Editoriale
Come sempre prima di dare vita all’editoriale mi
documento su libri, riviste e soprattutto su internet. Questa volta
sono rimasto letteralmente spiazzato dalla quantità e qualità del
materiale che ho trovato. In particolare il portale del Ministero della
Salute offre un panorama preciso e dettagliato sullo stigma, che invito
tutti a leggere. Vi si trovano testi così intitolati: “Nessun
pregiudizio, nessuna esclusione”, “Uno sguardo ai dati”, “Lo stigma,
molti lo praticano pochi lo conoscono”, “Cosa pensano gli Italiani dei
disturbi mentali”.
Ma cerchiamo di capire cosa esprime la parola “stigma”. Secondo il
dizionario significa marchio, impronta, segno distintivo. Da Wikipedia
si apprende che sono i Greci che si servono per primi di questa parola,
per denominare una serie di segni fisici che possono essere associati
ad aspetti riprovevoli, considerati legati alla "condizione morale" dei
soggetti che ne sono afflitti.
Per gli esperti di salute mentale il termine indica la discriminazione
basata sul pregiudizio nei confronti del malato. Ma per un malato
mentale lo stigma significa, ogni giorno, esclusione, rifiuto,
vergogna, solitudine.
Terminata questa lunga premessa posso descrivere come ho vissuto lo
stigma nei miei confronti. E’ difficile trovare il bandolo della
matassa: si deve tornare nel lontano 1996, anno in cui mi sono
ammalato, stavo molto male ed era difficile per me stesso farmene una
ragione. Credevo fosse un periodo di esaurimento di qualche settimana.
Un po’ di riposo poi sarei tornato in forma. Il tempo passava ma stavo
sempre peggio. Facevo sempre più fatica a stare attento e studiare, ma
non mi arrendevo.
Dopo il primo anno di malattia mi recai al CSM di San Lazzaro di
Savena, dove cominciai una terapia farmacologica e psicologica e
iniziai ad alternare periodi di euforia ad altri di depressione. Così
incominciai a capire più o meno coscientemente che l’abito fa anche il
monaco: quando conoscevo persone nuove ed ero in fase euforica inducevo
timore di sottomissione nell’altro, quando ero depresso e un po’
trasandato suscitavo nell’altro un’autorità e una posizione di
supremazia che gli permetteva di pensare le peggiori cose di me. Questa
alternanza di sensazioni mi rendeva difficile farmi un’idea esatta
della malattia e si alternavano in me pensieri che andavano da un
opposto all’altro; per intenderci passavo dal pensiero: “io sono la
persona più malata del mondo” a quello: “io sono la persona più sana
del mondo e il pregiudizio nei miei confronti è la causa di una
malattia che non ho”.
Questa alternanza di situazioni e sensazioni mi portò ad un lungo
periodo di depressione, che è partito nel 2001 ed è durato fino al
2007. In questo periodo ho potuto farmi un idea della malattia, grazie
ai dottori: Filippi, che mi ha permesso di partecipare alla recovery
(individuando i miei sogni ed incubi), Rizzardi che mi ha curato con
terapie sempre più precise e la dottoressa Beltrami, che mi ha ridato
fiducia in me stesso. Con questi aiuti ho ricominciato a lavorare con
una borsa lavoro, che è stata fondamentale, perché nessuno da me si
aspettava miracoli; così lentamente ho ritrovato un ruolo e miglioravo
di giorno in giorno. Parallelamente cresceva l’autostima e la stima
delle persone che prima non ne avevano in me. Da ciò ho capito che per
abbattere lo stigma bisogna lavorare sulla cultura della società; ma
soprattutto permettere alle persone affette da disagio psichico di
creare dei piccoli nidi da cui far nascere o rinascere un’autostima
equilibrata, che permetta di svezzarsi e superare con coraggio lo
stigma.
Tutte le volte che incontro persone che avevano pregiudizi nei miei
confronti e con il dialogo dimostro che sono una persona anche
abbastanza ricca di contenuti, è una piccola vittoria per me e per
tutte le persone che come me soffrono di questa malattia. Il fare
assieme credo sia lo strumento più importante per abbattere lo stigma.
Approfitto per ringraziare anche i “Diavoli Rossi”, tutto il personale
del CSM di cui si parla sempre troppo poco, tutti gli operatori che si
danno da fare perché lo stigma venga appreso come fenomeno negativo
nelle scuole, tutta la redazione e gli inserzionisti del giornale “Il
Faro” e tutti gli amici di “Spazio e Amicizia”. Infine ringrazio Don
Paolo Dall’Olio, che mi dato la possibilità di fare volontariato presso
la parrocchia del Farneto, ridonandomi il lavoro e il ruolo sociale a
cui tanto ero attaccato, che ora posso esprimere e che spero, in un
futuro prossimo, di tornare a esercitare professionalmente.
Senza ruolo sociale mi sentivo perso, inutile ed emarginato. Ora,
grazie a tutti, non più.
Fabio Tolomelli
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Telemaco Signorini
‘La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze’ 1865 (olio)
Questo è un dipinto, di un realismo crudo, che in letteratura era
tipico dei romanzi dello Zola; tentativo di resa oggettiva della realtà
(in Italia, ben presto, questo approccio prenderà il nome di Verismo).
L'opera suscitò sulle prime una vivace reazione e la critica quasi
unanime manifestò le sue perplessità. Così qualcuno disse del quadro:
"Mi mette indosso i brividi della paura. Non vorrei tenerlo nella mia
stanza da letto per timore di sognarci su qualche tenebroso dramma,
frutto di una fantasia malata."
Il Cecioni, grande artista macchiaiolo come il Signorini, ci dice che
dopo aver eseguito il dipinto, l'autore dovette "adoperare la lingua
più che sempre per tenere a posto i cretini." Solo il Pica, scrivendo
nel 1898, parla della "brutale efficacia evocativa davvero
impressionante della Sala delle Agitate del manicomio di Firenze".
Questo quadro è comunque uno dei di Signorini che più sono oggi
apprezzati e che gli danno fama internazionale.
Piergiorgio Fanti
(comunità “Il Melograno”)
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Stigma: è una parola!
La parola stigma ci viene dal greco
attraverso il latino.
● in greco: Stigma –
stigmatos foratura; puntura con ferro rovente per tatuaggio; marchio,
segno, marca; punto, macchia, stria della pelle.
● in latino: Stigma
stigmatis, bollatura, marchio impresso con ferro rovente sul bestiame o
sopra schiavi, come segno di proprietà o per punizione ( es. FHE,
“fugitivus hic est”); marchio d’infamia, nota infamante; sfregio fatto
sul volto da barbiere inesperto (ironico, in Marziale).
● in italiano:
impronta, marchio, puntura; segno distintivo caratteristico
(dispregiativo); censura sociale.
Collezione "Arti e Mestieri" di
Renato Mencarelli
Apparecchio in ferro utilizzato per marchiare a fuoco il bestiame di
proprietà.
L'oggetto raffigurato risale a prima degli anni '50
e richiedeva circa 3 ore per essere realizzato da un fabbro esperto.
●
in botanica: parte superiore del pistillo.
● in zoologia: parte
della trachea di insetti, macchie su ali di farfalle.
● lettera greca in
disuso nella scrittura, usata per rappresentare il numero 6.
● segno usato su
manoscritti per indicare il gruppo st
STIGMATIZZARE
● disapprovare con
energica e indignata fermezza, censurare, deplorare.
● segnare con le
stimmate (raro).
STIGMATE - STIMMATE
● al singolare,
marchio impresso a fuoco sul bestiame e sugli schiavi.
● al plurale, in
ambito ecclesiastico, piaghe del corpo di Cristo e poi del corpo di
alcuni santi (San Francesco, San Pio da Pietrelcina…).
● in medicina:
impronte permanenti, fisiche e psichiche, di certe malattie,
specialmente professionali.
