrebbe svegliata, irritata per il proprio sonno che lei aveva interrotto e richiamandola severamente alle incombenze giornaliere.
E prima di uscire di casa avrebbe dovuto fare colazione con il latte caldo e il caffè d’orzo, e questo alla bambina non piaceva: l’odore dell’orzo le dava nausea e avrebbe tanto desiderato il caffè buono, quello che la madre beveva più volte al giorno, quello che faceva un profumo buono, che entrava in ogni angolo della casa.
Lei sapeva che quel profumo così buono era magico, non poteva non esserlo! Ne era certa perché le poche volte che la madre lo aveva fatto la sera, prima di andare a dormire, i mostri si erano presentati in modo meno violento, sembrava avessero meno fame…
Dopo la colazione, la bambina avrebbe potuto finalmente uscire saltellando su piccoli piedi calzati da piccole scarpette rosse per affrontare un nuovo e luminoso giorno, preparandosi alla notte che presto sarebbe nuovamente giunta.

Alina




CARAVAGGIO


Quando penso alla luce penso subito a Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio. La sua luce illumina, la sua luce nasconde. Illumina una mano vuota e nasconde in penombra una mano con un pugnale. La luce nasconde creando ombre e penombre. Nasconde visi, persone, cose. Se guardi la sua fonte, ti abbaglia e ti abbacina in una cecità che ti impedisce di vedere cosa hai di fronte. La luce si riflette, si rifrange, in un flusso infinito passando attraverso lenti, vetri e distorcendo la realtà. Con la sua magia, come scaturita da una bacchetta di una fata, ti invita a guardarla attraverso un vetro che la trasforma da bianca a multicolore. Attraverso una lente deforma oggetti e visi, deforma il vero. Si segue la luce nella notte, perché è l’unica cosa che vediamo e il buio ci fa paura, ma a volte quello che è illuminato non è sempre quello che vorremmo e dovremmo vedere. Con la luce ti senti al sicuro e sei più vulnerabile perché abbassi le tue difese, con la sua assenza invece tutti i sensi sono all’erta in una danza di suoni, odori, bisbigli, sensazioni. Allora ritorno con la mente a Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio che ha capito la luce ed il suo contrario e ci ha giocato insegnandoci che il bello e il buono non è sempre solo quello che riusciamo a vedere.

Cuore Amaranto






STORIA E STORIE


Fin dalla preistoria la luce ha regolato in maniera naturale la nostra vita. Si pensi allo scandire delle giornate che era regolato solo dalla presenza o dall’assenza di luce. Le giornate non erano regolate come adesso ma iniziavano con il sorgere del sole e finivano con il tramonto. Con il tempo l’uomo ha avuto la necessità di modificare il naturale svolgersi dei giorni e delle stagioni a suo piacimento con l’utilizzo, tra l’altro, della luce. Questo accadeva per la prima volta circa 52.000 anni fa con la scoperta e l’utilizzo del fuoco, non solo per cuocere il cibo, ma anche per illuminare le caverne, allontanare gli animali e allungare il tempo da condividere. La luce permette infatti di stare insieme qualche ora quando il sole non c’è più, quando arriva la sera e ci si ritira nelle proprie case in modo che la giornata non finisca, che possa continuare nell’intimità di un salotto, nella piacevolezza di una cena fuori o semplicemente di una passeggiata al chiaro di luna o in una strada illuminata dai lampioni. Ma la strada per arrivare all’elettricità è stata lunga, se pensiamo che il primo fuoco è stato acceso 52.000 anni fa e l’elettricità è arrivata nelle nostre case solo alla fine del 1800. Praticamente 50.000 anni in cui l’uomo ha provato con vari metodi a ricreare la luce. Erano metodi familiari, ognuno illuminava in base alle proprie possibilità con candele o lampade a gas ma rimaneva comunque una cosa intima. Con l’avvento dell’elettricità è stato tutto più semplice, basta un click ed il buio, la notte, l’ignoto sparisce e si ha l’illusione che il giorno sia più lungo e che di fatto siamo noi a comandare. Ma ovviamente era ed è solo una finzione. Personalmente amo la luce, ma amo molto la penombra, la luce di una candela, la luce del fuoco del camino, quel senso di calore, di intimità, di privato che la luce del sole o la luce elettrica non possono dare. Già gli antichi Egizi usavano illuminare case e palazzi tramite lucerne a olio, ma la cosa più incredibile fu quella di capire come ampliare l’illuminazione in ambienti bui tramite una combinazione di specchi, usando un semplice principio di fisica per cui la luce riflettendosi su uno specchio angolato nella giusta direzione poteva propagarsi in tutte le stanze del palazzo o della piramide tramite una sola apertura. La prima vera rivoluzione è dovuta ai Celti che furono i primi a inventare la candela, metodo di illuminazione che verrà usato per tutto il medioevo. Seguirono poi lampade a gas, a carbone, ma nessuna permetteva di avere un'illuminazione così potente come la luce elettrica. Fu solo nel 1879 che Thomas Edison brevettò un sistema di illuminazione con filamento elettrico che cambiò radicalmente la storia e l’evoluzione dell’uomo. Sicuramente l’elettricità ha permesso un andamento esponenziale nell’evoluzione per merito delle sue applicazioni, ma ha tolto secondo me quel senso di intimità e di condivisione che avevano le candele o le lampade a olio. Perché la penombra, il vedo non vedo, lascia spazio alle paure ma anche all’immaginazione e l’immaginazione non ha confini. Immaginiamoci per un momento riuniti in una stanza, una stanza di gente comune, alla fine della giornata di lavoro tanti anni fa. Seduti intorno al tavolo, dopo una cena frugale, la madre con in braccio uno dei bimbi, il padre a capotavola, magari con la pipa accesa e altri bambini di varie età tutti illuminati solo dalla luce di una candela. I loro volti illuminati parzialmente, con la pelle colorata dai colori caldi dello spettro del giallo e dell’arancione, i pochi mobili della stanza che sono solo delle sagome indistinte dei quali si sente la presenza con quel sesto senso in più che ci permette di vedere anche al buio, anzi di sentire anche al buio e di muoverci con relativa tranquillità. Il padre stanco dalla giornata di lavoro dedica comunque tempo ai figli raccontando una storia, una storia di pirati o di streghe o una leggenda popolare. I bambini che ascoltano con gli occhi sgranati, la madre che osserva con occhi divertiti e indulgenti. A un tratto la storia prende una piega più avventurosa o terrificante. I bambini si guardano attorno ma vedono poco, vedono forme indistinte nella penombra o nel buio ed è allora che il pirata prende vita, la strega prende vita, il folletto prende vita e le forme indistinte dei pochi mobili familiari e tanto cari cambiano forma e cambiano in base al divenire della storia. Allora la credenza diventa una nave pirata, il focolare dove la madre ha preparato la cena diventa l’antro della strega, il sacco di farina nell’angolo diventa un folletto, le erbe appese ad essiccare diventano fate ed i bambini si spaventano e si divertono pensando di essere dentro la storia e di essere i protagonisti. Poi la storia finisce, la candela si spegne e la stanza con i giacigli pronti per la notte e illuminata solo dalla scarsa luce della luna diventa culla e precursore di sogni dettati dall’immaginario di bambino ma anche dell’adulto che per un attimo prima di dormire può allontanare ogni preoccupazione e immaginare di essere chi vuole e dove vuole e almeno per un momento tornare bambino.

Cuore Amaranto






LA MIA LUCE PREFERITA


Amo la luce morbida, che abbraccia le forme in toni e sottotoni. Quella luce che non delimita i contorni e non ferisce gli occhi. È la luce che, nelle giornate estive, ci parla di un cielo velato, o di aurora, o di crepuscolo. È la luce delle vie di mezzo. Racconta di nebbie mattutine, che ti fanno intravedere il sole che le sta squarciando. È questa una luce che non ferisce gli occhi.

Alina






FORSE UNA FIABA


Tanto, tanto tempo fa, quando il mondo era molto diverso da quello che conosciamo oggi, viveva una giovane donna che trascorreva la propria esistenza cercando un illuminato, non era importante se uomo o donna, l’importante era che fosse illuminato. Lo cercava in ogni angolo, in ogni via, in ogni esperienza che incontrava sul suo cammino. Lo cercava disperatamente, e ogni tanto pensava di averlo trovato. E allora andava da tutte le persone che conosceva raccontando di quanto era meraviglioso questo illuminato. Nel descriverlo diceva cose tipo: “Ma vedessi come è bellissima questa persona”, oppure “È luminosissima”, o “La sua luce arriva da dentro e si vede da lontano”. Addirittura di alcuni diceva che avevano una luce che si irradiava dal cuore, o che la materialità non li toccava, o che camminavano senza sfiorare il pavimento. I suoi amici, i suoi conoscenti non capivano tanto bene cosa volesse dire.
Loro non cercavano illuminati, ma erano impegnati a fare cose normali, concrete, come mungere le mucche, zappare l’orto, crescere figli, cucinare, viaggiare, innamorarsi, fare guerre, litigare. Lei, queste persone, le chiamava 'materiali'. Lei, che invece non era materiale, quando finalmente lo trovava, si godeva l’illuminato che aveva tanto cercato. E trascorreva moltissimo tempo con lui, non voleva perdersi un solo momento di tanta beatitudine. E per un po’ di tempo questa beatitudine pareva infinita. Poi, a un certo punto, succedeva una cosa molto, molto strana. Guardando l’illuminato, cominciava a vedere, in tutta quella luce abbagliante, qualche punto un pochino meno rilucente, una o più piccole macchiettine, a volte azzurre, a volte rosate… Addirittura potevano essere rosse, o scandalosamente nere. A volte erano piccine, come le cacche delle mosche, a volte più grandi, come macchie d’olio sugli abiti.
E allora lei diceva che l’illuminato forse non era proprio tanto luminoso, forse perché mangiava troppo, o forse sentiva i desideri della carne, oppure aveva un ego non proprio perfetto… Allora, delusa abbandonava il proprio illuminato e sconsolata riprendeva la propria ricerca. Si dice che essa ancora viva e che abbia l’aspetto di giovane donna. Pare che gli Dei le abbiano dato in dono l’eterna giovinezza, ben sapendo che cercare la perfezione in terra richiede molto, molto tempo e che non basta certamente una vita per una ricerca infinita…

