PLINIO NOMELLINI: “Sole e brina” (1896, olio)
Piergiorgio Fanti
U
n dipinto dai colori squisiti, di rarissima armonia cromatica, un’opera
assai ben equilibrata, di grande intensità e delicatezza. Questo quadro
è opera di uno dei più alti ingegni che la pittura italiana ebbe tra
l’800 e il ’900, Plinio Nomellini, nato a Livorno il 6 agosto 1866.
Avviato all’arte dal Betti nella sua città natale, Plinio frequentò in
seguito l’accademia fiorentina, dove ebbe per maestro Giovanni Fattori;
i suoi primi lavori furono ispirati al realismo macchiaiolo, ma fin
dal1886 si distinse con caratteristiche personali di espressione
cromatico-luministica, accentuate nel 1988, dopo la conoscenza del
post-impressionismo. Plinio espose Il fienaiolo alla promotrice
fiorentina del 1889, meritando le lodi di Diego Martelli; ben presto si
dimostrò interessato a un percorso altro da quello di “macchia”,
dedicandosi a un più diffuso luminismo. Infatti, in una lettera del ’91
il Fattori, che pure lo aveva in grandissima stima, gli rimproverava di
aver tradito i suoi insegnamenti per seguire la strada del
post-impressionismo, naturale sbocco nell’adesione al divisionismo.
Adottata la tecnica puntinista, in seguito il Nomellini fu disponibile
al decadentismo preraffaelita e al simbolismo. Del 1893 è La Diana del
lavoro ispirata alla vita operaia, dove il socialismo trova
l’occasione, cosa non frequente, di diventare pittura sincera. Dagli
ultimi anni dell’800 a circa il 1920 il Nomellini si dedicò a un modo
di dipingere rutilante ed infuocato. L’ultimo periodo di attività lo
portò a darsi a soggetti epici e celebrativi (dannunziani e
garibaldini). Plinio Nomellini ebbe anche il merito di aver influenzato
positivamente, tra gli altri, Pellizza da Volpedo. Si spense a Firenze,
l’8 agosto del 1943.
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EDITORIALE
Fabio Tolomelli
La luce è un’onda elettromagnetica che
interagisce con la materia ed è fondamentale per la vita, basti pensare
alla fotosintesi clorofilliana con cui le piante grazie alla luce
trasformano l’anidride carbonica in ossigeno e zucchero, e come ben
sappiamo senza ossigeno e zucchero non è possibile la vita per nessun
organismo vivente. La luce è importante anche per la salute: esistono
diverse malattie come il rachitismo in cui la mancanza di luce solare
può causare patologie anche serie.
La luce viene percepita dall’uomo e dalla maggior parte degli animali
attraverso gli occhi, esistono però anche animali che non hanno il
senso della vista, ma ‘vedono’ in modo alternativo, come ad esempio i
pipistrelli, che possono volare liberamente anche al buio captando gli
ultrasuoni. Tra gli umani, alcuni non hanno la fortuna di vedere il
mondo come la maggior parte delle persone, ma non per questo non
possono vivere una vita piena e ricca di emozioni; i non vedenti
infatti hanno un limite sensoriale, ma possono usufruire in modo più
intenso di altri sensi, come il tatto, l’olfatto e l’udito. Le luci e
ombre sono molto studiate, sviluppate e amplificate nelle arti
pittoriche e scultoree: gli artisti ci giocano per orientare la nostra
attenzione, suggestionandoci fino a procurarci forti emozioni.
Per dire quanto è importante la luce soffermiamoci su alcuni termini.
La parola ‘luce’ viene usata per definire il momento più importante per
la vita dell’uomo: la nascita. Così diciamo: “È venuto alla luce un
bambino”. Col termine ‘luminoso’ si tende a descrivere una persona
allegra, aperta e cordiale, mentre col termine ‘cupo’ il suo contrario.
Infine il termine ‘luminare’ viene usato per indicare una persona
dotata di grandissima conoscenza, esperienza e saggezza in uno o più
campi dello scibile umano.
Nella mia vita la luce è un elemento molto importante, in particolare
per quanto riguarda il tono dell’umore: generalmente sono più attivo e
di buon umore durante le lunghe giornate primaverili ed estive rispetto
alle fredde e cupe giornate autunnali e invernali. Sinceramente non so
spiegare il motivo di questo fenomeno, forse è legato alla possibilità
di spaziare, andare oltre ai confini del proprio sé: probabilmente il
buio mi costringe all’introversione, al dialogo interiore e alla
malinconia, per non dire alla depressione, mentre la luce è un elemento
diversivo, che mi distrae dai più ombrosi pensieri per portare la mente
a spaziare sul reale. Quando mi trovo in cima alle montagne in giornate
di sole e posso spalancare lo sguardo a 360 gradi, provo una felicità
immensa: è tutto impressionante, bello e meraviglioso, quasi infinito e
senza limiti. Anche quando mi trovo a fantasticare o sognare, nel sonno
o a occhi aperti, come per scrivere un racconto, generalmente mi
concentro su ambienti, cose o persone in qualche modo ‘lucenti’. E
quando mi sono trovato a descrivere situazioni buie, comunque
descrivevo quanto poco riuscivo a vedere in quel momento.
Per questo vi invito a utilizzare Il Faro,
la cui luce è sempre accesa, per vedere immagini e colori e leggere
esperienze sempre nuove e originali che chiariscono e arricchiscono la
nostra vita.
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LA LUCE E LA SUA STORIA ETIMOLOGICA NEI TEMPI
Silvia Fortunato
S
eguire
la luce, è una traccia, una ricerca di sé. Vivere una vita fatta di
luce è utopia? Provo a spiegare l’etimologia della parola e la sua
storica evoluzione nei tempi. Il nome della luce in greco antico, φῶς (fòs), fa riferimento alla radice del verbo φαίνω
(fàino)‘mostrare’, ‘rendere manifesto’. Per i Greci antichi la luce
porta l’intelletto umano verso la verità, così come un faro guida dei
marinai dispersi in cerca di salvezza. Nel corso dei secoli la luce è
sempre stata simbolo di dimensioni superiori, trascendenti, come
simbolo di ciò a cui la ragione umana tende. Pitagora riteneva che
l’occhio si comportasse come un faro dell’anima, che emanasse cioè
luce, per esplorare l’ambiente circostante e consentirne la conoscenza.
Gli atomisti, il cui esponente più significativo era Democrito,
ritenevano invece che la luce si muovesse dall’oggetto verso l’occhio,
provocando così la visione. Nel Medioevo la luce ha rappresentato il
divino, nell’Illuminismo ha raggiunto l’apice, diventando metafora
della ragione, che permette all’uomo di uscire, come afferma Kant, da
uno “stato di minorità di cui lui stesso è colpevole”, rappresentato
dall’oscurantismo della Controriforma, inteso come incapacità umana di
servirsi autonomamente del proprio intelletto. Perché dunque la luce ha
in realtà un significato così profondo? Solo quando la luce è assente e
il buio prende il suo posto, l’uomo ne riconosce l’importanza e la
magia. La luce è ciò che permette all’uomo di fare esperienza della
realtà, traducendo la sua bellezza ai nostri occhi e permettendoci di
vivere senza limitarci alla sopravvivenza ma apprezzandone la
maestosità. Senza luce, il mondo sarebbe solo un insieme di confuse
masse incolori, poiché è grazie ad essa se possono essere percepiti i
colori, ingredienti che rendono la realtà un quadro e trasformano
banali forme in arte. Dal suo chiarore nascono i colori e dai colori
nasce la bellezza, caratteristica primaria della realtà, che l’uomo può
percepire solo grazie al bagliore, alla pura energia della luce. La
luce è dunque il fulcro, il quinto elemento che dà origine ai primi
quattro, perché attraversando i nostri occhi e raggiungendo il nostro
intelletto ci permette di prendere coscienza di acqua, aria, terra e
fuoco, che senza luce non esisterebbero alla vista. E allora chiudo,
con una citazione di Platone: “Possiamo perdonare a un bambino quando
ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha
paura della luce”.
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FORESTE E RADURE
Antonio Marco Serra
Mentre era in viaggio verso Damasco.
all’improvviso l’avvolse una luce dal cielo
e cadendo a terra udì una voce che gli
diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”
Atti degli Apostoli, IX, 3-4
Primo interrogativo: la luce c’è
sempre stata? Sia secondo la Bibbia che secondo la teoria del big-bang
la risposta è negativa. Secondo la prima, dopo aver creato il cielo e
la terra, il Padreterno ci ha pensato un po’ su, e si è accorto che
c’era qualcosa che non andava. Perché non riusciva a vedere nulla. “Ah,
adesso ho capito – esclamò - fiat lux!”… E la luce fu, e Dio vide che quella luce era buona e separò la luce dalle tenebre…
Per la seconda, invece, c’è voluto un po’ più di tempo, circa 380.000
anni, perché i fotoni (le particelle che costituiscono i raggi di luce)
riuscissero a farsi strada tra le altre particelle, smettendo di
rimbalzare come palline da ping-pong impazzite, le une contro le altre,
e a cominciare un tragitto, che per alcune di esse non si è ancora
concluso. Per me un’ipotesi vale l’altra, e ritengo che entrambe
abbiano più o meno le stesse probabilità dell’ipotesi che la luce sia
stata generata da uno dei forti starnuti di mio zio Venanzio, che
notoriamente sono molto potenti; ma lasciamo perdere: basta che la luce
ci sia, e siamo contenti tutti.
Facciamo un salto avanti (secondo gli scienziati) di qualche miliardo
di anni. Quasi 3400 anni fa, un sovrano ebbe un’idea balzana, quella di
modificare la religione ancestrale del proprio popolo, che era rimasta
più o meno immutata da almeno un millennio e mezzo. Il faraone egizio
Akhenaton (il famoso marito dell’ancor più famosa Nefertiti) decise di
portare alla gloria degli altari il dio Aton, personificazione
dell’astro solare e, in una sorta di mistica della luce ante litteram, iniziò a farsi ritrarre illuminato dai raggi della luce divina.
In realtà, non conosciamo gli esatti dettagli della rivoluzione
religiosa di Akhenaton: per alcuni storici egli intendeva sostituire tout-court
il politeismo col monoteismo, per altri invece Aton sarebbe dovuto
divenire solo il principale degli dèi. È probabile che ci fosse sotto
anche il tentativo politico di togliere potere alla potentissima casta
sacerdotale del dio rivale Amon. Comunque siano andate le cose, il
tentativo ebbe vita breve. A pochi anni dalla morte di Akhenaton e
Nefertiti la religione dei padri fu restaurata e, questa è la vulgata, fu decretata la damnatio memoriae
del faraone ‘eretico’, e ogni sua immagine e ogni iscrizione recante il
suo nome fu distrutta. Chissà poi se gli storici ce la raccontano
giusta: gli antichi Egizi erano persone che sapevano il fatto loro, e
se avessero realmente voluto cancellare la memoria di Akhenaton, oggi
neanche saremmo a conoscenza della sua esistenza. E invece ci restano
ancor oggi decine di sue immagini, statue e bassorilievi, molte più di
tanti altri faraoni. Alcune, tra l’altro, molto tenere, e del tutto
inusuali per l’iconografia del tempo, in cui Akhenaton e Nefertiti
tengono i propri figli in braccio e sulle proprie ginocchia,
coccolandoli e sbaciucchiandoli, sempre debitamente illuminati dai
raggi della luce solare.
A
me pare più probabile che i restauratori abbiano voluto cancellare
giusto quel tanto da lasciare un chiaro monito ai posteri, tipo:
“questo faraone è stato cattivello, non provatevi a seguire il suo
esempio”. E infatti, in Egitto, non ci sono stati ulteriori tentativi
in questo senso. Beh, poi è arrivato il Cristianesimo, ma questa è
un’altra storia. Morale della favola: non sempre rivolgersi
all’adorazione della luce risulta un’idea vincente. Se mi consentite la
freddura: questo è un modo di vedere le cose… sotto un’altra luce.
Lucus a non lucendo, vale a dire: “[la parola] bosco [deriva] da
[ciò che] non è illuminato”. Per questa sua proposta etimologica, il
povero Varrone (Marcus Terentius Varro, 116 - 27 a.C.), che l’aveva
proposta nel suo trattato De lingua latina, è stato
sbeffeggiato, tanto che la frase citata è divenuta proverbiale col
significato di ‘ragionamento sconclusionato’ o di ‘ipotesi senza alcun
fondamento’. E oggi, forse a dimostrarci quanto le supposte luci della
ragione siano ondivaghe e intermittenti, i linguisti sostengono che,
no, probabilmente Varrone aveva ragione: lucus (bosco) deriverebbe effettivamente da lux (luce), se pure nel senso opposto a quello proposto da Varrone: Lucus a lucendo,
e si riferirebbe alla luce che improvvisamente colpisce gli occhi di
chi, provenendo dall’oscurità del bosco, giunge a un tratto in una
piccola radura aperta.
Quelle
radure dove i primitivi latini si recavano per compiere i propri
sacrifici, erigendovi degli altari, ritenendole presumibilmente sede di
qualche antica divinità, oramai dimenticata. E proprio ‘radura’, è uno
dei termini cardine del pensiero del filosofo Martin Heidegger, il
termine tedesco, Lichtung,
secondo l’interpretazione di Heidegger, deriva sia dal termine ‘luce’
che dal termine ‘diradamento’, ed è dunque etimologicamente parente
stretto del lucus latino appena visto. Lungi da me il desiderio
di addentrarmi negli oscuri meandri, del pensiero del filosofo tedesco,
in cui solo lui, forse, si muoveva con disinvoltura, ma mi intriga
questo concetto che alla mia mente richiama luoghi (dello spazio o
della mente) dove gli occhi che vedevano male, a causa dell’eccessiva
oscurità, ora vedono male per l’eccesso di luce. Un bagliore di luce
può rischiarare, ma il suo eccesso abbaglia; quando prendiamo una
cantonata, non diciamo forse: “Ho preso un abbaglio”?
Nella pressoché sterminata selva dei significati metaforici che alla
luce sono stati attribuiti nella nostra cultura occidentale, forse due
filoni, in qualche modo contrapposti, sono quelli preminenti. Da un
lato la luce come simbolo del contatto con la divinità, con ciò che è
assolutamente altro da noi ma su cui si fonda l’intera esistenza del
credente, e senza il quale la sua vita sarebbe priva di senso. Dal lato
opposto, invece, la luce come metafora della ragione, che illumina le
tenebre dell’ignoranza. Scrive Carlo Monaco, nel suo bell’articolo
nell’inserto di questo Faro:
“la rivelazione divina [..] sarebbe assolutamente inconsistente, se non
ci fosse il rapporto dell’uomo con il divino come fonte vera di ogni
illuminazione”… Anche se poi, come scriveva nel IX secolo Giovanni
Scoto Eriugena, nemmeno in Paradiso i beati potranno contemplare il
volto divino, perché saranno abbacinati dalla sua luce. E forza, Scoto,
dai, un po’ di ottimismo, ogni tanto! Preferisco allora la dottrina
della scintilla dell’anima (il bagliore che rivela l’impronta divina in
ogni uomo) di uno dei maggiori teologi medievali, Meister Eckhart,
attraverso cui il maestro sostiene la partecipazione dell’uomo
all’essere divino.
Quanto alla seconda interpretazione, i più convinti, e forse un po’
presuntuosi, assertori dell’analogia luce – ragione, giunsero a
definire il proprio secolo, il Settecento, le siècle des lumières
(il secolo delle luci), da cui il termine italiano ‘illuminismo’. Come
scriveva uno dei più celebrati illuministi, Denis Diderot: “Se rinuncio
alla ragione, non ho più una guida. [...] Perso in un’enorme foresta di
notte, ho solo una piccola luce che mi guida.
E ancora la foresta! Francamente, da una specie i cui progenitori
abitavano sugli alberi, questo continuo denigrare le foreste un po’ mi
sconcerta. “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva
selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”. Embè,
che sarà mai, Dante! Arrampicati su un albero e vedrai che la strada di
casa la ritrovi! Ma chissà, forse si tratta di un odio-amore, forse
aveva ragione quello psicoterapeuta (ora non ricordo più chi fosse) che
sosteneva che le nostre nevrosi non traessero origine da accadimenti
avvenuti nella nostra infanzia, ma da fatti accaduti molti milioni di
anni prima, quando qualche nostro progenitore, che oggi non
distingueremmo da un comunissimo scimmione, come conseguenza della
deforestazione avvenuta nel miocene a causa di cambiamenti climatici,
fu costretto a scendere dagli alberi e avviarsi nella savana (o era una
radura, forse una Lichtung,
ora non ricordo più). Ma ciò che non mi convince, in tutte queste
metafore sulla luce, è la loro struttura manichea: o hai ricevuto
l’illuminazione, o sei escluso dal novero dei giusti; o hai posto su un
piedestallo la ragione raziocinante, o sei un insulso babbeo.
Mettiamo pure che la foresta sia il Caos, l’oscurità, e la radura
l’Ordine, la luce. Ma non ci sarebbe illuminazione, sia in senso
fisico, sia in senso spirituale, se non ci fosse l’oscurità. Se non ci
fosse il buio della foresta fitta, non ci sarebbe il bagliore della
radura, che l’interrompe. Mi vengono in mente le parole del poeta
cantautore Leonard Cohen (oggi sono in vena di citazioni): “C’è una
crepa in ogni cosa e da lì entra la luce”. Penso che se noi abbiamo
tanta paura del caos, dell’oscurità, è perché abbiamo sentore
dell’oscurità che domina nel nostro profondo. Peccato che sia profondo
proprio perché è oscuro, e che non vi sia autentica profondità se non
dove regna l’oscurità. Come ho già scritto su queste pagine in altre
occasioni: non c’è nulla che ci deve spaventare in quell’oscurità, che
anche (o soprattutto) ci costituisce, e dobbiamo imparare a colloquiare
amichevolmente con essa. La nostra luce e la nostra oscurità non si
contrappongono, a meno che noi consentiamo loro di farlo: la nostra
luce fluttua nella nostra oscurità, come una piuma. E infine,
soprattutto, se abbiamo accettato il nostro sorgere, come la luce
all’alba, dobbiamo allora anche accettare di tramontare, sereni, come
la luce che sfuma dietro all’orizzonte. Come scriveva Marco Aurelio, e
ora davvero concludo: “Che cosa c’è di terribile se da questa Città ti
scaccia non un tiranno né un giudice ingiusto, ma la Natura che ti ci
aveva introdotto? […] Colui che fu causa della formazione e adesso è
causa della dissoluzione, definisce il termine ultimo. Tu non sei causa
di nessuno dei due. Va’, dunque, sereno, poiché colui che ti congeda è
sereno”.
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DIO DISSE
PB 57
Dio disse: “Sia luce”. E la luce fu.
Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e
chiamò la luce giorno e le tenebre notte... Tobia gli si buttò al collo
e pianse dicendo: “Ti vedo figlio, luce dei miei occhi”... Diede alla
luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una
mangiatoia... Egli non era la luce ma doveva render testimonianza alla
luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo... I
primi scritti, che io ricordi, in cui scoprii la parola ‘luce’ erano i
testi della sacra Bibbia. Da piccola andavo al catechismo e spesso nel
libretto che mi avevano dato da leggere c’erano disegni di persone
divine: angeli, santi, Gesù bambino, avvolti o meglio investiti da luce
immensa. Il gioco della luce sulle pagine o nei disegni, mi aveva già
sedotta, quando, essendo nata con una malformazione congenita, dal
letto di ospedale, mia madre mi leggeva fantastici libri di fiabe. Per
me quelle letture, in quel luogo pieno di sofferenza e bui di paura,
erano veramente sassolini di perle luminose. Poi ci sono sempre stati i
presepi di ogni Natale e anche da mamma ho amato tanto questa
rappresentazione: lì era pieno di luci: stelline, cometa e ogni 25
dicembre si cantava: “Astro del ciel, pargol divin, mite agnello
redentor: tu che i vati da lungi sognar, tu che angeliche voci
annunziar... luce dona alle menti, pace infondi nei cuor”...
Nascere, venire al mondo: è una dimostrazione assoluta di grande
magnifica LUCE. Ho avuto la fortuna nella mia vita di sciogliermi in
questo evento gioioso che spazza via tutto, il dolore e le sofferenze,
passati, presenti e ti fa immaginare il futuro pieno di bene di sorrisi
e speranze... Ma come dice il proverbio: non è oro tutto quello che
luccica. È un attimo, uno scatto imprevisto... perdere la mitica luce.
Un matrimonio fallito, la perdita di un lavoro che ti piace, una
devastante malattia, prima del padre poi di una madre favolosa,
l’allontanamento di un figlio, poi la depressione... Sono stati gli
interruttori per un blackout totale. La depressione è seducente: ti
spaventa e ti attira, tentandoti con la sua promessa di dolce oblio e
poi travolgendoti con un potere quasi sessuale, strisciando al di là
delle tue difese, dissolvendo la tua volontà, invadendo la tua anima
stanca in modo così completo che diventa difficile ricordare di aver
mai vissuto senza di essa. Con scaltrezza satanica, la depressione ti
persuade che la sua invasione non è che una tua idea, che l’hai sempre
voluta. Annebbia la parte del cervello preposta al ragionamento, che
distingue tra il bene ed il male. Ti cattura con i suoi piaceri
avvolgenti, colpevoli, destabilizzanti e la cosa peggiore è che diventa
familiare. D’un tratto ti ritrovi schiavo di ciò che ti terrorizza.
Chissà quanto tempo ancora separa me dalla luce delle origini… Forse
nell’eternità ritroverò i suoi sentieri.
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LUCE
Anna Maria Pareschi
E
luce fu… per dare vita ad ogni essere vivente. La
luce che primeggia – a parte il sole – è quella che scaturisce dal
cuore. Ogni innamorato ha occhi brillanti come piccoli soli splendenti
di luce propria, testimoni della loro felicità. Gli innamorati riescono
ad azzerare ogni eventuale difficoltà, grazie alla forza insita in loro
e nel loro amore. Essi sono avvinti da anelli di luce abbagliante che
nessuno può infrangere! Un angelo veglia sempre sul loro amore, come
protezione potente.
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SOLE
Anna Maria Pareschi
I
l
Sole è di uno splendore assoluto. Sabbia e Mare… Poca luce, perché è
mattino molto presto. Poi… Un tuffo al cuore! Rosso tenue e rosa… si
estendono per quasi tutto l’orizzonte… È l’Aurora. Una specie di
miracolo... Poi sparisce pian piano… per cedere il posto all’Alba… Io
vedo una piccola porzione di Sole che nasce all’orizzonte,
rispecchiando il suo rosso vivo sul mare… È talmente emozionante che mi
scendono le lacrime di gioia…e il cuore si arresta! Io ringrazio per
questo dono che mi è dato… E… “m’illumino d’immenso”.
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APPUNTI SPARSI DI LUCE
Patrizia Degli Esposti
La giornata è luminosa, il sole la fa
da padrone e il riflesso è così forte che è necessario mettere gli
occhiali. Eppure la luce esterna è in netto contrasto con il buio
interiore. Sarebbe molto meglio se piovesse, se il cielo fosse scuro di
nuvole, allora sì che l'umore sarebbe intonato alla giornata. Quante
persone vivono nel buio nonostante splenda il sole. Il buio nell'anima,
che opacizza tutto, che toglie l'energia e la voglia di fare, di dire,
di socializzare. Credo che ognuno di noi abbia vissuto periodi in cui
la luce era spenta. Osservo gli anziani, ospiti in una struttura,
alcuni dei quali hanno espressioni statiche, quasi annoiate, senza
un'ombra di sorriso o di smorfia. Dov’è la luce per loro? E gli
ammalati, quelli cui il dolore fisico ha ucciso la speranza? Uno
spiraglio di luce, pur piccolo, può illuminare un angolo, formare una
linea orizzontale e distendersi, allargarsi, riempire un'intera parete,
inondare l'intera stanza. La luce non fa rumore è silenziosa come un
abbraccio che scalda e consola.
Da piccola avevo il terrore del buio, mi rannicchiavo sotto le lenzuola
e le coperte, temendo chissà quale aggressione se solo avessi avuto un
millimetro del mio corpo scoperto, ma se c'era un poco di luce, quella
che entrava dalla tapparella non completamente abbassata, allora mi
addormentavo tranquilla e serena, senza il rischio di soffocare sotto
le coperte...
La gioia illumina il viso di chi la prova. I bambini che giocano nei
cortili, che si rincorrono, che possono gridare e ridere emanano una
luce colma di energia. La luce vibra intorno a noi, possiamo negarla,
respingerla, ma se riusciamo a fermarci un attimo ed osservare il mondo
che ci circonda possiamo sentire il pulsare della luce che si irradia
dai corpi, dalle piante, dai fiori. La luce delle stagioni può colmare
la vista e illuminare la nostra consapevolezza: il penetrante bianco
della neve e del ghiaccio in inverno; il morbido giallo e marrone delle
foglie in autunno; l'allegro e vibrante verde della vegetazione in
primavera; il caldo e rassicurante rosso dei pomodori maturi in estate.
Anche i non vedenti hanno la loro luce, che scorre con il tatto, con
l'odorato, con l'empatia. Potente è l’immagine di un faro che illumina
la notte con il suo lungo raggio, allontanando il buio con movimenti
gentili, come una danza circolare, perché tutti possano sentirsi
protetti oltre l’oscurità.
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LA LUCE ATTRAVERSO GLI OCCHI
Lucia Monaco
La parola ‘luce’, la interpreto in
tanti modi, prima di tutto in senso proprio: luce è quella che vediamo
quando ci svegliamo al mattino, apriamo le finestre e alziamo gli occhi
al cielo, che ci trasmette molta luce interiore. Anche se la nottata è
stata tribolata, la luce che ci dona Dio ogni dì ci riempie l’anima, e
anche se la giornata è piena di affanni e amarezze, se volgi gli occhi
al cielo, risplende l’interiore. E se passi un momento di gioia, che ce
l’hai fatta in tutto, nel percorso della giornata… Che luce! Io alzo
gli occhi al cielo e dico “Sia lodato Gesù Cristo!”.
Io la luce la vedo negli occhi di una mamma quando sorride a fianco di
suo figlio, in un bambino che sa benissimo di aver fatto la marachella
e con gli occhietti e il sorriso pieno di luce non vuole essere
sgridato.
E luce è anche negli occhi di quelle persone che hanno appena smesso di
piangere, e per non far emergere il vittimismo e non essere commiserati
dei loro patimenti, sollevano le palpebre e sdrammatizzano con un
sorriso, anche se il dramma c’è e persiste.
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BUIO E LUCE
Concetta
Da piccola avevo paura del buio:
quelle volte che capitava di dover andare a fare pipì, per non
svegliare gli altri andavo in giro sempre con dei moccoli di candela, o
con degli zolfanelli, insomma con tutto ciò che il mio animo innocente
sentiva di dover portare con sé per combattere le tenebre. Sentivo in
me, che una piccola luce mi avrebbe fatto compagnia e aiutato a
sconfiggere la paura dell'ignoto, del nulla che ‘vedevo’ e percepivo
nell'oscurità. Direbbe Foscolo, a tal proposito, che il buio è davvero
pieno di suggestioni, lui che si rivolgeva alla sera dicendo: “Inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni" …
"Brutta Cagasotto che non sei altro!"… Così venivo apostrofata dai miei
fratelli maggiori, le due volte a settimana che dovevano accompagnarmi,
tenendomi per mano, alle prove serali del coro che si tenevano nella
Parrocchia della Madonna delle Grazie di Rosciolo. Ero terrorizzata
dall'oscurità, o se vogliamo da quella ‘libertà’, rappresentata dal
buio, libertà di pensiero e di immaginazione, che da sempre sono state
presenti in me, specie in età formativa. Col passar degli anni la fobia
è naturalmente via via scemata, eccezion fatta per quelle circostanze
in cui aver paura è necessario, addirittura ti salva la vita. Per me,
come per ogni bambino/adolescente, riuscire a superare la paura del
buio ha costituito un grosso impegno, sforzo e fatica quotidiana. In
questa fase di elaborazione mi capitava in maniera ondivaga, a seconda
delle esperienze che mi trovavo a vivere, di ripiombare nel timore,
salvo poi riaffiorare nella luce – sicurezza - tranquillità.
Questo tema in virtù della professione che svolgo, mi porta a
considerare che purtroppo c’è una discreta percentuale di persone che,
a causa della depressione, sono in un mondo in cui la luce non c'è più.
Le loro vite vengono avvolte dalla tenebra e, con essa, anche la
leggerezza diventa arida pesantezza.
In alcuni casi si possono iniziare a vedere dei lievi miglioramenti, a
seconda dell’entità della malattia, ma soprattutto a seconda degli
strumenti e degli operatori coinvolti. La speranza, benché sempre a
rischio di essere risucchiata dall'angoscia, torna a fare capolino.
Questa speranza contiene in sé un sacco di cose: anche il futuro: se
infatti la speranza c’è, e vive dentro di noi, è possibile comunicarla,
trasmetterla anche agli altri.
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DAL BUIO ALLA LUCE
PB 57
PERCHÉ?
Oggi 10.6.2020 ho l’angoscia che
dentro al mio cuore, alla mia testa, arriva con onde regolari ed
intense come una risacca di mare. Sono di malumore, triste,
amareggiata, contrariata, senza amore. Piena di solitudini che per
troppo tempo mi svuotano l’anima, mi lasciano stordita da una vita
quasi senza scopo. L’isolamento sociale di questi tempi mi avrà
preservata dal covid19 ma mi ha trascinata indietro nei giorni in cui,
ricoverata presso una casa di cura per malattie psichiatriche, smaltivo
con tanta fatica spirituale la mia ‘depressione’. Nera senza colore,
seducente, serenamente apatica, questa mia malattia è ridiventata, pian
piano, di nuovo amica e compagna dei giorni di questi ultimi mesi.
Terribile... ti schiaccia l’umore, la volontà, i pensieri positivi e ti
rosicchia tutto quello che hai costruito con tanta pazienza per te
stessa, tutti gli sforzi dell’‘io’ di emergere dal mare in burrasca
dell’esistenza. E il mio cervello, senza parola, si ripete
all’infinito... perché… perché... perché...