***
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La parola ‘stigma’, non sarà un
po' stigmatizzante?
Nel linguaggio della psichiatria la parola “stigma” è
usata per designare il pregiudizio negativo che si ritiene circondi il
malato di mente, la sua famiglia e in genere chi ha a che fare con la
malattia mentale.
Credo che il primo a parlarne in questo senso sia stato il sociologo
canadese Erving Goffman, che si occupò di questa materia fin dai primi
anni sessanta, divenendone il principale teorico. Comunque sia, oggi la
parola “stigma” è internazionalmente usata dagli addetti ai lavori come
un termine tecnico. A quanto ho potuto osservare, tra le persone che
hanno familiarità con il mondo della psichiatria si tende generalmente
ad accogliere il concetto a priori: in sostanza, cioè, si deplora il
fatto che la malattia mentale sia stigmatizzata, dando la cosa per
scontata. Quasi che lo stigma fosse parte del quadro clinico, come un
sintomo.
O un effetto collaterale delle cure psichiatriche… Mi è venuto perciò
da pensare che, nonostante le buone intenzioni, un uso troppo tecnico,
perentorio ed aprioristico della parola “stigma” possa contribuire,
paradossalmente, a rafforzare nelle persone un senso di persecuzione,
disapprovazione, emarginazione e a diffondere vissuti di inadeguatezza,
insicurezza, auto svalutazione (un po’ come quando viene evocato un
nemico o un pericolo a cui non si stava pensando). Oppure, al
contrario, risvegliare un’orgogliosa rivendicazione di ruolo,
un’identificazione con la propria etichetta, tendente alla fin fine a
cristallizzarsi.
Due atteggiamenti opposti che in un modo o nell’altro producono
cronicità.
È vero, è abbastanza facile imbattersi in pregiudizi, generalizzazioni,
infondati timori nei confronti delle persone con disagio psichico e
delle loro famiglie, però la stigmatizzazione delle categorie sociali
non è mai totale, univoca e ineluttabile: la comunità può essere
sensibilizzata, cambiare. Inoltre ogni persona può far parte di tante e
differenti categorie, entrarvi e uscirne, a seconda del momento, delle
situazioni e della sua volontà.
Fortunatamente le persone in cura, se si chiede di parlare di ”stigma”,
non sempre pensano di far riferimento al proprio caso, anzi tendono
sulle prime a pensare a problematiche estranee a quelle di tipo
psichiatrico (razzismo, intolleranza, superstizione ecc…), cosa molto
giusta, in quanto sono numerose le categorie di persone che vengono
stigmatizzate ed è difficile dire quale sia quella che ne risulta più
danneggiata.
Più che una crociata antistigma, insomma, mi sembra importante una
campagna di serena e corretta informazione sul disagio e sulle vie per
uscirne.
Lucia
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Riflessioni di un picchiatello
"Non dobbiamo lasciarci intimorire da coloro che
sostengono che si debba preferire l'uomo assennato a colui che è in
preda alla follia."
Quale migliore manifesto antistigma di questo, per di più declamato nel
suo "Fedro" da uno dei maggiori pensatori della cultura occidentale:
Platone? Disgraziatamente Platone si riferiva ad un invasamento
temporaneo (secondo lui opera di una divinità) che consentiva agli
aruspici di predire il futuro, ai poeti di comporre versi ispirati,
agli innamorati... ma lasciamo perdere gli innamorati.
Non credo davvero che neanche Platone avrebbe avuto piacere ad
accompagnarsi ad un picchiatello par mio (o ad uno dei tanti che come
me vantano assidue frequentazioni dei centri di igiene mentale).
E qui vengono le dolenti note: mi spiace mostrarmi contro corrente, ma
non credo che la lotta antistigma ci possa portare gran giovamento.
Non nego che possano esserci una serie di falsi pregiudizi sui "folli"
(del tipo: che siano pericolosi, inguaribili o contagiosi) che creano
un diaframma che tiene lontano il "normale" dal "picchiatello". Ma è
proprio quando questo diaframma cade che sorgono i veri problemi, e son
problemi oggettivi, che non
possono essere elusi da qualche generica petizione di principio.
Non è quando qualcuno si ritrae da me che mi sento ferito, ma quando,
non ritraendosi, ed ascoltandomi con la più grande buona volontà,
sentendomi esporre i miei alati deliri, almeno tali a lui appaiono, per
lo stupore e la contrarietà spalanca a tal punto la bocca, che la
mandibola gli sfiora le ginocchia. È allora che mi sento ferito e mi
rammarico che non si sia più prudentemente ritratto.
Ma che pretendiamo, se gli esseri umani non sono talvolta neppure in
grado di rapportarsi adeguatamente coi propri stessi figli, che
trattano (con tutto l'affetto del mondo, beninteso) da minus habens
(1), che pretendiamo dunque!
Forse, non so, fino a 3, 4, 5 anni le cose sono diverse, ma certamente
man mano che l'uomo cresce, decrescono inesorabilmente ed
esponenzialmente il numero dei comportamenti altrui che quell'uomo è in
grado di gestire senza perdere la bussola.
Quando ci troviamo dinnanzi a un altro essere umano siamo in grado,
nella migliore delle ipotesi, di prevedere e quindi di gestire qualche
decina di suoi comportamenti. Se ci troviamo di fronte a una risposta
al di fuori di questo limitato repertorio, ci sentiamo persi, non
sappiamo come reagire, venendoci a trovare in uno stato di disagio e di
stress estremi.
Noi viviamo in una società civilizzata e altamente regolamentata e
perciò forse ci sfugge il motivo o l'utilità di un simile disagio; ma i
nostri geni sono esattamente gli stessi dei nostri antenati che
vivevano nelle caverne, in tempi in cui anche un breve ritardo nel
comprendere se l'atteggiamento dell'uomo che ci stava dinnanzi fosse
amichevole o aggressivo, poteva comportare la differenza tra il vivere
o il morire.
In quell'ambiente abbiamo selezionato i nostri geni, e quel corredo
genetico è la dote che ancora, e per sempre, ci portiamo appresso.
E purtroppo temo che con tutta la miglior buona volontà, pazienza e
perseveranza del mondo un essere umano non possa allargare più di tanto
la propria capacità di rapportarsi a coloro che non si adeguano ad una
serie semplice e limitata di comportamenti che sia in grado di
padroneggiare.
Sarebbe come pretendere che una persona giunta all'età matura imparasse
una lingua straniera e la padroneggiasse come la propria madrelingua.
Può essere che in qualche caso eccezionale ciò avvenga, ma non può
certo essere la norma.
E in ogni caso ciò non servirebbe a niente, visto che ogni picchiatello
parla una sua propria lingua, e non basterebbero mille vite, anche
volendo, a comprenderle tutte.
Beninteso, ogni uomo parla una sua propria lingua che nessun altro
comprende (fatti salvo, forse e solo parzialmente, coloro che gli sono
veramente intimi), anche se non sempre ha piena coscienza di ciò, ma
oltre a ciò è in grado anche di parlare una lingua comune, una koiné
(2) semplice, fatta di pochi segni, lingua povera, ma più che
sufficiente per intendersi con gli altri e per istituire una civile
convivenza con i propri simili. Ma è proprio questa capacità che al
picchiatello è negata, non solo parla una lingua propria, ma ne è
anche, di fatto, prigioniero. Ed anzi, a ben vedere, è proprio in
questa incapacità, in questa prigionia, che consiste l'essenza più vera
dell'essere picchiatelli.
Perciò ciò che a me veramente interesserebbe non è che gli altri,
abbattuto ogni stigma, parlassero la mia lingua, ma di imparare a
parlare questa lingua comune, che vorrebbe poi dire di cessare di
essere un picchiatello. Così sia.