Alina






M’ILLUMINO D’IMMENSO


M’illumino d’immenso". So che la tutti la conoscono e certamente non voglio spacciarla per mia né fare un’analisi del testo, ma queste quattro parole mi rimbombano in testa. Mi illumino. La luce sono io, non solo la porzione dello spettro elettromagnetico visibile dall’occhio umano. Io risplendo, io mi illumino, io abbaglio con il mio essere me. Troppe volte non mi sono illuminata e ho camminato nel buio; un buio nero soffocante, senza speranza, senza niente che potessi vedere a cui aggrapparmi. Sono stata senza luce per ore, a volte per giorni, a volte per settimane, a volte per mesi, a volte per anni. Poi a un certo punto quando ormai la speranza “di riveder le stelle” e di illuminarmi di nuovo era persa, ho visto una piccolissima luce laggiù in lontananza, una luce flebile come la fiammella di una candela mossa da un vento inquieto, come me, che si affievoliva e tornava a risplendere, lottando contro le intemperie per non spegnersi e per farmi trovare la strada, farmi vedere gli appigli nel buio per potermi aggrappare e poterla raggiungere. Poi piano piano, come chi annaspa nel mare per non affogare, ho visto quegli appigli, li ho presi, mi sono aggrappata così forte da farmi sanguinare le mani, fino a piangere dal dolore, ma non li ho lasciati perché nel frattempo la luce si faceva più forte e l’imboccatura del pozzo più grande e io ci credevo e allora le mani mi facevano meno male e i passi erano meno pesanti. Alla fine sono uscita nuovamente fuori, mi sono lasciata inondare dalla luce, accecare dalla luce, mi sono illuminata dentro, mi sono illuminata fuori. Mi sono illuminata e ho visto nella luce, che era sempre stata lì per me, ma che non potevo vedere, ho visto gli alberi, i fiori, gli uccelli, ho sentito gli odori, ho sentito una risata la mia, la mia che non sentivo da tempo. E allora mi sono illuminata e ho cominciato a splendere di me stessa come una luce, come una stella, come una supernova. Già una supernova, pronta ad esplodere e implodere e a cadere nuovamente nel pozzo senza luce giù, giù fino al fondo, sapendo che prima o poi tornerò a salire e tornerò a cadere. È la mia vita. Non l’ho scelta io, mi è capitata. Vorrei essere diversa molte volte, ma questa sono io e ogni volta che cadrò di nuovo so che a un certo punto ritroverò la luce e potrò dire di nuovo: “M’illumino d’immenso”

Cuore Amaranto






LA LUCE PER ME È FUGA


Da bambina ero molto terrorizzata dal buio, non che alla soglia dei trent'anni la situazione sia migliorata, ma come con altre mie fobie ho imparato a conviverci. Ma quando a cinque anni vivi in una casa gigante, piena di rumori e per la minima cosa devi per forza andare in un altro piano, la paura di quello che potrebbe succedere quando spegni la luce diventa un ostacolo insormontabile. E sei lì in taverna, appena finita la doccia, che inizi a calcolare mentalmente il tuo percorso per stare tra le tenebre il meno possibile: spengo la prima luce, corro verso l'altra estremità della stanza, accendo la luce delle scale, controllo se qualcosa si è mosso tra le sedie del tavolo o se la porta dello sgabuzzino ha cercato di aprirsi, spengo la seconda luce e corro velocemente su per le scale, tenendo controllata la situazione alle mie spalle con la coda dell'occhio.
Questo mio piccolo rito di correre via dal buio per casa è un'usanza che mi sono portata con me per anni, arrivando anche ad avere una sorta di schema personalizzato per ogni piano per controllare che effettivamente quel buio, da cui dovevo scappare, non nascondesse altro.
Forse vi starete chiedendo se questo mio rituale alla fine fosse effettivamente efficace e la risposta a questo quesito è molto semplice: assolutamente no. Quello che lo rendeva impreciso e ulteriore fonte di ansie era l'utilizzare il metodo di controllare quello che accadeva alle mie spalle con la coda dell'occhio, infatti i giochi di ombre e il mio correre repentino creavano nella mia mente mostri, fantasmi e uomini ombra, pronti ad acchiapparmi se non mi fossi sbrigata a raggiungere la luce.

Medea






ALI NERE


Quando sono triste non voglio essere consolato.
Ed essere accettato.
Voglio solo una luce che trasformi il mio buio
in ali nere e cazzeggiare un po'.
Cercherò un fiore solo quando avrò di nuovo sete.
Joe che cazzeggia un po'.
W Brescello!

Joe






NON C’È LUCE IN QUESTO TUNNEL


Trent'anni fa mi sono ammalato di depressione e da allora vivo in un tunnel di emarginazione di cui non vedo la fine. Tutti i famigliari, gli amici, l’ambiente a cui appartenevo mi hanno messo da parte. Il lavoro, le relazioni con le donne, tutto è diventato nulla. Posso dire di non avere niente. Questo è un paese che non dà pace ai diversi. Prigioniero di pregiudizi assurdi, spero che la luce della tolleranza illuminerà prima o poi le menti e le vite dei nostri cittadini. Ma io non lo vedrò, non in questo paese o in questo tempo.

Maax








 


LA LUCE… O NO?


Meglio il buio. La luce conforma e conferma una sdegnosa realtà. Non vedere, procedere a tentoni nel buio, non è poi così male e non si riesce a scorgere nessun vuoto abissale… Quando capita di precipitare, meglio sarebbe non guardare il fondo, come togliersi, chiudendo gli occhi, da questo schifo di mondo.

Ros60




IL SOLE SUL PAVIMENTO

   L. L.


Che nella bella chiesa di san Petronio sia custodita una famosa meridiana è noto a tutti i Bolognesi, ma quanto sappiamo di questo gioiello della nostra città?
Molti chiamano impropriamente ‘meridiane’ gli orologi solari, quei disegni che si vedono sui muri di case e chiese, su cui l’ombra dello ‘gnomone’ indica l’ora, ma la meridiana vera e propria è uno strumento più complesso. In parte è paragonabile a un orologio solare orizzontale, in cui lo gnomone non è un’asta, ma un foro posto molto in alto. I raggi solari entrando dal foro generano un cono luminoso che si proietta a terra, dove con calcoli accurati e grande perizia tecnica è tracciata una retta corrispondente alla linea immaginaria del meridiano locale. Uno strumento così concepito può segnalare l’istante in cui il Sole risulta alla massima altezza, esattamente a metà strada fra l’alba e il tramonto e in perfetto allineamento nord-sud. Poiché i raggi solari assumono ogni giorno una diversa angolazione, è possibile determinare per mezzo di un calcolo trigonometrico il centro proiettivo solare sulla linea meridiana per un dato giorno e quindi calcolare, ad esempio, l’esatta durata di un anno solare da equinozio a equinozio. La meridiana di S. Petronio serviva proprio per questo, in vista della riforma del calendario giuliano voluta dal papa Gregorio XIII. Fu costruita nel 1576 secondo il progetto del domenicano Pellegrino Danti (padre Egnazio), docente di matematica all’università di Bologna.
La meridiana di padre Egnazio, però non esiste più, fu distrutta nel 1653 durante i lavori di ampliamento della chiesa. L’astronomo Gian Domenico Cassini colse allora l’occasione per proporre la costruzione di un nuovo e più grande strumento per la ricerca scientifica e ottenne l’autorizzazione dal Senato di Bologna. I lavori, accuratissimi e costosi, si svolsero tra il solstizio d’estate e il solstizio d’inverno del 1655. Il foro gnomonico, di forma circolare con diametro di 2,7 centimetri, fu collocato sul tetto a un’altezza di 27,07 metri e cominciò a comportarsi, e ancora si comporta, come un vero e proprio foro stenopeico, proiettando sul pavimento non una semplice macchia di luce, ma l’immagine stessa del Sole, rovesciata come in una camera oscura. Grazie a questa eccezionale qualità si potevano verificare le dimensioni del diametro apparente del Sole, perciò il Cassini chiamò lo strumento ‘eliometro’. La linea meridiana, ricavata ingegnosamente sfruttando gli spazi tra le colonne, raggiunse i 66,8 metri (ancora oggi la più lunga al mondo). In seguito a verifiche risultò che la distanza sulla linea tra il punto verticale e il centro del solstizio d’inverno corrispondeva alla seicentomillesima parte della circonferenza terrestre. I risultati ottenuti dal Cassini grazie alla meridiana di Bologna lo collocarono fra i più autorevoli astronomi del suo tempo, tanto che fu chiamato a Parigi, a costruirvi una meridiana e a dirigere l’osservatorio astronomico. È curioso notare che ai tempi del Cassini, nonostante già da trent’anni circolassero le teorie eliocentriche di Copernico, ancora si credeva che il moto del Sole fosse reale e che la Terra si trovasse al centro del Creato. La Chiesa, come noto, osteggiò duramente sia Copernico che uno scienziato come Galileo. Eppure proprio all’interno di un tempio cattolico il Cassini poté costruire e adoperare uno strumento come la meridiana e svolgere senza pregiudizi i suoi studi scientifici. Anche altre grandi chiese europee in quegli anni proprio per le loro eccezionali dimensioni furono utilizzate come osservatori astronomici. Dopo la metà del Settecento, la funzione principale delle meridiane rimase quella di stabilire l’ora esatta. Fino agli anni trenta del Novecento la meridiana di Bologna serviva ancora per regolare l’orologio settecentesco a doppio quadrante (per l’ora italica e l’ora francese) tuttora conservato all’interno della chiesa e quello che dalla torre di palazzo d’Accursio si fa sentire in tutta la città.


Il dissenso

Una delle caratteristiche della democrazia è quella di comprarsi il dissenso interno. A suon di soldoni foraggiano, in nome della libertà - di stampa, di pensiero, di espressione, di manifestare - tutte quelle forme di antagonismo e ribellione contro la democrazia stessa. Quindi… tutti uniti a difesa della democrazia.



Piccoli genietti crescono

Sempre più autoreferenziali. Si parla a noi e al nostro orticello, come se le cose non fossero mutate. Ognuno, rinchiuso nel proprio recinto, chiamasi specialista in materia. Ma comunque parcellizzati, come se dal piccolo mondo si leggesse il grande mondo. Difesa corporativa del proprio pezzetto di professionalità, così chiamata, e pretesa di comprendere le dinamiche, a volte delicate, di meccanismi che riguardano persone poste al di là della scrivania. Non siamo la stessa cosa: il paziente è il paziente e il medico è il medico! Troppo facile raccontarsi che si cerca il medico bravo, che ci curi e poi, giunti al termine, ci dimetta. Non funziona così: il medico giudicato bravo è colui che ha più ricoveri, fatti ad utenti che non vedranno mai le dimissioni per ovvie ragioni.



Parole

Non sempre le parole hanno un effetto ansiolitico... Spesso è la paura della paura che ci pietrifica... Agire è pressoché impossibile... Mille paure e timori si addensano nella mente e si continua a produrre mostri immaginari.



La sbronza

Sofisticati, fino a far raggiungere il mal di testa ad altri, oppure porsi in maniera schietta e diretta? Quando si raggiunge la saturazione, capita sovente di affogare le preoccupazioni nell’alcol con il risultato di far cadere quell’ultimo baluardo di decenza che ci può contraddistinguere dalle bestie... Pesantezza di ragionamento, unita a un’insistenza che si crede fervida volontà nelle proprie idee (c’è chi sostiene che colui che non beve ha qualche cosa da nascondere). La sbronza a volte può apparire liberatoria e consolatoria a patto che non diventi consuetudine.



Brevi riflessioni

Prendere in carico, curare, dimettere: questa è la triade che contraddistingue un medico e la medicina. Prendere in carico è la rete che si attiva inizialmente, quando una persona vive momenti di malessere psichico. Curare, è prendersi cura dell’altro predisporsi all’ascolto e intervenire, anche con la somministrazione di farmaci, per lenire la sofferenza. Fin qui nulla da dire. Ma - come si può intuire, dopo anni di sosta al C.S.M da parte di un’utenza che probabilmente fa della permanenza un traguardo - evidentemente riflettevo sulla parte delle dimissioni da parte del C.S.M. Non capisco perché tale passo (le dimissioni) sia una cosa ostica: il tutto è mirato giustamente al mantenimento farmacologico da parte dell’utenza, ma anche il medico della mutua te lo può prescrivere. Il rischio è di rimanere impaludati in un ambiente, quello della psichiatria, così poco creativo e stimolante, fatto anche di momenti drammatici come i T.S.O che, è inutile ripetere, sono retaggio manicomiale del passato. Probabilmente è la parola ‘guarigione’ che viene interpretata dal medico e dall’utente in maniera completamente diversa, facendo innescare aspettative diverse.