Perché il cancro di Luca, perché questo divorzio conflittuale
torturatore, ancora irrisolto, perché questa pandemia: portatrice di
morte, di ansia corrosiva e soprattutto di distanziamento dai miei
fratelli di Papa Giovanni XXIII e dalle mie amate figlie. Percepisco un
malessere fisico generale, difficilissimo da combattere. Certo se la
mente non è in sintonia col corpo come si può creare armonia! La
negatività è riemersa a macchia di petrolio sulla superficie del
cuore... Come si sta male! Vorresti solo ripiegati in posizione fetale
ed essere avvolta in una carezza amorevole o da un abbraccio immenso
quasi divino. Voglio solo che ogni giorno finisca in fretta sperando
che luce di aurora mi illumini di miglior empatia per me stessa.
FINALMENTE!
Dopo tanti giorni di solitudine e
abbandono all’apatia, finalmente sono a casa. Casa mia... E come dice
Benedetta Rossi mi sto godendo la mia campagna. Il verde mi inonda gli
occhi, dopo tanti giorni di riflessi calcarei di una Bologna centro in
lockdown, con un mare di foglie di fiori di tanti piccoli ciuffi
d’erba. Dopo tanta clausura da persona investita dal malefico Covid,
questo spettacolo semplice ma perfetto mi infonde una pace spirituale
profonda e lascio che il mio sguardo sfiori le chiome degli olmi, i
rami protesi del glicine, le frasche delle viti di uva ancora acerba,
ma ricche di pampini ondeggianti nel caldo di luglio. “Coraggio! - dico
a me stessa - forse siamo prossimi alla normalità!”. E con questo
pensiero ricerco gli spazi verdeggianti dove da bambina correvo coi
nonni a scoprire i segreti della natura, quando nascondevo sotto zolle
di terra sconnessa piccoli bicchierini di foglie di amarene, o dentro
ai tronchi secchi di piante recise animaletti di fango, per ingraziarmi
i favori delle fate farfalle dei campi. Guardo, guardo tutto questo
verde tutto diverso ma intenso e profumato: il tiglio, l’oleandro, il
rosmarino, la salvia e la menta. Solo chi ama ed è cresciuto in
campagna può capire l’abbraccio interiore che si riceve camminando per
carreggiate o sentieri di trifogli alla ricerca di margherite
selvatiche, ranuncoli gialli, edere e fiordalisi e calendule. Voglio
scrivere e condividere questo mio ritorno alle origini contadine perché
sono felice dopo parecchio tempo di tristezze, sconforto e deserti,
deserti nel cuore.
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TU HAI VISTO LA LUCE!!! SÌ! TU HAI VISTO LA LUCE!!!
Cesare Riitano
U
rlando, sbraitando passionali e coinvolgenti note a ritmo di gospel, il
pastore battista James Brown, sta rivelando all’ignaro occasionale
avventore della sua chiesa, John Belushi, che proprio lui, bluesman
peccatore dedito al malaffare, ha avuto il privilegio di essere stato
‘toccato’ dalla Luce di Dio. Ebbene… Un piccolo, insignificante,
modesto e convenzionale scrittore di periferia, che fu nomato Cesare
dalla sua ‘santa’ madre, sì, anche lui, ‘sente’, avverte, che è stato
divinamente folgorato dalla Luce della Verità e della Giustizia.
Posizionata questa pietra angolare del colosso architettonico della sua
vita, incisa sulla sua ampia fronte questa imprescindibile ‘mosaica’
legge, determinata dal celeste fulmine che l’ha trafitto, egli
dichiara, proferisce, sentenzia con voce ieratica e devota, la sua
assoluta, convinta, irremovibile conversione! “Dove sei stato fino ad
ora - riflette di sé Cesare con lo sguardo fisso nel vuoto - cosa hai
cercato, costruito, realizzato in questi cinquant’anni della tua
inutile vita… Ti hanno visto, sì, ubriaco scalare la statua
dell’evangelista Giovanni a Persiceto; ti hanno notato, è vero, correre
nudo e defecare su un campo di bietole a Zenerigolo; sei stato
segnalato, è certo, per aver suonato con gran destrezza l’armonica
davanti a un cinema porno, ma ora… no! Tu non cadrai mai più
nell’abisso del peccato, mai più sarai tentato dalle lusinghe del
demonio, mai e poi mai ripercorrerai la buia strada della perdizione!
Tu sei cambiato. Ecco perché, a piedi nudi, incoronato di spine e
vestito di sacco, t’incamminerai, solitario e flagellato dal cilicio,
lungo la strada impervia che ti porterà al salvifico Golgota della tua
esistenza. Arrivato all’ambita meta, chiederai perdono a vittime e
carnefici, subirai di buon grado il supplizio della frusta e poi… e poi
ti ‘eleverai’… fondendoti indissolubilmente con la lucente e
misericordiosa anima del Divino”… “Cesare!”, una voce lo chiama… “Chi
è? Chi è che mi ha parlato?”, risponde Cesare, turbato e scosso dalla
profonda tonalità di quella paterna voce. “Sei pronto a seguire il tuo
Signore lungo le più alte vette della Verità, della Giustizia e della
Conoscenza?”, domanda tonante l’Altissimo, facendo fremere il suo umile
servitore. “Signore - replica Cesare con voce tremante - Dio
onnipotente e misericordioso… Io non son degno di partecipare alla Tua
mensa, ma dì soltanto una parola, donami un segno della tua regale
magnificenza, e questo tuo piccolo, compiaciuto prigioniero della tua
beltà, ti seguirà fino alla fine dei suoi giorni”… “Ebbene sia, mio
piccolo grande uomo - proferisce l’Altissimo - sappi che il fuoco dello
Spirito Santo ha purificato la tua anima di peccatore; sappi che la tua
mente, il tuo corpo e il tuo cuore, ora mi appartengono. Tu sarai il
mio più fedele luogotenente, ma che dico, il mio più audace e
vittorioso generale, quell’ardito alfiere che cambierà le sorti
dell’umanità”… “Signore - risponde Cesare in ginocchio e a mani giunte
- questo tuo umile servo è pronto a bere l’amaro calice del sacrificio
e delle privazioni: ordinami senza tentennamenti di solcare mari, di
scalare impervie e innevate montagne, di attraversare aridi deserti
martellati dal sole, lo farò! Senza proferir parola, senza batter
ciglio, senza mai dubitare! Eseguirò ogni tuo ordine! Per far sì che il
mio Signore Iddio, sia perennemente osannato e regni sovrano in ogni
dove, per tutti i secoli dei secoli. Dimmi cosa devo fare!”… “Vai a
oriente!”, è il perentorio ordine dell’Altissimo; “D… dove mio
Signore?”, replica balbettando il suo suddito; “A oriente ti dico!”,
ribadisce con forza il Creatore; “Ma… a fare che?”, domanda Cesare,
colpevolmente titubante.
“Segui le orme dell’Apostolo delle Indie - comanda il Dio al suo
discepolo - percorri la sua strada, parla la sua lingua, condividi il
suo pensiero. Quando giungerai nella patria dei Ching, una stella ti
guiderà nella terra di Lu; qui rincorrerai la traccia vibrante
dell’anima di K’ung-fu-tzu: chiedi lumi sulla sua mirabile vita, sii
interessato al religioso zelo della sua buona e giusta filosofia;
predica Cristo, non citare la Trinità o la Resurrezione, evidenzia
invece le manifeste similitudini tra questi due grandi uomini… Parla di
amore, correttezza, lealtà, impegno sociale, difesa degli ultimi, ergi
sì la Croce, ma non impugnare mai la spada. Fatto ciò, t’incamminerai
deciso verso le alte montagne dove “dimorano le nevi”; non temere! La
fame e il freddo non saranno i tuoi nemici; guardati invece dal
Maligno: egli è audace, subdolo, tentatore, pronto a coglierti in
fallo; non ascoltare la sua voce! Non cedere alle sue lusinghe! Non
toccarlo! Scappa dalle sue grinfie! Fuggi dalla sua oscura bellezza!
Cammina a piè veloce verso la Luce del tuo Unico Dio senza girarti
indietro, mai!”… “Sì, mio Signore, sarà fatto - risponde arrendevole
Cesare, completamente rapito dal magnetico ascendente del suo
meraviglioso Nume - ma istruiscimi ancora, parlami con parole che
scaldano il cuore, dimmi qual è il destino di questo umile servitore
della tua vigna”… “Giungerai nelle terre dove si venera il Buddha -
annuncia l’Altissimo - qui, non parlare con alcuno, ma guarda… guarda
il bagliore di pace e serenità che avvolge gli illuminati figli del
Principe indiano; recati poi in un tempio, brucia incensi, offri denaro
e cibo ai piedi dell’Idolo; non pregare! Ma registra tutto, annota,
fotografa ogni segno della presenza della Luce del Bene, dopodiché…
sali sulle ‘Ali dell’Aquila’ e ritorna nella tua terra natia.
Quando finalmente rimetterai piede nella tua cara pianura, concepita
dal Grande Fiume… agisci! Con la tua potente parola, resa luminosa
dallo Spirito Santo, annuncerai la fine dei tempi; il popolo corrotto,
traditore del Figlio dell’Uomo, crederà di udire le sette trombe e,
cadendo in ginocchio terrorizzato da cotanta incommensurabile potenza,
ti eleggerà pastore delle loro anime. Predicherai, sì, ma un nuovo
credo, una nuova fede, sì certo, generata da quell’inevitabile
sincretismo, che unisce la saggezza del Buddha e di Confucio, con
l’incommensurabile Amore di un Nuovo Cristo, necessariamente privato
della sua matrice divina. Cesare! Ora sai qual è il tuo destino!
Addio!”… “Dio Onnipotente! - grida il ‘Prescelto’, in lacrime, piegato
dal dolore - ti prego, non abbandonarmi! Saziami ancora con la tua
lucente manna! Non lasciarmi solo in preda delle grinfie del demonio!”…
Ma la Luce abbagliante che lo aveva stregato con la sua superlativa
bellezza, si allontana sempre più, fino a diventare un puntino, fino ad
eclissarsi definitivamente.
Un momento… ma che succede?! Una paurosa ombra olivastra si erge
davanti ai suoi occhi; essa appare, al paralizzato servo di Dio, come
un abnorme mostro con grandi spalle taurine e uno spaventoso volto
barbuto dai tratti lupini. “Cesare! Cesare!”, grida rauco il tenebroso
fantasma… “Chi è!... Chi è che mi ha parlato? - è l’angosciata risposta
a quel cavernoso richiamo - Non ti avvicinare, lurido demonio! Non mi
toccare! Ritorna tra i vapori sulfurei di Geenna! Vade retro Satana!
Aiuto!”, sbraita Cesare in preda al terrore. “Ma quale demonio! Ma
quale San Gennà! Sono Rocco, l’infermiere do’ manicomio!”, si rivela
ridendo l’operatore psichiatrico; “Rocco?!... d... dove siamo?
Nell’oscurità dell’inferno?”, domanda Cesare frastornato; “Nessun
Inferno, Cecè, sei nella sala video dell’ospedale psichiatrico di San
Giovanni! Il DVD dei Blues Brothers è finito! Dormivi al buio e hai fatto un brutto sogno; dai, forza, è l’ora della terapia e poi a letto! Jammo ja’!
, conclude sbrigativamente Rocco. Dopo aver ingurgitato la quotidiana
bomba farmacologica, lo scalcagnato Messia sognatore, si dirige, mesto
e traballante, verso la sua asettica cella manicomiale; ma un pensiero
gli frulla ancora per la testa: “E se quella voce tonante che mi
ordinava di cambiare il mondo fosse realmente esistita? Potrebbe
tornare, è possibile, perché no! Devo solo aspettare e la sentirò
nuovamente! Ne sono certo!”… “Cesare!”, una voce lo chiama… “Chi è!...
Chi è che mi ha parlato?”, urla Cesare, elettrizzato e speranzoso di
risentire il suo Dio… “Sono sempre io, Rocco! - risponde scocciato il
nerboruto infermiere, buttando nello sconforto quello che fu l’Unto del
Signore - Ti volevo dire che spengo la luce! E… bonanotte!”.
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LUCE, LUCA E LUX
Luca Gioacchino De Sandoli
L
uce. Cos’è la luce? Luce è il contrario di buio. Così è chiamata quella
cosa che illumina il nostro pianeta e che arriva dal Sole. Una cosa che
è sia ondulatoria, come dice Newton, che corpuscolare, come dice
Huygens. Una cosa che pur viaggiando a 300.000 chilometri al secondo,
anzi proprio per questo, impiega ben otto minuti ad arrivare qui sulla
Terra. E ha anche dato il nome alla canzone con la quale Elisa ha vinto
il Festival di Sanremo nel 2001, Luce (Tramonti a nord est) .
Persino l’ex attrice porno Selen, di cui non ho mai visto un film, in
realtà si chiama Luce di nome. Luce Caponegro. Lo so perché l’ho
sentito una volta in televisione e poi l’ho ritrovato su Wikipedia. È
una cosa che so grazie a una mia reminiscenza, non per aver visto un
porno, anzi i porno mi ripugnano. Sapere chi è un’attrice non vuol dire
necessariamente avere visto un suo film. Luce non è un nome di
battesimo molto comune, però esiste, e deriva dalla sua traduzione in
latino che è lux. Si ritiene che sempre da lux vengano
nomi più comuni come Lucio e le sue versioni alterate Luca e Luciano. I
Romani chiamavano con questi nomi i loro figli se costoro nascevano in
un giorno luminoso. Era un prenome, usato poi come gentilizio. Un altro
significato è: “Nato nelle prime ore del giorno”. Non è esattamente il
caso mio.
Io sono un settimino venuto al mondo con un cesareo e due mesi di
anticipo alle 12:05 dell’11 febbraio 1987, in una Bologna dai tetti
sepolti sotto la neve e probabilmente sotto un cielo bianchissimo,
senza sole, come quelli tipicamente invernali. Cinque minuti dopo
mezzogiorno. Di febbraio. Non sono nato di notte, ma neanche in una
giornata inondata dal sole come sicuramente fa intendere il significato
di lux
e di Luca. Non so se la gente ritiene luminose quelle giornate
d’inverno col cielo bianco e senza sole. Io no di sicuro, per me una
giornata veramente luminosa è una giornata con un cielo terso e
azzurro, limpido e con un bel sole. Non mi importa se sono giornate
calde o fredde, per me le giornate luminose sono quelle con il sole. E
quando sono nato io il sole non c’era, o al limite era nascosto.
Secondo altri il nome ‘Luca’ deriverebbe dal greco, e il significato
sarebbe “proveniente dalla Lucania”. E qui mi riconosco un po’ di più:
mi sento bolognese, ma ho sangue pugliese nelle vene, anche un po’
lucano pur non venendo dalla Basilicata, detta anche Lucania. Le mie
origini sono foggiane, però il mio nonno materno aveva le sue origini a
Ripa Candida, che sta appunto in Basilicata. Mio padre come la sua
famiglia era pugliese al 100%, e per un certo periodo ha preso in giro
mia madre dicendo che era lucana e facendomelo pure credere vero. Non
lo è: mia madre è anche lei pugliese, ma ho comunque sangue in parte
lucano nelle vene. Più pugliese che lucano, comunque. Quindi tutti
coloro che si chiamano Luca, Lucio, Lucia, Luciano e Luciana portano un
nome che vuol dire luminoso. Anche se c’è qualche persona che
si chiama con uno di questi nomi e non è luminosa di carattere, ma
tenebrosa, chiusa, timida, misteriosa. E pure io certe volte sono
timido e chiuso.
Secondo un foglio che abbiamo in casa e che sta attaccato sullo
specchio del comò, Luca è il nome di persone non illuminate, ma che
emanano luce “serena, armoniosa, costante, fedele. Luca è un messaggero
di pace, di bontà, di meraviglia, di amicizia, calore, compassione. È
sulla terra per annunciare a tutti che la vita è una cosa meravigliosa
e che bisogna viverla con coraggio ed energia”.
Io non sono esattamente così, anzi penso che non tutti i Luca siano
dotati di queste caratteristiche. Da una parte sarebbe bello perché
porterebbero tanto bene agli altri, anzi porterebbero idealmente una
grande luce nell’animo della gente, dall’altra sono contento che non
tutti i Luca siano così, perché un mondo in cui sono tutti uguali non è
desiderabile. Non mi specchio fedelmente neanche in altri tratti del
carattere di chi si chiama Luca tracciato da quel foglio. Per esempio
il colore. Arancio, dice il foglio. Colore che indica forza vitale e
successo in amore. A me piace il blu, prima mi piaceva il rosso. So di
certo di avere una bella forza d’animo, ma sono sempre stato poco
fortunato in amore, perché per evitare di fare figuracce o di sembrare
invasivo non ci ho mai provato con le ragazze che mi piacevano. Sono
riuscito a farle diventare mie amiche, e a me va bene anche così. Se un
giorno dovessi riuscire a fidanzarmi con una ragazza, ben venga.
L’acacia è il vegetale dei Luca, dice il foglio. L’acacia rappresenta
l’amore platonico e l’amicizia. C’è chi pensa che ne ho tanti, di
numero, chi pensa che ne abbia pochi ma buoni, io dico che hanno
ragione entrambi perché sono convinto di avere degli amici. E l’amore
platonico per una donna famosa è un sentimento che mi soddisfa. Ma
l’acacia non mi piace da impazzire, anzi non mi piacciono le piante in
generale. L’animale dei Luca è il cavallo, che rappresenta libertà e
potere personale. Io ho cavalcato un cavallo solo una volta a undici
anni, e poi a me piacciono di più i gatti. Non me la sento di andare su
un cavallo. E se cado da cavallo e rimango paralizzato come è successo
a Christopher Reeve?
La pietra è il berillo. Badate bene, è berillo, non berillio. Indica
capacità di sopportare il dolore. E io da sempre sopporto stoicamente i
mal di pancia e anche altre ferite simili. Almeno il berillo lo sento
mio. Ci sono pure altri elementi. Il segno zodiacale è Gemelli, e
questa è una fesseria: ci sono tantissimi Luca al mondo, e non tutti
sono dei Gemelli, io sono dell’Acquario. Il giorno è il martedì (io
sono nato che era un mercoledì, e mi piace di più il sabato). I numeri
sono il 5, il 13 e il 35 (io ho sempre preferito il 6, al massimo il
7). Com’è successo che mi hanno chiamato Luca, se quel giorno non era
proprio luminoso? Perché quello era un nome che andava molto di moda
nel 1987, molti bambini nati quell’anno sono stati chiamati così.
Inoltre, sull’omonimo colle di Bologna sorge la basilica di S. Luca. È
stato poi aggiunto il nome di mio nonno Gioacchino. Si è formato così
il nome Luca Gioacchino. Ma io sono abituato a sentirmi chiamare Luca,
e mi fa anche piacere.
Secondo il Manuale delle Giovanni Marmotte
Luca, Lucia e Luciano sono nomi che stanno a indicare lavoratori
accaniti e intelligenti. Per essere intelligente io sono intelligente,
mia madre si chiama anche lei Lucia, ed è un’accanita lavoratrice, sia
come operaia che come madre. Ma esistono, o è plausibile che esistano,
persone con questi nomi che sono pigre e meno intelligenti di altre.
L’abito non fa il monaco, e il nome non fa la persona. Se posso esserci
io che sono un Luca nato che era nevicato molto da pochi giorni e il
sole non c’era nel cielo, possono esserci pure delle Lucia indolenti e
dei Luca ottusi. I nomi servono per distinguersi dagli altri, e non è
certo il nome o il giorno di nascita a delineare a prescindere una
persona, lo fa molto di più il carattere e il comportamento. E ci sono
dei personaggi ‘luminosi’ che si sono distinti musicalmente e non per
l’aspetto fisico: Luca Carboni, Luciano Pavarotti, Lucio Dalla.
Che
peccato che Lucio sia morto d’infarto improvviso in Svizzera e non
nella sua Bologna, lontano dalla sua Piazza Grande. Però posso andare a
trovarlo quando voglio alla Certosa, prima in un loculo provvisorio,
poi vicino alla tomba di Giosuè Carducci. E per me abitare vicino a un
cimitero dove sono sepolti personaggi importanti come loro è una bella
fortuna. Anche se alla gente piace molto di più andare in via D’Azeglio
a leggere i versi di L’anno che verrà, visitare la piazza su cui si affacciava la sua casa, sedersi sulla panchina dove c’è la sua statua.
Dicevo che Luce è la traduzione italiana di lux ed è un nome poco comune. Però esiste, così come esiste un film drammatico che si chiama Il giardino delle vergini suicide,
il primo di Sofia Coppola come regista, la cui protagonista è una
ragazza che si chiama proprio Lux. Lux Lisbon, per l’esattezza. Non
credo che sia un caso se Jeffrey Eugenides, l’autore del romanzo da cui
è tratto il film, l’abbia chiamata Lux. Infatti, lei si distingue dalle
sorelle Cecilia, Bonnie, Mary e Therese perché è la più luminosa, la
più vitale, la più maliziosa, la più ribelle, la più audace, la più
intraprendente. Lux di nome e pure di fatto, dunque, come tutti i Luca
e Lucio del mondo, il cui nome in latino è proprio LUX, che significa luce.
Magari è anche nata in un giorno molto più luminoso del mio. Nessuna
delle cinque ragazze parla molto, a parlare sono i loro visi, i loro
gesti, i loro vicini di quartiere: gli adulti sanno che hanno dei
genitori severi che le controllano e soffocano il loro desiderio di
un’adolescenza normale e serena senza però intervenire, i giovani
cercano di avere a che fare con le cinque sorelle o le sognano e
immaginano felici e sorridenti, solari e illuminate dal sole. Fantasie
che si concentrano soprattutto su Lux, senza però disdegnare le altre.
Il quartiere dove abitano le sorelle Lisbon e i loro genitori è sempre
assolato. Però ci sono due brutti mali in circolazione: uno è un morbo
che infetta gli alberi come in questi giorni fa il coronavirus coi
paesi del mondo, l’altro è l’aumento del numero di adolescenti che si
suicidano. E quest’ultimo male coinvolge pure la casa dei Lisbon.
Cecilia è la prima ad andarsene. Prima tenta di tagliarsi i polsi, poi
si butta dalla finestra, in occasione di una festa organizzata dai
genitori, durante la quale le figlie fanno conoscenza coi ragazzi del
vicinato. Prima della morte di Cecilia, le ragazze simulavano
un’adolescenza normale e felice, guardando i passanti o prendendo il
sole. Ma dopo, con le scuole che riaprono, ecco che le quattro sorelle
hanno un aspetto diverso.
La
luce, la vitalità che brilla nei loro occhi comincia a spegnersi. Anche
quella di Lux. Ma mentre le altre sorelle provano rassegnazione,
indifferenza verso gli altri e verso la vita, Lux cerca di godersi
questa vita finché può, saltando le lezioni e vedendosi con dei
giovanotti. Finché uno di loro, Trip Fontaine, si innamora sinceramente
di lei e a sua volta la fa innamorare di sé. Quest’amore è segno di
nuova vita per Lux. La sua luce torna a risplendere come prima, il
bacio appassionato che dà a Trip dopo che è stato a casa sua a guardare
la TV ne è la prova. Trip ottiene dal padre anche il permesso di
portarla al ballo della scuola. Purché lui trovi altri tre bei
giovanotti per le sorelle e tutte e quattro tornino a casa prima di
mezzanotte. Quest’ultima condizione viene soddisfatta e le ragazze,
soprattutto Lux, esultano di gioia alla prospettiva di andare al ballo,
essendo qualcosa che non hanno mai vissuto prima. Sono ben felici di
poter vivere qualcosa di nuovo, magico, diverso. Ballano, ridono,
stanno bene coi loro cavalieri. E quindi sono raggianti, luminose. Il
ballo della scuola è il loro primo e unico vero momento di gioia. Trip
e Lux vengono anche nominati re e reginetta del ballo. Ma poi Lux va
contro il diktat dei genitori, andando a fare l’amore sul campo da
football con Trip, che il mattino dopo la lascia da sola mentre dorme!
Le sorelle capiscono che Lux ha violato il coprifuoco imposto dai
genitori e si rassegnano a ciò che le aspetta. La gioia provata e la
luce emanata dai loro sorrisi durante la festa si spegne. Lo stesso
vale per Lux che il mattino dopo si risveglia e si ritrova da sola,
torna a casa in taxi con la corona di reginetta in mano, ma senza più
il sorriso sulle labbra sapendo che sarà accolta duramente. Come le
sorelle verrà ritirata dalla scuola e chiusa dentro casa, ma a
differenza di loro verrà persino obbligata a bruciare i suoi amati
dischi rock. Come se fossero quelli la causa di tutto! Il padre non
parlerà con nessuno di queste azioni drastiche, la madre penserà di
fare bene a essere così dura con le figlie, ma queste ultime diventano
tristi, sole, chiuse in una campana di vetro. La loro luce si va
affievolendo sempre più, la felicità che provavano o simulavano prima
della sera del ballo non c’è più. I loro accompagnatori del ballo non
le richiameranno più. E nemmeno loro riescono a chiamare aiuto, non
sanno a chi chiederlo. Tanto che per evadere dalla loro prigione, con
la mente ordinano riviste di viaggi e immaginano di andare all’estero
guardando le fotografie. Lux, addirittura, la notte se ne sta a fumare
e far sesso con dei ragazzi sul tetto di casa. Finché i ragazzi del
vicinato le chiamano al telefono facendo loro ascoltare dischi pop e
rock. Ma questo filo diretto viene tagliato. Un altro tentativo sono le
comunicazioni in alfabeto Morse fatte con la luce delle lampade. E
anche questo contatto viene tagliato. E come i contatti con l’esterno
le ragazze si affievoliscono, come la luce di una torcia le cui pile si
stanno scaricando. Un giorno le sorelle Lisbon si preparano a fare
l’atto estremo, ma anche quello più logico: fuggire dalla loro
casa-prigione. I ragazzi lo vengono a sapere, hanno un’auto pronta con
cui scappare via insieme alle ragazze. Lux li accoglie in casa.
Sorride, ha una sigaretta in mano. Nella scena seguente si vedono i
ragazzi e le sorelle viaggiare lungo una strada sorridenti, con Lux
radiosa che sporge le braccia fuori dal finestrino. Ma è solo un sogno,
l’ultimo sogno. Entrati in casa, guardandosi intorno, i ragazzi
scoprono che le ragazze hanno compiuto loro il gesto estremo per
fuggire: si sono suicidate. Una fuga rapida, fatta dall’interno della
casa, non andando all’esterno. Le sorelle Lisbon si sono spente del
tutto. Se Cecilia è stata la prima ad andarsene, l’ultima a spegnersi è
proprio Lux, che si soffoca con i gas di scarico dell’auto. Verrà
trovata nell’abitacolo della macchina con la sua sigaretta tra le dita.
I genitori non capiranno mai di essere stati loro la causa del suicidio
delle figlie, e la madre dirà di aver sempre dato loro il
calore di una casa. E infatti la luce regnava in casa Lisbon con la
bellezza delle ragazze. Ma non nella loro ‘famiglia’, perché una vera
famiglia Lisbon non è mai esistita, e le ragazze volevano una vera vita
e l’amore di una famiglia, un amore che i genitori non hanno saputo
dare loro. Tra famiglia e casa c’è una bella differenza. C’è più luce
in una famiglia senzatetto, ma unita, che in una famiglia benestante ma
priva di sentimenti. I ragazzi non sono riusciti ad avvicinare davvero
le sorelle Lisbon, però conserveranno sempre le loro cose e capiranno
che quelle ragazze, tenute sotto controllo dai genitori, sognavano
molto, desideravano fare un po’ di casino tra di loro e con gli altri,
e avevano capito l’amore e la morte. L’amore lo desideravano, la morte
la contemplavano. Negli anni seguenti i ragazzi conosceranno altre
ragazze, ma ammireranno per sempre il giardino della casa appartenuta
ai Lisbon. La casa verrà comprata da un’altra coppia, ma per i ragazzi
quel giardino sarà sempre il giardino delle vergini suicide. Vergini,
perché non hanno mai perso la loro castità, tranne Lux che per amore e
per sfogo si è concessa a Trip e ad altri giovanotti. E suicide, perché
ormai soffocate non potevano più fuggire se non in questo modo. Quei
ragazzi staranno sempre lì a guardare la casa, a chiamare le ragazze
pur sapendo che mai risponderanno e mai usciranno “dalle loro stanze,
dove sono entrate per stare sole per sempre e dove non troveremo mai i
pezzi per rimetterle insieme”.
Ammetto di essermi dilungato un po’ troppo nel raccontare il film, però
mi è piaciuto davvero molto quando l’ho visto, ecco perché ne ho
parlato tanto. Guardatelo anche voi, e vi accorgerete della luce che
splende e si spegne nelle ragazze che sono protagoniste e in Lux
soprattutto.