Ma mi accorgo di non potermi congedare da voi con una visione così
pessimista, diciamo allora che, con inguaribile ottimismo, ci auguriamo
che oltre al rapportarsi colloquiale, possa esistere tra gli uomini una
misteriosa empatia, una "corrispondenza d'amorosi sensi" (direbbe il
Foscolo), al di là delle parole che possono e sanno pronunciare, una
comunanza d'essenze da cui, proprio per la sua natura non dialogica,
neanche i picchiatelli sarebbero esclusi. Ben venga allora ogni lotta
antistigma, che consentendo di avvicinare i "picchiatelli" ai
"normali", faccia sì che questa corrispondenza d'amorosi sensi dia
frutti maturi. Beato chi può crederci. Amen.
(1) Minus habens in latino significa letteralmente “che
ha meno” sottintendendo doti, capacità. Quindi = subnormale, inferiore,
stupido.
(2) Koiné è il termine greco che significa “comune”. Sottintendendo
diàlektos, cioè linguaggio, viene usato per far riferimento al greco
“classico” (basato sul dialetto attico del V IV secolo a. C), che si
diffuse in epoca ellenistica e nel mondo romano come lingua colta.
(N.d.R.)
Antonio Marco Serra
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Lo stigma
Lo stigma (io pungo) vuol dire segnare e mettere in
disparte qualcuno, come ad esempio una persona affetta da malattia
mentale.
Io mi sono trovata in tale situazione, ad essere guardata male e ad
essere derisa per strada, mentre intanto chiudevano le finestre e i
bambini a loro volta ridevano.
Il pregiudizio sociale "stigmatizza", cioè segna una persona per tutta
la vita. Vieni emarginato per quel pregiudizio dalla vita sociale e dal
lavoro ed anche dalla scuola. Non riesci a guadagnare un soldo, sei
solo, sei colpevole.
Ave
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Stigma = ? (I quesiti di Elena)
• stigma = pregiudizio = giudicare prima.
• ma stigma anche come marchio che non è più cancellabile (ricordo ad
esempio che erano marchiate a fuoco le adultere con una " A ", che
erano marchiati i carcerati e i deportati nei lager ecc).
• è facile capire come noi pazienti psichiatrici non siamo gli unici
stigmatizzati nel grande mondo del pregiudizio.
• ogni essere umano è portatore di stigma e stigmatizzato al contempo.
• spesso noi pazienti psichiatrici siamo stigmatizzati e per lo stesso
motivo ci autostigmatizziamo a causa del fatto che abbiamo fatto nostro
lo stesso pregiudizio.
• in che modo però stigma e stigma di sé si interscambiano e rafforzano?
• stigma ed empatia, come lavorano assieme? il mettersi nei panni di
qualcuno può produrre pregiudizio o accettazione?
• la parola stigma ha accezione negativa, ma a volte si creano
pregiudizi positivi altrettanto erronei, ad esempio: follia e genialità
ecc.
• stigma e razzismo in che cosa si assomigliano, in che cosa si
differenziano?
• che cos’è che nella società fa sì che il pregiudizio sia in qualsiasi
forma come un male necessario?
• che cosa nelle diverse culture produce comunque pregiudizio?
• razzismo e pregiudizio sono veramente un male necessario?
• il pregiudizio è sempre figlio dell’ignoranza o della non conoscenza?
• se dopo aver conosciuto le persone che stigmatizzavo e malgrado ciò
seguito nel farlo, si tratta ancora di stigmatizzazione o diventa altro?
• come lo stigma cambia nei secoli e perché?
• perché gli esseri umani non imparano mai dalla storia passata?
• è fondamentale essere almeno consapevoli, quando si stigmatizza …
Elena Leonesi
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Io sono matta... tu sei matta...
Quando si parla di persone colpite da disagio mentale,
si parla spesso (troppo spesso!) di stigma, pregiudizio, indifferenza.
Andiamo con ordine:
1) stigma è il marchio che un tempo si imprimeva sulla fronte di
delinquenti e/o schiavi;
2) il pregiudizio è un’opinione errata dovuta a scarsa conoscenza dei
fatti, oppure una credenza superstiziosa;
3) l’indifferenza (che ha come sinonimi l’insensibilità e la freddezza)
si può intendere come il considerare qualcuno senza importanza e/o non
rilevante.
Vediamo dunque che le persone affette da disagio mentale si possono
considerare marchiate (a vita!), insignificanti e/o senza importanza
e/o non rilevanti.
Nei loro confronti vi è il pregiudizio di chi non li conosce, di chi
non sa che cosa sia la malattia mentale e pensa che loro siano dei
diversi. Ma diversi
da chi? Da coloro che si ritengono sani e “normali”. Dove inizi la
normalità e dove finisca è ancora tutto da vedere e studiare, ma è vero
che in Africa
(non ricordo dove) ancora oggi i “matti” vengono nascosti e incatenati
e sono visti come “stregoni cattivi”, mentre gli indiani d’America li
tenevano
in grande considerazione, perché per loro erano molto più vicini a Dio
degli altri esseri “normali”.
Quando qualcuno dice che le persone con disagio psichico sono dotate di
una sensibilità unica e di un’umanità senza pari, forse bisognerebbe
credergli. Come forse bisognerebbe credere al fatto che proprio queste
grandi ricchezze per loro (per gli animi più fragili) possono anche
essere
veicolo di dolore.
L’insensibilità e le lame taglienti dell’indifferenza e/o del
pregiudizio peggio feriscono chi sente più profondamente la vita.
Lo stigma può essere dato da noi stessi “io sono matta”, o dagli altri
“tu sei matta”.
In ogni caso è un marchio che bene proprio non fa e certo non aiuta chi
vorrebbe passare dal disagio mentale alla salute mentale.
Il 3 ottobre 2010, allo Chalet dei Giardini Margherita di Bologna,
nell’ambito della Giornata del Volontariato, vi è stato un incontro
sullo stigma organizzato da A.I.T.Sa.M. Bologna. Da questo incontro è
emerso che sarebbero necessarie persone che, oltre alle attività di
volontariato che già si fanno, facessero cose perché la malattia
mentale sia vista per quello che è e non solo stigmatizzata.
È stato chiesto alle persone presenti di sensibilizzarsi sempre più al
problema, parlare a successivi incontri.
L. ha detto nell’introduzione che bisogna rendersi conto che l’umanità
può essere divisa in “ammalati” e “ammalabili”.
Ciò significa che le persone “sane” e “normali” dovrebbero fare un
pensierino sulla loro indifferenza al problema, perché non è detto che
un giorno non possa capitare anche a loro. Chi scrive non augura a
nessuno di passare dal gradino alto del “sano” al gradino basso basso
del “malato psichico”, ma bisogna ricordare che la depressione, tanto
per fare un esempio, è sempre in aumento e colpisce anche le fasce
giovanili della popolazione. Secondo l’O.M.S. (Organizzazione Mondiale
della Sanità) nel 2020 la depressione sarà la seconda patologia, dopo
le malattie cardiache. Nei prossimi anni dunque la malattia mentale
sarà un costo sempre più grosso per la società, anche perché quando si
entra nel nero tunnel si sa più o meno quando si entra, ma non come e
quando se ne uscirà.
Tornando all’incontro del 3 ottobre, sono stati interessanti i pareri
dei presenti (disposti a cerchio, come nei gruppi A.M.A.) che
comprendevano utenti, familiari, operatori e interessati all’argomento,
che cercherò di riassumere.
• G. : “Ci sono persone che, se non sono toccate dalla malattia
mentale, spesso non ne vogliono mezza, come se la cosa non li toccasse”.
• E. “Io sono stata stigmatizzata da amici e colleghi: la malattia
mentale non vuole essere toccata”.
• G.”Ho una figlia con problemi di anoressia, droga e altro: L. ha
parlato di speranza… Ecco, è una cosa molto difficile. Ormai tutti la
conoscono, diranno che è matta”.
• C. “Ho un figlio che è a Ferrara, a San Bartolo (struttura
psichiatrica) e sta facendo un percorso. Non vedo mai familiari…”.