Mai generalizzare

Antagonismi e furbizie caratterizzano certi personaggi che pensano di saperla lunga, con il risultato spesso che i nodi, per chi ha i capelli, vengono al pettine. Il pressapochismo, unito alla mediocrità, genera solitamente ‘mostri’, che se la raccontano e la raccontano ad altri. Uniti poi, creano tipi di società che hanno come denominatore comune il parassitismo: mangiare solitamente alle spalle di altri senza mai pagare il conto. Se te li porti a casa ti rubano l’argenteria, arrivano persino alle scene madri, tipo se non mi dai tento il suicidio, o cose del genere... Sono in fondo solamente delle tigri di carta, incapaci di stare in piedi con le proprie gambe, viziati e abituati alla pappa pronta... Povera madre, che hai generato un tale mostriciattolo…



Il ruolo

Datemi il così tanto ambito ‘ruolo’ nella vita. Se così non è, farò di tutto per prendermelo: è mio e non di altri... La balaustra che si affaccia sull’abisso del mio passato non lascia scampo... Chi semina vento raccoglie tempesta.



Retaggi del passato

Perfettamente integrati nella società, con stipendi medi e capacità di influenzare l'ambiente umano circostante con delle filippiche che ricordano il prete dal pulpito ("Fai ciò che dico e non ciò che faccio") i nostri liberal italiani cugini di quelli americani ci danno l'impressione che un loro pensare riecheggi, in certe situazioni, un modo di pensare antico come la vecchia politica... Vota Antonio!



Sempre più sovente

Frammentazione, specializzazione, segmentazione, parcellizzazione eccetera… fa rima con alienazione. Non comprendere una procedura iniziale, né tantomeno la parte finale di un processo, porta l’individuo all’alienazione e alla deresponsabilizzazione dal risultato finale.



Doppio sogno

Chi difende l’individuo dalle centrali di potere costituite da individui stessi? Che sia Massoneria o Politica Sociale della Chiesa che si fronteggiano spesso in maniera speculare salvaguardando i propri interessi, al povero Omino non rimane che la via dell’esilio o del manicomio, tanto nessuno ti crederà mai.



Resterei in equilibrio

È necessario raggiungere una stabilità. Fatti bastare i pochi soldi che guadagni facendoti un mazzo tanto al lavoro, le relazioni poi... Il massimo garbo, per non destare indignazione nel prossimo, come soluzione un bel corso di yoga abbinato ad una psicoterapia all’acqua di rose. Il tutto chiaramente pagato di tasca propria, perché se vuoi resistere alla tentazione di armare il grilletto non puoi non provarle tutte. Dimenticavo, anche il Guru Indiano.



Peccato originale

Forse è la paura della recidiva... Come un masso legato a un piede è la condanna che alcuni utenti hanno fin da un lontano passato. Come una macchia indelebile che solo il carcere ti appioppa, l’utente è indissolubilmente condannato e rinchiuso nella rete che si può trasformare in ragnatela. Il peccato originale si trascina per un lunghissimo tempo, negando ogni forma di cambiamento e negando la trasformazione dell’individuo.



ILLUMINAZIONE

U n giorno lo stigma iniziò a passeggiare con la diversità, che fece luce, trasformando l’ignoranza in comprensione. Lo stigma si scusò e disse che si sarebbe trasformato in ‘stima’. Spiegò che ciò non equivaleva semplicemente a togliere la G dal suo brutto nome: sti(g)ma, ma a un fatto di sostanza. Infatti aveva capito l’importanza di una sua trasformazione, necessaria per il benessere delle persone.






PSICHIATRIA E DISTANZIAMENTO (STORIELLA FRIULANA)

A llora…C’è un anziano che dice a un giovane: une volte, tu, come ti viodevin particolar, plui straan dagli altri, plui… come si dis… plui pensieros, introveers o sognador, oppure plui estroos, artist e logorroic… alore ti miotevin in tal manicom e une volte entraat an buyaven vie, come si dis, la clav, e non tu uscivi plui da chel puest lì, ombros e brutt, tant brut che ere il manicom. Oggi invece ance a cause del coronavirus, ma non sool di che question lì del virus minaccioos, comunque… oggi manco te fan entrare dentri che ti dan le medisine lì, par il porton, oppure te fan entrar dentri e dopo tre minuts che tu hai chiolto la terapie intramuscolar oppure le pillolet orali, che ti dicon comu’tu pudi lâ vie. Ci manca solo… come si dis… atu presente, a Napoli? Che si ciacarin par il barcon, sul terrazzin, che si fevelino le person da terrazzin a terrazzin: “Ciao compare, che, me dai un po’ de detersivo, che devo fare il bucato?”, oppure: “Compare, dam nu poc nu poc a torta che hai fatto”, e quello gliela dà. Ce manca che te fevelino par il barcon…



TRADUZIONE
Allora… C’è un anziano che dice a un giovane: una volta, quando ti vedevano particolare, più strano degli altri, più… come dire… più pensieroso, introverso o sognatore, oppure più estroso, artista e logorroico… allora ti mettevano in manicomio e una volta entrato buttavano via, come si dice, la chiave e tu non uscivi più da quel posto lì, ombroso e brutto, tanto brutto, che era il manicomio. Oggi invece, anche a causa del coronavirus, ma non solo per quella faccenda lì, del virus minaccioso, comunque… oggi manco ti fanno entrare che ti danno le medicine lì, dalla porta, oppure ti fanno entrare e dopo tre minuti che hai ricevuto la terapia intramuscolare o le pillole orali ti dicono che te ne puoi andar via. Ci manca solo… come si dice… hai presente a Napoli? Che chiacchierano dal balcone… sul terrazzino, che le persone si parlano da terrazzino a terrazzino: “Ciao compare, me lo dai un po’ di detersivo che devo fare il bucato?”, oppure: “Compare, dammi un po’ un po’ la torta che hai fatto”, e quello gliela dà. Ci manca solo che ti parlino dal balcone…




I RAGGI DI LUCE

Vi segnaliamo un simpatico sito di didattica chiamato Il Piccolo Friedrich, ideato da Cristina Sperlari, insegnante laureata in Scienze della Formazione Primaria, che tra l’altro ha messo a disposizione online moltissimo materiale per le lezioni a distanza in tempo di COVID19. Ci è piaciuto come questa giovane maestra ha introdotto ai misteri della luce e dei colori una quarta elementare. Qui riportiamo solo la prima parte, ma vi consigliamo di andare a curiosare, anche per vedere le belle immagini.

https://ilpiccolofriedrich.blogspot.com/2015/12/la-luce.html

Ecco il lavoro sulla luce svolto in classe quarta e raccontato dai miei alunni: “Le scorse settimane abbiamo iniziato un nuovo argomento di scienze. Abbiamo parlato del Sole e dei suoi raggi. I raggi del sole sono tre:



I raggi sono radiazioni, cioè l’energia che il Sole emette quando brucia. Sono come dei superpoteri che ha il Sole, che ci permettono di vivere sulla Terra. I tre raggi viaggiano sempre insieme, uniti e sempre diritti. Ma hanno tre compiti diversi: il raggio luce illumina e ci fa vedere luci, ombre e colori, il raggio infrarosso scalda e crea calore e il raggio ultravioletto ci fa abbronzare, ci fa stare bene, ma è anche il più pericoloso perché può fare del male ai nostri occhi e alla nostra pelle. Durante le scorse lezioni, abbiamo fatto un po’ di esperimenti con i raggi luce. Ecco qui alcune immagini che li mostrano. Prima di tutto abbiamo oscurato totalmente la nostra aula: abbiamo abbassato le tapparelle e spento le luci... C’era un bel buio e non si vedeva niente! La maestra Cristina ha acceso una piccola torcia: si riusciva a vedere qualcosa, ma i colori non erano chiari. Abbiamo provato ad indovinare i colori delle mongolfiere appese alla parete: qualcuno ha detto che il colore indicato dalla maestra era verde...e invece era un bell’arancione! Poi la maestra ha acceso una lampada da tavolo, più luminosa. La lampada illuminava una parete della nostra classe. Abbiamo provato a mettere le mani e degli oggetti davanti alla luce: si creavano delle bellissime ombre! Abbiamo scoperto che più l’oggetto è vicino alla lampada, più l’ombra che forma è grande. Più l’oggetto è lontano dalla luce, più l’ombra che si forma è piccola. Secondo noi, l’ombra è la sagoma di un oggetto o di una persona che ferma la luce. Abbiamo provato anche a mettere degli oggetti diversi davanti alla luce, per vedere che cosa succedeva. Abbiamo messo un barattolo, un sacchetto e una zuppiera. Il barattolo fermava completamente la luce e creava una bella ombra nera. Si dice infatti che è opaco. La zuppiera lasciava passare completamente la luce e non aveva quasi per niente un’ombra. Si dice che è trasparente. Il sacchetto fermava la luce solo in parte e ne lasciava passare un po’. La sua ombra era chiara. Si dice che il sacchetto è traslucido. Abbiamo anche provato a mettere davanti alla luce un foglio bianco. Succedeva una cosa particolare: la parete opposta a quella illuminata diventava di colpo più chiara. Abbiamo scoperto che alcuni oggetti sono in grado di riflettere la luce. I raggi luce, infatti, li colpiscono, ma poi rimbalzano e vanno a finire dalla parte opposta del foglio. Abbiamo provato a mettere davanti alla lampada anche un tappo metallico di un barattolo e uno specchio. Questi oggetti riflettevano molto di più la luce e la parete sul fondo della classe era molto più illuminata. Lo specchio era l’oggetto con la capacità maggiore di riflettere la luce: il suo riflesso, se finiva negli occhi, dava molto fastidio! Abbiamo messo davanti alla lampada anche un grembiule nero: questa volta la parete opposta rimaneva molto scura. Il grembiule, infatti, come tutti gli oggetti scuri, assorbe la luce, perché quando i raggi sbattono su di esso, rimangono lì e non rimbalzano. Se però l’oggetto è nero e lucido, come il quaderno di Jacopo, un po’ di luce riesce comunque a rifletterla. Siamo infine andati in giardino per provare un altro esperimento. Abbiamo messo un prisma (un oggetto tridimensionale di vetro) su un foglio bianco al sole. Il risultato è stato meraviglioso: si è formato un bellissimo arcobaleno! Abbiamo ipotizzato che il prisma riuscisse a rompere in qualche modo il raggio luce e a far uscire i colori. Per adesso, comunque, non abbiamo ancora un’idea chiara di che cosa succeda. Intanto abbiamo detto che, secondo noi, i colori che si riescono a distinguere nell’arcobaleno non sono 7, ma 4 o 5 al massimo. Continueremo a lavorarci per capire meglio e a fare altri esperimenti durante le prossime lezioni di scienze!”…