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PORTISCH-FISCHER (SANTA MONICA 1966)
a cura di Matteo Bosinelli
Ignorando un sacrificio di pedone del
bianco alla nona mossa, Fischer getta le basi per una trappola
posizionale (11... Dd7), in cui Portisch cade (14. D x a8). Di solito
le due torri sono un buon compenso per la donna... Ottimo, più che
buono, quando il campo d'azione (e quindi la potenza) delle torri
risulta formidabile. Ma il giudizio di Portisch è sbagliato: egli non
considera la debolezza dei propri pedoni. Questo è uno dei pochi casi
in cui la donna può predominare... e lo fa. Resta comunque il problema:
come ha fatto il nero a rompere lincantesimo? Giungere in un finale
vinto in quindici mosse contro uno specialista di questa apertura,
quale era il bianco, non è un’impresa certo facile! (Larry Evans)
PORTISCH–FISCHER (Santa Monica, 1966)
1) d4 Cf6
2) c4 e6
3) Cc3 Ab4
4) e3 b6
5) Ce2 Aa6
6) Cg3 A x c3+
non ... d5 a causa di Da4+
7) b x c3 d5
8) Df3 0-0
9) e4 d x e4
10) C x e4 C x e4
11) D x e4 Dd7
mossa che prepara Cb8 , Cc6, Ca5 premendo sul punto debole 'c4'
12) Ae3 Te8
13) Ad3 f5
forse migliore per il bianco sarebbe stato13) 0-0-0, che però dà luogo a grosse complicazioni
14) D x a8 Cc6
D x a8 è perdente: si basa su un calcolo errato, che sottovaluta l'impedonatura c3/c4
15) D x e8 D x e8
16) 0-0 Ca5
17) Tae1 A x c4
18) A x c4 C x c4
se 18) A x f5 il nero vince con Da4
19) Ac1 c5
20) d x c5 b x c5
21) Af4 h6
preparando l'avanzata dei pedoni sul lato di re, che il bianco non può impedire
22) Te2 g5
23) Ae5 Dd8
24) Tfe1 Rf7
25) h3 f4
26) Rh2 a6
27) Te4 Dd5
e la donna nera spadroneggia: la superiorità del nero, in forza della moltitudine di minacce di cui dispone, è evidente
28) h4 Ce3
guadagnando la qualità
29) T1xe3 f x e3
30) T x e3 D x a2
31) Tf3+ Re8
32) Ag7 Dc4
33) h x g5 h x g5
34) Tf8+ Rd7
35) Ta8 Rc6
la presenza del pedone nero in a6 si rivela decisivo per la vittoria
il bianco abbandona : O – 1
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UNA LUCE OFFUSCATA
Cesare Riitano
G
entile Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede,
il mio nome è Tonino Guastavillani; mi ritengo e sono considerato un
autentico povero di spirito, che possiede, come unica speranza, la fede
nel Regno dei Cieli. Prego molto; trovo inoltre nella lettura del
Vangelo, un’irrinunciabile fonte di coraggio e fiducia per il domani,
visto che il passato è da dimenticare e il presente appare, oltre che
incerto, povero e buio. Le parole e le opere di Cristo sono, per la mia
devota e ingenua sensibilità, commuoventi e appaganti; provo inoltre
immensa felicità quando, leggendo ad alta voce il Discorso della
Montagna, colgo la predilezione del Salvatore per gli umili, i
diseredati, gli ultimi. “Ma allora è proprio vero - penso a volte tra
me e me - il povero è il vero aristocratico del Cristianesimo! Amando
Cristo posso, non solo sperare nel paradisiaco aldilà, ma ambire,
facendo miei valori come pace amore e fratellanza, a una vita dignitosa
e felice anche sulla Terra!”. Ho disturbato Sua Eminenza, non per
piaggeria o vanagloria, ma per esporle un fatto di una rilevante
gravità, sciagura, che potrebbe adombrare la meravigliosa Luce
attraverso la quale, il Creatore, scalda da sempre il cuore degli
uomini. Ho letto che un padre gesuita, Teilhard de Chardin, sosteneva
che l’Uomo si fonderà con Cristo laggiù, nel punto Omega: è un’immagine
bellissima e commovente che mi piace sempre ricordare. La strada che ci
unirà indissolubilmente al Salvatore però, è costellata di evidenti e
insidiosi ostacoli; essi, oltre a rallentare ahimè la nostra salvifica
marcia verso l’appagante bagliore della salvezza, stanno attentando la
vitale stabilità del pilastro portante di Santa Madre Chiesa. Il più
clamoroso e mortale intralcio sulla via del Signore, penso che si
annidi subdolamente proprio tra le sacre pagine del Vangelo. Quando ho
letto il decimo capitolo del sinottico Matteo, non volevo credere ai
miei occhi. Gesù, istruendo i suoi Apostoli, pronti ad “andare in mezzo
ai lupi” per diffondere la lieta novella, usa una metafora a dir poco
sconcertante: “Siate prudenti come serpenti e semplici come colombe”. È
mai possibile? È realistico pensare che il Cristo educhi i suoi
discepoli alla vile doppiezza? Mi rifiuto di credere che un Dio possa
divulgare un anti valore! Ma purtroppo questo tremendo passo del sacro
libro ebbe occasione di turbare fortemente la mia povera anima di
semplice servitore della vigna del Signore, in quanto fu utilizzato per
umiliarmi, proprio da un ‘uomo di chiesa’, uno che porta sandali alla
francescana e il Tau al collo, il quale, dopo avermi gabbato
atrocemente, mi pronunciò alle spalle quella frase santa (siate astuti
come… eccetera); lui fu fiero della sua dottrina e del suo disprezzo,
sentendosi legittimato dalle parole di Cristo.
Sua Eminenza carissima, avrei potuto parlare di preti buoni, che
credono nel perdono e parlano con parole che ti fanno piangere (…puoi
aver fatto di tutto, le porte di Cristo sono sempre aperte…), ma ho
scelto di affrontare l’aspetto del Cristianesimo che mi ha ferito di
più. Spero possa perdonare questo mio disperato azzardo, ma esso è
giustificato dalla vitale necessità di poter alimentare quella
consolatoria speranza, che vede nel Cristo Redentore un modello di
giustizia, correttezza e lealtà; ecco perché, Io, Tonino Guastavillani,
legittimamente oso pretendere che la Luce benevola del Signore
Onnipotente, non sia mai offuscata da una fallace interpretazione delle
sacre scritture, ma possa invece limpidamente splendere in eterno, fino
alla fine delle sofferenze e delle quotidiane tribolazioni
dell’umanità. Confidando nella Sua proverbiale indole saggia e
misericordiosa, rimango in attesa di una Sua consolatoria risposta.
Cordiali saluti
Tonino Guastavillani
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PERCORSO EVOLUTIVO DELLA LUCE
Gabriele Greco
S
in da quando ero bambino la luce mi ha sempre affascinato. Ancora oggi
prima di coricarmi mi riservo del tempo per ammirare l’Universo e
riflettere sulle sue meraviglie. Sovente mi capita anche di fare un
sogno a tema: essere nello spazio e saltellare, come un primate, da una
stella a un’altra, da un pianeta a un altro, da un corpo celeste a un
altro. Penso e ripenso a come tutto sia iniziato e si sia evoluto a
partire dal Big Bang fino a i nostri giorni, dal Caos all’ordine
naturale delle cose.
Ho in grandissima considerazione tutti quegli scienziati che studiando
hanno reso più confortevole la vita, basti pensare alla luce
artificiale, che permette di produrre e lavorare anche di notte,
partendo dalle lampade a olio, passando per le candele, siamo arrivati
ai nostri lampioni a led. Sono stati superati diversi ostacoli, grazie
all’illuminazione. Per esempio, si è ottenuta l’agevolazione dei
decolli e degli atterraggi e la vivibilità degli aeroporti stessi,
sempre più confortevoli, tanto che in questi contesti le persone
possono riposare, in angusti spazi, in attesa del proprio volo. È
sempre più incrementata la produzione di energia rinnovabile non
inquinante, necessaria oggi più che mai, a causa dell’altissimo tasso
di inquinamento atmosferico. Vorrei soffermare la mia attenzione sulla
creazione dell’ISS (International Space Station) che si serve di
appositi pannelli solari, atti alla produzione di energia pulita.
L’uomo è riuscito così a produrre maggiori beni, per rispondere alle
necessità della popolazione mondiale, in continua crescita. Non
dimentichiamo tuttavia la grande forbice economica esistente fra i
Paesi estremamente poveri e quelli molto ricchi.
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L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI LUCIA
Lucia
A
mo il mio nome,
lo trovo bellissimo, pieno di luce e di armonia, e sono grata ai miei
genitori, che lo hanno pensato per me. Nome e cognome, Lucia Luminasi,
giocosamente allitterati, si rispondono a tema e il loro suono è
musica: liquide, nasali, sibilanti, si intrecciano a vocali in
chiaroscuro e lo iato, in fine di parola, si apre in un sorriso… Non è
un caso che un nome così bello abbia colpito persino poeti come
Quasimodo e Ungaretti, che quand’ero una bimbetta ho avuto la fortuna
di incontrare di persona.
Il primo nomignolo, scontato ma non troppo: “Lucetta, la mia piccola
luce”, fu coniato alla mia nascita dalla nonna materna. L’anno dopo una
scritta in ferro battuto, illustrata come un rebus dal sovrastante
grazioso lampioncino, impose questo nome alla casetta costruita in
pineta per me. Lo scelsi poi come pseudonimo, quando da adolescente,
seguendo la tradizione di famiglia, mi incamminai sul sentiero di Edipo
e pubblicai le prime crittografie mnemoniche sulla rivista Penombra...
Un’enigmista non poteva non cercare l’anagramma del suo nome e,
sorpresa! Ci ho trovato dentro due cose che amo sommamente, i gatti e
la luna… lalunasuimici, che per un po' è stato anche il mio
indirizzo, accompagnato da una chiocciola @, simbolo di casa semovente,
e da un richiamo alla libertà e alla patria libero.it...
Molti hanno affettuosamente giocato col mio nome, per coccolarmi o per
farmi i complimenti, alludendo a una mia presunta luminosità. Ricordo
la canzoncina di mio zio Pierino: “Il luccichìo non vuol bene allo zuo, povero zuo,
come farà!”... Mi chiamava anche ‘Lusengola’, nomignolo che mi faceva
pensare a un animale mitologico, fra l’usignolo e la lucertola… Più
tardi ho scoperto, grazie al Devoto-Oli, l’esistenza della
‘luscengola’, alias ‘luscignola’ o ‘cecilia’, un rettile molto
primitivo, dagli arti rudimentali e quasi cieco. Sempre al dizionario
devo un’altra scoperta: ‘lucìa’, con la minuscola, è il nome popolare
della coccinella, grazioso coleottero portafortuna, ma anche
dell’orbettino, serpentello di poca vista. Questo ricorrere di richiami
alla cecità, mi porta direttamente alla mia santa protettrice, Lucia,
che, come dicono in bolognese, “l’è sora i ucc”, cioè protegge
gli occhi, avendone subito l’asportazione nel corso del martirio.
Quando scherzando dissi al mio caro fratone che non ero stata protetta
granché, vista la mia ingravescente miopia, quel furbone mi rispose per
le rime: “Se poi non ci fosse stata santa Lucia…”. Fra i giochi di
parole ricordo con tenerezza che il mio caro professore poeta, Gaetano
Arcangeli, vedendomi comparire presso il suo letto d’ospedale,
sussurrò: “Ho avuto un’alluciazione!”.
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ELUCUBRANDO SUL TEMA DELLA LUCE
Cesare Riitano
C
ara Concy, ti invio il pezzo per il prossimo numero de Il Faro, sul tema: La Luce. Leggendo
il brano, ti accorgerai che parla sì di Luce, Sessualità, Solitudine e
Speranza (tematiche vicine alla psicologia di chi soffre), ma affronta,
forse, un argomento ancora più importante: il fascino e la bellezza
delle donne del Faro. Spero ti piaccia. Saluti.
“Luce, in tutte le sue accezioni”… è una parola! Cosa mai posso scrivere… Proviamo con questa:
”Io
e Concy eravamo soli nel romantico giardino del Roncati; i nostri corpi
si sfioravano, il complice vento arzillo della primavera bolognese ci
spingeva l’uno contro l’altra; sentivo d’amare quei suoi capelli
raccolti, quella sua seducente magrezza, quella Luce dei suoi occhi che
gridava: Baciami! ”…
No. Questo non lo posso scrivere; non perché non sia vero, ma per il
semplice fatto che la Concy ha dei fratelli, abruzzesi per giunta, e se
per caso il pezzo dovesse passare la censura di Lucia, potrei essere
gambizzato a colpi di lupara.
A proposito… Lucia, deriva da Luce! Potrebbe essere un’idea! Proviamo con questa:
“La
rosea Luce della sala CUFO esaltava il pallore del suo viso; Lucia era
di fronte alla mia eccitata figura di homo “Erectus”; si sciolse i
capelli e poi si sfilò l’impermeabile, evidenziando il suo aderente
completino in latex nero. Con il suo frustino d’ordinanza accarezzava
le mie vibranti membra senza veli: “Le tue spalle fanno ombra alla Luce
di Dio…”, mi sussurrò da crudele e sadica dominatrice. “Ahi!”, fu il
mio primo compiaciuto gemito dovuto alla sua spietata sferza; guardai i
suoi occhi: brillavano di una folle Luce, che rivelava la sua
coinvolgente anima perversa…”.
Ma cosa sto scrivendo! Se Lucia dovesse leggere questo testo, anche se
veritiero, altro che frustino! Mi darebbe un bel calcio nel sedere! Non
si può fare, non è opportuno.
A pensarci bene però, un grazioso e luminoso appiglio per un gran
finale, so dove trovarlo: Sarah.
“Poetessa
gentile e delicata: ti immagino disegnata con tratti aristocratici,
profumata di gelsomino e adornata di foulard bleu. Sei generosa,
tenera, malinconica. Nei tuoi versi traspare, sì, il dolore della tua
solitudine, ma emerge anche la prepotente e magnetica Luce della
speranza; sì, Luce, che col suo straordinario bagliore ha stregato
questo rozzo omone ... prigioniero da troppo tempo di una costretta
oscurità”.
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TUTTI A CASA, TUTTI A CASA
Maria Angela Soavi
N
on è il ritornello di una canzone, ma un decreto stabilito dalla
maggior parte delle autorità governative mondiali e imposto alla
popolazione, un forzato isolamento consigliato dall’Organizzazione
Sanitaria Mondiale, per impedire il contagio e combattere più
facilmente i drammatici effetti della grande pandemia causata da questo
virus sconosciuto ed aggressivo che ha colpito il mondo intero, il
coronavirus! Una guerra mondiale combattuta senza armi, ma che ha
ucciso migliaia di persone di ogni età, soprattutto anziani, che in
Italia sono un numero elevato e che appartengono alla categoria più
fragile, perché spesso affetti da gravi patologie che impediscono la
guarigione. Un dato che mi ha colpito è stato come questa difficile
condizione abbia acceso la solidarietà italiana e straniera. Macchinari
e materiale sanitario sono stati donati in grande quantità da aziende
italiane ed estere. Nel nostro paese, alpini, esercito, protezione
civile e forze dell’ordine hanno collaborato per soddisfare i bisogni
dell’intera nazione. La Caritas, le associazioni, i cittadini volontari
hanno curato l’assistenza agli anziani impossibilitati ad uscire e
hanno provveduto al fabbisogno giornaliero di generi alimentari di
persone senza tetto o in difficoltà economiche. Grazie a tutti loro, ma
soprattutto a quelli che in questa calamità giorno e notte lavorano per
la nostra salute. Volontari del 118, medici, italiani e di diverse
nazionalità, infermieri e operatori sanitari, come soldati in prima
linea tutti in lotta per la nostra sopravvivenza, sono stati accanto a
chi ha affrontato la malattia e ancor di più a quelli che tristemente
hanno perso la vita, Un comportamento meritevole di essere altamente
riconosciuto e ricompensato! Una testimonianza che ha toccato il cuore
di molti in Italia e nel mondo, che ci aiuta ad apprezzare maggiormente
i valori morali, ma soprattutto il valore della vita, un dono che
abbiamo ricevuto gratuitamente, che dobbiamo conservare nel migliore
dei modi. Solo il timore di perderla a volte ci induce a considerarne
maggiormente la grandezza!
L’osservanza al divieto di uscire, pur essendo restrittiva, mi ha fatto
comprendere come anche io come singolo individuo possa essere di aiuto
a una comunità che in questa circostanza non comprende solo i vicini di
casa ma si estende a tutto il territorio nazionale, a migliaia di
persone sconosciute che hanno il diritto di vivere. Quello che mi è
stato richiesto è un sacrificio che preso singolarmente ha poco valore,
ma sommato ad altri può salvare tante vite umane. L’emergenza
coronavirus ha dimostrato che proprio la collaborazione di ogni singolo
cittadino nell’osservare i divieti ha permesso al sistema sanitario
italiano di arginare la pandemia e contrastare la malattia. Cala la
possibilità di contagio, si registrano ancora decessi, ma grazie anche
a nuove terapie come ad esempio quella al plasma, aumentano
notevolmente le guarigioni che hanno concesso all’Italia di uscire
parzialmente da questa terribile situazione. Il giorno 4 maggio è una
data che rimarrà nella storia italiana per aver determinato il termine
dell’isolamento comune, che ci ha donato il piacere di ritornare alla
nostra quotidianità anche se ancora non godiamo di una completa
libertà.
È stato come una luce in fondo al buio della tristezza e del dolore che
durante questi mesi ci hanno accompagnato e che ha acceso la speranza
di ritornare a vivere, seppure con limitazioni e attenzioni, perché la
lotta contro il virus non è ancora vinta.
Il percorso da intraprendere per lasciarci alle spalle questa anomalia
non è ancora terminato, possiamo solo confidare nella ricerca
scientifica che avanza compiendo grandi progressi e attendere che in un
futuro poco lontano sia disponibile un vaccino, l’unico rimedio certo
contro il virus. Nell’attesa dobbiamo continuare ad attenerci a misure
di salvaguardia della nostra salute, come l’igiene delle mani e degli
ambienti dove abitiamo, l’obbligo di indossare mascherine, il rispetto
del distanziamento sociale o forse rinunciare a gite o a vacanze, ma
sono certa che ogni restrizione contribuisca al nostro benessere, anche
se difficile da accettare, che sapremo affrontare queste difficoltà con
coraggio e ne usciremo più forti, e consapevoli che insieme si
combattono le grandi battaglie.
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L’OMBRA DI DIO
Alessandro Merciaro
L
a luce: un tema
affascinante, suggestivo e misterioso, che si presta a varie
interpretazioni o speculazioni. Può essere trattato dal punto di vista
scientifico, quello forse più affine alla mia forma mentis.
Così mi viene spontaneo fare riferimento ad Albert Einstein. Egli dice
che la luce viaggia a velocità costante nel vuoto e indipendentemente
dall’energia... Tuttavia, subito dopo questo richiamo, il mio spirito
di credente si fa strada… Non posso evitare di pensare che le prime
parole del Creatore nella Bibbia sono: “Sia la luce!” “Dio è Luce e in
Lui non ci sono tenebre” (Giovanni; 1,5). E di nuovo tutto ciò mi
rimanda ad Einstein: questo autentico genio, in un trattato di fisica
scrisse: “La luce… ombra di Dio”.
Una volta Einstein stava conversando con il suo amico Gustavo Adolfo
Rol. A un certo punto lo scienziato alzò una mano e la frappose tra la
lampada e il tavolo, dicendo: “Vedi? Quando la materia si manifesta
proietta un’ombra scura, perché è materia. Dio è puro spirito e dunque
quando si materializza non può manifestarsi se non attraverso la luce.
“La luce non è altro se non l’ombra di Dio”.
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REMO E L’AMICIZIA
Giuseppe Giannantonj
O
ggi i ragazzi
sono partiti presto per il podere Canova e al solito punto di ritrovo
siamo rimasti io e Remo. Come di consuetudine beviamo un caffè mentre
la conversazione prende sfumature e forme assai più profonde del
solito. Ben presto lo scambio verbale si trasforma da quello
superficiale e abitudinario, condiviso al mattino tra un volontario e
un utente dei servizi sociali, in qualcosa di assai simile al dialogo
terapeutico. I disturbi schizofrenici di Remo sembrano scomparire nel
momento in cui, tralasciando per un attimo le avversità della sua
sorte, egli inizia a dissertare a lungo e con minuziosa sottigliezza
dell’importanza della conversazione e dell’amicizia. Non certo quella
dichiarata e mantenuta solo per utilità materiale o vantaggio; bensì
l’amicizia vera e costante, ispirata in genere da dialoghi profondi e
interessati alle sorti altrui. Tanto per fare un esempio, Remo mi
rammenta con un po’ di nostalgia quelle che lui definisce come le
oramai scomparse ‘amicizie di quartiere’: quelle con cui, all’interno
della città, ci si riconosceva come appartenenti a un certo settore di
essa e ci si aiutava rispetto agli abitanti del restante agglomerato
urbano. Scorgo in quanto mi dice Remo il rimpianto per un’etica della
partecipazione, cioè della conversazione; una partecipazione al
sentimento altrui da ottenersi con un dialogo non superficiale e
apparente tra soggetti con le medesime affezioni, uomini e donne tutti
partecipi di una sofferenza cosmica che condiziona la loro umanità.
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Bambina
Sarah Tiralongo
Bambina dallo sguardo impresente,
malinconico e assente il tuo nome.
Guardami,
in queste notti cariche di pianti
piene di volti stanchi
di vecchi rimpianti.
Spogliami da tutti i miei dolori.
Riempimi d’argilla per creare una Dea imperfetta,
la tua vita che conta ogni mio errore,
quando vado di fretta
e manca il tempo per trovare la mia parte perfetta.
Con te bambina
che sei amore,
che sei il cerchio perfetto che distrugge l'infinito.
Ed io,
una virgola senza testo,
il punto mancante dell'Universo
una stella inesplosa,
ferma,
senza posa.
Caos interno.
Ma dentro di me sono l'unico amore,
la mia unica sposa.
Mi prendo per mano
per partorire un mondo mio,
un mondo dove nasce il sole,
un mondo senza peccato
senza quel Dio che nelle notti piene non ci ha salvato.
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Domani sarò un pentito (2 agosto 1980)
Paolo Colognesi
Mi cerchi, e non trovi;
il telefono squilla,
nessuno risponde…
Domani sarò un pentito
Il giorno si allontana
e la sua luce
avvolge la falsa pietà
per i giusti.
Ombre sanguinanti,
borghesi imputriditi
ascoltano divertiti
i rumori nauseabondi della coscienza.
Nella grigia campagna
di un inverno senza tempo
il mio cuore sussurra
orsù… andate!!
Il futuro è nella sala d’attesa
di una stazione centrale
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Gente per bene
Paolo Colognesi
Colori sfumati, angosciosi sogni,
pallida atmosfera di civiltà decaduta,
il giorno è qui.
Siamo gente per bene.
La città concentra nel grembo materno
il grido del non senso,
celeste sensazione
durante la colazione.
Senza fermarci, percorreremo vie solitarie,
infinite frustrazioni nelle costruzioni.
Buongiorno… nuovo giorno!
Come ieri, come domani.
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Elucubrazione
Paolo Colognesi
Disteso su morbide lenzuola, a capo chino,
il risveglio illumina le pareti opposte
della stanza semivuota.
Nella penombra, la luce della piovosa giornata primaverile
trapassa la persiana. Mi alzo, mi siedo
al tavolo del lavoro.
Sulla parte sinistra
la macchina da scrivere,
a destra la lampada spenta.
Sfogliando un libro ottocentesco
rileggo gli antichi versi
di un’antica saggezza.
La fantasia corre tra boschi rigogliosi
e pei verdi prati
l’immaginario ricostruisce architettonici paesaggi.
Muovendo oniriche immagini, ripercorro
strade dimenticate nel labirinto dell’esperienza,
vicoli medioevali, chiese gotiche, palazzi rinascimentali.
Il pensiero empio di viscerale angoscia,
indefinibile
riverbera trasparenti tratti
di un disagio penoso.
Cianotiche espressioni si ripetono costantemente
ceree tonalità scontornano un debole sorriso.
Nel fuoco della stanza
spuntano i satelliti gialli,
Apollo, con fragili ali discende agli inferi,
la Mantis religiosa mastica
imperterrita
la sua solita esistenza.
Immagini reali, assolute si ricompongono
sulla retina proiettando testimonianze drammatiche
di una tragedia umana, che ho vissuto.
Come un respiro ansante,
i personaggi una favola rivivono passate sofferenze
particolari storici della civiltà contadina.
Attraverso quegli occhi privati della luce
calde lacrime scoppiano in secolari silenzi.
Della morte il trionfo.
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Sole rinasci
Marcella Colaci
I corpi erano estranei
addossati come animali
malgrado l'estraneità
non si poteva capire
come fare a sognare
come fare a raggiungere il mare
La sabbia non si vedeva
il mare non c'era
la folla gridava e giocava
senza pensare
non pensava
Stretti come non mai
nemmeno le stelle
nemmeno l'erba e le viole
arrivati nella misera spiaggia
senza capire si stava seduti a guardare
si stava come i polli nelle gabbie affollate
Il sole lontano splendeva
incredulo e solo non ci voleva
bruciava, bruciava, bruciava
Fino a farci da strada
verso le case in paese
gioiva, gioiva
così ci si rintanava
solo splendeva l'indomani mattina
Sole che triste esisti ancorafacci da guida
e sorridi per l'ora di punta
scaldaci e allontana quest'uomo
che sa di petrolio ed è surreale
rinasci ancora per me
fammi vedere la sponda del mare
la stella marina ed il riccio di mare
fa che non siano solo un sogno
un sogno che rischia d'essere
virtuale.
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La gioia dei fiori
Maurizio Leggeri
I nostri amici fiori, mano nella mano,
vestiti a festa sorridenti e
colorati, in girotondo o sparsi nel prato,
ci stanno aspettando per
farci dimenticare innumerevoli
malumori... I nostri amici fiori.
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La luce
Paola Scatola
Qualcuno disse… di te e di me… un bimbo.
Ma anche tu andasti via, e lontano
anche dal bisogno che avevi
di possedere lei.
Rimasi così senza tutto, ma forse era
proprio quel tutto che amavo di più.
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Oceani
Sarah Tiralongo
Occhi profondi,
come le strade che non conosci
come i luoghi che non hai visitato,
le cime
che non hai scalato.
Dentro le moschee che non hai mai guardato,
sui mari
che non hai mai navigato.
Oceani profondi dentro i quali annego,
dentro i quali rinnego l'ego,
l'eco del mio essere immerso in acque profonde
con la pace che mi confonde.
Oceani che non conoscono confini,
oceani dove non vedi la fine.
Poesie senza rime.
Dolore incompreso,
dentro di me
grava tutto il suo peso.
Delle estati non maturate,
dentro ospedali confinati,
finestre sbarrate.
Seduti.
Sedati.
Pensieri che ti sputo in faccia,
non mi importa che ti piaccia.
Io porto la meraviglia oltre i confini,
a chi sa capirla,
a chi sa sentirla.
Immersa sui muri dipinti,
dietro cancelli chiusi,
pianti disillusi.
Guardo le lucciole morire,
per la vita che non le ha portato giustizia,
per un padre che mi ha lasciata,
per la nostra voce
che non viene ancora ascoltata.
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Il nemico del nemico
Giorgia Teresa Di Lullo
Lungo la via della seta
da secoli tracciata
viaggio confortevole per il virus
apocalisse del nostro tempo.
Forte e infestante
biblica cavalletta invisibile
invade l'Europa
insediandosi a Milano
e dintorni predestinati
impreparati alla difesa.
Varca i confini
camuffato da influenza
il COVID infetta con inganno
buoni e cattivi soggetti
decimando laureati
medici e infermieri
sorpresi a mani in alto.
Diventando pandemia
riduce gli arroganti
malaticci e disperati…
Gli scienziati in affanno
rimestano provette
per trovare efficace
nemico del nemico.
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Luce
Paolo Veronesi
È ormai buio
non c’è la luce.
Bisogna cambiare...
Quella maledetta lampadina
si fulmina tutti i giorni.
La notte ci perseguita
dobbiamo aspettare domani.
Tutta la sera al buio
La notte ci circonda
con il silenzio e rumori strani…
Arriverà l’alba prima o poi!
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La speranza
Maurizio Leggeri
L’uccello spera di volare,
la nave spera di salpare,
il vecchio spera di campare
o di morire in pace.
L’albero spera di arrivare al cielo,
il seme di arrivare al melo,
il bimbo di alzarsi su
di camminare e non cadere più.
Il pozzo spera di non restare vuoto,
la luna di restare in volo, nel vuoto,
il grano spera di diventare pane
e di dar da mangiare a chi ha fame.
Il coriandolo spera di iniziar la festa,
il vino spera di inebriar la testa,
il riso di augurare un matrimonio,
nasceranno Tatiana, Luana o anche Antonio…
La montagna spera di rimanere bianca,
la valle di rimanere verde
il mare di rimanere blu,
tutto ciò sarà realtà, se oltre a me,
lo penserai anche tu.
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Canto del cigno
Giorgia Teresa Di Lullo
Immaginazione ardente
fantasia picaresca
libere da tossine
di ozio forzato
apprezzano e godono
pigrizia regalata.
Divano e TV a oltranza
dettagli sociologici
risvegliano intarsi
infiltrazioni vaghi ricordi
di idee marxiste:
conquista del tempo libero
gioco diritto sociale.
Cyclette e ginnastica in casa
tengono i muscoli
del vecchio non decrepito.
Pudica scoperta di sé stesso
rende accettabili
difetti e debolezza
e pur vacillando
prosegue cammino
nel canto del cigno.
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Ode al XX secolo… vent’anni dopo
Maurizio Leggeri
Il secolo breve non è finito:
ancor non ha rinserrato la porta
alle vere rivoluzioni ed esorta
sé stesso ad esser secolo infinito!
Perché il color rosso non è sbiadito,
lo trattiene l'umanità risorta
dalle proprie sconfitte: poco importa
per misurare al tempo il suo vestito!
E ritrovarlo sempre più abbellito
con casa, lavoro, salute e scorta
di beni pubblici: il tutto conforta
ciò che sarà nei secoli acquisito!
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Raggiungo l’ora lieta
Susanna Papa
Raggiungo l’ora lieta
della campagna
più vaga e ambigua
del giorno e afflitta
dal suo sguardo scuro
mi avvio verso il viale
ombrato e seguendo
i passi tuoi
saprò ancora ridare
sorriso al mio volto velato
di una triste agonia.
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Coronavirus
Mariangela Soavi
Piange l'Italia
i tanti figli suoi
lugubri automezzi
i feretri trasportano
Deserte le città
e gli abitanti suoi
fra quattro mura confinati
per evitar l'contagio
Vola il suono di un violino
fino a sfiorare il cielo
per mitigar gli affanni
Trionfa il tricolore
ma tu Italia bella
ancora muori, muori!
Son tutti veri eroi
quelli che giorno e notte
lavorano in corsia
disposti ad accettar la morte
per dar la vita all'Italia tutta
Infuria il virus
l'invisibile e perfido nemico
non ha confini
divora anche gli eroi
ma senza loro che ne sarà di noi...
Ah! La vita...
più bello della vita
non c'è niente
tu italiano gridalo
al mondo intero
ma prima di tutti ricordati che è vero
E tu Italia col cuore
infranto dal dolore
ascolta questo grido di speranza
“Ti ha piegato questa triste sorte
ma non ti spezzerà
rinascerai rinasceremo
perché non c'è notte
che non riveda il giorno!”.