• D. “Mio figlio è malato. Io ho parlato di mio figlio ai condomini.
Non bisogna nascondersi, perché altrimenti il malato può anche essere
visto come un delinquente”.
• E. “Io ho una specie di stigma di questa malattia e anche di mia
figlia stessa: io ho vissuto la paura, paura di una persona che è
diversa”.
• T. “Sono una persona con disagio mentale. Sono seguita da dieci anni
da un CSM e sono stata molto male. Per tre anni non avevo voglia di
niente e non facevo niente. Trascuravo me stessa e la mia casa. Non
uscivo, non facevo la spesa, non cucinavo. Mi sentivo… niente, nessuno…
un’ameba. Poi… click(?) Ho visto… lontano, lontano, una lucina e ho
ripreso a fare delle cose, a muovermi. Ora, da alcuni anni sto bene,
sono sulla riga, dopo anni e anni di alti e bassi (depressione
bipolare) in cui ne ho fatte di cotte e di crude, continuo a prendere i
medicinali senza dimenticarli mai (li ho sul tavolo, bene in vista);
dall’8 luglio frequento il gruppo A.M.A. di viale Pepoli, ho conosciuto
L. e con lei altre persone. Ho fatto e faccio altre attività che mi
piacciono molto e sono proprio contenta. Farò di tutto per non ricadere
mai più in quel terribile buco nero. Quando ero malata i miei vicini di
casa temevano che aprissi il gas per suicidarmi e facessi esplodere la
casa. Per loro ero sicuramente diventata matta”.
• M. “Sono qui per capire. Parlo da familiare, perché ho avuto un
figlio con tanti problemi. Sette anni fa mio figlio si è suicidato.
Nessuno mai mi ha dato una risposta su questa sua diversità, su questi
suoi problemi. Ha lasciato una moglie, un figlio ed io… ho anche perso
il mio compagno, mia madre ha l’alzheimer e io sono rimasta da sola.
Ultimamente in me c’è apatia. Sono qui per capire”.
• T. non se la sente di parlare.
• L. "Questa malattia viene fuori quando c’è un pregiudizio: al lavoro
ho avuto un mobbing… Ho perso i miei genitori… il TSO mi ha fatto molto
male. È nella psichiatria che può nascere lo stigma. Nella psichiatria
fanno delle diagnosi: bipolare, schizofrenico ecc. e non ti danno
spiegazioni. Ecco allora che può nascere lo stigma, come se ti
attaccassero delle etichette”.
• M. “Per me è iniziato tutto con la separazione. Negli anni ’80, amore
libero e altro, io non ero preparata a una storia del genere. Sono
scappata di casa (padre padrone) e mia madre ha avuto molti dispiaceri
per causa mia. Tra una crisi e l’altra, lo studio, il guardarsi dentro.
Adesso vogliono darmi una cura preventiva: ho un problema di
bipolarismo. Io vivo nella speranza, che mi fa studiare e comprendere
me stessa e gli altri”.
• G. “Il discorso sullo stigma è molto impegnativo. Per quanto riguarda
il mio lavoro potrei raccontarne moltissime… C’è il dubbio
sull’ereditarietà della malattia. Lo stigma c’è sempre stato e non solo
sui malati, anche sui familiari. La quotidianità… le persone (dei bar,
ecc.) tendono ad allontanarsi dalle persone con disagio psichico”.
• T. “Sono utente e familiare. D. è mio figlio e frequenta il CSM di
via dello Scalo. Frequento il gruppo A.M.A. di viale Pepoli; mi sento
meno sola e ogni giovedì è una conquista”.
• L. “Un aspetto che si riscontra anche in questa occasione, è che a
parlare di queste cose si finisce sempre per essere in pochi. Alla
gente comune il problema pare non interessi”.
• T. “Pochi, ma buoni, dico io…”.
• L. “Sì, perché chi è venuto a contatto col dolore ha una marcia in
più. La sfiga immane deve trasformarsi in qualcosa di buono…”.
• G. “Vi è stata un’esperienza in una quarta dell’ex Istituto
Magistrale. È stata molto positiva: i ragazzi hanno riconosciuto che le
persone malate (gli utenti dei servizi psichiatrici) erano come loro.”.
T. “La malattia mentale non si vede e non si capisce. Si sente parlare
di male oscuro, dell’anima, ma che cosa sia realmente…”.
M. “Se i genitori vogliono partecipare al gruppo di viale Pepoli,
possono farlo”.
P. “ Io faccio volontariato alla “Casa dei Risvegli”. All’inizio
rapportarmi con le persone uscite dal coma, con le loro difficoltà nel
riprendersi, mi metteva in uno stato di disagio, poi mi sono fatta
coraggio… sto imparando.”.
M. “Con il gruppo si può anche sdrammatizzare”.
Una società amica o no?
Lara, infermiera presso il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura
“Ottonello” ha spiegato e semplificato l'argomento “Stigma” servendosi
di questi quesiti, a cui hanno risposto due persone ricoverate.
Chi scrive, non solo è stata ritenuta “matta” quando stava male, ma
continua a sentirsi stigmatizzata. Domenica 7 marzo 2010 sono scesa dai
miei vicini di casa (con C. a volte ci scambiamo dei libri) che sono
anche genitori di una mia ex allieva. Mi conoscono da molti anni e
sanno bene come sono. Ad un certo punto M. (il papà della mia ex
alunna) è uscito con questa frase, così, all’improvviso: “ Tu, Tina, la
più bella cosa che hai fatto è stata quella di darti per matta e
metterti in pensione”.
Premessa: sono andata in pensione per motivi di salute e all’inizio non
ero certo contenta, perché non avevo mai pensato di andare in pensione
prima del termine degli anni lavorativi e per motivi di salute. Alla
sua battuta ?!? frase infelice?!? come ha detto il mio psicoterapeuta
che stronzo!!! come ha detto mia sorella io ho reagito con una mezza
risata. Mi ha spiazzata: non sono riuscita a dirgli nulla nemmeno
successivamente, ma ho pensato: “ecco che cosa pensano i miei vicini!!!
Che mi sono data per matta per andare in pensione…”
.
Ci sono stata molto male, ma ora che sto meglio e mi sento più forte,
non so se starei zitta; credo che qualcosa farei e/o direi, perché
nessuno deve sentirsi in diritto di stigmatizzare un altro e non solo
perché siamo tutti figli di Dio, ma perché anche i “sani” e i “normali”
devono ricordare che “ chi la fa l’aspetti”. Quello che si vede
nell’altro con paura, sospetto, indifferenza, pregiudizio, potrebbe
capitare anche a loro e/o ai loro familiari.
A coloro che hanno pensato fossi diventata matta e/o che mi fossi data
per matta per andare in pensione, io rispondo così:
Tina Gualandi
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Una società amica o no?
Lara, infermiera presso il Servizio Psichiatrico
Diagnosi e Cura “Ottonello” ha spiegato e semplificato l'argomento
“Stigma” servendosi di questi quesiti, a cui hanno risposto due persone
ricoverate.
1) Vi siete mai trovati in una situazione di disagio o discriminazione
a causa della vostra condizione?
2) Pensate che la società attuale sia aperta alla comprensione delle
problematiche psichiatriche?
1° persona:
Sì, più di una volta; il problema sta nel fatto che chi non ha mai
provato determinati stati d'animo, fa fatica a comprendere e ad
immedesimarsi in particolari "momenti" psicologici.
Inizialmente c'erano i manicomi, fortunatamente la scienza, con il suo
progredire ha chiuso i suddetti e ha provato e prova tuttora a
comprendere il disagio psicologico da dove proviene, quali parti del
cervello sono interessate da queste problematiche. La società è
riuscita sempre tramite il progresso scientifico e l'informazione a
capire che queste forme di "malattia" possono essere curate e non solo
guardate con distacco e paura.