CINEFORUM A SABBIUNO UPSIDE DOWN

   Luca Gioacchino De Sandoli


L a prima volta che al ‘Provvidone’ di Sabbiuno si è tenuto un cineforum è stata l’11 settembre 2015. Già prima di questa data avevo iniziato a maturare l’idea di vedere qualche film tutti insieme, fin da quando nel mese di febbraio avevo conosciuto Giovanni e altri nuovi amici di mia madre, che era rimasta sorpresa del fatto che volessi andare con lei a conoscerli e in seguito anche frequentarli. La compagnia di Giovanni e del gruppo dei Galapagos è stata piacevole al punto che due mesi dopo ho voluto assistere all’inaugurazione del ‘Provvidone’ con taglio del nastro. Quel giorno io e mia madre abbiamo visto un volantino sulle vacanze del Fare Insieme e abbiamo deciso che avrei provato durante l’estate ad aggregarmi con una comitiva che quell’anno avrebbe fatto una vacanza in Garfagnana. E quando andai a chiedere informazioni sul gruppo e sull’incontro da fare prima della vacanza in modo che i partecipanti potessero conoscersi, sono stato convinto da Elena Pasquali a partecipare al suo laboratorio di scrittura. Così è nata la mia collaborazione con Il Faro. In pratica nella prima metà del 2015 mi sono fatto una schiera di nuovi amici e conoscenti: Giovanni, Stefano, Pasquale, Fabio, Antonio sono solo alcuni di questi.
Di solito vado a Sabbiuno ogni due settimane per cenare, parlare e giocare con i presenti, anche se a volte ho pure assistito a iniziative e attività diverse. Da quella sera di febbraio le attività proposte erano state tante. Per esempio, si sono organizzati un corso di DJ e un’attività di lavori manuali. Io e Fabio abbiamo anche tenuto un corso di scrittura, ma è durato poco. Così com’è durato poco il cineforum, per mancanza di mezzi e di tempo e perché i componenti dei gruppi che frequentano il ‘Provvidone’ preferiscono le attività sportive. I Galapagos non fanno eccezione, avendo fatto una convenzione con la piscina di S. Pietro in Casale. Ma la proposta di vedere un film tutti insieme, che avevo fatto a febbraio, piacque a molti, bastava organizzarsi e mettersi d’accordo, e così si è fatto. All’inizio pensavo che ci si sarebbe potuti connettere e vedere dei film in streaming, poi che si potessero vedere DVD e VHS, visto che a Sabbiuno sono presenti molte cassette, ma mancavano modem, lettore e videoregistratore. E allora ho dovuto accettare l’idea di procurarmi o farmi procurare i film da far vedere e metterli in una chiavetta da attaccare a un computer. Fissata la data del primo cineforum si era annunciata la cosa su internet e si erano scritti gli inviti. Quella sera, dopo mangiato, abbiamo spostato i tavoli e piazzato le sedie. C’era chi aveva il proiettore, chi lo schermo, chi un altoparlante, chi il portatile. Io avevo la chiavetta con dentro il film che avevo scelto da mesi, Upside down. Più che vederlo con Giovanni e gli altri volevo condividerlo con loro. Oltre a presentarlo volevo spiegare quanto mi fosse piaciuto e mostrare le cose interessanti che avevo notato nella storia narrata, e infatti nella chiavetta c’erano anche delle immagini che volevo mostrare durante la presentazione. Abbiamo prima fatto qualche prova, sia con l’audio che con la visuale. Per più di una volta l’immagine è apparsa sfocata, finché abbiamo trovato la giusta nitidezza. Finalmente tutto era allestito, e alcuni si stavano persino preparando i popcorn. E io potevo cominciare a presentare Upside Down. C’erano dieci - quindici spettatori con me.
Ho detto subito che il titolo non è un’allusione alla canzone di Diana Ross, ma è solamente un contesto fantascientifico (Upside down letteralmente vuol dire ‘sottosopra’). Ho anche detto che intitolare un’opera non è sempre facile: a volte basta il nome del protagonista, o del luogo d’ambientazione, ma si può usare anche una frase o una parola ricorrente, o una frase o una parola usata una volta sola nella narrazione. In questo caso, Upside down è una storia ambientata in due mondi opposti, collegati fra loro da un grande palazzo, orbitanti intorno allo stesso sole e sottoposti a gravità inversa: ciascuno subisce la gravità del mondo a cui appartiene e non di quello opposto, di cui vede a testa in giù gli abitanti, i grattacieli e i monti. E nessuno di loro casca di sotto pur essendo alla rovescia. Come sono arrivato a vedere Upside down? Si potrebbe pensare che mi abbia interessato perché mi piace la fantascienza, in realtà lo volevo vedere solo perché c’era come protagonista femminile Kirsten Dunst. Se non fossi diventato un suo fan, non avrei mai visto Upside down come anche tanti altri suoi film. E questo è un film pieno di luce, il più luminoso della sua filmografia che abbia mai visto, reso luminoso dal grandioso sole che illumina i due mondi che orbitano intorno ad esso. Quando l’ho guardato per la prima volta, più di due anni fa, ne sono rimasto così colpito che sono andato a dormire serenamente. In un momento successivo, mi è venuto da riflettere. Molto tempo prima di vedere il film, mi ero documentato sulla storia dell’Unione Sovietica e quella dei paesi del Patto di Varsavia, scoprendo la differenza tra questi e quelli dell’Europa Occidentale. Questi ultimi erano ricchi, prosperi, moderni, tecnologici; i Paesi alleati dell’URSS invece erano sobri, poveri, arretrati. Perciò, quando ho visto una strada del Mondo di Sotto, quello del protagonista maschile, ho subito voluto chiedere a mia madre se una sua collega rumena si ricordasse com’era il suo paese ai tempi di Ceausescu, ma non lo sapeva. E non ci sono Rumeni che sono felici di parlarne. Però sono convinto che la Romania, a quei tempi, era messa male quanto il Mondo di Sotto, avendo visto in quest’ultimo palazzi in rovina, strade rotte e soprattutto le Trabant, le utilitarie più guidate allora nei paesi dell’Europa Orientale.
Ho dunque raccontato che quando ho sentito parlare per la prima volta del film, ho subito pensato a Inception con Di Caprio: anche qui si vedono palazzi e strade rovesciate. Dal computer a cui era attaccata la chiavetta, ho mostrato delle foto di Inception con due città opposte. Ho spiegato che ripensando ai due pianeti, ho cercato di figurarmeli visti dallo spazio: ho immaginato un sole che illumina non tanto i due mondi, ma il Polo Sud del Mondo di Sopra e il Polo Nord del Mondo di Sotto, ossia i luoghi in cui si trovano le due città che sorgono intorno al palazzo che collega i due pianeti. Per spiegarmi meglio, ho mostrato a tutti due miei disegni fatti al computer e salvati sulla chiavetta. Nel primo c’era la Terra con i due Poli colpiti di striscio dal nostro Sole, e che quindi sono due zone immense, fredde e deserte. Ma se immaginiamo di mettere in Antartide grattacieli, montagne e altre cose, otteniamo qualcosa che non è poi tanto dissimile dall’Europa. E infatti nel secondo disegno il sole del sistema solare di Upside down si trova in una posizione tale che il suo calore e la sua luce colpiscono in pieno i poli dei due mondi opposti, le due estremità del palazzo che li collega e le due città che vi sorgono attorno. Nel film ho notato anche parecchie allusioni ad argomenti seri, come lo sfruttamento dei Paesi ricchi nei confronti di quelli del Terzo Mondo, la globalizzazione, e mi è venuto quindi spontaneo paragonare la barriera che idealmente separa i due mondi con la barriera ideale e fisica che separava le due Germanie ai tempi della Guerra Fredda. Allora ho mostrato agli spettatori alcune foto scattate a Berlino un mese dopo aver visto il film e che ritraevano alcune Trabant e un murale raffigurante l’automobile, disegnato sul famoso Muro. Mentre cominciavano a circolare i popcorn, ho anche mostrato senza volerlo una foto della Dunst. Gli altri hanno capito subito che era “quella che ha fatto Spider-Man”. Ho detto loro che molti dei suoi film purtroppo vengono trasmessi solo su canali che non sono quasi mai Rai o Mediaset e spesso solo dalla seconda serata in poi. Ho sentito una certa frenesia fra gli spettatori, allora ho capito che volevano che si cominciasse e dato loro tre avvertimenti: primo, di non turbarsi se sentivano ogni tanto dei fruscii, il file con dentro il film era così; secondo, che i titoli di coda non avevano la musica di sottofondo; terzo, che c’era una scena del film che io oso paragonare a una scena di Amici miei. So bene che è improponibile fare un paragone tra questo pilastro della commedia all’italiana e un film di fantascienza poco conosciuto come Upside down, ma io ho paragonato due scene, non i due film.
Alla fine della presentazione e dopo aver dato gli avvertimenti, cosa ancora potevo dire? Solo questo: “Buona visione!”… Erano le 21 e 38.
Sono corso ad avviare il film, poi a spegnere le luci, poi di nuovo a sedere, e poi abbiamo messo il film a schermo intero. E abbiamo sentito la voce di Adam Kirk, il protagonista maschile di Upside Down interpretato da Jim Sturgess: “L’universo, così ricco di meraviglie! Potrei passare ore e ore a osservare il cielo! Quante stelle…”.
Oltre a spiegare quel che io avevo anticipato sulla gravità opposta dei due mondi Adam racconta che TransWorld, l’azienda del Mondo di Sopra che ha come sede il grattacielo che collega i due mondi, acquista il petrolio del Mondo di Sotto per un boccone di pane, per poi rivenderglielo sotto forma di elettricità a un prezzo esagerato. Qualche scena dopo, abbiamo visto una frittata fluttuante nell’aria preparata dalla zia di Adam quando egli era un ragazzo: una frittata preparata con il Polline dalle Api Rosa, che non è soggetto agli effetti della gravità. Poi abbiamo visto Adam adulto salire sulle Montagne Sagge e incontrare Eden Moore, personaggio interpretato da Kirsten che abita nel Mondo di Sopra. Ebbene sì, anche le vette di due montagne opposte sono un punto di incontro fra due persone dei due mondi. Purtroppo però questi incontri sono vietatissimi. Proprio come lo erano quelli fra gli abitanti di Berlino Ovest e Berlino Est divisi dal Muro. Non a caso anche nel film c’è la polizia di frontiera che incontra i due innamorati e gli spara contro, spezzando la fune con cui Adam stava riportando Eden verso il suo mondo e causandole una caduta talmente rovinosa che sembra ucciderla. Qualche scena dopo, ambientata dieci anni dopo questo incidente, vediamo Adam impiegato in un robivecchi, atto a far ricerche sul Polline delle Api Rosa e a ricavarne una qualche utilità pratica, come una crema anti-età. Proprio in quel momento, Adam sente il nome di Eden Moore alla televisione, si gira e la vede! È viva, non è morta in quell’incidente! In quel frangente, Eden racconta che lavora a TransWorld, estrae il numero vincente di un concorso e fa un sorriso radioso. La gioia di Adam nel rivederla è davvero forte.
Poco dopo, si vede Eden bere un cocktail col bicchiere al contrario senza che il contenuto caschi giù (e che dà anch’esso il titolo al film) e ballare un tango. Da qui, ho presunto che in quei due mondi c’è una minoranza che parla spagnolo, oltre alla lingua predominante che è l’inglese. Adam decide di farsi assumere nella ditta del Mondo di Sopra, dove lavorano anche abitanti del Mondo di Sotto, a cui è però vietatissimo relazionarsi coi colleghi del mondo opposto se non per motivi di lavoro. Adam non vuole solo continuare le sue ricerche che interesseranno moltissimo i dirigenti, ma anche incontrare Eden. Lei intanto prende parte a un gruppo di auto-aiuto nel quale rivela che nell’incidente di dieci anni prima ha perso la memoria.
Ricordo che durante la proiezione ho sentito fra il pubblico qualche commento e qualche risolino, però nessuno si è fatto beffe del film, anzi. Mi aspettavo che gli altri ridessero quando Adam apre la sua bottiglia di benvenuto e questa gli si schizza in faccia perché è del Mondo di Sopra. Invece hanno riso nelle scene in cui Adam si prepara per incontrare Eden con l’aiuto di alcune placche di materia inversa, in grado di contrastare per un po’ la gravità del mondo opposto per poi bruciare; hanno riso quando lui rompe lo specchio mentre si fa bello, quando lui sente le placche iniziare a bruciargli sotto i vestiti mentre parla con Eden impegnata con un origami a forma di grattacielo, quando lui va a orinare e si vede la sua pipì andare verso l’alto e colpire un rilevatore di fumo. E poi, hanno riso quando lui va a pranzo con Eden e si vedono le sue scarpe fumare (perché anche lì ci sono le placche di materia inversa). Hanno riso nel vederlo correre come un matto, tuffarsi in un fiume, togliersi scarpe e placche e passare dall’acqua del mondo di Eden a quella del proprio con una velocità impressionante. Nel frattempo Adam ha fatto amicizia con Bob, un impiegato del Mondo di Sopra bonario, di larghe vedute, appassionato di francobolli rari di entrambi i mondi. Bob dà il suo pass ad Adam che può così andare nel Mondo di Sopra e presentarsi a Eden con il suo nome per evitare di far capire che è del mondo opposto a qualche collega della ragazza e farsi arrestare. Eden però non lo riconosce proprio in seguito al suo incidente sulle montagne. E Bob viene licenziato.