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Depressione
Sarah Tiralongo
Guardo il mondo dietro tre sbarre d’acciaio bianco,
il sole le attraversa.
Io che mi sento sempre diversa.
E l’infinito non mi sembra che una crudele menzogna,
perché col calare del sole
scivola via anche la mia falsa felicità.
Se potessi illuminarmi per sempre.
Se la mia vita si potesse fermare a questo momento magico
non esisterebbe tormento.
Ma quando tu cali e la luna falsa prende il cielo
io mi perdo e non ardo più di luce
ma di angosciosa tenebra
che mi prende alle spalle.
Tocco il fondo di un mare sporco
e grigio, non vedo più il colore
non sento più le parole,
non esiste corpo,
divento l'inconsistenza del terrore.
Tremano le ore.
Non sei più tu.
Tutto crolla, e non esisti più.
La depressione altro non è che il lutto che proviamo per noi stessi,
per la morte,
del nostro essere niente.
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Piccina
Paola Scatola
Quando vedo i tuoi occhi
mi sembro piccina, piccina!
Ma come mai amo solo te,
se anche nel mio cuore c'è lei?
Volevo odiarti, un dì passato,
ma oggi posso solo amarti.
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La luce cos’è
Joe (Gruppo DiSegno InSegno)
La luce per me è lo spazio che si forma tra me e te.
Alcuni lo chiamano Amore;
io preferisco definirlo colore.
Nei giorni di pioggia diventa arcobaleno.
La pioggia ne forma i raggi diventandone luce.
Forse il tutto non è più una teoria
ma una forma di energia.
E luce fu.
Dio bono che bella!
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La luce
BellaBetta (Gruppo DiSegno InSegno)
Il barlume di luce
all'ottimismo induce.
Essa è bella e non rara
sicuramente mai amara,
se poi il buio arriva
c'è la notte che di essa è priva:
del nuovo giorno c'è certezza
che giunga come una carezza.
Ed il sole sorgerà
e nuova vita avrà
già s'intravede l'alba
qualche volta un poco scialba.
Se la giornata è serena
non ci mette affatto pena
perché l'astro è brillante
di un giallo assai sgargiante.
Poi arriva il mezzogiorno
e di luce tutto è adorno
la mattina è terminata
e a metà è la giornata.
Pomeriggio giunge presto
e di solito è lesto
a trascorrere il tempo
è quasi come un lampo.
Quando arriva l'imbrunire
anche il sole va a dormire
e la luce cala piano.
Il dì è finito, ma non invano
perché domani la giornata
lo rivedrà, la stella è rinata.
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La luce cos’è
Alina (Gruppo DiSegno InSegno)
Luce che delimita il buio,
determina quell’ombra chiara che invoca raccoglimento,
e l’abbraccio morbido che avvolge e mi avvolge
come grembo accogliente e protetto.
Delimita lo spazio in cui, racchiusa in me stessa,
scendo nel profondo e contatto
insolite visioni, sensazioni profonde.
Racchiusa accolgo in me lo spazio.
Vedo e vado oltre.
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Speranza
Susanna Papa
Tu mi deludi sempre più
nel giorno dell’avvenire.
Mia creatura celeste
sei la luce dei miei occhi
la speranza della mia vita.
Vedo in te l’immagine dei giorni miei,
frutto della mia gioventù
vissuta nel tempo senza fine.
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È passato (Luce)
Enomis (Gruppo DiSegno InSegno)
Ricordo quel lumicino
suono sordo di un camino
si espandeva per ardere il legno
e dipingeva come un disegno.
Ricordo quella casa come fioco bagliore
una luce accesa e nelle nubi un colore
lo si intravedeva durante la nevicata
quando rallentava mostrando la vallata.
Una luce può portare
lei conduce ad arrivare.
Ricordo un fuoco bruciare all'aperto
che nel suo luogo donava le ombre
alto e maestoso nel suo ardere certo
caldo e luminoso alle tenebre sgombre.
Una luce può mostrare
e produce scintille al mare.
Ricordo durante il temporale
un tuono sordo nella notte rimbombare
ma la luce del lampo che l'aveva preceduto
svelò lo spazio e il tempo col suo bagliore acuto.
Al mattino con il sole
ogni raggio tutto mostra
ogni cosa luce vuole
rimarrebbe sennò nascosta.
Questa luce mi fa scrivere
benedice il quieto vivere.
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Dov’è la Befana
Piergiorgio Fanti
Il brillio dell’albero
luce su luce
si muove
tra le zampe di sedie.
Oltre la porta agitati a comporre regali
mio padre: un fortino
mia madre:
la casa stregata,
la casa stregata di Hänsel e Gretel.
Dov’è la Befana?
Non pensare, la vita ha misteri...
Sto quasi sognando
scale d’oro
e profumi d’incenso.
Non spegnete la luce!
(Inverno ’87-’88)
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Volumi orizzontali (U. Boccioni)
Piergiorgio Fanti
Cartolina e saluti
caro PG!
Un’elica per la madre Robot!
Vivi una Monaco (dici)
di quadri biblioteche
serate musicali
A Bologna il vuoto
è quasi un insulto
Ardui i punti di fuga.
(Inverno ’87-’88)
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L’erba sui tetti
Matteo Martini
Nasce sui tetti l'erba da calpestare,
esile e forte come licheni lunari.
Sotto, la fiamma raccoglie la speranza,
pettina le fatiche,
perché la forza dell'uomo
prende forma nei rifugi,
tra il legno di pietra e polvere di foglie,
nel gusto affumicato del conservare,
nei cuscini di muschio
che costruiscono il sonno.
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La luce cos’è
Alina (Gruppo DiSegno InSegno)
Bagliore improvviso e assoluto
Squarcia buio e noia
Attiva movimento e scoperta
In un tempo che è il qui e ora.
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Luce
Annalisa Ciacco
Luce
bagliore,
splendore,
stupore.
Brilla, scintilla,
intensa, immensa, nutrita,
meravigliosa.
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La voce
Giuseppe Giannantonj
La vorrei prendere tra le mani
È lì che gira in tondo
Dentro la mia testa.
Sto attento alle sue parole
Ascolto quello che vuole lei
Qualcosa che è più forte e sempre più.
Mi mantiene così vivo
Sono così preso da lei
Una voce fissa che non svanisce mai.
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Sola
Sarah Tiralongo
Guardo al mio essere infinito,
al mio essere finito,
ad una rosa che fiorisce,
a questo tempo pieno.
Guardo al cielo sereno
al mio tempo che corre in eterno,
ad un petalo
che vola, in alto,
scappa da me.
Guardo al mondo sulle mie spalle,
dentro la mia pelle,
alle mie farfalle.
Al loro volteggiare,
al loro vivere
un secondo,
per sempre.
Guardo la luce che mi illumina
dentro di me
non mento.
È nel momento in cui mi tocca
e trabocca essenzialmente
la mia essenza,
composta dal niente.
Sono un vaso vuoto
che aspetta la pioggia,
pronta a ricevere la terra madre,
fiorire insieme a un padre.
Sola, cresco.
Sola, ci riesco.
Sola, esco.
Sola,
con un segreto in gola
con il mio sangue, che cola.
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Assenza d’amore
Sarah Tiralongo
Riconoscerci in questi specchi in frantumi
i cieli bui,
le nostre anime che scorrono piano, come fiumi.
Le mie nausee,
i tuoi profumi.
L’amore che dentro è nostro
che lo abbiamo nascosto
per paura che ce lo potessero rubare.
Tu che reciti un copione
io, che ti dico che è tutto da rifare.
Ma poi andiamo,
piangiamo per chi soffre il dolore
noi che ne conosciamo bene il sapore.
Andiamo,
per chi ha un dolore senza nome,
senza amore.
I nostri letti disfatti
noi sopra i tetti,
randagi
come i gatti.
Cantiamo per una luna senza voce
tu che mi accompagni piano
e il tempo che ci sfugge di mano.
Amami,
come quella notte,
le ossa rotte
un destino a pezzi
cade
da alti palazzi
le tue magnolie
sui terrazzi.
Amami
come una sera d’estate
il sapore presente,
le stelle abbandonate.
Amami come Dea dorata,
amami spensierata,
quando sono sul letto e sono malata
quando ti cerco
ma la tua mano
non l’ho ancora trovata.
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Signore
Sarah Tiralongo
Io che dentro sto male,
ma nessuno riesce a vedere,
solo io riesco ad assaporare la fragranza del niente
un pianto che non si sente
e io che mi chiedo:
a chi devo rivolgermi Signore?
Se ogni giorno il mare regala tempesta
e io ho solo il vuoto del mondo dentro la testa.
A chi devo rivolgermi Signore?
Perché spesso mi sono rivolta a te,
ma le tue parole mi sono risuonate mute.
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Sono abbacinato!
Cesare Riitano
Gentilissimo direttore Fabio Tolomelli, sono
Tonino Guastavillani, incaricato di scrivere, per la rubrica Il
Cattivista, una critica al suo ultimo editoriale, dedicato al tema de
‘La Luce’.
Sono costretto ad ammettere, caro direttore, che in questo momento sto
vivendo una situazione di grave e imbarazzante buio creativo. Come lei
ben sa, il ‘cattivissimo’ Guastavillani, si scaglia, nella sezione
assegnatagli, contro ‘plebei’ e ‘teste coronate’ del giornale,
mitragliando spietate e violente recensioni, al limite dell’ingiuria,
forzatamente coerenti con la sua ‘fittizia’ personalità bastian
contraria. Direttore! A questo punto esigo il silenzio più assoluto, in
quanto sto per farle una confessione non ritrattabile… Eccola: dietro
la mia apparentemente innocua maschera di sagace redattore di giornale,
si nasconde… sì!... un delinquente! Ebbene… questo scellerato, questo
misero ladro di polli, questo ridicolo ‘cattivista’ scalcagnato,
ammette, per la prima volta nella sua vita, la sua totale inadeguatezza
nell’articolare una qualsivoglia criminale critica negativa del suo
abbagliante articolo di fondo. Tonino Guastavillani, noto alle cronache
per aver vituperato, irriso, calunniato senza pietà i testi di nobili
letterati della più bell’acqua, di fronte alla sua notevole opera,
direttore, deve solo togliersi il cappello. Fabio! Posso chiamarla
Fabio? Sì? La ringrazio moltissimo, Lei… TU… sei molto gentile; devi
sapere Fabio che mi sento a pezzi; questa prima colossale cilecca della
mia storia letteraria, mi deprime e mi fiacca assai il morale. Ecco
perché ti dico, che sto meditando seriamente di arruolarmi nella
Legione Straniera, o magari di affiliarmi alla setta coreana del
Reverendo Moon, senza parlare del mio pensiero ricorrente di depilarmi
completamente ed esercitare la professione di Trav passivo; Fabio! Io
voglio farla finita! Vista questa drammatica situazione, non posso non
chiederti una cortesia: perché non mi vieni incontro? Non potresti mica
modificare parzialmente il tuo articolo, scrivendo qualche coglioneria?
Magari aggiungendo alcune inutili volgarità! O sbagliare almeno un
congiuntivo, per Dio! Sarebbe molto utile per lo svolgimento del mio
contro-editoriale, in quanto mi daresti il coerente pretesto
d’utilizzare una necessaria violenza verbale nei tuoi confronti, utile
a chi ti sta scrivendo, per sfamare la sua numerosa famiglia. Fabio
ragiona! Se TU sei perfetto, come posso essere IO cattivo? E se io non
posso esercitare la mia cattiveria, caro Fabio, sai cosa succede?
Succede che ‘acqua cheta’ Lucia mi licenzierà o, ancora peggio, il
‘mite’ Antonio mi declasserà a pulire i cessi del Roncati! Fabio…
mettiti una mano sulla coscienza… io sono un padre di famiglia… Fabio!
Se mi aiuterai a superare questo difficile scoglio, sappi che per te il
caffè corretto con la sambuca al bar Saragozza sarà sempre pagato;
inoltre, potrai contare su due sigarette Camel Light 100’s al giorno, e
in più un regalo speciale: l’introvabile 45 giri del 1984 dei Dead or
Alive, You Spin Me Round. Fabio! Fai splendere la Luce della clemenza
verso il tuo sottoposto bisognoso… Non mi rovinare! Con la massima e
immutabile stima.
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FIAT LUX Conversazioni storico filosofiche sui colli
Carlo Monaco
1. Introduzione Metti cinque sere d’estate sui colli di
Bologna presso il podere Canova di via Gaibara. Metti che non se ne
poteva più dell’isolamento da Coronavirus. Metti pure il fascino del
tema delle conversazioni. Lascio stare il relatore, che è il
sottoscritto, il cui giudizio compete solo al pubblico. La conclusione
è che coloro che si sono persi questi appuntamenti hanno di che
pentirsi.
L’orario era quello del tramonto e il tema era Le metafore della luce.
Sulla natura della luce la scienza ha fatto straordinari progressi.
Tutto è legato alle reazioni nucleari tra elio e idrogeno all’interno
del sole. Il calore e la luce nascono da lì e poi si irradiano nei
dintorni fino al nostro pianeta terra che gode della fortuna di
trovarsi a una distanza tale da consentire a noi mortali di non avere
né troppo freddo né troppo caldo, di non essere totalmente abbagliati
dalla luce né di essere immersi nell’oscurità asfissiante dei buchi
neri.
Ma, studiando e ristudiando, si verifica il paradosso che assieme
all’ampliamento delle nostre conoscenze, si espande anche la
consapevolezza crescente della nostra ignoranza. Tutto diventa più
difficile e complicato. La velocità della luce costituisce la cornice
insuperata o insuperabile dello spazio-tempo e se uno di due gemelli,
come racconta Einstein, riuscisse a viaggiare a una velocità superiore
a quella della luce, al termine del viaggio tornerebbe più giovane e il
suo fratello gemello sarebbe già morto di vecchiaia. La nostra
ignoranza cresce al punto che la domanda sulla natura della luce (è
fatta di particelle corpuscolari che si muovono, oppure di onde?)
diventa antinomica o paralogica, cioè irrisolvibile, come tutte le idee
metafisiche individuate nella dialettica trascendentale di Kant.
Eppure la nostra cultura occidentale ha messo la luce al centro di
quasi tutte le sue riflessioni più suggestive. Si tratta
inevitabilmente di metafore: i molteplici significati della parola si
spostano dal terreno proprio della ricerca astrofisica verso
qualcos’altro considerato equivalente o analogo.
2. I miti della luce
Della luce si occupano abbondantemente i miti, che costituiscono la
forma originaria, immaginifica e narrativa, della conoscenza umana.
Nel racconto ebraico della Genesi Dio, subito dopo aver creato il
mondo, si accorse che l’abisso tenebroso in cui esso si trovava
collocato era insostenibile e subito pronunciò il mitico: Fiat Lux. E la luce fu fatta e Dio vide che era una cosa buona.
Nella mitologia greca all’origine di tutto c’era il Caos, cioè il buio
totale, un uccello dalle ali nere. Ma poi il vento fecondò il suo uovo
che a un certo punto si aprì generando il cielo e la terra. La luce
trovò mille altre rappresentazioni poetiche. Il grande carro del dio
Elio veniva guidato per le vie del cielo verso la terra dal dio Apollo,
il simbolo più efficace della finalizzazione della luce al servizio
dell’uomo.
La luce poi regna sovrana nel mito platonico della caverna, che in
realtà è un mito-non mito, inventato da Platone maestro, a puro scopo
didattico. Le cose che noi vediamo non sono reali, ma solo ombre
misteriose. La nostra anima è chiusa nel buio di una caverna e non ha
ancora riscoperto la luce. Il mondo della luce e del sole è un vero
paradiso perduto verso cui Eros ci spinge prepotentemente a ritornare.
Se gli diamo retta. Nella filosofia di un neoplatonico come Plotino,
l’universo tutto è immaginato come un grande sole che irradia luce e
calore in quantità decrescente rispetto al nucleo centrale. Il buio non
è in sé stesso una realtà. È solo mancanza di luce.
All’interno del pensiero cristiano si è sviluppata una vera e propria
“teologia della Luce” specialmente lungo un asse che va dal quarto
vangelo di Giovanni, alle lettere di Paolo, ad Agostino e Lutero. La
rivelazione divina che pure è contenuta nel Libro Sacro (Bibbia) e nel
grande libro della natura (parole di Galilei), sarebbe assolutamente
inconsistente, se non ci fosse il rapporto dell’uomo con il divino come
fonte vera di ogni illuminazione. Gesù è la vera luce divina che
illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Una tale teologia della
luminosità si contrappone oggettivamente a una idea di religione tutta
statutaria e a una pratica devota che vede in Dio il dominus di tutto e
nell’uomo il suo servo sottomesso.
3. Illuminismo
È stato dato il nome illuminismo a un progetto umano finalizzato alla
costruzione di una rete di illuminazione artificiale. In quanto tale la
spinta chiarificatrice è presente nell’intero corso della storia
occidentale, dai sofisti greci alla modernità. Anche se è accaduto solo
nel Settecento che abbia raggiunto la massima intensità e la piena
consapevolezza di sé. Gli illuministi pensano che nella testa degli
uomini via sia una lampada, la ragione, capace di garantire, se
opportunamente e correttamente utilizzata, sia una piena evidenza
scientifica per la migliore conoscenza del mondo, sia una guida pratica
capace di organizzare al meglio la vita propria e quella della società.
Simboli dell’illuminismo sono Descartes e Bacon che, anche se
contrapposti nella costruzione di un metodo scientifico (razionalista e
matematico il primo, empirista e tecnico il secondo), hanno in comune
l’idea che solo il corretto uso della ragione possa guidare l’uomo a
capire il mondo e a migliorarlo a proprio vantaggio.
Nel Settecento l’illuminismo divenne l’idea dominante nella società
europea. Adam Smith e gli altri economisti individuarono nel lavoro e
nella sua produttività la causa prima della ricchezza delle nazioni.
Montesquieu, Voltaire e altri si occuparono della migliore natura delle
leggi, del loro spirito, della divisione del potere, e della tutela
piena dei diritti individuali. Cesare Beccaria sviluppò la riflessione
sulla natura dei delitti e delle pene fino al punto da sostenere
l’assurdità della pena di morte e la necessità della sua eliminazione
dalla scena pubblica. Ci furono nazioni che cercarono di seguire i
suggerimenti dei filosofi e riuscirono in qualche misura a illuminarsi,
altre, ad esempio la Francia, pur essendo la patria di tanti pensatori
illuministi, non realizzarono alcun progetto di illuminazione sociale e
politica e alla fine precipitarono nella rivoluzione. Il massimo
teorico di questi progetti illuminotecnici fu certamente Kant che,
interrogandosi sulla natura dell’illuminismo, rispose che esso consiste
nel passaggio dell’uomo da una condizione di minorità e sudditanza
verso le autorità a quella della maggiore età e della piena autonomia
personale e sociale.
4. Tramonto e aurora
Nietzsche, durante una vita dal corso breve e sofferente, si convinse
che sia l’illuminazione divina che quella dell’illuminismo umano non
fossero nient’altro che processi di decadenza da una condizione
originaria di spirito eroico e titanico verso un crescente processo di
addomesticamento. Insomma, da eroi quali erano in una imprecisata età
originaria, gli uomini sono andati diventando sempre più simili alle
pecore. Dio è morto e l’uomo è diventato solo un servo insignificante.
L’illuminismo, sanzionando anche sul piano giuridico l’uguaglianza
degli uomini, la democrazia come regola di governo, l’emancipazione
femminile, e ogni altra forma di cosiddetto progresso, ha finito per
spingere alle estreme conseguenze la trasformazione degli uomini in
pecore e dell’umanità in gregge. Dove porterà questo processo? Verso il
trionfo del nichilismo, cioè verso la distruzione totale della volontà
di potenza e dei valori che possono dare un senso alla vita.
A
meno che, non spunti una nuova aurora, cioè che la realtà abbia
carattere circolare e ci sia perciò un eterno ritorno dell’uguale.
Proprio come annuncia un immaginario Zarathustra. Dopo l’ultimo uomo,
ridotto a pecora, non ci sarà l’arrivo di un superuomo, non ci sono
razze superiori, e neppure un uomo nuovo, come indicano i moralisti
alla Rousseau, ma un oltreuomo, un modello che può essere immaginato
solo pensando agli eroi dell’antica mitologia greca. Agli inizi del
Novecento il tedesco Spengler scrisse un libro di successo, nel quale
annunciava il tramonto dell’Occidente. Rispetto a Nietzsche la
differenza è netta: l’occidente secondo Splegler è come un organismo
vivente che orami è in uno stato di avanzata senescenza. Tutte le
società, alla stessa stregua degli esseri viventi, invecchiano e
muoiono. Il destino dell’Occidente è segnato. I sintomi di
invecchiamento sono molti e riconoscibili. E intanto nuovi popoli
giovani si affacciano prepotentemente sulla scena della storia. Proprio
come diceva Hitler, che non a caso aveva scelto come simbolo il sole
della svastica.
5. Il sole dell'avvenire
Nella storia del movimento operaio del nostro tempo la metafora del
sole dell’avvenire ricorre frequentemente. Tutto cominciò con la
costruzione del modello platonico di Repubblica.
Perfetta, nella sua divisone del lavoro in tre, dirigenti soldati e
lavoratori. Intransigente, nella necessità di abolizione della famiglia
e della proprietà privata, almeno per la classe dei dirigenti.
Anticipatrice, dunque, di una idea solare di comunismo e di
uguaglianza, ma anche di alcune idee naziste sulla selezione della
razza umana e sulla eugenetica. Il modello di Platone non ebbe successo
in Grecia. L’autore stesso, quando ebbe l’opportunità di realizzare
alcune riforme a Siracusa, finì davvero male, politicamente e
umanamente parlando. Ma nei secoli successivi i richiami al suo
insegnamento non sono mai scomparsi. Dalle regole di vita in alcuni
conventi ai progetti politici dei gesuiti nel Paraguay. Il frate
calabrese Tommaso Campanella, imitando il modello platonico scrisse la
sua Città del sole. Poco prima di lui lo sfortunato Thomas More aveva scritto la sua Utopia,
l’isola perfetta dove regnano l’eguaglianza, il comunismo e il culto
solare. Quel Thomas More, vittima del suo re Enrico VIII che facendolo
uccidere perché rifiutava di aderire alla Chiesa anglicana, lo
trasformò in martire e santo. Karl Marx, sostenitore della necessità
scientifica di superare la società capitalista, inventò un socialismo
nuovo, in aperta polemica con il comunismo primitivo dei platonici e di
tutti gli altri sognatori che egli accomunò nell’epiteto di utopisti, cioè di sognatori e dunque sostenitori oggettivi e involontari del sistema capitalistico vigente.
Il socialismo di Marx era un ambiziosissimo progetto di trasformazione
della società a partire dalla scoperta di leggi e di tendenze in essa
presenti e guidati da una volontà politica incentrata sulle lotte della
classe operaia sfruttata, sulla proletarizzazione crescente dei
lavoratori e sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. Eppure,
anche all’interno di questo socialismo reale, nonostante l’allergia di
Marx al primitivismo e al facile simbolismo della luce, a poco a poco
prese forma e concetto l’idea di una società futura e prossima simile
al sole. La metafora del sole
dell’avvenire comparve si sviluppò in modo evidente. In tutti i simboli
e nei luoghi del lavoro, nelle bandiere e negli slogan, nelle parole e
nelle canzoni. Persino nello stemma del più moderato epigono di questa
tradizione, il partito socialdemocratico italiano, appariva il simbolo
del sole nascente. Karl Popper, critico liberale e anche un po’
socialdemocratico di Marx, finisce per suggerire l’idea che Marx
stesso, nonostante la sua dichiarata scientificità, non fosse riuscito
a liberarsi di quella tendenza utopica verso il sole nascente che aveva
così lucidamente individuata e combattuta.
6. La luna
Di tutte le fonti luminose la luna è certamente il simbolo più umano.
Non rappresenta la luce, perché la luna non brilla di luce propria. Ma,
come noi del pianeta Terra, la riceve dal sole e la rispecchia
pallidamente. Come simbolo la luna non interessa né i teologi né i
filosofi della storia né gli illuministi né i rivoluzionari del sole
nascente. Interessa soprattutto i poeti, dagli antichi lirici greci a
Virgilio e a Leopardi; i narratori, dal Pavese de La luna e i falò al Pirandello di Ciaula scopre la luna; i pittori, da Turner a Van Gogh a Chagall, i musicisti, da Beethoven ai Beatles a Fred Buscaglione (guarda che luna! ).
Il chiaro di luna è il simbolo più amoroso, melanconico e sofferente,
che i poeti abbiano saputo inventare. Triste e bello, come dice
Verlaine. Ha una leggerezza assoluta. Italo Calvino l’ha illustrato con
rara efficacia, sia nei racconti delle Cosmicomiche che nella prima delle sue cinque lezioni americane, dedicata alla leggerezza.
L’unica scuola filosofica che potrebbe definirsi lunare è quella degli
umanisti e in particolare degli esistenzialisti. In tutti i risvolti
della paura e dell’angoscia, del terrore e del tremore, degli aut-aut
che la vita ci pone incessantemente, regna sovrano lo spirito della
luna. Scrive Alda Merini: “la luna grava su tutto il nostro io e anche
quando sei prossima alla fine senti odore di luna... Io sono nata
zingara, non ho un posto fisso nel mondo, ma forse al chiaro di luna mi
fermerò un momento”. Parafrasando un altro poeta (Quasimodo): “Ognuno
sta solo nel cuore della terra. Il raggio di sole non lo illumina ma lo
trafigge. Ed è subito sera. Per fortuna, a quel punto, qualche volta
c’è la luna”. Se il sole è un guerriero combattente che nella sua
mascolinità ci trafigge, la luna è donna. Assolutamente umana, anche
quando si mostra totalmente lunatica. Ogni uomo ha la sua luna
(Magritte).
LA LUCE CHE CURA
ricerca su siti internet
Cos’è la fototerapia
Giulia Bertelli
Laureata in Biotecnologie Medico-Farmaceutiche
https://www.my-personaltrainer.it/salute-benessere/fototerapia.html
La fototerapia è una tecnica curativa
basata sull’uso della luce (dal greco, ‘terapia con la luce’).
Solitamente, viene applicata al trattamento di disturbi dermatologici
(psoriasi, acne, eczema), del sonno (alterazioni del ritmo circadiano,
insonnia) e di alcune malattie psichiatriche (disturbo affettivo
stagionale). Durante la seduta di fototerapia il soggetto è posto in
prossimità di una fonte di luce naturale (sole, vedi elioterapia) o
artificiale (es. light box)
per un tempo di esposizione variabile (dalla mezz’ora alle due ore, in
genere al mattino). Il principio dell’applicazione di questo
trattamento è il seguente: la light box emana luce simulando
l’illuminazione naturale esterna (solare); tutto ciò stimola i
‘prodotti chimici’ che agiscono sul cervello, producendo un effetto
sull’umore o sincronizzando i ritmi circadiani.
Nella fototerapia, le forme di luce possono variare per tipologia,
colori ed intensità: ad esempio, con la luce ad ampio spettro viene
simulata la radiazione solare, mentre con il soft laser (a bassa
intensità) si focalizza un raggio luminoso allo scopo di alleviare
dolori ed infiammazioni.
L’applicazione della fototerapia si è sviluppata negli anni ‘80, a
seguito dello studio di una particolare forma di depressione, con
sintomi ricorrenti e caratterizzata da un modello di stagionalità: il
disturbo affettivo stagionale (SAD). Infatti, la stessa definizione di
SAD si basa sull’osservanza che l’esposizione a una fonte di luce
artificiale riduce notevolmente i sintomi caratteristici del disturbo.
A seguito di tale applicazione, oltre a confermare la propria efficacia
come adiuvante la cura di diverse forme di depressione, la fototerapia
si è rivelata utile per il trattamento dei disturbi del sonno: può
quindi aiutare soggetti che soffrono di insonnia, jet lag,
chi svolge turni lavorativi notturni oppure pazienti con più complesse
alterazioni dei ritmi circadiani, che coinvolgono, ad esempio, sistemi
serotoninergici, noradrenergici e dopaminergici.
La fototerapia è considerata uno strumento terapeutico adatto, in modo
particolare, ai pazienti non responsivi ai trattamenti farmacologici o
che manifestano effetti collaterali avversi alle cure mediche
convenzionali.
Nota. La reale efficacia della fototerapia è dimostrata per la cura
della SAD e di alcune malattie dermatologiche; meno convincenti sono i
risultati del trattamento per alcune particolari forme di depressione e
per l’applicazione ai disturbi alimentari. Per tali patologie è
necessario approfondire lo studio d’efficacia della fototerapia, anche
in relazione ai meccanismi fisiologici di azione che caratterizzano le
varie condizioni patologiche. Questa conoscenza potrebbe rivelarsi
utile per adattare la fototerapia a future applicazioni cliniche.
Cos’è la fototerapia
Ivana Bernardotti
psicologa psicoterapeuta del Centro Medico Santagostino
https://psiche.cmsantagostino.it/2017/10/17/fototerapia-la-luce-potere-sullumore/
S
econdo le linee guida internazionali è la terapia della luce, o
fototerapia, il trattamento di prima scelta della Depressione
Stagionale. C’è poco da fare: una giornata di sole è sempre meglio di
una giornata nuvolosa. Non a caso diciamo “che bella giornata” quando
fuori c’è luce e “che brutto tempo” quando il cielo è coperto di
nuvole. È noto che il tono dell’umore e la percezione soggettiva di
energia sono influenzati dal grado di luminosità dell’ambiente in cui
viviamo. Durante la stagione estiva, quando le giornate si allungano,
ci sentiamo più attivi e riposati, mentre durante la stagione invernale
sperimentiamo spesso una maggiore sonnolenza. Ma non è solo il senso
comune a dircelo: in psichiatria la luce è da anni ritenuta un
potentissimo strumento di regolazione dell’umore.
La fototerapia per la depressione stagionale
Lo sviluppo della fototerapia o terapia della luce (in inglese, Light Therapy)
in psichiatria è strettamente legato alla definizione originale di
Sindrome Affettiva Stagionale (SAD). La SAD si caratterizza, infatti,
per episodi depressivi gravi in corrispondenza dei cambiamenti
stagionali, in particolare autunno-inverno con diminuzione nel periodo
estivo. Già nel 1984, lo psichiatra e ricercatore Norman E. Rosenthal
ipotizzò che all’origine della Sindrome Affettiva Stagionale ci fosse
la riduzione invernale della quantità di luce e ne identificò la
terapia di prima scelta nella fototerapia.