2° persona:
Purtroppo sì. Il disagio psichico porta con sé una moltitudine di
pregiudizi a carico della persona, pregiudizi che non sono facilmente
risolvibili.Vieni visto per lo più come un diverso, una persona strana,
anormale, quando in realtà hai solo una sensibilità superiore alla
norma. Vieni spesso tacciato come una persona da evitare. La società
attuale ritengo non sia molto aperta di fronte a queste problematiche
specialmente nel nostro Paese. E' un vero peccato. Più sensibilità
equivale a più intelligenza. Spesso in noi, persone con disagio
psichico, c'è una vena artistica quale la pittura, la poesia ecc.
Bisognerebbe valorizzare queste persone che altro non sono che persone
con caratteristiche diverse come tutti gli esseri umani.
a cura di Lara
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Brain storming sullo Stigma
(Gruppo “Arteinsieme” del C.D. di S.Biagio)
Lo stigma è non essere informati
sulle cose (Stefano)
Giudicare prima di conoscere, come quando nel Medioevo bastava essere
diverso per essere bruciato… (Andrea)
Durante il primo ricovero pensavo di essere matta e lo esprimevo ai
miei familiari: questo è lo stigma interno (Mariangela)
Io non ho mai conosciuto l'amore. La maggior parte delle persone mi ha
sgridata e presa in giro, poche persone mi hanno stimata. Non ho avuto
compagne fedeli, persone che non mi prendevano in giro. Quindi, chi più
solo di me al mondo? Poi un giorno conobbi il Centro Diurno e col tempo
scoprii che non era affatto così, anzi lo debbo dire, non mi sono mai
sentita così circondata d'affetto prima d'ora . Ora ho più speranza e
non mi sento più sola come prima (Erika)
In ognuno c'è un punto fermo: per me è la Semiresidenza. In
Semiresidenza trovi quel riconoscimento che ti meriti sul campo,
lavorando su di te ogni giorno, capendo che non sei solo un malato, ma
una persona capace di capire com'è la vita e il tuo problema...quasi
sempre con una soluzione. In Semiresidenza ho trovato un mondo reale,
sincero e pieno di umanità verso di me, che non ero un santo e mi
mostravo molto ambiguo. Ma presto capii che dovevo riflettere (Maurizio)
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La mia storia
La sofferenza seguita alla perdita di mio marito, otto
anni fa, è stata talmente grande che ha fortemente aggravato il mio
disturbo depressivo, insorto già nel periodo adolescenziale.
A questa situazione, di per sé tristissima, si è aggiunto un altro
evento forse più doloroso: i Servizi Sociali, a seguito della
segnalazione fatta da mia sorella, nel corso della malattia di mio
marito mi hanno tolto due delle tre figlie, in quanto minorenni.
Secondo lei ero inadeguata e trascuravo le mie bambine.
Pur ammettendo che il farmi carico di mio marito, gravemente malato, mi
stancava molto e non riuscivo a soddisfare tutte le esigenze delle
figliole, ritengo comunque di essere stata vittima di una ingiustizia
immensa.
Da questo momento in poi i parenti, tranne i miei anziani genitori, si
sono dileguati. Lo stesso hanno fatto conoscenti e amici. La solitudine
e il grande dolore, mi hanno costretta, su prescrizione della mia
psichiatra, ad assumere terapie molto pesanti, per non soccombere sotto
questo pesantissimo fardello. Nel tempo però ho realizzato che i
farmaci, sono importanti, ma non sufficienti…
Grazie ad un gruppo amatoriale di teatro di Pioppe di Salvaro, ho
iniziato a stringere rapporti umani significativi. Inoltre da due anni
frequento il Centro Diurno di San Biagio, dove ho conosciuto e fatto
amicizia con altre brave persone che mi ascoltano, mi sostengono e mi
comprendono.
Al di fuori però ancora molte persone prendono le distanze da me e mi
trattano con freddezza. Sono sicura che questi atteggiamenti sono
frutto dell'ignoranza, infatti di solito fanno paura le cose che non si
conoscono.
Il mio più grande desiderio è di non essere più sola, avere molti amici
e soprattutto avere di nuovo con me la mia terzogenita.
Sabrina Soffri
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Me stessa
Oggi è un anno che me ne sono andata via dai miei mali,
non ti succede mai di voltarti indietro e rivedere i tuoi errori.
Ho buttato via tutti i miei ricordi, il mio marchio mi è rimasto
addosso: come un’onda sei nella mia mente, ci rimani. Quanta pioggia
grida sopra i vetri. Ho cercato di chiamarti, per rimpiangere i miei
errori. Stai come una volta in più per proteggermi. Tu ogni estate sei
dentro di me, come il primo giorno che mi hai fatto prigioniera: non
voglio più quel respiro di affanno e di dolore.
Tu sarai sempre nel mio cuore, dammi la chiave per fuggire lontano da
te (il male).
Cammino lungo questa via, lunga di pericoli, ma ho la forza di andare
via. Non mi fai più paura. La vita con te non è facile, ma ti fai
sentire e spezzi la mia anima.
Nel mio silenzio resterò, questo per me è un affrontare la vita, una
decima volta senza pensare alle conseguenze.
Tu starai sempre a inseguirmi per non farmi vivere la vita come gli
altri, ti combatto per distruggerti, ma so già che ritornerai. Con te
però non andrò, vorrei tanto conoscerti meglio, soprattutto il tuo
volto. Fai vedere il tuo volto furbo e ribelle, devi solo farmi stare
male come hai fatto in questo tempo, anni?
Facile prima rubare l’anima e poi fuggire, e contagiare un’altra anima
per poi ritornare da me, per farmi rinchiudere dentro ai manicomi. Non
ti voglio più credere, perché giochi con i sentimenti. Ma questa volta
è finita, sto vincendo io e tu sei fuori dal mio corpo. Ti odio non c’è
per te una via d’uscita.
Guarda sono quella che te le dava tutte vinte e si feriva da sola. Con
questi errori miei, ora che maledico me, spero che ci sia una tregua,
almeno per vedere un raggio di sole. Ora sono qui a combattere e
rimettere a posto la mia coscienza e i miei sbagli.
Mi hai sempre accompagnato nella crescita. Mi hai accettato con i miei
errori invece di voltare le spalle. Guarda, piango, mi fa male tutto,
sei sempre al centro del mio mondo.
Certe sere spengo la luce e rimango per ore da sola con me stessa a
guardare nel buio, per avere una risposta alle mie insolite e stupide
domande di una adolescente innamorata.
Faccio i conti con la mia vita e dico a me stessa: mai più. Cerco le
intenzioni migliori e piango tutti gli errori, perché ho bisogno
d’amore e di aprire il mio cuore in un mondo che corre più veloce di me
… di cercare il mio senso, piccolissimo e immenso, a cui penso. Resto a
guardarmi allo specchio, vedo se un giorno posso rincominciare a fare
una vita come gente normale.
Dove posso cercarti? Dimmi dove sei!
Non è facile sopravvivere alle favole. Alla mia età non si torna
indietro. I miei peggiori incubi e brividi sono graffi e lividi chiusi
in una stanza: ho buttato la chiave, ho buttato la mia anima. Mi sta
crollando tutto addosso, nelle mie insicurezze e nella mia fragilità.
Dove sto cercando la mia libertà? Non ho un senso dell’orientamento, mi
sento spaesata.
Io non mi voglio buttare via, l’ho promesso alle persone che mi sono
state vicine, ma soprattutto alla mia stessa anima e vita. La mia
fragilità e la mia insicurezza, sì! La vorrei combattere ma non ho le
armi giuste, mi sento insicura di me stessa.
Odio le prediche della gente che non ascolta i tuoi problemi e si fa
beffe di te, della tua persona fragile, in poche parole ti marchia per
tutta la vita.