Vediamo poi Adam provare la crema anti-età prima su un mastino napoletano e poi su una donna durante una dimostrazione. Qui Eden lo vede, Adam è costretto a rivelare il suo vero nome e scappa, inseguito dalla polizia. E ancora una volta sento dei risolini fra gli astanti quando vedono la cravatta di Adam ritta verso l’alto. Qualche scena dopo, finalmente, Eden si rammenta ogni cosa, ritrova felicemente Adam nel locale in cui ha bevuto il cocktail, lo vede di nuovo scappare. E ancora, vediamo i due baciarsi sulle Montagne Sagge sospesi in aria ruotando su sé stessi.
E questa volta Adam non ha bisogno delle placche di materia inversa, perché Bob gli ha confezionato dei vestiti in grado di contenere la gravità del pianeta opposto. Poco dopo arriva la polizia di frontiera con tanto di cani, i due innamorati corrono via, fanno un paio di salti presso una strana costruzione, si separano, lei viene arrestata, lui allontanato da TrasWorld e minacciato dalla polizia di non vedere più Eden. Intanto, la TransWorld non può più realizzare la crema anti-età perché non conoscono l’ingrediente principale, Bob e Adam sono gli unici a saperlo. Di conseguenza, Bob vende i francobolli e compra il brevetto della crema anti-età prima che lo faccia la mega-ditta del Mondo di Sopra. Nel finale, Eden incontra di nuovo Adam e gli rivela di essere incinta di due gemelli, il che significa che i due innamorati potranno stare insieme per sempre. Da qui ho presunto che i due gemelli, essendo due ibridi, potranno passare da un mondo all’altro senza subire problemi di gravità, perché predisposti sul piano biologico. Col tempo, grazie alle scoperte e invenzioni di Adam e Bob, i due mondi si connetteranno fra loro, aumenteranno le nascite di ibridi, il Mondo di Sotto diverrà ricco e prospero quanto quello di Sopra e si abbatterà ogni barriera (tanto che si vedono alcuni bambini dei due mondi giocare a basket). L’immagine si fa nera, appare il nome del regista Juan Solanas (del quale io non conosco nessun’altra opera) e poi i nomi dei protagonisti Jim e Kirsten. È a quel punto che tutti rammentano il nome della donna nella foto che ho mostrato loro durante la presentazione. E al momento del dibattito, in cui tutti esprimono il loro grande apprezzamento per la pellicola, io dico che Upside down è un film indipendente, e dato che tutti i miei compagni di visione sono rimasti incuriositi dall’immagine di Kirsten, ne approfitto per spiegare loro cosa avrebbero dovuto notare di lei, oltre che a godersi la storia d’amore e lo scenario. Ho detto loro di notare bene la sua acconciatura e il suo abbigliamento nella foto, tratta dalla scena in cui è impegnata con l’origami a forma di grattacielo e incontra Adam, e di notare quanto sia illuminata nella suddetta foto. Tutto questo fa veramente pensare che lei sembri una santa, una Madonna col mantello e i capelli biondi. Qualcuno ha capito e detto che ne sono innamorato, e ha ragione. In questo film Kirsten, oltre ad essere adorabile, in molte scene e nel finale è illuminata dal sole che riempie di luce i paesaggi e i grattacieli dei due mondi, ma a me in particolare a volte lei sembra illuminare e allo stesso tempo essere illuminata di suo per la sua bellezza. Praticamente un sole umano!
Sono poi passato a cose più serie: ho detto che un amico di Facebook ha visto pure lui il film e che la trovata dei due mondi era notevole, la trama invece era trita e ritrita. È proprio questo il problema! Upside down avrebbe potuto essere molto di più che una storia d’amore luminosa, ambientata in un contesto fantascientifico! A furia di ripensare al film, mi sono fatto alcune domande: come e quando si è formata la civiltà umana su quei due pianeti? Quali sono le sue caratteristiche? Solitamente gli scrittori, quando creano una storia ambientata in un contesto originale, lavorano sulla storia, la geografia, la fisica e quant’altro. Invece Solanas si è limitato solo a fare una storia d’amore e a costruirvi intorno il contesto fantascientifico senza preoccuparsi dei dettagli! Esempio: se la Terra non è piatta, perché dovrebbero esserlo quei due mondi? È vero che in apparenza sembrano piatti, dal momento che vediamo solo le due città, ma forse i pianeti a cui appartengono non possono essere piatti invece che rotondi. Poi ho anche rispiegato che quelle due città collegate dal grattacielo devono per forza appartenere ai poli di due mondi opposti riscaldati dal loro sole esattamente come il nostro riscalda l’Europa, e ho fatto notare l’aspetto del Mondo di Sotto all’inizio del film, che mi ricordava molto certi paesi sfruttati. E la Romania di Ceausescu. Sono passato subito all’argomento dello sfruttamento dei Paesi ricchi verso quelli poveri. Il Sud Africa ed altri Paesi simili hanno ricchezze che però vengono sfruttate da potenze come gli Stati Uniti. Ebbene, allo stesso modo, il Mondo di Sopra sfrutta il Mondo di Sotto comprando il suo petrolio e facendoglielo ricomprare sotto forma di elettricità a un prezzo superiore. E chi rappresenta il Mondo di Sopra? TransWorld. Ed eccoci all’argomento della globalizzazione: è TransWorld a gestire l’economia dei due Mondi, traendo vantaggio per sé e per il Mondo a cui appartiene. Tant’è vero che tutto, anche la televisione, porta il suo nome e il suo marchio. Uno spettatore, prima della proiezione, ha menzionato le opere di Marx. Ebbene io, in un forum, avevo letto che in Upside downci sono in apparenza sottili rimandi a Marx ed Engels. Ma più che altro, ci sono rimandi alla globalizzazione e alle opere di Naomi Klein, una giornalista canadese autrice del testo No Global considerato la Bibbia della globalizzazione. Ho detto a tutti di provare a immaginare un mondo nel quale TUTTI i vestiti, ma proprio TUTTI, portano solo il marchio Nike, oppure i cui cibi hanno solo il marchio McDonald’s. Come sarebbe un mondo così? Una noia, ho commentato io. Purtroppo il mondo già adesso è un po’ così, hanno risposto gli amici. Non solo io ho trovato bello il film e ho avuto da ridire sul fatto che si poteva approfondire di più la storia dei due pianeti in cui è ambientata la storia d’amore, molte persone su internet hanno scritto questa stessa cosa. E che sono rimaste deluse nello scoprire che non era tratto da un libro di fantascienza e che era una storia inventata da Solanas, la cui intenzione era solo narrare una storia d’amore e nulla più. Un altro spettatore ha affermato che il film meriterebbe un sequel: “Magari!”, ho detto io. Non credo purtroppo che se ne farà uno. Né tanto meno un prequel, proprio per spiegare l’origine di questi due mondi, o dell’origine dell’umanità, o delle civiltà e delle due città mostrate. Per comodità di chi guarda il film, si è lasciato intendere che per una gran coincidenza, l’alfabeto e la lingua siano gli stessi di chi parla inglese, nonostante ci sia una minoranza spagnola come dedotto dal tango sopracitato. Ci sono distinzioni e separazioni dovute al mondo di provenienza, ma non ci sono distinzioni di pelle, poiché sono presenti anche personaggi di colore. Facile presumere che l’origine dei bianchi e dei neri su quei due pianeti, e la loro integrazione, sia stata leggermente diversa che sulla Terra, pur ottenendo lo stesso risultato di oggi, con neri e bianchi che vivono insieme nello stesso territorio. Mi hanno chiesto se il film fosse vecchio. Non lo è, è del 2012. E ho ripetuto che è indipendente, cioè non finanziato da una qualche nota casa cinematografica. Non so quanto hanno speso per farlo, forse poco, e non so nemmeno per quanto tempo sia stato messo in commercio né quanto siano stati ampi i circuiti di distribuzione. Ho detto che non è facile trovarlo in DVD di persona. Forse, su eBay, c’è qualche possibilità in più. Comunque, proprio il fatto che si tratti di un film indipendente con una storia assai banale che offusca il contesto luminoso e originale pare essere stata la fonte dell’insuccesso di Upside down e della sua scarsa diffusione. Penso però di essere riuscito nell’intento di convincere i presenti che non è solo un magnifico e luminoso film con Kirsten Dunst, ma anche un film che involontariamente fa pensare alle due Germanie durante la Guerra Fredda. Non c’è un Muro, ma ci sono la polizia di frontiera e il divieto di contatto assoluto fra gli abitanti dei due mondi. Nel Mondo di Sotto ci sono le Trabant, tante biciclette quante se ne trovano in Cina e oggetti che al massimo sono dei nostri anni Settanta. Tutto ciò mi rimanda (e ha rimandato anche gli altri) alla Germania Est, anche se questa era messa un po’ meglio della Romania di Ceausescu. Al contrario, il Mondo di Sopra ha palazzi meravigliosi, lucidi, e i cubicoli degli uffici hanno computer di modelli che come minimo sono come quelli dei nostri anni Novanta. E da qui, ho trovato una comparazione con la Germania Ovest, paese filooccidentale, moderno, tecnologico, aggiornato e che nel 1990 ha assorbito la Germania Est, i cui Länder ancora oggi devono essere aiutati da quelli della controparte occidentale. Però nel film non è il Mondo di Sopra ad assorbire del tutto il Mondo di Sotto e a supportarlo. Anzi, è il Mondo di Sotto che è destinato a diventare come quello di Sopra, cioè ricco, autonomo e senza barriere, grazie ai protagonisti maschili che fanno fortuna con le loro invenzioni. Lo stesso spettatore che ha auspicato un sequel del film ha anche detto che avrebbe voluto vedere TransWorld fallire, esattamente come capita a tante aziende di oggi. Ho anche indicato quali fossero le scene di Upside down e Amici miei che avevo accostato. Nel primo film si tratta della scena in cui Adam riconosce Eden in televisione e si esalta perché scopre che lei è ancora viva e lavora a TransWorld. Allo stesso modo, in una scena di Amici miei, Rambaldo Melandri (Gastone Moschin) è sottoposto ad un elettroencefalogramma bipolare, e si esalta guardando da una finestra la donna di cui si è innamorato perdutamente, tanto da andare dagli amici e gridare: “Non sono matto! Non era un’allucinazione ragazzi! Lei è vera, esiste!”. Con mia gran sorpresa, gli astanti che conoscono il film di Monicelli hanno ammesso che il paragone ci sta tutto. Ho anche raccontato che mentre aspettavo il film e lo paragonavo a Inception senza ancora sapere di che parlasse, avevo letto che i due protagonisti si chiamavano Adam e Eve. Come Adamo ed Eva. Una nomea simbolica, per certo. Ebbene, sono rimasto un po’ male nello scoprire che il nome della protagonista femminile era in realtà Eden, come il Giardino creato da Dio per il primo uomo. Nel finale si scopre che Adam ha messo incinta Eden, presumibilmente quando i due si sono baciati sulle Montagne Sagge. Ebbene, sono convinto che una fervente femminista proverebbe una certa indignazione per il fatto che un uomo che si chiama Adam metta incinta una donna di nome Eden, tanto per usare un’espressione delicata. Sarebbe come se Adamo approfittasse del Giardino dell’Eden! Fossero stati Adamo ed Eva, il primo uomo e la prima donna, forse lo si sarebbe compreso. Ho approfittato di quest’osservazione per dire che se un uomo ha due figlie, le si chiamano ‘figlie’. Ma se poi arriva un terzogenito maschio, le ‘figlie’ automaticamente diventano ‘figli’. Questo concetto, che vede il genere maschile prevalere su quello femminile sul punto di vista grammaticale, è secondo me una dimostrazione del fatto che il maschio è posto in una condizione avvantaggiata e di predominio nei confronti della donna. Io personalmente non trovo positivo che gli uomini abbiano la meglio sulle donne in campo lavorativo (hanno più posti di lavoro, sono pagati meglio, e ancora oggi non sono abbastanza puniti per i maltrattamenti nei confronti delle donne). Se poi hanno la prevalenza pure in campo grammaticale, per una femminista questo sarebbe il colmo! E poi, perché Eva deve sempre essere messa dopo Adamo, quando li si menziona insieme? Solo perché Dio ha prima creato Adamo e poi da una sua costola la persona di Eva? Questo ragionamento l’ho posto alla base del mio libro La Terra è femmina! nel quale non cito Adamo ed Eva, ma il problema del predominio dell’uomo sulla donna, quello sì.
La serata è terminata con un sacco di belle parole sul film, che è piaciuto a tutti. Anzi, uno degli spettatori ha detto che voleva subito cercare il DVD per il figlio appassionato di fantascienza. Il mese dopo ho portato un altro film poco conosciuto ma che faceva ridere, e il mese dopo ancora il popolare The Truman Show. Volevo portare anche tanti altri film, ma la mia speranza che il cineforum continuasse regolarmente è stata disillusa. Una sera che io non c’ero, tutti si sono guardati Mr. Bean – L’ultima catastrofe. Poi per molti mesi non se n’è fatto quasi più nulla finché non si è deciso di vedere insieme Wonder Woman. Nel frattempo avrei conosciuto una ragazza che scaricava e teneva i film negli hard disk e scritto dei parametri per scegliere il film adatto per il gruppo: non più lungo di due ore, che dovesse soddisfare ogni fascia d’età, senza scene spaventose od oscene, che non annoiasse i più giovani e non rendesse ansiosi i più maturi. Se si tratta di un film che fa solo riflettere, piangere o spaventare non va bene. Deve anche far ridere o sorridere, o solo far ridere o sorridere. Questo perché dopo aver visto Upside down Giovanni mi ha suggerito di alternare film che mi piacevano con film che piacessero a tutti, o di proporre un film impegnato ogni due divertenti. Perché al ‘Provvidone’ ci si va per svagarsi.