Gli effetti della luce sull’umore
Nell’uomo quasi tutte le funzioni fisiologiche e comportamentali hanno
un andamento ritmico: cicli di circa un giorno (ritmi circadiani),
cicli di meno di un giorno (ritmi ultradiani) e cicli di più di un
giorno (ritmi infradiani). I Disturbi dell’Umore sono strettamente
connessi all’alterazione dei ritmi circadiani: alternanza sonno-veglia,
temperatura corporea e livelli ormonali. Alcuni dei sintomi più spesso
associati alla Depressione Maggiore e al Disturbo Bipolare includono,
infatti, alterazioni del ritmo sonno-veglia (insonnia o ipersonnia),
dell’appetito (aumento o perdita di peso) e dei ritmi sociali. Dal
momento che è proprio la luce il principale sincronizzatore dei ritmi
circadiani, si è pensato di sfruttarne le potenzialità in ambito
clinico. Già i primi psichiatri che si occuparono di Disturbi
dell’Umore avevano intuito l’importanza giocata dai cicli luce-buio
nella Depressione: Vincenzo Chiarugi, noto psichiatra italiano, nel suo
Trattato della Pazzia in genere e in ispecie
del 1794 consigliava di esporre alla luce le persone che soffrivano di
episodi depressivi e al buio coloro che attraversavano fasi di
iperattivazione.
Come funziona la fototerapia?
L’occhio rappresenta la parte più superficiale del nostro sistema
nervoso centrale. La luce colpisce la retina e stimola il nervo ottico
che trasmette gli stimoli a regioni del cervello come l’ipotalamo, che
regola la produzione di serotonina (l’ormone del buonumore) e di
cortisolo (l’ormone dello stress), e l’epifisi, che regola la
produzione di melatonina, migliorando l’umore, l’alimentazione e il
sonno. Cortisolo, serotonina e melatonina risultano, infatti, alterati
nelle persone che soffrono di episodi depressivi. Nella pratica, la
fototerapia consiste nell’esposizione, durante i mesi in cui si
manifestano i sintomi depressivi, a una fonte di luce brillante
artificiale di intensità equivalente a circa venti volte quella di un
ambiente interno illuminato, prodotta con apposite lampade. Di norma,
le sedute vengono effettuate a occhi aperti, non necessariamente
rivolti verso la fonte luminosa. Il tempo di esposizione varia da
trenta minuti fino a tre ore al giorno. Gli orari del giorno indicati,
la durata di ogni singola esposizione, il tipo di lampada e l’intensità
della luce dipendono dalla valutazione clinica individuale, che si basa
oltre che su specifici test diagnostici anche su un’accurata
valutazione della qualità del sonno e del ritmo sonno-veglia.
E in Italia?
La fototerapia è ormai affermata, ma ancora poco diffusa in Italia. I dati più importanti sull’efficacia della Light Therapy
nel trattamento dei Disturbi dell’Umore provengono dal Centro Disturbi
dell’Umore del San Raffaele Turro di Milano. In uno studio pubblicato
nel 2001 su Journal of Affective Disorders, il gruppo di
Francesco Benedetti ha osservato che i pazienti con disturbo bipolare
ricoverati nelle stanze maggiormente esposte alla luce mostravano tempi
più brevi di ospedalizzazione (tornavano a casa circa due - tre giorni
prima) rispetto a coloro che risiedevano in stanze meno illuminate.
Nella stessa direzione si è mosso uno studio retrospettivo canadese
(Beauchemin and Hays, 1996): i pazienti ricoverati nelle stanze più
luminose avevano avuto una degenza mediamente più breve di 2,6 giorni
di quella dei pazienti ospitati in stanze meno illuminate, con effetto
maggiore per gli uomini che per le donne.
Cosa ci dice la ricerca?
Nel 2005, una metanalisi di venti studi pubblicata su American Journal of Psychiatry
ha confermato che il trattamento con luce brillante è efficace nei
disturbi dell’umore, a carattere stagionale e non. Secondo alcuni
autori l’uso della fototerapia andrebbe esteso ben oltre l’ambito dei
disturbi stagionali e i risultati sarebbero ancora più evidenti in
abbinamento al trattamento con antidepressivi. Alcuni studi hanno
dimostrato un effetto stagionale e la conseguente efficacia della
fototerapia anche nella Depressione Pre-Mestruale, nella Bulimia
Nervosa e nell’Anoressia con comportamenti di tipo bulimico, nella Jet Lag Syndrome, nella sindrome dei turnisti e nei disturbi del sonno legati all’alterazione dei ritmi circadiani.
La cronoterapia dei disturbi dell’umore
Francesco Benedetti
psichiatra e direttore dell’unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele
La conferenza fa parte del ciclo “Incontri con la scienza – per saperne
di più” organizzato nel 2019 da Progetto Itaca. Trascrizione a cura di
Maria Luisa Bonacchi e Giulia Travaini
https://dbsurfistidellavita.forumattivo.com/t167-la-cronoterapia-nei-disturbi-dellumore-conferenza-del-professor-francesco-benedetti
C
he effetti ha la luce sul cervello? Come può influire sull’umore e
curare malattie? Ecco i risultati delle ricerche iniziate all’Ospedale
San Raffaele di Milano molti anni fa, diventati oggi protocolli di
terapia internazionali. Uno dei Paesi con il tasso di suicidi più alto
al mondo è il Giappone. A detenere il triste primato è la metropolitana
di Tokyo, tredici linee e otto milioni di passeggeri al giorno,
accalcati nelle ore di punta soprattutto lungo la linea circolare
Yamanote. Nel 2008 proprio lungo la Yamanote furono installate apposite
luci blu, capaci di stimolare alcune cellule ganglionari della retina
collegate direttamente con il sistema limbico. Il numero di suicidi
calò del 75 per cento. Si è visto che, stimolando con luce blu alcune
zone cerebrali di un individuo depresso, in pochi minuti si attiva il
sistema cortico-limbico del controllo delle emozioni. Si sa che il
sesso, l’età e perfino l’andamento del Pil possono incidere in modo
significativo sul numero dei suicidi ma proprio i giapponesi, dopo aver
registrato la quantità giornaliera di luce solare in un anno,
scoprirono che questa è il principale fattore che influenza il numero
di suicidi.
La luce del mattino
Molti anni fa, al centro per i disturbi dell’umore dell’Ospedale Ville
Turro dove lavoravo, notai che nelle camere esposte a ovest entrava
solo la luce del tramonto: una luce calda, con la ‘temperatura di
colore’ più bassa, compresa fra i 3000 e i 3500 gradi Kelvin. Molto
diversa da quella dell’alba, bianco-azzurra e brillante, con
temperatura di colore superiore a 5000 Kelvin e in grado di attivare le
cellule ganglionari menzionate in precedenza. Scoprimmo che chi era
affetto da depressione o da disturbo bipolare, se ricoverato in camere
esposte a est veniva dimesso addirittura una settimana prima. A parità
di degenza durante l’inverno, già in primavera si notava una differenza
che aumentava in estate quando l’orologio biologico tocca il massimo di
sensibilità all’effetto antidepressivo della luce. Si dimostrava per la
prima volta che per chi è affetto da depressione bipolare l’esporsi al
mattino per un quarto d’ora alla luce del Sole è un potente
antidepressivo. Il risultato apparve nel 2004 sul Financial Times. Come
si spiega tutto ciò? Si è capito che la Terra è un ambiente ritmico: il
nostro cervello e il mondo che lo circonda non sono separabili. Tutti i
nostri ritmi sono adeguati alla Terra che ruota: sia gli ormoni che
produciamo sia le funzioni intellettive. Quest’area di ricerca,
denominata cronobiologia, è nata negli anni Sessanta.
L’orologio biologico
Ci sono due sistemi fondamentali che regolano i nostri ritmi: quello
omeostatico (quanto più tempo sto sveglio, tanto più ho sonno, e se
vado a dormire la mia sonnolenza si azzera) e quello circadiano:
abbiamo un orologio biologico che batte il tempo ritmicamente e fa sì
che in certe ore io sia sveglio e, in altre, che io abbia sonno.
L’interazione dei due sistemi determina la nostra propensione a
dormire, ma anche il modo in cui gli ormoni e i neurotrasmettitori del
cervello vengono prodotti e liberati. L’orologio biologico è collocato
nell’ipotalamo, nel mezzo del cervello. L’oscillatore molecolare, il
bilanciere, è il DNA, il nostro codice genetico: geni che vengono
espressi ritmicamente e sincronizzati dalla luce. Nel 2017 i
ricercatori statunitensi Jeffrey Hall, Michael Rosbash e Michael Young
vinsero il premio Nobel “per le loro scoperte sui meccanismi molecolari
che controllano il ritmo circadiano”. Scoprendo cioè che i raggi del
mattino entrano dall’occhio, colpiscono la retina e mettono a punto
l’orologio biologico. Nella parte periferica della retina si trovano
cellule specifiche che trasmettono il segnale all’ipotalamo e lo
sincronizzano costantemente con il ritmo di rotazione della Terra su sé
stessa. È una macchina complessa: i geni vengono espressi formando
proteine che rientrano nel nucleo delle cellule e inibiscono la loro
stessa espressione, con un sistema a retro-azione negativa che richiede
circa 24 ore. La luce ogni mattina, con un effetto diretto, sincronizza
l’espressione di questi geni. Semplificando al massimo: quando la
mattina alzo le tapparelle, la luce che entra fa sì che il DNA del mio
cervello venga espresso ritmicamente iniziando una trasmissione ritmica
e circolare che durerà 24 ore e che organizza tutto il mio organismo.
Oggi sappiamo che gli orologi biologici sono espressi da ogni cellula
del corpo umano e sono sincronizzati dal pacemaker centrale nel
cervello, con una serie di eventi biologici a cascata che sincronizzano
tutto l’organismo. Gli ormoni e i neurotrasmettitori cerebrali vengono
prodotti secondo cicli e sincronizzati già prima della nascita. Il feto
sincronizza il proprio orologio biologico con quello della madre: il
cervello della madre è stimolato e messo a punto dalla luce; attraverso
la melatonina prodotta dalla ghiandola pineale e i ritmi di
temperatura, ormoni e pressione, a livello placentare si attivano gli
orologi biologici dall’ipotalamo della madre a quello del figlio e
vengono sincronizzati regolando i ritmi circadiani del feto che quindi,
attraverso gli occhi della madre, entrano in contatto con la rotazione
della Terra su sé stessa. Il concetto fondamentale è che anche i geni
dell’orologio biologico hanno delle varianti alleliche (ricordiamo che
ogni cromosoma contiene geni che esprimono i caratteri ereditari di un
individuo; ogni gene possiede due alleli, uno proveniente
dall’informazione genetica del padre, l’altro da quello della madre);
questo fa sì che ognuno di noi sia diverso dall’altro. Se fossimo
liberi dagli effetti di sincronizzazione della luce ognuno di noi
avrebbe un orologio con un ritmo proprio.
Chi va a letto presto, si sveglia presto ed è subito attivo, è detto
‘allodola’. Chi si addormenta tardi e si sveglia tardi, preferendo
svolgere delle attività pomeridiane, è definito ‘gufo’, mentre il 50
per cento della popolazione è più o meno allineata. Questa preferenza
per l’agire di mattina o di sera è legata all’orologio biologico:
quando è ritardato rispetto al moto di rotazione della Terra spesso è
associato alla depressione. Nel corso stesso della vita c’è un ritmo
che determina una fluttuazione, legato a sostanze prodotte dal corpo
nelle diverse età (come la citochina del sistema infiammatorio e gli
ormoni): i neonati sono straordinariamente mattutini, gli adolescenti
hanno un ritardo di fase e diventano sempre più serotini mentre con
l’età si ritorna a essere mattutini. La caratteristica individuale è
data quindi dall’interazione tra tutti questi fattori: genetici, legati
all’età e all’alternarsi di luce e buio.
Melatonina e stagioni
Si è visto inoltre che il cervello è sincronizzato non solo con il
ritmo di rotazione della Terra, ma anche con la rotazione della Terra
intorno al Sole, quindi con la luce dei ritmi stagionali. Oltre
all’orologio biologico, si deve tener conto dell’ormone detto
melatonina, prodotto dalla ghiandola pineale secondo un meccanismo
complesso, anch’esso sincronizzato dalla retina: in presenza di luce la
melatonina non viene prodotta. Con il buio il cervello “prende”
serotonina (neurotrasmettitore collegato alla depressione), la
trasforma in melatonina e la libera nel sangue, segnalando all’intero
organismo che è notte ed è l’ora di passare alla fase notturna dei
cicli e andare a dormire. Questo segnale varia moltissimo a seconda del
fotoperiodo, cioè la quantità di ore di luce, dall’estate all’inverno.
A seconda delle stagioni, cambiano il numero di ore di luce e la loro
intensità. Il nostro cervello ne è informato attraverso la quantità di
melatonina che viene prodotta: tanto buio, tanta melatonina per tanto
tempo. È la luce che sincronizza questi ritmi stagionali: il ritmo di
produzione dei neurotrasmettitori (in primis la serotonina) segue
esattamente la quantità di luce disponibile. Se al solstizio d’estate
il cervello produce circa 1.000 picomole al minuto di serotonina, al
solstizio d’inverno la quantità è inferiore a 100. Quindi scende di 10
volte in autunno e sale di 10 in primavera: la depressione coincide con
la discesa e la risalita della serotonina. Con la tomografia a
emissione di positroni si può dosare nel cervello il trasportatore
della serotonina, una molecola che aumenta in tutte le aree cerebrali
al calare della luce, e vedere come cambia il sistema di trasmissione
della serotonina. Scopriamo che tanto più varia la produzione di
serotonina, tanto più le persone predisposte soffrono dei sintomi della
depressione stagionale. Se usiamo la luce per curare la depressione,
possiamo mappare nel cervello il cambiamento che regola il
trasportatore della serotonina: se riusciamo a riequilibrarlo, il
paziente guarisce. Riassumendo: nell’ipotalamo parte l’attivazione dei
geni dell’orologio biologico, che poi diminuirà durante la notte, e
così via con un ritmo ciclico. La luce fa partire la produzione di
serotonina, che di notte diminuirà. I tre principali bersagli delle
cure depressive (serotonina, dopamina e noradrenalina) seguono lo
stesso ritmo ciclico; i farmaci antidepressivi cercano di potenziarne
la trasmissione che è soggetta a ritmi circadiani. Sappiamo in più che
alcuni neuroni addirittura cambiano trasmettitori e liberano
l’attivazione dell’asse periferico dello stress. Sappiamo che alcuni
neuroni della retina regolano direttamente il sistema limbico e quindi
la capacità di provare emozioni positive o negative. Noi non abbiamo
paura “del” buio, ma abbiamo paura “al” buio. Un botto al buio genera
paura, una fortissima emozione negativa. Abbiamo mappato con precisione
questi circuiti e sappiamo come la luce li sincronizzi, modificando le
nostre preferenze diurne e facendo sì che nel cervello umano, in
funzione della quantità di luce che si è ricevuta nelle settimane
precedenti, i gangli della base cranica, le amigdale e la corteccia
cingolata (cioè il sistema cortico-limbico di controllo delle emozioni)
reagisca diversamente agli stimoli negativi, influenzando tutti i
sistemi ormonali neurotrasmettitoriali (persino gli ormoni della
tiroide) con una quantità di effetti. Si deduce che l’orologio
biologico controlla l’umore in mille modi regolando i
neurotrasmettitori, le risposte immunitarie, l’asse dello stress. Se io
lo perturbo (con il jet lag, o cambiando turno di lavoro) oppure lo
de-sincronizzo (modificando il mio sonno, la mia attenzione agli
stimoli, i miei ritmi di lavoro) possono esserci danni e l’insorgere di
depressione.
Luna e maree
Non dimentichiamo poi l’attrazione gravitazionale della Luna che, a
seconda della sua posizione rispetto alla Terra e al Sole, determina
maree più o meno forti. Oggi Thomas Wehr dell’unità di psicobiologia
clinica dell’NIMH, National Institute of Mental Health
degli Usa, dimostra scientificamente come i pazienti con disturbo
bipolare a cicli rapidi hanno i loro episodi di malattia secondo un
ritmo che riproduce quello delle maree lunari o, addirittura, il grande
ciclo perigeo, ossia quello delle superlune. Sono ritmi endogeni di
tono dell’umore, mini-cicli durante gli episodi depressivi. Conta poco
che ci sia il plenilunio o la Luna nuova, ma conta la forza di marea in
linea con la quantità di sonno. Oggi è possibile dire (è stato
pubblicato su Translational Psychiatry, la sezione di psichiatria sperimentale di Nature)
che i cicli di umore bipolare si associano ai cicli della Luna che
sincronizzano i ritmi circadiani. L’aveva detto Ippocrate: “L’uomo e il
suo ambiente non sono separabili”. Non posso separare il mio cervello
dal Sole, dai ritmi della Terra e dall’ambiente che mi circonda. E alla
fine, scrivevo anni fa su Biological Psychiatry, ciò che
caratterizza i pazienti con depressione bipolare o unipolare rispetto a
chi non ne soffre è “solo” il fatto di essere molto più sensibili a
questi ritmi e di avere meno meccanismi omeostatici di compensazione.
La reazione del cervello agli stimoli positivi o negativi viene
modificata e influenzata dalle piccole varianti alleliche dei geni
dell’orologio biologico. Esse non causano la malattia bipolare, non
causano la depressione, ma se si è depressi fanno sì che si diventi
molto più tristi con una differente capacità di elaborarne gli stimoli.
Il senso di colpa, l’autoaccusa, il pessimismo variano in funzione
delle varianti alleliche, in funzione degli eventi della vita esterna e
dei sistemi di sincronizzazione. Abbiamo mappato tutto ciò nel
cervello, scoprendo che queste persone tendono di più al suicidio a
causa di fattori genetici relativi all’orologio biologico che li
rendono più vulnerabili agli effetti distruttivi prodotti dallo stress
nell’intero organismo, compresi gli organi periferici.
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POETANDO POETANDO
Gruppo AUSER “Io poeto”
a cura di Francesca Ventura
Botton d'oro
Semplici fiorellini di campo di colore giallo.
Ne colgo qualcuno e li annuso,
con meraviglia sento un profumo delicato,
che non conoscevo.
Avevo trascurato di annusarlo una vita fa,
quando amavo il profumo delle rose
dei garofani, dei lillà.
Ora in questo aprile dominato dal Coronavirus,
il suo odore mi sembra un miracolo.
E il suo colore una promessa di vita nuova.
Maria Rosa Fiorini
Fantascienza
Quanto mi piacevano i film di fantascienza.
Certe situazioni inverosimili facevano paura,
ma sapevamo che erano remote fantasie.
Ora siamo dentro al film e ci facciamo tante domande.
Ci sarà un dopo? Come vivremo?
Un’incognita che ci lascia perplessi e impauriti.
Il Coronavirus dicono gli scienziati è sconosciuto,
molto pericoloso e ci seguirà per molto tempo ancora.
Dovremmo imparare a conviverci.
Gli scienziati e ricercatori stanno provando di capire
da dove viene e da cosa è nato, per poter creare un vaccino.
Tutti sappiamo che l’inquinamento, l’impoverimento della terra
e i mutamenti climatici sono i principali motivi.
Da parte nostra dovremmo apportare grandi cambiamenti
al nostro modo di vivere.
Molto più semplice, meno consumista, usando il buon senso.
Maria Rosa Fiorini
Covid 19
Siamo in febbraio e l’inverno non è ancora arrivato.
Da qualche giorno aleggia non già l’arrivo della neve
ma di una tempesta che chiamano Coronavirus.
Viene dalla Cina ed è sconosciuto agli scienziati.
È molto contagioso, non ci sono cure adeguate.
Ci sentiamo fragili, esposti, impotenti.
Siamo sospesi in una inquietante insicurezza.
È un incubo!
Il virus si presenta come una corona tempestata di pietre preziose.
La bellezza non è in questo caso un sinonimo benevolo.
Lo stiamo aspettando come nel periodo bellico
si temeva che cadesse una bomba.
Non sai dove piomberà ma farà sempre male.
Sappiamo ormai che l’odierna epidemia non sarà l’ultima.
Maria Rosa Fiorini
Estate
Mare d’oro,
grano maturo,
caldi bagliori.
Veloci
scintillii metallici,
rondini in volo,
sfiorano le spighe
e cantano.
Spettatori stupiti
papaveri, campanule
e azzurri fiordalisi.
Maria Rosa Fiorini
Luci
Gli occhi del bambino felice
brillano di luce.
Il viso degli innamorati
irradia luce.
Un’alba luminosa
incanta.
Il ricordo del lume di candela
della tua vecchia casa
commuove.
Compagna silenziosa di certe notti
lo splendore della luna
consola.
Maria Rosa Fiorini
Alta marea
Quando guardo l’argentea luna,
risplendere sul mare,
sento il cuore
battere più forte
per amore.
Le onde s’innalzano
battendo sugli scogli,
con la loro forza
l’acqua diviene bianca
spumeggiante desiderosa,
di raggiungere la sabbia,
dal sole abbellita
sulla riva,
in una calda giornata d’estate.
Questo movimento,
dura giorno e notte,
per ritornare basso
al mattino,
lasciando sulla spiaggia,
sepolte dalla sabbia,
luccicanti conchiglie
grandi e rosee come rose,
che attendono d’essere raccolte,
i segreti ed i misteri del mare.
Barbara Ventura
Ricominciare a vivere
Nelle testate dei giornali,
la problematica
del virus viene riportata,
affermando che lo stile
di vita che la società
vivendo sta
destinata a cambiare sarà,
sia nel settore del lavoro,
che dello shopping,
senza l’attività fisica
ed in palestra dimenticare
ma nell’ambito sociale
soprattutto quando
ci ritroveremo
nuovamente l’uno
di fronte all’altro
a chiacchierare,
senza trascurare
la gestione della sanità,
negli ospedali
o case di riposo,
ed infine delle modalità
con cui i genitori
educano i bambini.
Quest’epidemia,
per ricercatori e studiosi,
destinata a durare è
per molto tempo ancora
almeno sino a quando
un vaccino vero
e proprio trovato verrà.
Per l’epidemia evitare,
nuovi metodi
di sicurezza
sono stati adottati
attraverso la chiusura di spazi pubblici,
dalle persone frequentati, come
scuole, cinema, arene per concerti,
palestre, stadi,
aeroporti e posti di lavoro,
dai bar, alle pizzerie ai ristoranti, agli uffici.
Dopo l’epidemia,
la società costretta sarà,
ad attenersi al rispetto
di tali norme,
per la libertà un giorno ritrovare,
riunendosi assieme ad altre persone,
senza però trascurare
questa problematica,
apportatrice di diseguaglianza sociale,
rancore e dolore.
Barbara Ventura
Vivere per la libertà
Prima che quest’epidemia,
milioni di persone uccidesse,
la gente felice era
perché le giornate trascorreva
divertendosi fuori casa,
con gli amici e tra una risata e l’altra,
a mangiare,
o a ballare,
si andava
fino a sera tarda.
Prima che quest’epidemia avvenisse,
a lavorare,
al supermercato
ed ovunque volesse,
la gente
poteva andare.
Ora, invece tutto cambiato è,
perché le persone perduto hanno
la loro libertà,
dato che lottare devono
con la noia,
e col tempo,
che non passa mai,
per combattere
quest’epidemia invalicabile
che fine non ha,
uniti cerchiamo di stare,
così un giorno la sconfiggeremo,
per tornare
a vivere
con dignità.
Barbara Ventura
Ombra oscura
Studiosi e ricercatori
studiando stanno
approfonditamente le cause
dell’epidemia apportatrici
nella società,
affermando che quantità lievi
infettare possono
il soggetto,
mentre dosi maggiori
alla morte completa portarlo possono.
Stare lontani
dalle persone malate bisogna,
misure igieniche e preventive
il più possibile adottare,
lontani restare l’uno dall’altro,
quando parliamo
o ci si incontra,
in posti affollati.
Quest’epidemia per la società
è come un’ombra oscura
una nemica invalicabile da sconfiggere
perché costituisce una problematica
mondiale, psicologica, ed economica,
siccome le persone
una vita più normale non riescono
più a vivere
chiedendosi se un giorno,
un vaccino preventivo
trovato verrà,
per essere adottato,
per quest’epidemia combattere.
Perciò di rispettare
cerchiamo le norme preventive,
in casa restando,
sino a quando un giorno
alla normalità si tornerà
ed il sole risplenderà
per il raggiungimento
di un futuro migliore.
Barbara Ventura
La luce
Quando dalla finestra della stanza
mi affaccio, vedo nascere
il sole, con una luce
delicata ed abbagliante
illuminare l'universo.
Coi raggi suoi,
sembra una palla dorata,
che voglia il cuore raggiungere
degli innamorati
che si abbracciano
teneramente lungo
la riva del mar.
La luce del sole,
m'incanta perché brilla
tra le nuvole bianche,
nel cielo azzurro,
facendomi sognare
e sperare
nell'eterno amor.
Barbara Ventura
Passeggiata sul mare
Nuvole grigie offuscano il cielo,
delicato ed azzurro come un velo,
nella fredda mattinata
d’una triste giornata
di dicembre
passeggio in riva al mare
sognando di volare
nell’infinito verso nuovi orizzonti.
Le onde dell’acqua s’increspavano velocemente,
sui grigi e maestosi scogli tenacemente,
come una canzone
che crea nel cuore un’emozione,
regalando mistero
ed amore sincero
dentro l’anima fragile,
d’una donna sensibile
ed amabile.
In lontananza sull’acqua,
gabbiani bianchi volano
spauriti nell’azzurro cielo,
avvicinandosi alla riva del mare,
facendomi sognare,
quasi mi volessero parlare
del loro mondo allontanandosi all’improvviso
quando s’alza l’alta marea,
sugli scogli in riva al mare.
Barbara Ventura
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DI LUCE, DI BUIO E TANTO ALTRO
Gruppo di scrittura DiSegno InSegno – Budrio
RISVEGLIO
La
luce tenue e delicata risvegliò la bambina. Non fu un risveglio facile.
Il terrore aveva accompagnato la notte appena trascorsa, così come
accompagnava le sue notti. E come tante notti aveva cercato rifugio nel
grande letto con la madre ed il padre, ma essi l’avevano nuovamente
rimandata nella sua camera…Nel buio.
La bambina aveva cercato di spiegare loro come non le fosse possibile
dormire in quel letto e in quel buio pieno di mostri, che si rivelavano
solo a lei per spaventarla, perché è della sua paura che essi si
nutrivano. Non serviva, prima di dormire, scrutare ogni anfratto, ogni
angolo. Essi, con la luce, si disperdevano, perdevano consistenza,
divenivano invisibili.
Per coglierli di sorpresa la bambina ogni tanto accendeva la luce
all’improvviso, ma essi, veloci e perversi, riuscivano sempre ad
anticipare le sue mosse nascondendosi.
Lei sapeva che c’erano, ma non li aveva mai visti. Sapeva che doveva
prestare estrema attenzione a non sporgere la sua piccola mano dal
bordo del letto, perché sicuramente l’avrebbero aggredita e nessuno
sarebbe stato con lei a difenderla, non certamente la madre e il padre
che, quando si svegliava piangendo, spaventata la sgridavano a voce
molto alta, spaventandola ancora di più.
Ma fortunatamente era arrivata la prima luce, che ora filtrava tenue
tra gli interstizi degli scuri. Ora finalmente poteva chiudere gli
occhi senza timore, la luce l’avrebbe protetta come nessuno al mondo
poteva fare. La bambina sapeva che avrebbe potuto riposare per poco
tempo: la madre presto l’avrebbe svegliata, irritata per il proprio
sonno che lei aveva interrotto e richiamandola severamente alle
incombenze giornaliere.
E prima di uscire di casa avrebbe dovuto fare colazione con il latte
caldo e il caffè d’orzo, e questo alla bambina non piaceva: l’odore
dell’orzo le dava nausea e avrebbe tanto desiderato il caffè buono,
quello che la madre beveva più volte al giorno, quello che faceva un
profumo buono, che entrava in ogni angolo della casa.
Lei sapeva che quel profumo così buono era magico, non poteva non
esserlo! Ne era certa perché le poche volte che la madre lo aveva fatto
la sera, prima di andare a dormire, i mostri si erano presentati in
modo meno violento, sembrava avessero meno fame…
Dopo la colazione, la bambina avrebbe potuto finalmente uscire
saltellando su piccoli piedi calzati da piccole scarpette rosse per
affrontare un nuovo e luminoso giorno, preparandosi alla notte che
presto sarebbe nuovamente giunta.
Alina
CARAVAGGIO
Quando penso
alla luce penso subito a Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio. La
sua luce illumina, la sua luce nasconde. Illumina una mano vuota e
nasconde in penombra una mano con un pugnale. La luce nasconde creando
ombre e penombre. Nasconde visi, persone, cose. Se guardi la sua fonte,
ti abbaglia e ti abbacina in una cecità che ti impedisce di vedere cosa
hai di fronte. La luce si riflette, si rifrange, in un flusso infinito
passando attraverso lenti, vetri e distorcendo la realtà. Con la sua
magia, come scaturita da una bacchetta di una fata, ti invita a
guardarla attraverso un vetro che la trasforma da bianca a multicolore.
Attraverso una lente deforma oggetti e visi, deforma il vero. Si segue
la luce nella notte, perché è l’unica cosa che vediamo e il buio ci fa
paura, ma a volte quello che è illuminato non è sempre quello che
vorremmo e dovremmo vedere. Con la luce ti senti al sicuro e sei più
vulnerabile perché abbassi le tue difese, con la sua assenza invece
tutti i sensi sono all’erta in una danza di suoni, odori, bisbigli,
sensazioni. Allora ritorno con la mente a Michelangelo Merisi, detto Il
Caravaggio che ha capito la luce ed il suo contrario e ci ha giocato
insegnandoci che il bello e il buono non è sempre solo quello che
riusciamo a vedere.