Quali notti sto inseguendo … un mondo per ritornare. La sicurezza è
ritornare come prima, ma non ci riuscirò più: la mia vita è questa, non
posso fuggire dalla realtà.
Ho raccolto in fretta tutti i miei errori. È più facile fuggire dai
problemi e non risolverli e hai dei residui della tua vita da ingerire
a stomaco chiuso.
Per paura di contagiare gli altri della mia vita mi sono allontanata e
mi sono fatta un vuoto, per risolvere i miei problemi psicologici.
Con il passar degli anni anch’io mi riconosco, mi riparo i danni. Il
risveglio è brusco, si sveglia ogni sbaglio e segreto.
Inseguire la corrente come una cretina, per dimostrare agli altri che
sei uguale a loro e che non sei un cretino o matto.
Non lo avrei detto mai che sarebbe capitato a me. La mia generazione
queste cose non le sa. Fretta, con emozione a pelle, con questa realtà
ed è un rifiuto della società.
Piango nel cuscino e spengo le mie pene togliendomi la vita. Poche
possibilità da raggiungere una come me. Sono un po’ donna, ma ancora
nella pancia della mamma. Questa è la mia vita.
Una ragazza ricoverata.
Anna Corsini
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Siamo un popolo di matti
Siamo un popolo di matti, non solo noi, ma anche quelli
fuori.
L’approccio, e quindi la cura, non possono essere che di tipo
farmacologico, quindi di controllo e mantenimento.
Le patologie psichiatriche colpiscono chiunque senza differenzazioni di
classe, ceto sociale, sesso… le maggiori sofferenze mentali sono di
tipo psicotico, depressivo, nevrotico, suicidale e psicosomatico.
La famiglia, lo stress e il precariato sociale sono molto probabilmente
le cause maggiori delle sofferenze mentali.
I “matti” sono incapaci quindi di poter gestirsi autonomamente nella
vita quotidiana, destinati a passare la vita in manicomio.
Questi disturbi sono causati da fenomeni di precariato economico
sociale dovrebbero corrispondere ad un aumento della tensione sociale e
quindi portare ad un conflitto sociale e per questo veniamo chiamati,
invece di persone, come matti.
Sembra esserci difatti, da parte dello stato, un’attitudine a rendere e
mantenere le persone matte o invalide piuttosto che disoccupate: meglio
matte che disoccupate, costa meno.
In pochi sono disposti a riconoscerla, solo perché fa paura, la
malattia quando inizia a manifestarsi (nel 50% dei casi prima dei 14
anni).
Genitori, insegnanti e anche il personale sociale che ruota intorno
alla scuola, spesso rifiutano di individuarla e di chiamarla con il suo
nome.
Ma questo complotto del silenzio nasce nello stigma generalizzato nei
confronti del disturbo psichico. È il primo ostacolo alla prevenzione e
all’assistenza precoce del soggetto infermo, che diversamente, in un
ambiente ricettivo, troverebbe una pronta risposta ai propri problemi.
Il tema della malattia va visto da un punto di vista “relazionale,”
guardando, cioè, prima ancora che alle tecniche di cura, al contesto
sociale in cui si muovono la vittima e la sua famiglia.
Ci si sofferma sullo stigma e sul pregiudizio suscitati dalla malattia
psichiatrica.
I mezzi impegnati per la salute mentale risultano spesso insufficienti.
Prevenzione dei soggetti a rischio.
Anna Corsini
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"Le formichine" di Eugenio
Barbieri
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Riflessioni sul libro “Bruciata
viva”: la storia vera di Suad
“Suad, una giovane cisgiordana, sta facendo il bucato
nel cortile di casa, quando sente sbattere una porta alle sue spalle. È
il cognato che le rivolge una frase scherzosa. Suad si volta per
replicare, ma all’improvviso il suo corpo è intriso di un liquido
freddo che in meno di un secondo diventa fuoco”…
Bruciare viva! Questa è la punizione che la famiglia le infligge per
aver commesso il peggiore dei peccati: essere rimasta incinta prima del
matrimonio.
Nel piccolo villaggio dove Suad è nata, le donne non possono andare a
scuola, non possono vestirsi come vogliono, non possono uscire senza
essere accompagnate e non possono innamorarsi. Il loro destino è quello
di dedicarsi ai lavori più umili, al servizio prima dei padri poi dei
mariti.
Suad, però, non viene lasciata al suo destino: per mezzo di una
istituzione umanitaria riesce a fuggire in Europa, dove viene curata e
protetta, anche se deve portare una maschera che lascia intravedere
solo gli occhi e la bocca, questo per nascondere il viso deturpato
dalle gravi ustioni.
Suad è uno pseudonimo ma queste sono le sue vere parole: “Al mio paese,
nascere donna è una maledizione”.
Situazioni come queste sono ancora presenti maggiormente nei paesi del
medio oriente. Qualche caso si è riscontrato anche in Italia. Possiamo
sottolineare casi di giovani donne straniere uccise dal padre perché
fidanzate con uomini del nostro paese o addirittura perché vestono alla
maniera occidentale. Causa di questo, l’ignoranza e una cultura che
oltrepassa il limite della ragionevolezza umana e che colpisce
maggiormente gli indifesi: in questo caso, le donne.
A noi, qualcuno potrebbe voler infliggere un altro tipo di stigma,
quello del “malato di mente”. É vero che possiamo essere malati, ma lo
stigma che i cosiddetti sani vogliono infliggerci, non deve farci
intimorire, perché non siamo lasciati soli al nostro destino. Ci sono
istituzioni, persone qualificate e amorevoli che ci accompagnano in un
percorso di riabilitazione e se anche non riusciamo a vincere la
malattia, possiamo essere ugualmente in grado di vivere una vita libera
e felice.
Mariangela
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Il marchio di Caino
Disse Caino a Iahvé: “Tanto grande è la mia colpa da
non meritare perdono? Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo
suolo, e lungi dalla tua presenza io mi dovrò nascondere; io sarò
ramingo e fuggiasco sulla terra, e d’ora innanzi chiunque mi troverà mi
potrà uccidere”. Ma Iahvé gli disse: “Però chiunque ucciderà Caino
subirà la vendetta sette volte!”. E Iahvé pose su di Caino un segno,
perché non lo uccidesse chiunque lo avesse incontrato. E Caino partì
dalla presenza di Iahvé, ed abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.
(Genesi, 4, 1316).
Il marchio posto da Dio su Caino, più che una punizione è un
“lasciapassare”, un’estrema difesa, che permette al fratricida di
sopravvivere e di dare origine a una sua stirpe. Imperscrutabile
giustizia divina.
Eppure… Chi, di fronte a certi fatti efferati, come ad esempio lo
stupro di una giovane donna o la brutalizzazione di un bambino, non ha
avuto almeno per un attimo il pensiero che bisognerebbe marchiare in
fronte il colpevole, in modo da poterlo riconoscere a vista?
Si possono trovare diversi riscontri storici di stigmatizzazione dei
colpevoli. Naturalmente col variare dei tempi e dei luoghi variano
anche i tipi di colpa da espiare e le modalità di marchiatura.
Un esempio suggestivo ce lo offre il romanzo storico “La lettera
scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, pubblicato nel 1850 e ambientato
nella Boston del XVII secolo. La protagonista, Hester Prynne,
nonostante il marito sia assente da anni dalla città, ha dato alla luce
una bambina, Pearl. Hester si rifiuta di rivelare chi sia il padre,
anche perché si tratta di un uomo di chiesa, e viene esposta al
pubblico ludibrio e condannata a portare sul petto una A scarlatta (che
sta per "Adultera"), diventando così facile bersaglio per la comunità
puritana, assai poco incline al perdono e alla comprensione.
Oltre ai singoli individui, possono essere colpiti da condanne analoghe
anche i gruppi sociali, gli aderenti a una religione, le etnie. Basti
per tutti l’esempio degli Ebrei, costretti dal Nazismo a portare la
stella gialla sul petto. Si scatenano così le persecuzioni, i pogrom, i
genocidi.