Ciao...Volevo raccomandare a tutti gli utenti di questo indirizzo e ai responsabili del dipartimento dei servizi mentali di Bologna di far conoscere l’associazione Cristina Gavioli di Bologna. Devo veramente esternare di cuore la mia soddisfazione di fare parte di questo grande gruppo di persone che ho conosciuto essendo paziente da diversi anni della cara dott.ssa Cristina Baroncelli del CSM scalo di Bo. Questa associazione fa tanto, ma tanto bene a noi, persone malate ‘del vivere’, donandoci attenzione, ascolto, mostrandoci come, nonostante la nostra sofferenza spirituale, abbiamo ancora tanta luce dentro di noi. Gli operatori ci aiutano a comprendere con quali mezzi la possiamo esternare… capendo meglio noi stessi... e condividerla con gli altri partecipanti. Grande merito spetta alla responsabile, la signora Maria Parracino. Nell’emergenza Coronavirus, lei c’è, virtualmente, ma c’è...Quando tutti chiudono, quando tutti si dimenticano soprattutto dei più deboli e dei più fragili, Maria amorevolmente ha trovato il modo di non lasciarci soli, di occupare il nostro tempo di solitudini, rendendo tutto più facile, semplice e spesse volte anche divertente. Ci ha ‘coccolati’ prima con tante iniziative belle coi suoi laboratori, col mitico Provvidone, e sempre con un occhio di riguardo per gli ultimissimi, i più evitati dalla gente cosiddetta ‘per bene’.. Adesso poteva essere impensabile che il distanziamento sociale a cui siamo costretti lasciasse libera di agire questa stupenda donna. Invece lei è riuscita ad aprire una chat comune dove tutti e tutti i giorni ci possiamo incontrare, sì, virtualmente, ma...dove tutte le mattine apriamo questa bella finestra da cui parlare, inviare disegni, cantare, darci notizie, pareri e raccontarci le nostre infelicità e tristezze, ma....anche le contentezze: per una ricetta riuscita, per parenti guariti dal virus, per altre innumerevoli faccende positive quotidiane di ciascuno di noi che ha aderito in piena libertà. Per me questo è stato ed è importantissimo, quasi – credetemi, non esagero- miracoloso. Vi prego, se si può, fate conoscere quest’associazione che è una realtà bolognese ma che andrebbe copiata da tanti altri CSM fuori confine. Grazie Maria, grazie associazione Cristina Gavioli.

Paola Ballestrazzi






Ciao Fabio, come stai? Scusa se non mi sono mai più fatta sentire, volevo farti i complimenti per l'articolo intervista a Demba pubblicato sul Faro; come Associazione ci farebbe piacere poterlo avere in formato pdf per allegarlo al nostro archivio. È possibile?
Buon lavoro

Anna Compagnoni

IL CANTO DEL MATTINO

   Francesco Valgimigli


L’alba

Era ancora buio quando mi svegliai, la luce del mattino non aveva ancora inondato il mondo, non mi restava che aspettare che quell’evento così naturale, ma allo stesso tempo così misterioso, si manifestasse. E in quel momento una caterva di pensieri sgomitavano per essere loro i primi a esplodere, ma io non avevo fretta d’ascoltarli, li lasciavo litigare mentre guardavo la finestra con la serranda tirata a metà. Appoggiato al cuscino osservavo il cielo che, col passare dei minuti, diventava più chiaro e come tutte le mattine attendevo che gli uccellini cominciassero il loro concerto. Poi finalmente l’alba mise fine a tutti i miei pensieri e nel cielo un concerto di suoni prese vita. Ed era un canto splendido, fatto di mille canti, di toni diversi e di infinite variazioni di cinguettii, e io assaporavo tutti quei suoni mentre l’orizzonte diventava sempre più bianco, come un foglio di carta dato in mano a un bambino, e in quel cielo appena nato poteva accadere di tutto. Era un momento che attendevo ogni mattina, e ogni volta mi stupivo di come quell’evento io lo sentissi diverso, benché apparisse sempre uguale. Forse tutti quegli amici pennuti volevano dirci qualcosa d’importante, comunicarci una qualche verità, che noi però ignoravamo. Ascoltai ancora per qualche minuto poi gli uccellini come per un tacito accordo decisero di porre fine alla loro esibizione. Allora mi alzai e andai ad aprire del tutto la serranda.



Il pomeriggio

Quel pomeriggio la lezione era più noiosa del solito, spensi l’apparecchio didattico e accesi la televisione. C’era un film e incominciai a guardarlo, ma già durante la prima interruzione pubblicitaria mi addormentai e mi ritrovai dentro un sogno in compagnia di una persona che in quella realtà mi era amica, ma che, ripensandoci a mente sveglia, non avevo mai visto. Era un uomo con una tuta bianca, uguale alla mia, e dall’aspetto giudicai dovesse avere più o meno la mia età, Camminavamo fianco a fianco in un tunnel trasparente con la forma a semicerchio. Non c’erano pareti ma solo uno sfondo bianco. Guardai alle mie spalle, il tunnel iniziava dalla porta di una casa bianca con le imposte verdi dalle due parti e la porta marrone in mezzo. Sopra la casa un tetto rosso a spiovente. Sembrava una di quelle costruzioni di legno con le fattezze di una casa stilizzata con cui giocavo da bambino. Parcheggiate a pochi metri dal tunnel, delle macchinine gigantesche stavano immobili come moderni elefanti meccanici. Poi delle sagome d’animali domestici e selvatici e mucchi di biglie si intravedevano da lontano. Tutte quei giocattoli giganteschi che man mano notavo mentre camminavo erano dorati da una loro fosforescenza e una luce diffusa, infinita governava la scena. Il mio amico stava zitto, e guardava dritto davanti a sé. Poi voltandosi verso di me, mi domandò: Tu non hai paura? Io non capivo e allora gli chiesi: Di cosa? Lui mi indicò la fine del tunnel. Era una traversa di un tunnel molto più grande, e qualcosa si agitava dentro, un mormorio d’ombre. Quegli uomini laggiù. Dunque erano uomini, e più mi avvicinavo più li vedevo chiaramente. Perché dovrei averne paura, risposi, tanto mi sembravano innocui quegli uomini vestiti di nero e poi, chiusi a passeggiare dentro quel tunnel che male potevano fare? Perché sono uomini perduti, impazziti, che producono luce grazie al loro ‘borboritmo’. Intanto eravamo arrivati alla fine del tunnel che era chiuso dalla parete obliqua del tunnel principale. Il mio amico appoggiò le mani sulla parete trasparente, era intimorito da quello spettacolo, ma allo stesso tempo ne era attratto. Io lo guardavo e poi guardavo quelle persone che mormoravano, bisbigliavano, rimproveravano qualcosa o qualcuno, poi ogni tanto alzavano la voce e poi la riabbassavano subito e i loro versi erano delle tenaglie per afferrare l’aria e stringerla, e come la tenaglia non sarebbero serviti a niente, se non avessero scoperto da una decina d’anni che il loro continuo parlare da soli, lamentarsi e sbraitare, produceva un’energia che riusciva a illuminare la città sulla quale mi trovavo, e quel loro lamento l’avevano chiamato ‘borboritmo’. Il mio amico mi spiegò tutto questo mentre continuavamo a guardare quella folla rumoreggiante. Erano persone di tutte le età e di ambo i sessi. I bambini erano gli unici che mancavano, perché ancora troppo piccoli per produrre energia, dato che non avevano sviluppato il ‘borboritmo’. Io e il mio amico li guardammo per un’altra mezz’ora poi ci prese la noia e facemmo ritorno a casa. Dopo di che mi svegliai e la camera da letto per un attimo sembrò guardarmi.