Cuore Amaranto
STORIA E STORIE
Fin dalla
preistoria la luce ha regolato in maniera naturale la nostra vita. Si
pensi allo scandire delle giornate che era regolato solo dalla presenza
o dall’assenza di luce. Le giornate non erano regolate come adesso ma
iniziavano con il sorgere del sole e finivano con il tramonto. Con il
tempo l’uomo ha avuto la necessità di modificare il naturale svolgersi
dei giorni e delle stagioni a suo piacimento con l’utilizzo, tra
l’altro, della luce. Questo accadeva per la prima volta circa 52.000
anni fa con la scoperta e l’utilizzo del fuoco, non solo per cuocere il
cibo, ma anche per illuminare le caverne, allontanare gli animali e
allungare il tempo da condividere. La luce permette infatti di stare
insieme qualche ora quando il sole non c’è più, quando arriva la sera e
ci si ritira nelle proprie case in modo che la giornata non finisca,
che possa continuare nell’intimità di un salotto, nella piacevolezza di
una cena fuori o semplicemente di una passeggiata al chiaro di luna o
in una strada illuminata dai lampioni. Ma la strada per arrivare
all’elettricità è stata lunga, se pensiamo che il primo fuoco è stato
acceso 52.000 anni fa e l’elettricità è arrivata nelle nostre case solo
alla fine del 1800. Praticamente 50.000 anni in cui l’uomo ha provato
con vari metodi a ricreare la luce. Erano metodi familiari, ognuno
illuminava in base alle proprie possibilità con candele o lampade a gas
ma rimaneva comunque una cosa intima. Con l’avvento dell’elettricità è
stato tutto più semplice, basta un click ed il buio, la notte, l’ignoto
sparisce e si ha l’illusione che il giorno sia più lungo e che di fatto
siamo noi a comandare. Ma ovviamente era ed è solo una finzione.
Personalmente amo la luce, ma amo molto la penombra, la luce di una
candela, la luce del fuoco del camino, quel senso di calore, di
intimità, di privato che la luce del sole o la luce elettrica non
possono dare. Già gli antichi Egizi usavano illuminare case e palazzi
tramite lucerne a olio, ma la cosa più incredibile fu quella di capire
come ampliare l’illuminazione in ambienti bui tramite una combinazione
di specchi, usando un semplice principio di fisica per cui la luce
riflettendosi su uno specchio angolato nella giusta direzione poteva
propagarsi in tutte le stanze del palazzo o della piramide tramite una
sola apertura. La prima vera rivoluzione è dovuta ai Celti che furono i
primi a inventare la candela, metodo di illuminazione che verrà usato
per tutto il medioevo. Seguirono poi lampade a gas, a carbone, ma
nessuna permetteva di avere un'illuminazione così potente come la luce
elettrica. Fu solo nel 1879 che Thomas Edison brevettò un sistema di
illuminazione con filamento elettrico che cambiò radicalmente la storia
e l’evoluzione dell’uomo. Sicuramente l’elettricità ha permesso un
andamento esponenziale nell’evoluzione per merito delle sue
applicazioni, ma ha tolto secondo me quel senso di intimità e di
condivisione che avevano le candele o le lampade a olio. Perché la
penombra, il vedo non vedo, lascia spazio alle paure ma anche
all’immaginazione e l’immaginazione non ha confini. Immaginiamoci per
un momento riuniti in una stanza, una stanza di gente comune, alla fine
della giornata di lavoro tanti anni fa. Seduti intorno al tavolo, dopo
una cena frugale, la madre con in braccio uno dei bimbi, il padre a
capotavola, magari con la pipa accesa e altri bambini di varie età
tutti illuminati solo dalla luce di una candela. I loro volti
illuminati parzialmente, con la pelle colorata dai colori caldi dello
spettro del giallo e dell’arancione, i pochi mobili della stanza che
sono solo delle sagome indistinte dei quali si sente la presenza con
quel sesto senso in più che ci permette di vedere anche al buio, anzi
di sentire anche al buio e di muoverci con relativa tranquillità. Il
padre stanco dalla giornata di lavoro dedica comunque tempo ai figli
raccontando una storia, una storia di pirati o di streghe o una
leggenda popolare. I bambini che ascoltano con gli occhi sgranati, la
madre che osserva con occhi divertiti e indulgenti. A un tratto la
storia prende una piega più
avventurosa o terrificante. I bambini si guardano attorno ma vedono
poco, vedono forme indistinte nella penombra o nel buio ed è allora che
il pirata prende vita, la strega prende vita, il folletto prende vita e
le forme indistinte dei pochi mobili familiari e tanto cari cambiano
forma e cambiano in base al divenire della storia. Allora la credenza
diventa una nave pirata, il focolare dove la madre ha preparato la cena
diventa l’antro della strega, il sacco di farina nell’angolo diventa un
folletto, le erbe appese ad essiccare diventano fate ed i bambini si
spaventano e si divertono pensando di essere dentro la storia e di
essere i protagonisti. Poi la storia finisce, la candela si spegne e la
stanza con i giacigli pronti per la notte e illuminata solo dalla
scarsa luce della luna diventa culla e precursore di sogni dettati
dall’immaginario di bambino ma anche dell’adulto che per un attimo
prima di dormire può allontanare ogni preoccupazione e immaginare di
essere chi vuole e dove vuole e almeno per un momento tornare bambino.
Cuore Amaranto
LA MIA LUCE PREFERITA
Amo la luce
morbida, che abbraccia le forme in toni e sottotoni. Quella luce che
non delimita i contorni e non ferisce gli occhi. È la luce che, nelle
giornate estive, ci parla di un cielo velato, o di aurora, o di
crepuscolo. È la luce delle vie di mezzo. Racconta di nebbie mattutine,
che ti fanno intravedere il sole che le sta squarciando. È questa una
luce che non ferisce gli occhi.
Alina
FORSE UNA FIABA
Tanto, tanto
tempo fa, quando il mondo era molto diverso da quello che conosciamo
oggi, viveva una giovane donna che trascorreva la propria esistenza
cercando un illuminato, non era importante se uomo o donna,
l’importante era che fosse illuminato. Lo cercava in ogni angolo, in
ogni via, in ogni esperienza che incontrava sul suo cammino. Lo cercava
disperatamente, e ogni tanto pensava di averlo trovato. E allora andava
da tutte le persone che conosceva raccontando di quanto era
meraviglioso questo illuminato. Nel descriverlo diceva cose tipo: “Ma
vedessi come è bellissima questa persona”, oppure “È luminosissima”, o
“La sua luce arriva da dentro e si vede da lontano”. Addirittura di
alcuni diceva che avevano una luce che si irradiava dal cuore, o che la
materialità non li toccava, o che camminavano senza sfiorare il
pavimento. I suoi amici, i suoi conoscenti non capivano tanto bene cosa
volesse dire.
Loro non cercavano illuminati, ma erano impegnati a fare cose normali,
concrete, come mungere le mucche, zappare l’orto, crescere figli,
cucinare, viaggiare, innamorarsi, fare guerre, litigare. Lei, queste
persone, le chiamava 'materiali'. Lei, che invece non era materiale,
quando finalmente lo trovava, si godeva l’illuminato che aveva tanto
cercato. E trascorreva moltissimo tempo con lui, non voleva perdersi un
solo momento di tanta beatitudine. E per un po’ di tempo questa
beatitudine pareva infinita. Poi, a un certo punto, succedeva una cosa
molto, molto strana. Guardando l’illuminato, cominciava a vedere, in
tutta quella luce abbagliante, qualche punto un pochino meno rilucente,
una o più piccole macchiettine, a volte azzurre, a volte rosate…
Addirittura potevano essere rosse, o scandalosamente nere. A volte
erano piccine, come le cacche delle mosche, a volte più grandi, come
macchie d’olio sugli abiti.
E allora lei diceva che l’illuminato forse non era proprio tanto
luminoso, forse perché mangiava troppo, o forse sentiva i desideri
della carne, oppure aveva un ego non proprio perfetto… Allora, delusa
abbandonava il proprio illuminato e sconsolata riprendeva la propria
ricerca. Si dice che essa ancora viva e che abbia l’aspetto di giovane
donna. Pare che gli Dei le abbiano dato in dono l’eterna giovinezza,
ben sapendo che cercare la perfezione in terra richiede molto, molto
tempo e che non basta certamente una vita per una ricerca infinita…
Alina
M’ILLUMINO D’IMMENSO
M’illumino
d’immenso". So che la tutti la conoscono e certamente non voglio
spacciarla per mia né fare un’analisi del testo, ma queste quattro
parole mi rimbombano in testa. Mi illumino. La luce sono io, non solo
la porzione dello spettro elettromagnetico visibile dall’occhio umano.
Io risplendo, io mi illumino, io abbaglio con il mio essere me. Troppe
volte non mi sono illuminata e ho camminato nel buio; un buio nero
soffocante, senza speranza, senza niente che potessi vedere a cui
aggrapparmi. Sono stata senza luce per ore, a volte per giorni, a volte
per settimane, a volte per mesi, a volte per anni. Poi a un certo punto
quando ormai la speranza “di riveder le stelle” e di illuminarmi di
nuovo era persa, ho visto una piccolissima luce laggiù in lontananza,
una luce flebile come la fiammella di una candela mossa da un vento
inquieto, come me, che si affievoliva e tornava a risplendere, lottando
contro le intemperie per non spegnersi e per farmi trovare la strada,
farmi vedere gli appigli nel buio per potermi aggrappare e poterla
raggiungere. Poi piano piano, come chi annaspa nel mare per non
affogare, ho visto quegli appigli, li ho presi, mi sono aggrappata così
forte da farmi sanguinare le mani, fino a piangere dal dolore, ma non
li ho lasciati perché nel frattempo la luce si faceva più forte e
l’imboccatura del pozzo più grande e io ci credevo e allora le mani mi
facevano meno male e i passi erano meno pesanti. Alla fine sono uscita
nuovamente fuori, mi sono lasciata inondare dalla luce, accecare dalla
luce, mi sono illuminata dentro, mi sono illuminata fuori. Mi sono
illuminata e ho visto nella luce, che era sempre stata lì per me, ma
che non potevo vedere, ho visto gli alberi, i fiori, gli uccelli, ho
sentito gli odori, ho sentito una risata la mia, la mia che non sentivo
da tempo. E allora mi sono illuminata e ho cominciato a splendere di me
stessa come una luce, come una stella, come una supernova. Già una
supernova, pronta ad esplodere e implodere e a cadere nuovamente nel
pozzo senza luce giù, giù fino al fondo, sapendo che prima o poi
tornerò a salire e tornerò a cadere. È la mia vita. Non l’ho scelta io,
mi è capitata. Vorrei essere diversa molte volte, ma questa sono io e
ogni volta che cadrò di nuovo so che a un certo punto ritroverò la luce
e potrò dire di nuovo: “M’illumino d’immenso”
Cuore Amaranto
LA LUCE PER ME È FUGA
Da bambina ero
molto terrorizzata dal buio, non che alla soglia dei trent'anni la
situazione sia migliorata, ma come con altre mie fobie ho imparato a
conviverci. Ma quando a cinque anni vivi in una casa gigante, piena di
rumori e per la minima cosa devi per forza andare in un altro piano, la
paura di quello che potrebbe succedere quando spegni la luce diventa un
ostacolo insormontabile. E sei lì in taverna, appena finita la doccia,
che inizi a calcolare mentalmente il tuo percorso per stare tra le
tenebre il meno possibile: spengo la prima luce, corro verso l'altra
estremità della stanza, accendo la luce delle scale, controllo se
qualcosa si è mosso tra le sedie del tavolo o se la porta dello
sgabuzzino ha cercato di aprirsi, spengo la seconda luce e corro
velocemente su per le scale, tenendo controllata la situazione alle mie
spalle con la coda dell'occhio.
Questo mio piccolo rito di correre via dal buio per casa è un'usanza
che mi sono portata con me per anni, arrivando anche ad avere una sorta
di schema personalizzato per ogni piano per controllare che
effettivamente quel buio, da cui dovevo scappare, non nascondesse
altro.
Forse vi starete chiedendo se questo mio rituale alla fine fosse
effettivamente efficace e la risposta a questo quesito è molto
semplice: assolutamente no. Quello che lo rendeva impreciso e ulteriore
fonte di ansie era l'utilizzare il metodo di controllare quello che
accadeva alle mie spalle con la coda dell'occhio, infatti i giochi di
ombre e il mio correre repentino creavano nella mia mente mostri,
fantasmi e uomini ombra, pronti ad acchiapparmi se non mi fossi
sbrigata a raggiungere la luce.
Medea
ALI NERE
Quando sono triste non voglio essere consolato.
Ed essere accettato.
Voglio solo una luce che trasformi il mio buio
in ali nere e cazzeggiare un po'.
Cercherò un fiore solo quando avrò di nuovo sete.
Joe che cazzeggia un po'.
W Brescello!
Joe
NON C’È LUCE IN QUESTO TUNNEL
Trent'anni fa mi
sono ammalato di depressione e da allora vivo in un tunnel di
emarginazione di cui non vedo la fine. Tutti i famigliari, gli amici,
l’ambiente a cui appartenevo mi hanno messo da parte. Il lavoro, le
relazioni con le donne, tutto è diventato nulla. Posso dire di non
avere niente. Questo è un paese che non dà pace ai diversi. Prigioniero
di pregiudizi assurdi, spero che la luce della tolleranza illuminerà
prima o poi le menti e le vite dei nostri cittadini. Ma io non lo
vedrò, non in questo paese o in questo tempo.
Maax
LA LUCE… O NO?
Meglio il buio.
La luce conforma e conferma una sdegnosa realtà. Non vedere, procedere
a tentoni nel buio, non è poi così male e non si riesce a scorgere
nessun vuoto abissale… Quando capita di precipitare, meglio sarebbe non
guardare il fondo, come togliersi, chiudendo gli occhi, da questo
schifo di mondo.
Ros60
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IL SOLE SUL PAVIMENTO
L. L.
Che nella bella chiesa di san Petronio
sia custodita una famosa meridiana è noto a tutti i Bolognesi, ma
quanto sappiamo di questo gioiello della nostra città?
Molti chiamano impropriamente ‘meridiane’ gli orologi solari, quei
disegni che si vedono sui muri di case e chiese, su cui l’ombra dello
‘gnomone’ indica l’ora, ma la meridiana vera e propria è uno strumento
più complesso. In parte è paragonabile a un orologio solare
orizzontale, in cui lo gnomone non è un’asta, ma un foro posto molto in
alto. I raggi solari entrando dal foro generano un cono luminoso che si
proietta a terra, dove con calcoli accurati e grande perizia tecnica è
tracciata una retta corrispondente alla linea immaginaria del meridiano
locale. Uno strumento così concepito può segnalare l’istante in cui il
Sole risulta alla massima altezza, esattamente a metà strada fra l’alba
e il tramonto e in perfetto allineamento nord-sud. Poiché i raggi
solari assumono ogni giorno una diversa angolazione, è possibile
determinare per mezzo di un calcolo trigonometrico il centro proiettivo
solare sulla linea meridiana per un dato giorno e quindi calcolare, ad
esempio, l’esatta durata di un anno solare da equinozio a equinozio. La
meridiana di S. Petronio serviva proprio per questo, in vista della
riforma del calendario giuliano voluta dal papa Gregorio XIII. Fu
costruita nel 1576 secondo il progetto del domenicano Pellegrino Danti
(padre Egnazio), docente di matematica all’università di Bologna.
La meridiana di padre Egnazio, però non esiste più, fu distrutta nel
1653 durante i lavori di ampliamento della chiesa. L’astronomo Gian
Domenico Cassini colse allora l’occasione per proporre la costruzione
di un nuovo e più grande strumento per la ricerca scientifica e ottenne
l’autorizzazione dal Senato di Bologna. I lavori, accuratissimi e
costosi, si svolsero tra il solstizio d’estate e il solstizio d’inverno
del 1655. Il foro gnomonico, di forma circolare con diametro di 2,7
centimetri, fu collocato sul tetto a un’altezza di 27,07 metri e
cominciò a comportarsi, e ancora si comporta, come un vero e proprio
foro stenopeico, proiettando sul pavimento non una semplice macchia di
luce, ma l’immagine stessa del Sole, rovesciata come in una camera
oscura. Grazie a questa eccezionale qualità si potevano verificare le
dimensioni del diametro apparente del Sole, perciò il Cassini chiamò lo
strumento ‘eliometro’. La linea meridiana, ricavata ingegnosamente
sfruttando gli spazi tra le colonne, raggiunse i 66,8 metri (ancora
oggi la più lunga al mondo). In seguito a verifiche risultò che la
distanza sulla linea tra il punto verticale e il centro del solstizio
d’inverno corrispondeva alla seicentomillesima parte della
circonferenza terrestre. I risultati ottenuti dal Cassini grazie alla
meridiana di Bologna lo collocarono fra i più autorevoli astronomi del
suo tempo, tanto che fu chiamato a Parigi, a costruirvi una meridiana e
a dirigere l’osservatorio astronomico. È curioso notare che ai tempi
del Cassini, nonostante già da trent’anni circolassero le teorie
eliocentriche di Copernico, ancora si credeva che il moto del Sole
fosse reale e che la Terra si trovasse al centro del Creato. La Chiesa,
come noto, osteggiò duramente sia Copernico che uno scienziato come
Galileo. Eppure proprio all’interno di un tempio cattolico il Cassini
poté costruire e adoperare uno strumento come la meridiana e svolgere
senza pregiudizi i suoi studi scientifici. Anche altre grandi chiese
europee in quegli anni proprio per le loro eccezionali dimensioni
furono utilizzate come osservatori astronomici. Dopo la metà del
Settecento, la funzione principale delle meridiane rimase quella di
stabilire l’ora esatta. Fino agli anni trenta del Novecento la
meridiana di Bologna serviva ancora per regolare l’orologio
settecentesco a doppio quadrante (per l’ora italica e l’ora francese)
tuttora conservato all’interno della chiesa e quello che dalla torre di
palazzo d’Accursio si fa sentire in tutta la città.
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Il dissenso
Una delle
caratteristiche della democrazia è quella di comprarsi il dissenso
interno. A suon di soldoni foraggiano, in nome della libertà - di
stampa, di pensiero, di espressione, di manifestare - tutte quelle
forme di antagonismo e ribellione contro la democrazia stessa. Quindi…
tutti uniti a difesa della democrazia.
Piccoli genietti crescono
Sempre più
autoreferenziali. Si parla a noi e al nostro orticello, come se le cose
non fossero mutate. Ognuno, rinchiuso nel proprio recinto, chiamasi
specialista in materia. Ma comunque parcellizzati, come se dal piccolo
mondo si leggesse il grande mondo. Difesa corporativa del proprio
pezzetto di professionalità, così chiamata, e pretesa di comprendere le
dinamiche, a volte delicate, di meccanismi che riguardano persone poste
al di là della scrivania. Non siamo la stessa cosa: il paziente è il
paziente e il medico è il medico! Troppo facile raccontarsi che si
cerca il medico bravo, che ci curi e poi, giunti al termine, ci
dimetta. Non funziona così: il medico giudicato bravo è colui che ha
più ricoveri, fatti ad utenti che non vedranno mai le dimissioni per
ovvie ragioni.
Parole
Non sempre le
parole hanno un effetto ansiolitico... Spesso è la paura della paura
che ci pietrifica... Agire è pressoché impossibile... Mille paure e
timori si addensano nella mente e si continua a produrre mostri
immaginari.
La sbronza
Sofisticati,
fino a far raggiungere il mal di testa ad altri, oppure porsi in
maniera schietta e diretta? Quando si raggiunge la saturazione, capita
sovente di affogare le preoccupazioni nell’alcol con il risultato di
far cadere quell’ultimo baluardo di decenza che ci può
contraddistinguere dalle bestie... Pesantezza di ragionamento, unita a
un’insistenza che si crede fervida volontà nelle proprie idee (c’è chi
sostiene che colui che non beve ha qualche cosa da nascondere). La
sbronza a volte può apparire liberatoria e consolatoria a patto che non
diventi consuetudine.
Brevi riflessioni
Prendere in
carico, curare, dimettere: questa è la triade che contraddistingue un
medico e la medicina. Prendere in carico è la rete che si attiva
inizialmente, quando una persona vive momenti di malessere psichico.
Curare, è prendersi cura dell’altro predisporsi all’ascolto e
intervenire, anche con la somministrazione di farmaci, per lenire la
sofferenza. Fin qui nulla da dire. Ma - come si può intuire, dopo anni
di sosta al C.S.M da parte di un’utenza che probabilmente fa della
permanenza un traguardo - evidentemente riflettevo sulla parte delle
dimissioni da parte del C.S.M. Non capisco perché tale passo (le
dimissioni) sia una cosa ostica: il tutto è mirato giustamente al
mantenimento farmacologico da parte dell’utenza, ma anche il medico
della mutua te lo può prescrivere. Il rischio è di rimanere impaludati
in un ambiente, quello della psichiatria, così poco creativo e
stimolante, fatto anche di momenti drammatici come i T.S.O che, è
inutile ripetere, sono retaggio manicomiale del passato. Probabilmente
è la parola ‘guarigione’ che viene interpretata dal medico e
dall’utente in maniera completamente diversa, facendo innescare
aspettative diverse.
Mai generalizzare
Antagonismi e
furbizie caratterizzano certi personaggi che pensano di saperla lunga,
con il risultato spesso che i nodi, per chi ha i capelli, vengono al
pettine. Il pressapochismo, unito alla mediocrità, genera solitamente
‘mostri’, che se la raccontano e la raccontano ad altri. Uniti poi,
creano tipi di società che hanno come denominatore comune il
parassitismo: mangiare solitamente alle spalle di altri senza mai
pagare il conto. Se te li porti a casa ti rubano l’argenteria, arrivano
persino alle scene madri, tipo se non mi dai tento il suicidio, o cose
del genere... Sono in fondo solamente delle tigri di carta, incapaci di
stare in piedi con le proprie gambe, viziati e abituati alla pappa
pronta... Povera madre, che hai generato un tale mostriciattolo…
Il ruolo
Datemi il così
tanto ambito ‘ruolo’ nella vita. Se così non è, farò di tutto per
prendermelo: è mio e non di altri... La balaustra che si affaccia
sull’abisso del mio passato non lascia scampo... Chi semina vento
raccoglie tempesta.
Retaggi del passato
Perfettamente
integrati nella società, con stipendi medi e capacità di influenzare
l'ambiente umano circostante con delle filippiche che ricordano il
prete dal pulpito ("Fai ciò che dico e non ciò che faccio") i nostri
liberal italiani cugini di quelli americani ci danno l'impressione che
un loro pensare riecheggi, in certe situazioni, un modo di pensare
antico come la vecchia politica... Vota Antonio!
Sempre più sovente
Frammentazione,
specializzazione, segmentazione, parcellizzazione eccetera… fa rima con
alienazione. Non comprendere una procedura iniziale, né tantomeno la
parte finale di un processo, porta l’individuo all’alienazione e alla
deresponsabilizzazione dal risultato finale.
Doppio sogno
Chi difende
l’individuo dalle centrali di potere costituite da individui stessi?
Che sia Massoneria o Politica Sociale della Chiesa che si fronteggiano
spesso in maniera speculare salvaguardando i propri interessi, al
povero Omino non rimane che la via dell’esilio o del manicomio, tanto
nessuno ti crederà mai.
Resterei in equilibrio
È necessario
raggiungere una stabilità. Fatti bastare i pochi soldi che guadagni
facendoti un mazzo tanto al lavoro, le relazioni poi... Il massimo
garbo, per non destare indignazione nel prossimo, come soluzione un bel
corso di yoga abbinato ad una psicoterapia all’acqua di rose. Il tutto
chiaramente pagato di tasca propria, perché se vuoi resistere alla
tentazione di armare il grilletto non puoi non provarle tutte.
Dimenticavo, anche il Guru Indiano.
Peccato originale
Forse è la paura della recidiva... Come un masso legato a un piede è la
condanna che alcuni utenti hanno fin da un lontano passato. Come una
macchia indelebile che solo il carcere ti appioppa, l’utente è
indissolubilmente condannato e rinchiuso nella rete che si può
trasformare in ragnatela. Il peccato originale si trascina per un
lunghissimo tempo, negando ogni forma di cambiamento e negando la
trasformazione dell’individuo.
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ILLUMINAZIONE
U n giorno lo stigma iniziò a
passeggiare con la diversità, che fece luce, trasformando l’ignoranza
in comprensione. Lo stigma si scusò e disse che si sarebbe trasformato
in ‘stima’. Spiegò che ciò non equivaleva semplicemente a togliere la G
dal suo brutto nome: sti(g)ma, ma a un fatto di sostanza. Infatti aveva
capito l’importanza di una sua trasformazione, necessaria per il
benessere delle persone.
PSICHIATRIA E DISTANZIAMENTO (STORIELLA FRIULANA)
A
llora…C’è
un anziano che dice a un giovane: une volte, tu, come ti viodevin
particolar, plui straan dagli altri, plui… come si dis… plui pensieros,
introveers o sognador, oppure plui estroos, artist e logorroic… alore
ti miotevin in tal manicom e une volte entraat an buyaven vie, come si
dis, la clav, e non tu uscivi plui da chel puest lì, ombros e brutt,
tant brut che ere il manicom. Oggi invece ance a cause del coronavirus,
ma non sool di che question lì del virus minaccioos, comunque… oggi
manco te fan entrare dentri che ti dan le medisine lì, par il porton,
oppure te fan entrar dentri e dopo tre minuts che tu hai chiolto la
terapie intramuscolar oppure le pillolet orali, che ti dicon comu’tu
pudi lâ vie. Ci manca solo… come si dis… atu presente, a Napoli? Che si
ciacarin par il barcon, sul terrazzin, che si fevelino le person da
terrazzin a terrazzin: “Ciao compare, che, me dai un po’ de detersivo,
che devo fare il bucato?”, oppure: “Compare, dam nu poc nu poc a torta
che hai fatto”, e quello gliela dà. Ce manca che te fevelino par il
barcon…
TRADUZIONE
Allora… C’è un anziano che dice a un giovane: una volta, quando ti
vedevano particolare, più strano degli altri, più… come dire… più
pensieroso, introverso o sognatore, oppure più estroso, artista e
logorroico… allora ti mettevano in manicomio e una volta entrato
buttavano via, come si dice, la chiave e tu non uscivi più da quel
posto lì, ombroso e brutto, tanto brutto, che era il manicomio. Oggi
invece, anche a causa del coronavirus, ma non solo per quella faccenda
lì, del virus minaccioso, comunque… oggi manco ti fanno entrare che ti
danno le medicine lì, dalla porta, oppure ti fanno entrare e dopo tre
minuti che hai ricevuto la terapia intramuscolare o le pillole orali ti
dicono che te ne puoi andar via. Ci manca solo… come si dice… hai
presente a Napoli? Che chiacchierano dal balcone… sul terrazzino, che
le persone si parlano da terrazzino a terrazzino: “Ciao compare, me lo
dai un po’ di detersivo che devo fare il bucato?”, oppure: “Compare,
dammi un po’ un po’ la torta che hai fatto”, e quello gliela dà. Ci
manca solo che ti parlino dal balcone…
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I RAGGI DI LUCE
Vi segnaliamo un
simpatico sito di didattica chiamato Il Piccolo Friedrich, ideato da
Cristina Sperlari, insegnante laureata in Scienze della Formazione
Primaria, che tra l’altro ha messo a disposizione online moltissimo
materiale per le lezioni a distanza in tempo di COVID19. Ci è piaciuto
come questa giovane maestra ha introdotto ai misteri della luce e dei
colori una quarta elementare. Qui riportiamo solo la prima parte, ma vi
consigliamo di andare a curiosare, anche per vedere le belle immagini.
https://ilpiccolofriedrich.blogspot.com/2015/12/la-luce.html
Ecco il lavoro sulla luce svolto in classe quarta e raccontato dai miei
alunni:
“Le scorse settimane abbiamo iniziato un nuovo argomento di scienze.
Abbiamo parlato del Sole e dei suoi raggi. I raggi del sole sono tre:
I raggi sono radiazioni, cioè l’energia che il Sole emette quando
brucia. Sono come dei superpoteri che ha il Sole, che ci permettono di
vivere sulla Terra. I tre raggi viaggiano sempre insieme, uniti e
sempre diritti. Ma hanno tre compiti diversi: il raggio luce illumina e
ci fa vedere luci, ombre e colori, il raggio infrarosso scalda e crea
calore e il raggio ultravioletto ci fa abbronzare, ci fa stare bene, ma
è anche il più pericoloso perché può fare del male ai nostri occhi e
alla nostra pelle. Durante le scorse lezioni, abbiamo fatto un po’ di
esperimenti con i raggi luce. Ecco qui alcune immagini che li mostrano.
Prima di tutto abbiamo oscurato totalmente la nostra aula: abbiamo
abbassato le tapparelle e spento le luci... C’era un bel buio e non si
vedeva niente! La maestra Cristina ha acceso una piccola torcia: si
riusciva a vedere qualcosa, ma i colori non erano chiari. Abbiamo
provato ad indovinare i colori delle mongolfiere appese alla parete:
qualcuno ha detto che il colore indicato dalla maestra era verde...e
invece era un bell’arancione! Poi la maestra ha acceso una lampada da
tavolo, più luminosa. La lampada illuminava una parete della nostra
classe. Abbiamo provato a mettere le mani e degli oggetti davanti alla
luce: si creavano delle bellissime ombre! Abbiamo scoperto che più
l’oggetto è vicino alla lampada, più l’ombra che forma è grande. Più
l’oggetto è lontano dalla luce, più l’ombra che si forma è piccola.
Secondo noi, l’ombra è la sagoma di un oggetto o di una persona che
ferma la luce. Abbiamo provato anche a mettere degli oggetti diversi
davanti alla luce, per vedere che cosa succedeva. Abbiamo messo un
barattolo, un sacchetto e una zuppiera. Il barattolo fermava
completamente la luce e creava una bella ombra nera. Si dice infatti
che è opaco. La zuppiera lasciava passare completamente la luce e non
aveva quasi per niente un’ombra. Si dice che è trasparente. Il
sacchetto fermava la luce solo in parte e ne lasciava passare un po’.