Ma a cosa serve un segnale del genere? L’intento evidente è quello di
escludere e perseguitare il “diverso”, ma il più importante è il
rovescio della medaglia, cioè l’intento di rafforzare la coesione
sociale tra i non stigmatizzati, gli integrati, gli omologati… quelli
che per temperamento o per
comodità scelgono di adattarsi ai divieti e alle regole sociali così
come sono.
Lo scrittore Hermann Hesse, nel suo romanzo “Demian”, parla di un segno
(metaforico) che caratterizza le persone dotate di spirito critico e di
moralità autonoma e lo chiama “marchio di Caino”. I marchiati da questo
segno non hanno vita facile, perché devono sempre rispondere in primo
luogo alla propria coscienza.
“Ognuno di noi deve trovare per conto suo che cosa sia lecito e che
cosa sia proibito: proibito per lui. Si può non fare mai alcunché di
proibito ed essere tuttavia un grande furfante. E viceversa…”.
Non è facile però mantenere nel tempo tanto rigore morale e tanta
indipendenza di giudizio.
Del resto nessuno possiede da solo la scienza del bene e del male… il
confronto con l’opinione degli altri è ineludibile.
Lucia
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Recensione al libro “Fragments”
di Marilyn Monroe
È uscito in questi giorni, edito da Feltrinelli col
titolo di “Fragments”, un diario di Marilyn Monroe, sbucato
fortunosamente da una soffitta, comprendente annotazioni, racconti e
poesie finora sconosciuti. La vita di quella che forse è l’attrice più
celebre di tutti i tempi è un vero concentrato di dolore, in soli
trentasei anni, dalla nascita a un presunto suicidio dai risvolti molto
oscuri.
Marilyn si chiamava in realtà Norma Jane Baker Mortenson. Cresciuta
senza padre, con madre e nonna sofferenti di disturbi psichici, a dieci
anni subì uno stupro, poi passò da un affido all’altro, da un istituto
all’altro, finché a sedici anni pur di accasarsi si sposò. Poco dopo
divorziò e in seguito ebbe una serie di mariti ed amanti, ma senza
trovare pace, nonostante il successo, il denaro e l’accesso al mondo
dei ricchi e famosi, degli intellettuali e dei potenti, compresi il
presidente degli Stati Uniti John Kennedy e il fratello Bob.
Forse non tutti sanno che Marilyn fu a lungo in cura per disturbi
nervosi e che, pur essendo già una star, subì tra l’altro anche
l’esperienza del ricovero coatto in manicomio.
Nell’introduzione a “Fragments”, Antonio Tabucchi scrive tra l’altro:
… le persone troppo sensibili e troppo intelligenti
tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e
intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la
vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della
pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla,
quadrupla, con le mille ipotesi dell’esistenza.
Questo è il grande problema di coloro che sentono troppo e capiscono
troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci
obbliga a essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi
siamo.
Parole tremende.
Anche a me capita spesso di pensare che molte delle persone che vengono
definite “malate di mente” sono appunto persone troppo sensibili e
troppo intelligenti per chiudere gli occhi sulla follia del mondo, come
i “normali” sono costretti a fare, pur di tirare avanti. Troppo
intelligenti per star dentro ai binari dell’ovvietà, del conformismo,
dell’ipocrisia e troppo sensibili per reggere alle bordate della
disapprovazione, della svalutazione, dell’emarginazione…
Granelli stritolati nell’ingranaggio, troppo piccoli per riuscire a
bloccarlo, ma capaci, per lo meno, di far stridere i suoi denti…
Lucia
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Stigma e letteratura
Quest’estate uno dei temi affrontati al Laboratorio di
Narrativa di Casa Mantovani è stato lo stigma. Lo abbiamo fatto
leggendo diversi brani, ma quello che ci è sembrato più significativo è
la novella “La Patente” di Luigi Pirandello tratta dalla collana
“Novelle per un Anno”.
In questo brano Pirandello racconta il dramma di una persona costretta
in una "forma" nella quale gli altri lo hanno calato: un povero onesto
uomo, per il casuale concorrere di circostanze fortuite, indicato dai
più come iettatore, arriva alla totale disperazione senza che alcuno si
senta personalmente responsabile del danno arrecatogli.
Chiàrchiaro, questo è il nome del protagonista della novella, reca con
sé il peso di portare sciagura, pertanto perde il suo lavoro e non
riesce a procurarsene un altro, e ben presto si riduce alla fame; pensa
allora di citare in giudizio due dei suoi diffamatori, non per
accusarli, bensì per ottenere il riconoscimento ufficiale di iettatore.
L’ignoranza, causa principale della superstizione popolare, e lo
stigma, hanno fatto di lui un disgraziato e perciò egli vuole ora
rifarsi dei tanti scherni subiti in silenzio. La sua ribellione è
comprensibile: è quella di un uomo che, in preda allo sconforto, vuole
gettare in faccia alla gente, spietata e superstiziosa, la sua
sofferenza e trarre dalla sua sventura il massimo profitto.
Chiàrchiaro passa di colpo dal ruolo di caricatura a quello di eroe
drammatico e la sua situazione diventa emblematica della farsa della
vita, delle menzogne in cui l’uomo si dibatte, incapace di sottrarsi
alle stravaganti regole che lo pressano, se non trova il modo di
adattarsi.
Dopo la lettura del testo, è stato chiesto ai partecipanti un parere
sullo stigma e le osservazioni registrate sono risultate davvero
interessanti e vengono di seguito riportate.
Giorgia Busti
In diverse occasioni mi è capitato d’incontrare
situazioni simili a quelle di Chiàrchiaro. Conoscevo una persona che
aveva la gobba e tutti gliela toccavano, altrimenti avrebbe portato
iella. A me è sempre dispiaciuto per questa persona, perché mi sembra
che fosse diventato oggetto di scherno degli altri, che lo vedevano
solo per la sua gobba e non per la sua sensibilità ed umanità. Anche
questa secondo me è una forma di stigma.
Maya D.
Questa è una storia paradossale! Tutti credono in
qualcosa che non esiste davvero… gli viene affibbiato un marchio … è
tragicamente comica la rivalsa del personaggio pirandelliano.
Pierfrancesco P.
Lo stigma, proprio come in questo racconto, crea un
circolo vizioso di alienazione e privazione di diritti e benefici per
la persona discriminata. La conseguenza di tutto ciò diventa un grave
isolamento sociale e un’incapacità seria di trovare un lavoro. E’
incredibile che tutto ciò esista ancora al giorno d’oggi e che ci siano
persone che credono anche a dei proverbi superstiziosi come, ad
esempio, “Né di Venere né di Marte non si sposa e non si parte, né si
fa acquisto d’arte”.
Dino S.
Sfortunatamente io avevo un amico che aveva avuto
grande successo nella vita, ma che ad un certo punto della sua
esistenza era stato etichettato come “iettatore” ed è dovuto scappare
in Brasile e ricostruirsi così la sua vita per non impazzire.
Gianluigi M.
Mia Martini e Marco Masini sono due esempi eclatanti di
cosa sia lo stigma. Tutti dicevano che portavano iella e la Martini
pare si sia suicidata per questo. Ho letto su un giornale che tutti
toccavano ferro quando passava e quando la invitavano ai programmi
faceva quasi pena, perché era entusiasta per essere stata presa in
considerazione. Anche Masini era diventato un emarginato sociale, ma
con l’aiuto di Celentano pare che la situazione sia rientrata.
Personalmente credo che questa non sia superstizione, ma cattiveria
umana.
Paola L.C.
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Dedicato ad Arianna
Sedevi accanto a me ad “Arteinsieme”
e con la tua ironia
mi contagiavi di allegria.