Il tramonto

All’entrata di una stazione del metrò, io l’aspettavo, ed era pomeriggio inoltrato. Dopo qualche minuto lei arrivò, con in dono una luce magnifica negli occhi, che riusciva con la sua brillantezza a dare una speranza a ciò che stava intorno a lei. Ci passò accanto un signore molto vecchio, che il tempo aveva consumato lasciandogli un viso incartapecorito e delle mani scheletriche, il resto era coperto da un lungo capotto, che arrivava fino alla caviglia, ai piedi calzava degli scarponi consumati, grigi. Solo i suoi occhi denotavano una tempesta in corso, borbottava qualcosa, che aveva un proprio ritmo, e allora guardando bene in viso riconobbi quell’uomo e quel suo discorso senza senso: era il ‘borboritmo’ che avevo udito dentro il sogno di questo pomeriggio e quel vecchio era sicuramente un volto confuso dentro quella folla sognata. Forse con quel ‘borboritmo’ avrebbe voluto illuminare tutta la città mentre il cielo scivolava nell’oscurità e, mentre si spegneva, si accendevano le luci della città, una dietro l’altra.

VICINI DI FIABA

   Stefano Cittadino


C ’era una volta un bosco misterioso dove c’erano strane case. Questo bosco era un labirinto e all’ingresso vi era una roccia, con dentro un piffero; la leggenda vuole che chiunque fosse riuscito a estrarre il piffero, sarebbe stato capace di suonarlo e far tornare a casa i bambini di Hamelin persi nel bosco e svelare tutti i segreti che nel bosco si celavano. E così un giorno un bambino di nome Pollicino, che era stato abbandonato nel bosco insieme ai suoi fratelli, i sette nani, vide il piffero nella roccia e senza alcuna fatica lo estrasse. Pollicino cominciò a suonare il piffero e tutti i bambini che erano spariti dalla città di Hamelin riuscirono a uscire dal labirinto del bosco e, seguendo le briciole che Pollicino aveva lasciato, riuscirono a tornare a casa. I sette nani furono felici e convinsero Pollicino ad addentrarsi nel bosco per cercare la loro cara Cenerentola. Pollicino e i sette nani entrarono nel labirinto e all’improvviso si trovarono davanti ad una casa di zucchero e cioccolato, bussarono alla porta e dopo un po’ aprì una ragazza assonnata, era la bella addormentata nel bosco, che chiese a Pollicino e ai suoi fratelli di andare via e non tornare a disturbarla in quanto lei stava bene lì dov’era, insieme a quel ranocchio del suo principe. Così Pollicino e i sette nani proseguirono nel labirinto e, dopo pochi passi, videro una casa a forma di carrozza; bussarono alla porta e aprì una ragazza col cappuccetto rosso: disse di aver perso una scarpa e che stava aspettando la sua nonna che, per paura di attraversare il bosco da sola, si era travestita da lupo e che era molto preoccupata del fatto che qualcuno scambiandola davvero per lupo potesse averle fatto del male. Poi chiese una mela, le fu data, la morse e prima di addormentarsi disse sussurrando: “Guardate! È il coniglio bianco! Scusate, ma devo andare a trovare una mia amica nel paese delle meraviglie!”. Pollicino e i sette nani proseguirono e lì vicino s’imbatterono in una casa di legno dall’aspetto mostruoso, era la casa dell’Orco Mangiafuoco. Bussarono alla porta, aprì un grande uomo con i capelli e la barba lunghi che gridando disse: “Non pensavo fosse già ora di cena!”. Pollicino e i sette nani urlarono dalla paura, li udì una donna che abitava lì vicino, era la fata dai capelli turchini che li salvò dall’orco e li fece entrare in casa sua. Gli offrì una cioccolata calda e gli chiese perché si fossero addentrati nel labirinto del bosco, loro risposero che non avevano niente da fare. Allora la fata prese una lampada e la regalò a Pollicino dicendogli che si trattava di una lampada magica e che, strofinandola, da dentro sarebbe uscito un Genio, che avrebbe esaudito tre desideri. Pollicino fu felice, ringraziò e disse alla fatina: “Fatina grazie, ma a noi basta un desiderio solo”; e così Pollicino strofinò la lampada, uscì fuori il Genio che chiese: “Qual è il tuo desiderio?”, Pollicino rispose: “Avere una casa vicino alla fatina”; e il genio disse: “E sia”. All’improvviso apparve una casa meravigliosa vicino a quella della fata, e il desiderio divenne realtà.

IL CIABATTINO

   Paolo Veronesi


C 'era una volta una bambina di nome Katy, che era molto triste perché non aveva avuto mai un giocattolo. La sua famiglia era poverissima. Il padre lavorava come ciabattino e la madre era casalinga, ma in quel paese i ciabattini guadagnavano poco, perché tutti andavano a piedi nudi. Nessuno portava le scarpe: era il famoso ‘paese dei piedi nudi’. Ma il padre rimaneva convinto dell'importanza del suo lavoro e di quello che faceva... Nel paese dei piedi nudi tutti andavano in giro scalzi. Katy era sola, aveva circa quattro anni e non riusciva a divertirsi, perché non aveva amici. Era una bella bambina, ma questo non l'aiutava, perché gli altri la canzonavano per la sua povertà... Era molto magra, non avevano molto cibo in casa, però soffriva in silenzio soprattutto per la sua solitudine. Questo faceva di lei una ‘bambina sola’.... Un giorno però nel paese tutti decisero di indossare le scarpe, e allora il padre divenne ricco. Katy divenne una bambina felice, perché tutti iniziarono a rispettarla, grazie alla caparbietà del padre che con la sua idea aveva alleviato il dolore a molti piedi, offrendo una soluzione a persone che non avevano mai provato le scarpe. Un paese dove non si sapeva camminare, adesso si sa correre...

IL PASSAGGIO NEL QUADRO DELLA CAPANNA

   Stefano Cittadino


D a bambino andavo spesso a giocare a casa dei nonni. Avevano un bellissimo giardino. Mi sembrava grandissimo. Correvo da una parte all’altra, raccoglievo frutti e fiori per la mia mamma; c’erano molti animali, per lo più galline e papere. Nel giardino il nonno aveva costruito una capanna per metterci dentro la legna affinché non si bagnasse con la pioggia. Dentro la capanna c’era un quadro, un quadro molto semplice: una spada e uno scudo di plastica incorniciati. Un giorno col nonno andammo a prendere un po’ di legna per il caminetto e, una volta nella capanna, mi mostrò il quadro e mi disse che ‘dietro’ quel quadro c’era un mondo fantastico, meraviglioso. Mi disse che quando avessi avuto una paura o un problema, mi sarei sempre potuto rifugiare in esso. Col passare del tempo, crescendo, mi accorsi che quel giardino, pur restando meraviglioso, non era poi così grande. Un giorno comunque, incuriosito, entrai nella capanna, mi feci coraggio, spostai il quadro e, con grande delusione, vidi che dietro non c’era niente. Andai dal nonno e gli dissi: “Nonno, ho spostato il quadro e dietro non c’è niente”. Nonno mi rispose: “Stefano, io ti ho detto ‘dietro’, ma dentro al quadro, non dietro la cornice”. Tornai alla capanna, fissai lo sguardo sul quadro e capii quanto fosse profondo il quadro e ciò che nonno mi insegnò: “il passaggio nel quadro della capanna”.

GHOST

   Stefano Cittadino


I l seguente ricordo risale a molti anni fa ed è associato a una persona che incontrai in passato e che tuttora incontro. Il personaggio in questione l’ho soprannominato Ghost (dal noto film di Jerry Zucker del 1990) e di seguito vi racconto perché.
Quando avevo sedici anni, partii per Bologna, per la prima volta, per andare a trovare mio fratello che già studiava all’Università. Arrivai a Bologna di notte, venne a prendermi mio fratello. Al tempo, come oggi, circolavano due autobus notturni, il sessantuno e il sessantadue, noi prendemmo il sessantuno. E giungiamo al punto. Nell’autobus rimasi colpito da un personaggio: circa cinquant’anni, alto, capelli lunghi, occhi spiritati; camminava avanti e indietro, poi si fermava all’improvviso e apriva e chiudeva le braccia. Mi ricordò subito il fantasma nella metropolitana del film Ghost. Ebbene, dopo tanti anni, lo si può ancora incontrare negli autobus notturni, non è cambiato affatto, l’età sembra essere sempre la stessa, questo perché lui… è Ghost.