La sua ombra era chiara. Si dice che il sacchetto è traslucido. Abbiamo
anche provato a mettere davanti alla luce un foglio bianco. Succedeva
una cosa particolare: la parete opposta a quella illuminata diventava
di colpo più chiara. Abbiamo scoperto che alcuni oggetti sono in grado
di riflettere la luce. I raggi luce, infatti, li colpiscono, ma poi
rimbalzano e vanno a finire dalla parte opposta del foglio. Abbiamo
provato a mettere davanti alla lampada anche un tappo metallico di un
barattolo e uno specchio. Questi oggetti riflettevano molto di più la
luce e la parete sul fondo della classe era molto più illuminata. Lo
specchio era l’oggetto con la capacità maggiore di riflettere la luce:
il suo riflesso, se finiva negli occhi, dava molto fastidio! Abbiamo
messo davanti alla lampada anche un grembiule nero: questa volta la
parete opposta rimaneva molto scura. Il grembiule, infatti, come tutti
gli oggetti scuri, assorbe la luce, perché quando i raggi sbattono su
di esso, rimangono lì e non rimbalzano. Se però l’oggetto è nero e
lucido, come il quaderno di Jacopo, un po’ di luce riesce comunque a
rifletterla. Siamo infine andati in giardino per provare un altro
esperimento. Abbiamo messo un prisma (un oggetto tridimensionale di
vetro) su un foglio bianco al sole. Il risultato è stato meraviglioso:
si è formato un bellissimo arcobaleno! Abbiamo ipotizzato che il prisma
riuscisse a rompere in qualche modo il raggio luce e a far uscire i
colori. Per adesso, comunque, non abbiamo ancora un’idea chiara di che
cosa succeda. Intanto abbiamo detto che, secondo noi, i colori che si
riescono a distinguere nell’arcobaleno non sono 7, ma 4 o 5 al massimo.
Continueremo a lavorarci per capire meglio e a fare altri esperimenti
durante le prossime lezioni di scienze!”…
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CINEFORUM A SABBIUNO UPSIDE DOWN
Luca Gioacchino De Sandoli
L
a
prima volta che al ‘Provvidone’ di Sabbiuno si è tenuto un cineforum è
stata l’11 settembre 2015. Già prima di questa data avevo iniziato a
maturare l’idea di vedere qualche film tutti insieme, fin da quando nel
mese di febbraio avevo conosciuto Giovanni e altri nuovi amici di mia
madre, che era rimasta sorpresa del fatto che volessi andare con lei a
conoscerli e in seguito anche frequentarli. La compagnia di Giovanni e
del gruppo dei Galapagos
è stata piacevole al punto che due mesi dopo ho voluto assistere
all’inaugurazione del ‘Provvidone’ con taglio del nastro. Quel giorno
io e mia madre abbiamo visto un volantino sulle vacanze del Fare
Insieme e abbiamo deciso che avrei provato durante l’estate ad
aggregarmi con una comitiva che quell’anno avrebbe fatto una vacanza in
Garfagnana. E quando andai a chiedere informazioni sul gruppo e
sull’incontro da fare prima della vacanza in modo che i partecipanti
potessero conoscersi, sono stato convinto da Elena Pasquali a
partecipare al suo laboratorio di scrittura. Così è nata la mia
collaborazione con Il Faro. In pratica nella prima metà del
2015 mi sono fatto una schiera di nuovi amici e conoscenti: Giovanni,
Stefano, Pasquale, Fabio, Antonio sono solo alcuni di questi.
Di solito vado a Sabbiuno ogni due settimane per cenare, parlare e
giocare con i presenti, anche se a volte ho pure assistito a iniziative
e attività diverse. Da quella sera di febbraio le attività proposte
erano state tante. Per esempio, si sono organizzati un corso di DJ e
un’attività di lavori manuali. Io e Fabio abbiamo anche tenuto un corso
di scrittura, ma è durato poco. Così com’è durato poco il cineforum,
per mancanza di mezzi e di tempo e perché i componenti dei gruppi che
frequentano il ‘Provvidone’ preferiscono le attività sportive. I Galapagos
non fanno eccezione, avendo fatto una convenzione con la piscina di S.
Pietro in Casale. Ma la proposta di vedere un film tutti insieme, che
avevo fatto a febbraio, piacque a molti, bastava organizzarsi e
mettersi d’accordo, e così si è fatto. All’inizio pensavo che ci si
sarebbe potuti connettere e vedere dei film in streaming, poi
che si potessero vedere DVD e VHS, visto che a Sabbiuno sono presenti
molte cassette, ma mancavano modem, lettore e videoregistratore. E
allora ho dovuto accettare l’idea di procurarmi o farmi procurare i
film da far vedere e metterli in una chiavetta da attaccare a un
computer. Fissata la data del primo cineforum si era annunciata la cosa
su internet e si erano scritti gli inviti. Quella sera, dopo mangiato,
abbiamo spostato i tavoli e piazzato le sedie. C’era chi aveva il
proiettore, chi lo schermo, chi un altoparlante, chi il portatile. Io
avevo la chiavetta con dentro il film che avevo scelto da mesi, Upside down.
Più che vederlo con Giovanni e gli altri volevo condividerlo con loro.
Oltre a presentarlo volevo spiegare quanto mi fosse piaciuto e mostrare
le cose interessanti che avevo notato nella storia narrata, e infatti
nella chiavetta c’erano anche delle immagini che volevo mostrare
durante la presentazione. Abbiamo prima fatto qualche prova, sia con
l’audio che con la visuale. Per più di una volta l’immagine è apparsa
sfocata, finché abbiamo trovato la giusta nitidezza. Finalmente tutto
era allestito, e alcuni si stavano persino preparando i popcorn. E io
potevo cominciare a presentare Upside Down. C’erano dieci - quindici spettatori con me.
Ho detto subito che il titolo non è un’allusione alla canzone di Diana Ross, ma è solamente un contesto fantascientifico (Upside down
letteralmente vuol dire ‘sottosopra’). Ho anche detto che intitolare
un’opera non è sempre facile: a volte basta il nome del protagonista, o
del luogo d’ambientazione, ma si può usare anche una frase o una parola
ricorrente, o una frase o una parola usata una volta sola nella
narrazione. In questo caso, Upside down è una storia ambientata
in due mondi opposti, collegati fra loro da un grande palazzo,
orbitanti intorno allo stesso sole e sottoposti a gravità inversa:
ciascuno subisce la gravità del mondo a cui appartiene e non di quello
opposto, di cui vede a testa in giù gli abitanti, i grattacieli e i
monti. E nessuno di loro casca di sotto pur essendo alla rovescia. Come
sono arrivato a vedere Upside down? Si potrebbe pensare che mi
abbia interessato perché mi piace la fantascienza, in realtà lo volevo
vedere solo perché c’era come protagonista femminile Kirsten Dunst. Se
non fossi diventato un suo fan, non avrei mai visto Upside down
come anche tanti altri suoi film. E questo è un film pieno di luce, il
più luminoso della sua filmografia che abbia mai visto, reso luminoso
dal grandioso sole che illumina i due mondi che orbitano intorno ad
esso. Quando l’ho guardato per la prima volta, più di due anni fa, ne
sono rimasto così colpito che sono andato a dormire serenamente. In un
momento successivo, mi è venuto da riflettere. Molto tempo prima di
vedere il film, mi ero documentato sulla storia dell’Unione Sovietica e
quella dei paesi del Patto di Varsavia, scoprendo la differenza tra
questi e quelli dell’Europa Occidentale. Questi ultimi erano ricchi,
prosperi, moderni, tecnologici; i Paesi alleati dell’URSS invece erano
sobri, poveri, arretrati. Perciò, quando ho visto una strada del Mondo
di Sotto, quello del protagonista maschile, ho subito voluto chiedere a
mia madre se una sua collega rumena si ricordasse com’era il suo paese
ai tempi di Ceausescu, ma non lo sapeva. E non ci sono Rumeni che sono
felici di parlarne. Però sono convinto che la Romania, a quei tempi,
era messa male quanto il Mondo di Sotto, avendo visto in quest’ultimo
palazzi in rovina, strade rotte e soprattutto le Trabant, le utilitarie
più guidate allora nei paesi dell’Europa Orientale.
Ho dunque raccontato che quando ho sentito parlare per la prima volta del film, ho subito pensato a Inception
con Di Caprio: anche qui si vedono palazzi e strade rovesciate. Dal
computer a cui era attaccata la chiavetta, ho mostrato delle foto di Inception
con due città opposte. Ho spiegato che ripensando ai due pianeti, ho
cercato di figurarmeli visti dallo spazio: ho immaginato un sole che
illumina non tanto i due mondi, ma il Polo Sud del Mondo di Sopra e il
Polo Nord del Mondo di Sotto, ossia i luoghi in cui si trovano le due
città che sorgono intorno al palazzo che collega i due pianeti. Per
spiegarmi meglio, ho mostrato a tutti due miei disegni fatti al
computer e salvati sulla chiavetta. Nel primo c’era la Terra con i due
Poli colpiti di striscio dal nostro Sole, e che quindi sono due zone
immense, fredde e deserte. Ma se immaginiamo di mettere in Antartide
grattacieli, montagne e altre cose, otteniamo qualcosa che non è poi
tanto dissimile dall’Europa. E infatti nel secondo disegno il sole del
sistema solare di Upside down si trova in una posizione tale
che il suo calore e la sua luce colpiscono in pieno i poli dei due
mondi opposti, le due estremità del palazzo che li collega e le due
città che vi sorgono attorno. Nel film ho notato anche parecchie
allusioni ad argomenti seri, come lo sfruttamento dei Paesi ricchi nei
confronti di quelli del Terzo Mondo, la globalizzazione, e mi è venuto
quindi spontaneo paragonare la barriera che idealmente separa i due
mondi con la barriera ideale e fisica che separava le due Germanie ai
tempi della Guerra Fredda. Allora ho mostrato agli spettatori alcune
foto scattate a Berlino un mese dopo aver visto il film e che
ritraevano alcune Trabant e un murale raffigurante l’automobile,
disegnato sul famoso Muro. Mentre cominciavano a circolare i popcorn,
ho anche mostrato senza volerlo una foto della Dunst. Gli altri hanno
capito subito che era “quella che ha fatto Spider-Man”. Ho detto loro
che molti dei suoi film purtroppo vengono trasmessi solo su canali che
non sono quasi mai Rai o Mediaset e spesso solo dalla seconda serata in
poi. Ho sentito una certa frenesia fra gli spettatori, allora ho capito
che volevano che si cominciasse e dato loro tre avvertimenti: primo, di
non turbarsi se sentivano ogni tanto dei fruscii, il file con dentro il
film era così; secondo, che i titoli di coda non avevano la musica di
sottofondo; terzo, che c’era una scena del film che io oso paragonare a
una scena di Amici miei. So bene che è improponibile fare un
paragone tra questo pilastro della commedia all’italiana e un film di
fantascienza poco conosciuto come Upside down, ma io ho paragonato due scene, non i due film.
Alla fine della presentazione e dopo aver dato gli avvertimenti, cosa
ancora potevo dire? Solo questo: “Buona visione!”… Erano le 21 e 38.
Sono corso ad avviare il film, poi a spegnere le luci, poi di nuovo a
sedere, e poi abbiamo messo il film a schermo intero. E abbiamo sentito
la voce di Adam Kirk, il protagonista maschile di Upside Down
interpretato da Jim Sturgess: “L’universo, così ricco di meraviglie!
Potrei passare ore e ore a osservare il cielo! Quante stelle…”.
Oltre a spiegare quel che io avevo anticipato sulla gravità opposta dei due mondi Adam racconta che TransWorld,
l’azienda del Mondo di Sopra che ha come sede il grattacielo che
collega i due mondi, acquista il petrolio del Mondo di Sotto per un
boccone di pane, per poi rivenderglielo sotto forma di elettricità a un
prezzo esagerato. Qualche scena dopo, abbiamo visto una frittata
fluttuante nell’aria preparata dalla zia di Adam quando egli era un
ragazzo: una frittata preparata con il Polline dalle Api Rosa, che non
è soggetto agli effetti della gravità. Poi abbiamo visto Adam adulto
salire sulle Montagne Sagge e incontrare Eden Moore, personaggio
interpretato da Kirsten che abita nel Mondo di Sopra. Ebbene sì, anche
le vette di due montagne opposte sono un punto di incontro fra due
persone dei due mondi. Purtroppo però questi incontri sono
vietatissimi. Proprio come lo erano quelli fra gli abitanti di Berlino
Ovest e Berlino Est divisi dal Muro. Non a caso anche nel film c’è la
polizia di frontiera che incontra i due innamorati e gli spara contro,
spezzando la fune con cui Adam stava riportando Eden verso il suo mondo
e causandole una caduta talmente rovinosa che sembra ucciderla. Qualche
scena dopo, ambientata dieci anni dopo questo incidente, vediamo Adam
impiegato in un robivecchi, atto a far ricerche sul Polline delle Api
Rosa e a ricavarne una qualche utilità pratica, come una crema
anti-età. Proprio in quel momento, Adam sente il nome di Eden Moore
alla televisione, si gira e la vede! È viva, non è morta in
quell’incidente! In quel frangente, Eden racconta che lavora a TransWorld, estrae il numero vincente di un concorso e fa un sorriso radioso. La gioia di Adam nel rivederla è davvero forte.
Poco dopo, si vede Eden bere un cocktail col bicchiere al contrario
senza che il contenuto caschi giù (e che dà anch’esso il titolo al
film) e ballare un tango. Da qui, ho presunto che in quei due mondi c’è
una minoranza che parla spagnolo, oltre alla lingua predominante che è
l’inglese. Adam decide di farsi assumere nella ditta del Mondo di
Sopra, dove lavorano anche abitanti del Mondo di Sotto, a cui è però
vietatissimo relazionarsi coi colleghi del mondo opposto se non per
motivi di lavoro. Adam non vuole solo continuare le sue ricerche che
interesseranno moltissimo i dirigenti, ma anche incontrare Eden. Lei
intanto prende parte a un gruppo di auto-aiuto nel quale rivela che
nell’incidente di dieci anni prima ha perso la memoria.
Ricordo che durante la proiezione ho sentito fra il pubblico qualche
commento e qualche risolino, però nessuno si è fatto beffe del film,
anzi. Mi aspettavo che gli altri ridessero quando Adam apre la sua
bottiglia di benvenuto e questa gli si schizza in faccia perché è del
Mondo di Sopra. Invece hanno riso nelle scene in cui Adam si prepara
per incontrare Eden con l’aiuto di alcune placche di materia inversa,
in grado di contrastare per un po’ la gravità del mondo opposto per poi
bruciare; hanno riso quando lui rompe lo specchio mentre si fa bello,
quando lui sente le placche iniziare a bruciargli sotto i vestiti
mentre parla con Eden impegnata con un origami a forma di grattacielo,
quando lui va a orinare e si vede la sua pipì andare verso l’alto e
colpire un rilevatore di fumo. E poi, hanno riso quando lui va a pranzo
con Eden e si vedono le sue scarpe fumare (perché anche lì ci sono le
placche di materia inversa). Hanno riso nel vederlo correre come un
matto, tuffarsi in un fiume, togliersi scarpe e placche e passare
dall’acqua del mondo di Eden a quella del proprio con una velocità
impressionante. Nel frattempo Adam ha fatto amicizia con Bob, un
impiegato del Mondo di Sopra bonario, di larghe vedute, appassionato di
francobolli rari di entrambi i mondi. Bob dà il suo pass ad Adam che
può così andare nel Mondo di Sopra e presentarsi a Eden con il suo nome
per evitare di far capire che è del mondo opposto a qualche collega
della ragazza e farsi arrestare. Eden però non lo riconosce proprio in
seguito al suo incidente sulle montagne. E Bob viene licenziato.
Vediamo poi Adam provare la crema anti-età prima su un mastino
napoletano e poi su una donna durante una dimostrazione. Qui Eden lo
vede, Adam è costretto a rivelare il suo vero nome e scappa, inseguito
dalla polizia. E ancora una volta sento dei risolini fra gli astanti
quando vedono la cravatta di Adam ritta verso l’alto. Qualche scena
dopo, finalmente, Eden si rammenta ogni cosa, ritrova felicemente Adam
nel locale in cui ha bevuto il cocktail, lo vede di nuovo scappare. E
ancora, vediamo i due baciarsi sulle Montagne Sagge sospesi in aria
ruotando su sé stessi.
E questa volta Adam non ha bisogno delle placche di materia inversa,
perché Bob gli ha confezionato dei vestiti in grado di contenere la
gravità del pianeta opposto. Poco dopo arriva la polizia di frontiera
con tanto di cani, i due innamorati corrono via, fanno un paio di salti
presso una strana costruzione, si separano, lei viene arrestata, lui
allontanato da TrasWorld e minacciato dalla polizia di non vedere più
Eden.
Intanto, la TransWorld non può più realizzare la crema
anti-età perché non conoscono l’ingrediente principale, Bob e Adam sono
gli unici a saperlo. Di conseguenza, Bob vende i francobolli e compra
il brevetto della crema anti-età prima che lo faccia la mega-ditta del
Mondo di Sopra. Nel finale, Eden incontra di nuovo Adam e gli rivela di
essere incinta di due gemelli, il che significa che i due innamorati
potranno stare insieme per sempre. Da qui ho presunto che i due
gemelli, essendo due ibridi, potranno passare da un mondo all’altro
senza subire problemi di gravità, perché predisposti sul piano
biologico. Col tempo, grazie alle scoperte e invenzioni di Adam e Bob,
i due mondi si connetteranno fra loro, aumenteranno le nascite di
ibridi, il Mondo di Sotto diverrà ricco e prospero quanto quello di
Sopra e si abbatterà ogni barriera (tanto che si vedono alcuni bambini
dei due mondi giocare a basket). L’immagine si fa nera, appare il nome
del regista Juan Solanas (del quale io non conosco nessun’altra opera)
e poi i nomi dei protagonisti Jim e Kirsten. È a quel punto che tutti
rammentano il nome della donna nella foto che ho mostrato loro durante
la presentazione. E al momento del dibattito, in cui tutti esprimono il
loro grande apprezzamento per la pellicola, io dico che Upside down
è un film indipendente, e dato che tutti i miei compagni di visione
sono rimasti incuriositi dall’immagine di Kirsten, ne approfitto per
spiegare loro cosa avrebbero dovuto notare di lei, oltre che a godersi
la storia d’amore e lo scenario. Ho detto loro di notare bene la sua
acconciatura e il suo abbigliamento nella foto, tratta dalla scena in
cui è impegnata con l’origami a forma di grattacielo e incontra Adam, e
di notare quanto sia illuminata nella suddetta foto. Tutto questo fa
veramente pensare che lei sembri una santa, una Madonna col mantello e
i capelli biondi. Qualcuno ha capito e detto che ne sono innamorato, e
ha ragione. In questo film Kirsten, oltre ad essere adorabile, in molte
scene e nel finale è illuminata dal sole che riempie di luce i paesaggi
e i grattacieli dei due mondi, ma a me in particolare a volte lei
sembra illuminare e allo stesso tempo essere illuminata di suo per la
sua bellezza. Praticamente un sole umano!
Sono poi passato a cose più serie: ho detto che un amico di Facebook ha
visto pure lui il film e che la trovata dei due mondi era notevole, la
trama invece era trita e ritrita.
È proprio questo il problema! Upside down avrebbe potuto
essere molto di più che una storia d’amore luminosa, ambientata in un
contesto fantascientifico! A furia di ripensare al film, mi sono fatto
alcune domande: come e quando si è formata la civiltà umana su quei due
pianeti? Quali sono le sue caratteristiche? Solitamente gli scrittori,
quando creano una storia ambientata in un contesto originale, lavorano
sulla storia, la geografia, la fisica e quant’altro. Invece Solanas si
è limitato solo a fare una storia d’amore e a costruirvi intorno il
contesto fantascientifico senza preoccuparsi dei dettagli! Esempio: se
la Terra non è piatta, perché dovrebbero esserlo quei due mondi? È vero
che in apparenza sembrano piatti, dal momento che vediamo solo le due
città, ma forse i pianeti a cui appartengono non possono essere piatti
invece che rotondi. Poi ho anche rispiegato che quelle due città
collegate dal grattacielo devono per forza appartenere ai poli di due
mondi opposti riscaldati dal loro sole esattamente come il nostro
riscalda l’Europa, e ho fatto notare l’aspetto del Mondo di Sotto
all’inizio del film, che mi ricordava molto certi paesi sfruttati. E la
Romania di Ceausescu. Sono passato subito all’argomento dello
sfruttamento dei Paesi ricchi verso quelli poveri. Il Sud Africa ed
altri Paesi simili hanno ricchezze che però vengono sfruttate da
potenze come gli Stati Uniti. Ebbene, allo stesso modo, il Mondo di
Sopra sfrutta il Mondo di Sotto comprando il suo petrolio e
facendoglielo ricomprare sotto forma di elettricità a un prezzo
superiore. E chi rappresenta il Mondo di Sopra? TransWorld. Ed eccoci all’argomento della globalizzazione: è TransWorld
a gestire l’economia dei due Mondi, traendo vantaggio per sé e per il
Mondo a cui appartiene. Tant’è vero che tutto, anche la televisione,
porta il suo nome e il suo marchio. Uno spettatore, prima della
proiezione, ha menzionato le opere di Marx. Ebbene io, in un forum,
avevo letto che in Upside downci sono in apparenza sottili
rimandi a Marx ed Engels. Ma più che altro, ci sono rimandi alla
globalizzazione e alle opere di Naomi Klein, una giornalista canadese
autrice del testo No Global considerato la Bibbia della
globalizzazione. Ho detto a tutti di provare a immaginare un mondo nel
quale TUTTI i vestiti, ma proprio TUTTI, portano solo il marchio Nike,
oppure i cui cibi hanno solo il marchio McDonald’s. Come sarebbe un
mondo così? Una noia, ho commentato io. Purtroppo il mondo già adesso è
un po’ così, hanno risposto gli amici. Non solo io ho trovato bello il
film e ho avuto da ridire sul fatto che si poteva approfondire di più
la storia dei due pianeti in cui è ambientata la storia d’amore, molte
persone su internet hanno scritto questa stessa cosa. E che sono
rimaste deluse nello scoprire che non era tratto da un libro di
fantascienza e che era una storia inventata da Solanas, la cui
intenzione era solo narrare una storia d’amore e nulla più. Un altro
spettatore ha affermato che il film meriterebbe un sequel: “Magari!”,
ho detto io. Non credo purtroppo che se ne farà uno. Né tanto meno un
prequel, proprio per spiegare l’origine di questi due mondi, o
dell’origine dell’umanità, o delle civiltà e delle due città mostrate.
Per comodità di chi guarda il film, si è lasciato intendere che per una
gran coincidenza, l’alfabeto e la lingua siano gli stessi di chi parla
inglese, nonostante ci sia una minoranza spagnola come dedotto dal
tango sopracitato. Ci sono distinzioni e separazioni dovute al mondo di
provenienza, ma non ci sono distinzioni di pelle, poiché sono presenti
anche personaggi di colore. Facile presumere che l’origine dei bianchi
e dei neri su quei due pianeti, e la loro integrazione, sia stata
leggermente diversa che sulla Terra, pur ottenendo lo stesso risultato
di oggi, con neri e bianchi che vivono insieme nello stesso territorio.
Mi hanno chiesto se il film fosse vecchio. Non lo è, è del 2012. E ho
ripetuto che è indipendente, cioè non finanziato da una qualche nota
casa cinematografica. Non so quanto hanno speso per farlo, forse poco,
e non so nemmeno per quanto tempo sia stato messo in commercio né
quanto siano stati ampi i circuiti di distribuzione. Ho detto che non è
facile trovarlo in DVD di persona. Forse, su eBay, c’è qualche
possibilità in più. Comunque, proprio il fatto che si tratti di un film
indipendente con una storia assai banale che offusca il contesto
luminoso e originale pare essere stata la fonte dell’insuccesso di Upside down
e della sua scarsa diffusione. Penso però di essere riuscito
nell’intento di convincere i presenti che non è solo un magnifico e
luminoso film con Kirsten Dunst, ma anche un film che involontariamente
fa pensare alle due Germanie durante la Guerra Fredda. Non c’è un Muro,
ma ci sono la polizia di frontiera e il divieto di contatto assoluto
fra gli abitanti dei due mondi. Nel Mondo di Sotto ci sono le Trabant,
tante biciclette quante se ne trovano in Cina e oggetti che al massimo
sono dei nostri anni Settanta. Tutto ciò mi rimanda (e ha rimandato
anche gli altri) alla Germania Est, anche se questa era messa un po’
meglio della Romania di Ceausescu. Al contrario, il Mondo di Sopra ha
palazzi meravigliosi, lucidi, e i cubicoli degli uffici hanno computer
di modelli che come minimo sono come quelli dei nostri anni Novanta. E
da qui, ho trovato una comparazione con la Germania Ovest, paese
filooccidentale, moderno, tecnologico, aggiornato e che nel 1990 ha
assorbito la Germania Est, i cui Länder ancora oggi devono
essere aiutati da quelli della controparte occidentale. Però nel film
non è il Mondo di Sopra ad assorbire del tutto il Mondo di Sotto e a
supportarlo.
Anzi, è il Mondo di Sotto che è destinato a diventare come quello di
Sopra, cioè ricco, autonomo e senza barriere, grazie ai protagonisti
maschili che fanno fortuna con le loro invenzioni. Lo stesso spettatore
che ha auspicato un sequel del film ha anche detto che avrebbe voluto
vedere TransWorld fallire, esattamente come capita a tante aziende di oggi. Ho anche indicato quali fossero le scene di Upside down
e Amici miei che avevo accostato. Nel primo film si tratta della scena
in cui Adam riconosce Eden in televisione e si esalta perché scopre che
lei è ancora viva e lavora a TransWorld. Allo stesso modo, in una scena di Amici miei,
Rambaldo Melandri (Gastone Moschin) è sottoposto ad un
elettroencefalogramma bipolare, e si esalta guardando da una finestra
la donna di cui si è innamorato perdutamente, tanto da andare dagli
amici e gridare: “Non sono matto! Non era un’allucinazione ragazzi! Lei
è vera, esiste!”. Con mia gran sorpresa, gli astanti che conoscono il
film di Monicelli hanno ammesso che il paragone ci sta tutto. Ho anche
raccontato che mentre aspettavo il film e lo paragonavo a Inception
senza ancora sapere di che parlasse, avevo letto che i due protagonisti
si chiamavano Adam e Eve. Come Adamo ed Eva. Una nomea simbolica, per
certo. Ebbene, sono rimasto un po’ male nello scoprire che il nome
della protagonista femminile era in realtà Eden, come il Giardino
creato da Dio per il primo uomo. Nel finale si scopre che Adam ha messo
incinta Eden, presumibilmente quando i due si sono baciati sulle
Montagne Sagge. Ebbene, sono convinto che una fervente femminista
proverebbe una certa indignazione per il fatto che un uomo che si
chiama Adam metta incinta una donna di nome Eden, tanto per usare
un’espressione delicata. Sarebbe come se Adamo approfittasse del
Giardino dell’Eden! Fossero stati Adamo ed Eva, il primo uomo e la
prima donna, forse lo si sarebbe compreso. Ho approfittato di
quest’osservazione per dire che se un uomo ha due figlie, le si
chiamano ‘figlie’. Ma se poi arriva un terzogenito maschio, le ‘figlie’
automaticamente diventano ‘figli’. Questo concetto, che vede il genere
maschile prevalere su quello femminile sul punto di vista grammaticale,
è secondo me una dimostrazione del fatto che il maschio è posto in una
condizione avvantaggiata e di predominio nei confronti della donna. Io
personalmente non trovo positivo che gli uomini abbiano la meglio sulle
donne in campo lavorativo (hanno più posti di lavoro, sono pagati
meglio, e ancora oggi non sono abbastanza puniti per i maltrattamenti
nei confronti delle donne). Se poi hanno la prevalenza pure in campo
grammaticale, per una femminista questo sarebbe il colmo! E poi, perché
Eva deve sempre essere messa dopo Adamo, quando li si menziona insieme?
Solo perché Dio ha prima creato Adamo e poi da una sua costola la
persona di Eva? Questo ragionamento l’ho posto alla base del mio libro La Terra è femmina! nel quale non cito Adamo ed Eva, ma il problema del predominio dell’uomo sulla donna, quello sì.
La serata è terminata con un sacco di belle parole sul film, che è
piaciuto a tutti. Anzi, uno degli spettatori ha detto che voleva subito
cercare il DVD per il figlio appassionato di fantascienza. Il mese dopo
ho portato un altro film poco conosciuto ma che faceva ridere, e il
mese dopo ancora il popolare The Truman Show.
Volevo portare anche tanti altri film, ma la mia speranza che il
cineforum continuasse regolarmente è stata disillusa. Una sera che io
non c’ero, tutti si sono guardati Mr. Bean – L’ultima catastrofe. Poi per molti mesi non se n’è fatto quasi più nulla finché non si è deciso di vedere insieme Wonder Woman.
Nel frattempo avrei conosciuto una ragazza che scaricava e teneva i
film negli hard disk e scritto dei parametri per scegliere il film
adatto per il gruppo: non più lungo di due ore, che dovesse soddisfare
ogni fascia d’età, senza scene spaventose od oscene, che non annoiasse
i più giovani e non rendesse ansiosi i più maturi. Se si tratta di un
film che fa solo riflettere, piangere o spaventare non va bene. Deve
anche far ridere o sorridere, o solo far ridere o sorridere. Questo
perché dopo aver visto Upside down Giovanni mi ha suggerito di
alternare film che mi piacevano con film che piacessero a tutti, o di
proporre un film impegnato ogni due divertenti. Perché al ‘Provvidone’
ci si va per svagarsi.
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Ciao...Volevo
raccomandare a tutti gli utenti di questo indirizzo e ai responsabili
del dipartimento dei servizi mentali di Bologna di far conoscere
l’associazione Cristina Gavioli di Bologna. Devo veramente esternare di
cuore la mia soddisfazione di fare parte di questo grande gruppo di
persone che ho conosciuto essendo paziente da diversi anni della cara
dott.ssa Cristina Baroncelli del CSM scalo di Bo. Questa associazione
fa tanto, ma tanto bene a noi, persone malate ‘del vivere’, donandoci
attenzione, ascolto, mostrandoci come, nonostante la nostra sofferenza
spirituale, abbiamo ancora tanta luce dentro di noi. Gli operatori ci
aiutano a comprendere con quali mezzi la possiamo esternare… capendo
meglio noi stessi... e condividerla con gli altri partecipanti. Grande
merito spetta alla responsabile, la signora Maria Parracino.
Nell’emergenza Coronavirus, lei c’è, virtualmente, ma c’è...Quando
tutti chiudono, quando tutti si dimenticano soprattutto dei più deboli
e dei più fragili, Maria amorevolmente ha trovato il modo di non
lasciarci soli, di occupare il nostro tempo di solitudini, rendendo
tutto più facile, semplice e spesse volte anche divertente. Ci ha
‘coccolati’ prima con tante iniziative belle coi suoi laboratori, col
mitico Provvidone, e sempre con un occhio di riguardo per gli
ultimissimi, i più evitati dalla gente cosiddetta ‘per bene’.. Adesso
poteva essere impensabile che il distanziamento sociale a cui siamo
costretti lasciasse libera di agire questa stupenda donna. Invece lei è
riuscita ad aprire una chat comune dove tutti e tutti i giorni ci
possiamo incontrare, sì, virtualmente, ma...dove tutte le mattine
apriamo questa bella finestra da cui parlare, inviare disegni, cantare,
darci notizie, pareri e raccontarci le nostre infelicità e tristezze,
ma....anche le contentezze: per una ricetta riuscita, per parenti
guariti dal virus, per altre innumerevoli faccende positive quotidiane
di ciascuno di noi che ha aderito in piena libertà. Per me questo è
stato ed è importantissimo, quasi – credetemi, non esagero- miracoloso.
Vi prego, se si può, fate conoscere quest’associazione che è una realtà
bolognese ma che andrebbe copiata da tanti altri CSM fuori confine.
Grazie Maria, grazie associazione Cristina Gavioli.
Paola Ballestrazzi
Ciao Fabio, come stai? Scusa se non mi sono mai più fatta sentire,
volevo farti i complimenti per l'articolo intervista a Demba pubblicato
sul Faro; come Associazione ci farebbe piacere poterlo avere in formato
pdf per allegarlo al nostro archivio. È possibile?
Buon lavoro
Anna Compagnoni
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IL CANTO DEL MATTINO
Francesco Valgimigli
L’alba
Era ancora buio quando mi svegliai, la luce del mattino non aveva
ancora inondato il mondo, non mi restava che aspettare che quell’evento
così naturale, ma allo stesso tempo così misterioso, si manifestasse. E
in quel momento una caterva di pensieri sgomitavano per essere loro i
primi a esplodere, ma io non avevo fretta d’ascoltarli, li lasciavo
litigare mentre guardavo la finestra con la serranda tirata a metà.
Appoggiato al cuscino osservavo il cielo che, col passare dei minuti,
diventava più chiaro e come tutte le mattine attendevo che gli
uccellini cominciassero il loro concerto. Poi finalmente l’alba mise
fine a tutti i miei pensieri e nel cielo un concerto di suoni prese
vita. Ed era un canto splendido, fatto di mille canti, di toni diversi
e di infinite variazioni di cinguettii, e io assaporavo tutti quei
suoni mentre l’orizzonte diventava sempre più bianco, come un foglio di
carta dato in mano a un bambino, e in quel cielo appena nato poteva
accadere di tutto. Era un momento che attendevo ogni mattina, e ogni
volta mi stupivo di come quell’evento io lo sentissi diverso, benché
apparisse sempre uguale. Forse tutti quegli amici pennuti volevano
dirci qualcosa d’importante, comunicarci una qualche verità, che noi
però ignoravamo. Ascoltai ancora per qualche minuto poi gli uccellini
come per un tacito accordo decisero di porre fine alla loro esibizione.
Allora mi alzai e andai ad aprire del tutto la serranda.
Il pomeriggio
Quel pomeriggio
la lezione era più noiosa del solito, spensi l’apparecchio didattico e
accesi la televisione. C’era un film e incominciai a guardarlo, ma già
durante la prima interruzione pubblicitaria mi addormentai e mi
ritrovai dentro un sogno in compagnia di una persona che in quella
realtà mi era amica, ma che, ripensandoci a mente sveglia, non avevo
mai visto. Era un uomo con una tuta bianca, uguale alla mia, e
dall’aspetto giudicai dovesse avere più o meno la mia età, Camminavamo
fianco a fianco in un tunnel trasparente con la forma a semicerchio.
Non c’erano pareti ma solo uno sfondo bianco.
Guardai
alle mie spalle, il tunnel iniziava dalla porta di una casa bianca con
le imposte verdi dalle due parti e la porta marrone in mezzo. Sopra la
casa un tetto rosso a spiovente. Sembrava una di quelle costruzioni di
legno con le fattezze di una casa stilizzata con cui giocavo da
bambino. Parcheggiate a pochi metri dal tunnel, delle macchinine
gigantesche stavano immobili come moderni elefanti meccanici. Poi delle
sagome d’animali domestici e selvatici e mucchi di biglie si
intravedevano da lontano. Tutte quei giocattoli giganteschi che man
mano notavo mentre camminavo erano dorati da una loro fosforescenza e
una luce diffusa, infinita governava la scena. Il mio amico stava
zitto, e guardava dritto davanti a sé. Poi voltandosi verso di me, mi
domandò: Tu non hai paura? Io non capivo e allora gli chiesi: Di cosa?
Lui mi indicò la fine del tunnel. Era una traversa di un tunnel molto
più grande, e qualcosa si agitava dentro, un mormorio d’ombre. Quegli uomini laggiù. Dunque erano uomini, e più mi avvicinavo più li vedevo chiaramente. Perché dovrei averne paura,
risposi, tanto mi sembravano innocui quegli uomini vestiti di nero e
poi, chiusi a passeggiare dentro quel tunnel che male potevano fare? Perché sono uomini perduti, impazziti, che producono luce grazie al loro ‘borboritmo’.
Intanto eravamo arrivati alla fine del tunnel che era chiuso dalla
parete obliqua del tunnel principale. Il mio amico appoggiò le mani
sulla parete trasparente, era intimorito da quello spettacolo, ma allo
stesso tempo ne era attratto. Io lo guardavo e poi guardavo quelle
persone che mormoravano, bisbigliavano, rimproveravano qualcosa o
qualcuno, poi ogni tanto alzavano la voce e poi la riabbassavano subito
e i loro versi erano delle tenaglie per afferrare l’aria e stringerla,
e come la tenaglia non sarebbero serviti a niente, se non avessero
scoperto da una decina d’anni che il loro continuo parlare da soli,
lamentarsi e sbraitare, produceva un’energia che riusciva a illuminare
la città sulla quale mi trovavo, e quel loro lamento l’avevano chiamato
‘borboritmo’. Il mio amico mi spiegò tutto questo mentre continuavamo a
guardare quella folla rumoreggiante. Erano persone di tutte le età e di
ambo i sessi. I bambini erano gli unici che mancavano, perché ancora
troppo piccoli per produrre energia, dato che non avevano sviluppato il
‘borboritmo’. Io e il mio amico li guardammo per un’altra mezz’ora poi
ci prese la noia e facemmo ritorno a casa. Dopo di che mi svegliai e la
camera da letto per un attimo sembrò guardarmi.
Il tramonto
All’entrata di
una stazione del metrò, io l’aspettavo, ed era pomeriggio inoltrato.
Dopo qualche minuto lei arrivò, con in dono una luce magnifica negli
occhi, che riusciva con la sua brillantezza a dare una speranza a ciò
che stava intorno a lei. Ci passò accanto un signore molto vecchio, che
il tempo aveva consumato lasciandogli un viso incartapecorito e delle
mani scheletriche, il resto era coperto da un lungo capotto, che
arrivava fino alla caviglia, ai piedi calzava degli scarponi consumati,
grigi. Solo i suoi occhi denotavano una tempesta in corso, borbottava
qualcosa, che aveva un proprio ritmo, e allora guardando bene in viso
riconobbi quell’uomo e quel suo discorso senza senso: era il
‘borboritmo’ che avevo udito dentro il sogno di questo pomeriggio e
quel vecchio era sicuramente un volto confuso dentro quella folla
sognata. Forse con quel ‘borboritmo’ avrebbe voluto illuminare tutta la
città mentre il cielo scivolava nell’oscurità e, mentre si spegneva, si
accendevano le luci della città, una dietro l’altra.
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VICINI DI FIABA
Stefano Cittadino
C
’era
una volta un bosco misterioso dove c’erano strane case. Questo bosco
era un labirinto e all’ingresso vi era una roccia, con dentro un
piffero; la leggenda vuole che chiunque fosse riuscito a estrarre il
piffero, sarebbe stato capace di suonarlo e far tornare a casa i
bambini di Hamelin persi nel bosco e svelare tutti i segreti che nel
bosco si celavano. E così un giorno un bambino di nome Pollicino, che
era stato abbandonato nel bosco insieme ai suoi fratelli, i sette nani,
vide il piffero nella roccia e senza alcuna fatica lo estrasse.
Pollicino cominciò a suonare il piffero e tutti i bambini che erano
spariti dalla città di Hamelin riuscirono a uscire dal labirinto del
bosco e, seguendo le briciole che Pollicino aveva lasciato, riuscirono
a tornare a casa. I sette nani furono felici e convinsero Pollicino ad
addentrarsi nel bosco per cercare la loro cara Cenerentola. Pollicino e
i sette nani entrarono nel labirinto e all’improvviso si trovarono
davanti ad una casa di zucchero e cioccolato, bussarono alla porta e
dopo un po’ aprì una ragazza assonnata, era la bella addormentata nel
bosco, che chiese a Pollicino e ai suoi fratelli di andare via e non
tornare a disturbarla in quanto lei stava bene lì dov’era, insieme a
quel ranocchio del suo principe. Così Pollicino e i sette nani
proseguirono nel labirinto e, dopo pochi passi, videro una casa a forma
di carrozza; bussarono alla porta e aprì una ragazza col cappuccetto
rosso: disse di aver perso una scarpa e che stava aspettando la sua
nonna che, per paura di attraversare il bosco da sola, si era
travestita da lupo e che era molto preoccupata del fatto che qualcuno
scambiandola davvero per lupo potesse averle fatto del male. Poi chiese
una mela, le fu data, la morse e prima di addormentarsi disse
sussurrando: “Guardate! È il coniglio bianco! Scusate, ma devo andare a
trovare una mia amica nel paese delle meraviglie!”. Pollicino e i sette
nani proseguirono e lì vicino s’imbatterono in una casa di legno
dall’aspetto mostruoso, era la casa dell’Orco Mangiafuoco. Bussarono
alla porta, aprì un grande uomo con i capelli e la barba lunghi che
gridando disse: “Non pensavo fosse già ora di cena!”. Pollicino e i
sette nani urlarono dalla paura, li udì una donna che abitava lì
vicino, era la fata dai capelli turchini che li salvò dall’orco e li
fece entrare in casa sua. Gli offrì una cioccolata calda e gli chiese
perché si fossero addentrati nel labirinto del bosco, loro risposero
che non avevano niente da fare. Allora la fata prese una lampada e la
regalò a Pollicino dicendogli che si trattava di una lampada magica e
che, strofinandola, da dentro sarebbe uscito un Genio, che avrebbe
esaudito tre desideri. Pollicino fu felice, ringraziò e disse alla
fatina: “Fatina grazie, ma a noi basta un desiderio solo”; e così
Pollicino strofinò la lampada, uscì fuori il Genio che chiese: “Qual è
il tuo desiderio?”, Pollicino rispose: “Avere una casa vicino alla
fatina”; e il genio disse: “E sia”. All’improvviso apparve una casa
meravigliosa vicino a quella della fata, e il desiderio divenne realtà.
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IL CIABATTINO
Paolo Veronesi
C
'era
una volta una bambina di nome Katy, che era molto triste perché non
aveva avuto mai un giocattolo. La sua famiglia era poverissima. Il
padre lavorava come ciabattino e la madre era casalinga, ma in quel
paese i ciabattini guadagnavano poco, perché tutti andavano a piedi
nudi. Nessuno portava le scarpe: era il famoso ‘paese dei piedi nudi’.
Ma il padre rimaneva convinto dell'importanza del suo lavoro e di
quello che faceva... Nel paese dei piedi nudi tutti andavano in giro
scalzi. Katy era sola, aveva circa quattro anni e non riusciva a
divertirsi, perché non aveva amici. Era una bella bambina, ma questo
non l'aiutava, perché gli altri la canzonavano per la sua povertà...
Era molto magra, non avevano molto cibo in casa, però soffriva in
silenzio soprattutto per la sua solitudine. Questo faceva di lei una
‘bambina sola’.... Un giorno però nel paese tutti decisero di indossare
le scarpe, e allora il padre divenne ricco. Katy divenne una bambina
felice, perché tutti iniziarono a rispettarla, grazie alla caparbietà
del padre che con la sua idea aveva alleviato il dolore a molti piedi,
offrendo una soluzione a persone che non avevano mai provato le scarpe.
Un paese dove non si sapeva camminare, adesso si sa correre...
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IL PASSAGGIO NEL QUADRO DELLA CAPANNA
Stefano Cittadino
D
a
bambino andavo spesso a giocare a casa dei nonni. Avevano un bellissimo
giardino. Mi sembrava grandissimo. Correvo da una parte all’altra,
raccoglievo frutti e fiori per la mia mamma; c’erano molti animali, per
lo più galline e papere. Nel giardino il nonno aveva costruito una
capanna per metterci dentro la legna affinché non si bagnasse con la
pioggia. Dentro la capanna c’era un quadro, un quadro molto semplice:
una spada e uno scudo di plastica incorniciati. Un giorno col nonno
andammo a prendere un po’ di legna per il caminetto e, una volta nella
capanna, mi mostrò il quadro e mi disse che ‘dietro’ quel quadro c’era
un mondo fantastico, meraviglioso. Mi disse che quando avessi avuto una
paura o un problema, mi sarei sempre potuto rifugiare in esso. Col
passare del tempo, crescendo, mi accorsi che quel giardino, pur
restando meraviglioso, non era poi così grande. Un giorno comunque,
incuriosito, entrai nella capanna, mi feci coraggio, spostai il quadro
e, con grande delusione, vidi che dietro non c’era niente. Andai dal
nonno e gli dissi: “Nonno, ho spostato il quadro e dietro non c’è
niente”. Nonno mi rispose: “Stefano, io ti ho detto ‘dietro’, ma dentro
al quadro, non dietro la cornice”. Tornai alla capanna, fissai lo
sguardo sul quadro e capii quanto fosse profondo il quadro e ciò che
nonno mi insegnò: “il passaggio nel quadro della capanna”.
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GHOST
Stefano Cittadino
I
l
seguente ricordo risale a molti anni fa ed è associato a una persona
che incontrai in passato e che tuttora incontro. Il personaggio in
questione l’ho soprannominato Ghost (dal noto film di Jerry Zucker del 1990) e di seguito vi racconto perché.
Quando avevo sedici anni, partii per Bologna, per la prima volta, per
andare a trovare mio fratello che già studiava all’Università. Arrivai
a Bologna di notte, venne a prendermi mio fratello. Al tempo, come
oggi, circolavano due autobus notturni, il sessantuno e il sessantadue,
noi prendemmo il sessantuno. E giungiamo al punto. Nell’autobus rimasi
colpito da un personaggio: circa cinquant’anni, alto, capelli lunghi,
occhi spiritati; camminava avanti e indietro, poi si fermava
all’improvviso e apriva e chiudeva le braccia. Mi ricordò subito il
fantasma nella metropolitana del film Ghost.
Ebbene, dopo tanti anni, lo si può ancora incontrare negli autobus
notturni, non è cambiato affatto, l’età sembra essere sempre la stessa,
questo perché lui… è Ghost.
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LA GRANDE FUGA
Maurizio Leggeri
E
ra da alcuni anni che Emilio non riusciva più a capacitarsi di ciò che
lo attorniava e man mano che cresceva questo suo convincimento, si
rafforzava in lui la volontà di respingere quello che aveva costituito,
fino ad allora, il suo vissuto. Voleva fuggire da tutto, perché tutto
era vanità, vacuità, inutilità, torpore. Sì, fuggire era l’infinito del
verbo che lui prediligeva e l’espressione bene si coniugava con
l’intenzione di fuggire dal finto spazio della vita occupato: come
quando dalla descrizione generale si viene a cogliere una particolarità
del tutto. La motivazione di questi suoi propositi di fuga dalla realtà
era dettata dalla ‘ricerca dell’assoluto’ che, col tempo, aveva
ossessionato i suoi pensieri: non gli era chiaro, all’inizio, cosa
significasse ricercare l’assoluto, ma insondabili riflessioni lo fecero
approdare alla convinzione che l’assoluto non poteva che essere il
ritorno al suo stato di gioventù. Per convenienza si era voluto
illudere che l’attuazione dell’intento si celasse ‘dietro l’angolo’ e
dipendesse dalla determinazione impressa alla realizzazione dello
scopo. Riaffiorava, d’altronde, nella sua mente, in un trascorso di
letture, un libro di Oscar Wilde, in cui un certo Dorian Grey, facendo
un patto col demonio, era riuscito a bloccare il tempo e il suo
decorso. Vero era che, per Emilio, l’operazione appariva più difficile,
e perché non poteva accordarsi col demonio, non credendo alla
possibilità della dannazione dopo una vita miserevole vissuta, e perché
si trattava di andare indietro nel tempo: non solo di fermarlo! Una
volta individuata l’araba fenice, le maggiori difficoltà consistevano
nel rimettere in questione le leggi fondamentali della vita, che
impedivano la possibilità di riportarsi a nuovo, volgendosi indietro.
Ma ormai nulla tratteneva Emilio, deciso a realizzare il suo sogno di
scuotimento della realtà, e ciò poteva fare ripartendo da zero, in cui
lo zero, rappresentava la situazione ideale di neutralità che
consentisse l’aggressione al contingente. Di conseguenza eliminò tutti
i contatti umani, in quanto lo rapportavano al periodo. Si separò dalla
moglie, troppo attaccata agli anni e alle sue incombenze; si allontanò
dai figli, che gli avrebbero presentato il conto del trascorrere del
tempo; salutò i colleghi lasciandoli immersi in un mare di scartoffie;
non volle saperne neppure di Katia, il suo primo giovanile amore, ora
adornata di un grigio colore dei capelli. L’unica persona, la cui
presenza non disdegnò, fu la lontana zia ancora in vita, poiché gli
ricordava il periodo delle favole ascoltate decenni prima, solo che
quando si recò da lei per farsi raccontare nuove storie, fu lei che
scappò da lui inorridita. Decise di fuggire da tutto, perché ognuno
della moltitudine rappresentava una fatale contaminazione del suo dover
essere alla ricerca dell’identità nella nuova dimensione. Capì presto,
però, che la decisione di tagliare i ponti con le persone non bastava e
decise di fuggire dagli animali: troppo simili agli umani per non
creargli problemi nel processo di trasmigrazione. Mise la gatta dentro
un cesto e la lasciò ai margini del bosco; regalò il cagnolino alla
ragazza del piano di sopra che pareva innamorata dell’esserino; aprì la
gabbia ai canarini che furono ben contenti di riguadagnare il cielo;
svuotò l’acquario nel ruscello dove i pesci si industriarono a nuotare
verso la libertà del mare. L’unico problema glielo diede il serpente
boa, catturato in un safari nell’Africa profonda, ma Emilio si recò
furtivamente nel bioparco comunale con l’animale dentro un sacco e lo
lasciò con i suoi simili; solamente non si curò della diversa
dimensione delle bestie, determinando casi di cannibalismo animale. Poi
fu la volta delle cose e dei luoghi, e si liberò dei suoi fardelli.
Fuggì dalle scarpe e dai vestiti, dall’ombrello e dagli occhiali: quali
simboli borghesi; diede via l’utilitaria; gettò in un fosso la sua
moto; si disamorò dell’amata bicicletta e si allontanò di casa. Fuggì
dal mare e dalla terra, dal sole e dalla pioggia, dal giorno e dalla
notte, dai monti e dalle valli,
dai casali e dalle ville. Fuggì dal caldo e fuggì dal freddo, dal
silenzio e dal rumore, dai piaceri e dal dolore, dai minuti e dalle
ore. Fuggì dalle foglie che da lì a poco sarebbero cadute; fuggì dalle
erbe che si accingevano ad invecchiare; fuggì dai fiori in procinto di
appassire. Ma tale fuga non poteva bastare; per l’adempimento
dell’intervento occorreva fuggire da sé stesso! Fuggì dal corpo per
mettere a nudo la propria consistenza e fuggì dall’ombra che ne
rammentava la parvenza. Fuggì dalla vita che gli rievocava il suo
passato, fuggì dal nome per dimenticare il suo presente; fuggì
dall’intelligenza che gli parlava del suo futuro. Fuggì dai ricordi per
sgombrare la sua mente e fuggì dalla sua mente perché non più in grado
di ricordare. Infine, per tenere lontano i buoni sentimenti, scappò via
dalla propria coscienza. Non riuscì a sfuggire ad alcune malattie. Fu
agguantato dall’ingrossamento della prostata, dalle cataratte agli
occhi e dalla scomparsa di agilità dei muscoli; pure fu aggredito dalla
perdita precoce dei capelli; ma se ne compiacque, considerando si
trattasse di malattie legate all’agognato ritorno verso l’alba della
gioventù. Ridotto pelle e ossa, stralunato e claudicante, lontano da
tutto e dalla gente, continuò a correre come un pazzo, senza mai
fermarsi per fermare verruche, calli e bubboni della pelle o per
asciugare il sudore, fermare le lacrime, bloccare il sangue ridondante.
Quando stremato cadde a terra, era sicuro che la sua ‘leggerezza’,
fosse il risultato del processo di ridiventar bambino. Si sentì in
qualche modo ripagato dei suoi tremendi sforzi diretti a conquistar
l’ignoto. Fu allora che successe un fatto strano che azzerò tante
fatiche e ulteriori proponenti. Si vide raggiunto da un vecchio che gli
si posizionò accanto: decrepito, spiritato, con una lunga barba
attaccaticcia, fece a Emilio una certa impressione, suscitandogli il
sentimento della pena. Questi consigliò all’anziano di fare un bagno
turco con annessa rasatura della barba, di recarsi dal dottore per
accertare il suo stato di salute e di andare a mangiare qualcosa.
Caritas. In realtà Emilio non stava parlando al vecchio e i consigli
suggeriti erano soltanto il prodotto di uno pseudo ragionamento. Si
accorse, infatti, che tra lui e il nonno derelitto, c’era una discreta
forma di compenetrazione, di somiglianza, di mutua sussistenza, che
emergeva dalle fronti corrugate, dai languidi occhi socchiusi, dal
movimento congiunto delle labbra tremanti.
Gli ci volle un certo tempo per capire che lo scarnito volto anziano
altri non era che il suo ritratto, riprodotto in terra da un frammento
di un vetusto specchio di un qualche comò, buttato alla rinfusa e, non
si sa come, finito là vicino al mucchio: gli si accapponò la pelle
rimasta e gli si annebbiò la poca luce della scampata vista. Corse in
suo soccorso un pezzo di carta straccia, che mostrò quel che restava
del calendario dell’anno in corso. Lo sgualcito foglio indicava l’anno
2014. Emilio non si era allontanato tanto: neanche dal tempo! I suoi
occhi andarono a posarsi sul 27 giugno che, nonostante tutte le sue
stravaganze, aveva inciso nel cervello come la data del suo compleanno.
Fu in quel frangente che, scalcagnato e inconcludente, capì, capì di
non essere approdato a niente. Non rimaneva che fuggire dalla fuga,
perché capì che quella non era la cura! Fece uno sforzo sovrumano e
contò gli anni, partendo dal 1952 che era il suo anno di partenza: ne
annoverò sessantadue, che erano tanti, ma non troppi! I suoi occhi
ripresero a versar lacrime e la sua pelle a sputar sudore: ma le
lacrime erano amare e freddo era il sudore, dato che era amareggiato e
malandato, riverso bocconi a terra. Si armò di tanta pazienza per
rimettere a posto i suoi pensieri e permettere alla testa di
rifunzionare. Altrettanta calma chiesero, a Emilio, il cuore e le
gambe, per consentirgli di camminare nuovamente. Non dovette spostarsi
molto, giacché le sue fughe erano in tondo e, come sopra ricordato,
dalla casa si era da poco allontanato. Fu fortunato: non fece che pochi
passi e ritrovò moglie, figli, compagni e zia, mentre nella definizione
di un bagliore, gli parve di vedere pure Katia. Non poteva mancare la
gatta che gli fece le fusa e il cagnolino che gli ammollò di getto una
linguata. Ritrovò pure la salute, che non mancava del tutto e il
lavoro, dal quale risultava essersi distaccato. Fece tesoro della sua
esperienza, valorizzando approcci giovanili che avrebbe messo a frutto
più tardi, nella sua vecchiaia, ancora alla ricerca della giovinezza,
magari ritrovata nei lontani ricordi o nei dolci racconti esposti a
tanti ragazzi per spiegare il senso del tempo trascorso della sua
gioventù.
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IL FALEGNAME DEI PESCI
Matteo Martini
S
i
trovava in una piccola via del centro, tra chi rammenda tappeti e chi
accontenta con poco la solitudine di vite che si sciolgono lentamente,
come cera scaldata da una debole fiamma. Era un budello di cinque o sei
metri, senza insegna o un cartello, anche scritto a mano, che indicasse
il genere di esercizio, l’eventuale merce in vendita, i prezzi. Niente
di tutto questo, sembrava quasi che fosse aperto per sbaglio o che,
forse, quel posto fosse solo un deposito che non contemplava affatto il
commercio al dettaglio. Invece no, era proprio un negozio aperto al
pubblico. Non era invitante entrarci, oltre al gelo che emanavano i
congelatori, si provava disagio per l’assenza di colori, ad esclusione
di quei verdolini spenti delle muffe fiorite sui muri. Il banco
d’acciaio sembrava una superficie repellente a qualsiasi tragedia, una
volta ripulito appariva con la sua luce implacabile di sempre e così
anche le piastrelle sbrecciate, che ricoprivano per la parte inferiore
i muri del locale. Al di là del banco, un uomo baffuto e imbacuccato
attendeva immobile come i suoi pesci congelati morti da chissà quanto
tempo. Sopra il cappotto, un grembiule di spessa gomma nera lo
proteggeva dai trucioli di polpa grassa che schizzavano ogni volta che
segava un pesce. La coppola era così ben calzata sul capo, che
immaginavo il calco sui suoi capelli prima di andare a letto, come un
segno indelebile del suo immutabile aspetto. “Mi sega un pezzo di
quello?”, la sega circolare modulava lo strazio anatomico di quei corpi
ibernati, si riconosceva il suono della lama che affondava nella polpa
e all’improvviso trovava un ostacolo e il suono si assottigliava
diventava più acuto, come un urlo in un sogno soffocato tra l’inconscio
e il mondo reale. Il risultato finale erano dei cubi perfetti, la forma
originaria si era trasformata, e quella solida forma geometrica negava
una storia di migrazioni sinuose, di virtuosi scivolamenti, di pura
libertà. I pesci più piccoli venivano graziati, semplicemente perché
non c’era bisogno di tagliarli, l’uomo li prendeva in mano e con le
pinze gli spezzava le spine dorsali, timoni in avaria diventati scomode
escrescenze, impurità inutili e pericolose. Si tornava a casa con
quella strana tristezza di chi assapora una zuppa di pesce a tremila
metri di altezza.
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LETTERA APERTA
PB 57
C’era una volta una figlia, allegra,
paffutella, golosona, ballerina, chiacchierina, sempre pronta a
raccontare della sua giornata. Poi l’adolescenza l’ha portata lontana
dalla sua famiglia e soprattutto da me, in quanto madre. L’intimità che
ci legava una volta l’abbiamo persa, qualcosa di prezioso si è rotto.
Il tempo del dialogo… finito, qualsiasi cosa avessi detto si
trasformava in scontro. Con tanta pazienza abbiamo cercato di ricucire
di nuovo il nostro rapporto, ma senza la collaborazione dell’uomo di
casa, suo padre. Abbiamo trascorso anche degli anni buoni… Eri
diventata una diciottenne con tanti amici, con un grande Amore, il
primo amore, a cui dedicare le tue ore di tempo libero, le tue
fantasie. Il liceo ti piaceva, eri finita in una classe tutta di
ragazze brave, motivate. Stavi volentieri fuori casa, avevi un gruppo
con cui uscire: turbinii di giornate felici piene di complicità. Alle è
diventato un confidente, forse un fidanzato, poi l’hai lasciato, è
apparso Matte, e l’hai sposato. E ora, dopo quasi dieci anni di
matrimonio e la mia grave malattia psichiatrica - maledizione! - siamo
tornate indietro. L’apertura iniziale che avevi manifestato verso i
tuoi simili con gli anni si è andata chiudendo; tutto quello che era
filantropia, desiderio di comunicare, in tempo brevissimo è diventato
cinismo, solitudine, concentrazione ossessiva sul tuo destino infelice.
Neppure la fede ci aiuta a riaccendere quella LUCE di affetto, amore,
compassione, pietà, perdono e tutti i sentimenti speciali che fondono
una madre e una figlia anche da adulte, anche nei periodi bui della
vita. Dovrei farti ‘ri-nascere’, ridarti alla LUCE... E tornare alla
bontà originaria e all’amore del concepimento della procreazione, che
purtroppo, bimba mia, ancora non conosci. Mi sono ritirata in un angolo
del cuore, lascio lo scenario della tua realtà... Aspetto un tuo
sorriso, un abbraccio sincero. E che arrivi la tanto attesa LUCE.
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OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI: SANDRA ACERESI
Sandra Aceresi: "Il mio è un percorso pittorico discontinuo Parte dalla
scuola di grafica. Per poi dopo tanti anni riprendere nel 1982 fino al
1990 Poi un corso di acquerello E ora dopo tanti anni ancora ho smesso
di nuovo! La discontinuità dipende dal mio stato d'animo non sempre
ottimale. Spesso non sto bene con me stessa e mi passa la voglia di
fare tutto. Ho fatto Una mostra dall'associazione 'Noi donne insieme' e
ho venduto 5 opere. Ciò mi ha fatto molto piacere. Non ho altro da
aggiungere".
I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Sandra Aceresi
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