LA GRANDE FUGA

   Maurizio Leggeri


E ra da alcuni anni che Emilio non riusciva più a capacitarsi di ciò che lo attorniava e man mano che cresceva questo suo convincimento, si rafforzava in lui la volontà di respingere quello che aveva costituito, fino ad allora, il suo vissuto. Voleva fuggire da tutto, perché tutto era vanità, vacuità, inutilità, torpore. Sì, fuggire era l’infinito del verbo che lui prediligeva e l’espressione bene si coniugava con l’intenzione di fuggire dal finto spazio della vita occupato: come quando dalla descrizione generale si viene a cogliere una particolarità del tutto. La motivazione di questi suoi propositi di fuga dalla realtà era dettata dalla ‘ricerca dell’assoluto’ che, col tempo, aveva ossessionato i suoi pensieri: non gli era chiaro, all’inizio, cosa significasse ricercare l’assoluto, ma insondabili riflessioni lo fecero approdare alla convinzione che l’assoluto non poteva che essere il ritorno al suo stato di gioventù. Per convenienza si era voluto illudere che l’attuazione dell’intento si celasse ‘dietro l’angolo’ e dipendesse dalla determinazione impressa alla realizzazione dello scopo. Riaffiorava, d’altronde, nella sua mente, in un trascorso di letture, un libro di Oscar Wilde, in cui un certo Dorian Grey, facendo un patto col demonio, era riuscito a bloccare il tempo e il suo decorso. Vero era che, per Emilio, l’operazione appariva più difficile, e perché non poteva accordarsi col demonio, non credendo alla possibilità della dannazione dopo una vita miserevole vissuta, e perché si trattava di andare indietro nel tempo: non solo di fermarlo! Una volta individuata l’araba fenice, le maggiori difficoltà consistevano nel rimettere in questione le leggi fondamentali della vita, che impedivano la possibilità di riportarsi a nuovo, volgendosi indietro. Ma ormai nulla tratteneva Emilio, deciso a realizzare il suo sogno di scuotimento della realtà, e ciò poteva fare ripartendo da zero, in cui lo zero, rappresentava la situazione ideale di neutralità che consentisse l’aggressione al contingente. Di conseguenza eliminò tutti i contatti umani, in quanto lo rapportavano al periodo. Si separò dalla moglie, troppo attaccata agli anni e alle sue incombenze; si allontanò dai figli, che gli avrebbero presentato il conto del trascorrere del tempo; salutò i colleghi lasciandoli immersi in un mare di scartoffie; non volle saperne neppure di Katia, il suo primo giovanile amore, ora adornata di un grigio colore dei capelli. L’unica persona, la cui presenza non disdegnò, fu la lontana zia ancora in vita, poiché gli ricordava il periodo delle favole ascoltate decenni prima, solo che quando si recò da lei per farsi raccontare nuove storie, fu lei che scappò da lui inorridita. Decise di fuggire da tutto, perché ognuno della moltitudine rappresentava una fatale contaminazione del suo dover essere alla ricerca dell’identità nella nuova dimensione. Capì presto, però, che la decisione di tagliare i ponti con le persone non bastava e decise di fuggire dagli animali: troppo simili agli umani per non creargli problemi nel processo di trasmigrazione. Mise la gatta dentro un cesto e la lasciò ai margini del bosco; regalò il cagnolino alla ragazza del piano di sopra che pareva innamorata dell’esserino; aprì la gabbia ai canarini che furono ben contenti di riguadagnare il cielo; svuotò l’acquario nel ruscello dove i pesci si industriarono a nuotare verso la libertà del mare. L’unico problema glielo diede il serpente boa, catturato in un safari nell’Africa profonda, ma Emilio si recò furtivamente nel bioparco comunale con l’animale dentro un sacco e lo lasciò con i suoi simili; solamente non si curò della diversa dimensione delle bestie, determinando casi di cannibalismo animale. Poi fu la volta delle cose e dei luoghi, e si liberò dei suoi fardelli. Fuggì dalle scarpe e dai vestiti, dall’ombrello e dagli occhiali: quali simboli borghesi; diede via l’utilitaria; gettò in un fosso la sua moto; si disamorò dell’amata bicicletta e si allontanò di casa. Fuggì dal mare e dalla terra, dal sole e dalla pioggia, dal giorno e dalla notte, dai monti e dalle valli, dai casali e dalle ville. Fuggì dal caldo e fuggì dal freddo, dal silenzio e dal rumore, dai piaceri e dal dolore, dai minuti e dalle ore. Fuggì dalle foglie che da lì a poco sarebbero cadute; fuggì dalle erbe che si accingevano ad invecchiare; fuggì dai fiori in procinto di appassire. Ma tale fuga non poteva bastare; per l’adempimento dell’intervento occorreva fuggire da sé stesso! Fuggì dal corpo per mettere a nudo la propria consistenza e fuggì dall’ombra che ne rammentava la parvenza. Fuggì dalla vita che gli rievocava il suo passato, fuggì dal nome per dimenticare il suo presente; fuggì dall’intelligenza che gli parlava del suo futuro. Fuggì dai ricordi per sgombrare la sua mente e fuggì dalla sua mente perché non più in grado di ricordare. Infine, per tenere lontano i buoni sentimenti, scappò via dalla propria coscienza. Non riuscì a sfuggire ad alcune malattie. Fu agguantato dall’ingrossamento della prostata, dalle cataratte agli occhi e dalla scomparsa di agilità dei muscoli; pure fu aggredito dalla perdita precoce dei capelli; ma se ne compiacque, considerando si trattasse di malattie legate all’agognato ritorno verso l’alba della gioventù. Ridotto pelle e ossa, stralunato e claudicante, lontano da tutto e dalla gente, continuò a correre come un pazzo, senza mai fermarsi per fermare verruche, calli e bubboni della pelle o per asciugare il sudore, fermare le lacrime, bloccare il sangue ridondante. Quando stremato cadde a terra, era sicuro che la sua ‘leggerezza’, fosse il risultato del processo di ridiventar bambino. Si sentì in qualche modo ripagato dei suoi tremendi sforzi diretti a conquistar l’ignoto. Fu allora che successe un fatto strano che azzerò tante fatiche e ulteriori proponenti. Si vide raggiunto da un vecchio che gli si posizionò accanto: decrepito, spiritato, con una lunga barba attaccaticcia, fece a Emilio una certa impressione, suscitandogli il sentimento della pena. Questi consigliò all’anziano di fare un bagno turco con annessa rasatura della barba, di recarsi dal dottore per accertare il suo stato di salute e di andare a mangiare qualcosa. Caritas. In realtà Emilio non stava parlando al vecchio e i consigli suggeriti erano soltanto il prodotto di uno pseudo ragionamento. Si accorse, infatti, che tra lui e il nonno derelitto, c’era una discreta forma di compenetrazione, di somiglianza, di mutua sussistenza, che emergeva dalle fronti corrugate, dai languidi occhi socchiusi, dal movimento congiunto delle labbra tremanti.
Gli ci volle un certo tempo per capire che lo scarnito volto anziano altri non era che il suo ritratto, riprodotto in terra da un frammento di un vetusto specchio di un qualche comò, buttato alla rinfusa e, non si sa come, finito là vicino al mucchio: gli si accapponò la pelle rimasta e gli si annebbiò la poca luce della scampata vista. Corse in suo soccorso un pezzo di carta straccia, che mostrò quel che restava del calendario dell’anno in corso. Lo sgualcito foglio indicava l’anno 2014. Emilio non si era allontanato tanto: neanche dal tempo! I suoi occhi andarono a posarsi sul 27 giugno che, nonostante tutte le sue stravaganze, aveva inciso nel cervello come la data del suo compleanno. Fu in quel frangente che, scalcagnato e inconcludente, capì, capì di non essere approdato a niente. Non rimaneva che fuggire dalla fuga, perché capì che quella non era la cura! Fece uno sforzo sovrumano e contò gli anni, partendo dal 1952 che era il suo anno di partenza: ne annoverò sessantadue, che erano tanti, ma non troppi! I suoi occhi ripresero a versar lacrime e la sua pelle a sputar sudore: ma le lacrime erano amare e freddo era il sudore, dato che era amareggiato e malandato, riverso bocconi a terra. Si armò di tanta pazienza per rimettere a posto i suoi pensieri e permettere alla testa di rifunzionare. Altrettanta calma chiesero, a Emilio, il cuore e le gambe, per consentirgli di camminare nuovamente. Non dovette spostarsi molto, giacché le sue fughe erano in tondo e, come sopra ricordato, dalla casa si era da poco allontanato. Fu fortunato: non fece che pochi passi e ritrovò moglie, figli, compagni e zia, mentre nella definizione di un bagliore, gli parve di vedere pure Katia. Non poteva mancare la gatta che gli fece le fusa e il cagnolino che gli ammollò di getto una linguata. Ritrovò pure la salute, che non mancava del tutto e il lavoro, dal quale risultava essersi distaccato. Fece tesoro della sua esperienza, valorizzando approcci giovanili che avrebbe messo a frutto più tardi, nella sua vecchiaia, ancora alla ricerca della giovinezza, magari ritrovata nei lontani ricordi o nei dolci racconti esposti a tanti ragazzi per spiegare il senso del tempo trascorso della sua gioventù.

IL FALEGNAME DEI PESCI

   Matteo Martini


S i trovava in una piccola via del centro, tra chi rammenda tappeti e chi accontenta con poco la solitudine di vite che si sciolgono lentamente, come cera scaldata da una debole fiamma. Era un budello di cinque o sei metri, senza insegna o un cartello, anche scritto a mano, che indicasse il genere di esercizio, l’eventuale merce in vendita, i prezzi. Niente di tutto questo, sembrava quasi che fosse aperto per sbaglio o che, forse, quel posto fosse solo un deposito che non contemplava affatto il commercio al dettaglio. Invece no, era proprio un negozio aperto al pubblico. Non era invitante entrarci, oltre al gelo che emanavano i congelatori, si provava disagio per l’assenza di colori, ad esclusione di quei verdolini spenti delle muffe fiorite sui muri. Il banco d’acciaio sembrava una superficie repellente a qualsiasi tragedia, una volta ripulito appariva con la sua luce implacabile di sempre e così anche le piastrelle sbrecciate, che ricoprivano per la parte inferiore i muri del locale. Al di là del banco, un uomo baffuto e imbacuccato attendeva immobile come i suoi pesci congelati morti da chissà quanto tempo. Sopra il cappotto, un grembiule di spessa gomma nera lo proteggeva dai trucioli di polpa grassa che schizzavano ogni volta che segava un pesce. La coppola era così ben calzata sul capo, che immaginavo il calco sui suoi capelli prima di andare a letto, come un segno indelebile del suo immutabile aspetto. “Mi sega un pezzo di quello?”, la sega circolare modulava lo strazio anatomico di quei corpi ibernati, si riconosceva il suono della lama che affondava nella polpa e all’improvviso trovava un ostacolo e il suono si assottigliava diventava più acuto, come un urlo in un sogno soffocato tra l’inconscio e il mondo reale. Il risultato finale erano dei cubi perfetti, la forma originaria si era trasformata, e quella solida forma geometrica negava una storia di migrazioni sinuose, di virtuosi scivolamenti, di pura libertà. I pesci più piccoli venivano graziati, semplicemente perché non c’era bisogno di tagliarli, l’uomo li prendeva in mano e con le pinze gli spezzava le spine dorsali, timoni in avaria diventati scomode escrescenze, impurità inutili e pericolose. Si tornava a casa con quella strana tristezza di chi assapora una zuppa di pesce a tremila metri di altezza.






LETTERA APERTA

   PB 57


C’era una volta una figlia, allegra, paffutella, golosona, ballerina, chiacchierina, sempre pronta a raccontare della sua giornata. Poi l’adolescenza l’ha portata lontana dalla sua famiglia e soprattutto da me, in quanto madre. L’intimità che ci legava una volta l’abbiamo persa, qualcosa di prezioso si è rotto. Il tempo del dialogo… finito, qualsiasi cosa avessi detto si trasformava in scontro. Con tanta pazienza abbiamo cercato di ricucire di nuovo il nostro rapporto, ma senza la collaborazione dell’uomo di casa, suo padre. Abbiamo trascorso anche degli anni buoni… Eri diventata una diciottenne con tanti amici, con un grande Amore, il primo amore, a cui dedicare le tue ore di tempo libero, le tue fantasie. Il liceo ti piaceva, eri finita in una classe tutta di ragazze brave, motivate. Stavi volentieri fuori casa, avevi un gruppo con cui uscire: turbinii di giornate felici piene di complicità. Alle è diventato un confidente, forse un fidanzato, poi l’hai lasciato, è apparso Matte, e l’hai sposato. E ora, dopo quasi dieci anni di matrimonio e la mia grave malattia psichiatrica - maledizione! - siamo tornate indietro. L’apertura iniziale che avevi manifestato verso i tuoi simili con gli anni si è andata chiudendo; tutto quello che era filantropia, desiderio di comunicare, in tempo brevissimo è diventato cinismo, solitudine, concentrazione ossessiva sul tuo destino infelice. Neppure la fede ci aiuta a riaccendere quella LUCE di affetto, amore, compassione, pietà, perdono e tutti i sentimenti speciali che fondono una madre e una figlia anche da adulte, anche nei periodi bui della vita. Dovrei farti ‘ri-nascere’, ridarti alla LUCE... E tornare alla bontà originaria e all’amore del concepimento della procreazione, che purtroppo, bimba mia, ancora non conosci. Mi sono ritirata in un angolo del cuore, lascio lo scenario della tua realtà... Aspetto un tuo sorriso, un abbraccio sincero. E che arrivi la tanto attesa LUCE.

OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI:
SANDRA ACERESI


Sandra Aceresi: "Il mio è un percorso pittorico discontinuo Parte dalla scuola di grafica. Per poi dopo tanti anni riprendere nel 1982 fino al 1990 Poi un corso di acquerello E ora dopo tanti anni ancora ho smesso di nuovo! La discontinuità dipende dal mio stato d'animo non sempre ottimale. Spesso non sto bene con me stessa e mi passa la voglia di fare tutto. Ho fatto Una mostra dall'associazione 'Noi donne insieme' e ho venduto 5 opere. Ciò mi ha fatto molto piacere. Non ho altro da aggiungere".




I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Sandra Aceresi