Ora che non mi sei più accanto
al posto tuo si è seduto il pianto,
quel pianto che mi prorompe in petto,
ma che si ciba sol di grande affetto.
Dove solevi posar le tue minute mani
per scrivere di gioia e di dolore
io vorrei posare un bianco fiore,
per ricordarmi sempre del tuo amore.
Questo soltanto nella mente mia,
così che man crudele
non lo getti via.
Mariangela
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L'umiltà di Dio
Dovremmo essere noi
a credere in Dio
ed invece ho comprato un libro
che si intitola
DIO CREDE IN TE.
Lucio Polazzi
L'amicizia
L’amico vero è come
l’acqua,
senza non si vive.
Lucio Polazzi
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Pietra inconscia
Pietra inconscia al margine bardo
In simultanea nitidezza manca il piano consacrato
Ogni cosa in funzione del corpo che qui si trova
Quasi niente, ciarpe, ciondoloni, corbelli di gatto neonato
Come aurea un ciclopico polline sotterraneo
Lieve come l’oggetto impossibile, organico e dispari
Intorno familiare la terra.
Annamaria Moruzzi
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Dal 1° piano (disotto)
Sul marciapiede:
tutto normale, a gettare lo sguardo;
Il Sole tintinna
su vetri e vetrine
tu rodi (salivaliscivia
che sali da visceri ormai
putrefatti in attese…)
I piedi affondano, la mente
affonda,
s’effonde un odore che sa…
Disotto
vedo persone vicine lontane
e non si può uscire
assolutamente non
si può uscire.
Piergiorgio Fanti
dalla raccolta “Cristallo di rocca”
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Poesia a Dio
Vidi con i suoi bellissimi colori
l’arcobaleno,
dopo che era piovuto,
quando arrivò il sereno.
Il suo rosso lucente,
il giallo trasparente,
il verde speranza,
tutti i colori nella loro essenza.
Desideravo, lo volevo
tutto mio...
ma poi dissi tra me:
è l’arcobaleno di Dio.
Anonimo
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Cosa avrò mai dalla vita
Cosa avrò mai dalla mia vita,
se non il cammino di un bambino…
E perché, e perché questo danno
che m’incombe il cuore,
se non che d’incanto morirei
assopita in quel destino
che si chiama morire o vivere.
L’essenza cosa sia
se è per te
o per qualcuno
a cui domandare ancora:
questo è vivere o morire?
Paola Scatola
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Breve preghiera su Maria
Oh Maria,
donna del silenzio,
donna dell’ascolto,
umile ancella del Signore,
prega, intercedi,
presso il Padre,
per noi peccatori.
Amen.
Daniela Sitzia vedova Conti
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I diversi
A te che crocifisso stai
su quello strano tronco
io voglio domandare:
che ci facciamo in questo mondo?
Se siam diversi ci chiamano cretini
ma non si avvedono che son dei burattini.
C’è chi a tutti i costi vuole comandare
chi, invece, vuol far girare il mondo
sul palmo di una mano.
Scendi da quel patibolo
e mostra il tuo costato,
la corona di spine
e le tue man forate…
Se le tue sofferenze
non han cambiato il mondo,
l’animo dei diversi
han reso più fecondo,
più ricco d’amore
e di mille altre virtù.
Ed è per questo
che ti chiamano:
Gesù,
il nostro Salvatore.
Mariangela
|
Guardati le spalle
Attento, stai rischiando troppo,
guardati le spalle,
voltati indietro.
Il passato è molto importante
ogni persona
ha una sua strada
che deriva da quello
che è successo prima…
Quello che sei adesso
è dovuto a come ti sei
comportato finora.
Sei stato fortunato?
Hai avuto una strada facile?
Hai dovuto superare
molte difficoltà?
Allora ti hanno temprato molto,
quindi sei arrivato ad avere
una forte personalità
che adesso ti sta aiutando molto.
Guardati alle spalle,
di quella persona
non ti devi fidare
ti porterà sicuramente
su una cattiva strada.
Devi capire chi ti vuole
veramente bene
e chi invece vuole approfittare
di te.
Attenzione! C’è pericolo…
Allarme rosso!
Ti vuole far male,
ma tu cambia strada,
evitalo, non chiamarlo più.
La vita è un continuo
incontrare persone,
fra loro ci sono
gli invidiosi, i cattivi, gli arroganti.
Riconosci quell’ individuo,
non lo puoi cambiare,
sicuramente la cosa migliore
è continuare per la tua strada.
Devi essere sempre
sicuro dei tuo valori,
seguili e fatti trascinare da loro.
Loopa Sonivree
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Mani amiche
Percepisco il tempo
attraverso le dita della tua mano
ancorata io sono…
a quello che le dita tracciano in me.
Mani amiche riattivano il cuore
danno speranza accendono calore.
Siamo sole
afferrami per trafiggere il tempo…
Sento la morte vicina
sento la fine
percepisco il dolore.
Afferrami
non tremare
non tremerò se ci sei.
È un linguaggio comune…
Marcella
|
Suggestioni:
guardando i disegni di Paola Scatola
Lo gnomo / folletto, personaggio visibile e invisibile…
C’è chi lo vede e chi non lo vede. La realtà o l’irrealtà.
Luigi
Ti guardo con gli occhi
che riflettono il pianto
sperando che tu
possa vedermi al tuo fianco.
Mariangela
Ha qualcosa di misterioso, sembra un tunnel dal quale
non si riesce a uscire, come un inquietante sogno.
Massimiliano
I triangolini sono le parti stabili, cioè il carattere
di una persona; i trattini sono i pensieri che turbinano attorno… Il
Leone, la musica, i tasti della tastiera del pianoforte…
Aldo
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“Uguali diritti per tutti”
“Nabir Perdù” è un racconto fantastico che avrebbe
trovato la giusta collocazione all'interno del precedente numero del
Faro, visto però il contesto nel quale è stato regalato alla
sottoscritta, trovo sia anche adatto al Faro in uscita. È stato infatti
durante i Mondiali Antirazzisti che una squadra di calcetto di giovani
universitari provenienti dalla Calabria, al momento dello scambio di
doni con i Diavoli Rossi (squadra di cui faccio parte) ha offerto
questo curioso elaborato a noi sfidanti.
I Mondiali Antirazzisti, giunti quest'anno alla 14° edizione, si sono
svolti presso il Centro Sportivo di Via Allende (Casalecchio) dal 7
all'11 luglio ed hanno visto 204 squadre di 60 diverse nazionalità,
dimostrando una crescita esponenziale in quanto a interesse, a numero
di partecipanti e a ricaduta sociale (prevenzione e sensibilizzazione).
Lo scopo che si prefigge la UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) che
insieme ad altri organizza questo evento, è quello di promuovere i
valori dello sport e di organizzare attività per combattere la
discriminazione e l'esclusione sociale.
Siccome non può esserci uguaglianza senza diritti condivisi, lo slogan
che gli organizzatori hanno coniato affinché fosse una sorta di parola
d'ordine è stato:"Uguali Diritti per Tutti". Il percorso di
questiMondiali si basa, infatti, sul principio della lotta attraverso
il veicolo dello Sport, per il riconoscimento dei diritti di
cittadinanza a tutti coloro che vivono sul suolo di un paese (Ius Soli).
E' proprio questo lo spirito e il percorso che tutte le minoranze,
persone con disagio psichico comprese, dovrebbero adottare per
sensibilizzare e coinvolgere la società civile, con lo scopo di
produrre l'abbattimento del pregiudizio, della violenza e
dell'intolleranza che tanto danno e sofferenza provocano alle persone
oggetto di esclusione ed emarginazione.
Concludo con lo slogan coniato dalle colleghe referenti di
“Arteinsieme” a proposito di un lavoro sullo Stigma:
"ABBATTIAMO LO STIGMA E AUMENTIAMO LA STI(G)MA!”.
Concetta
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Nabir Perdu
Correva l’anno 3614, gli umani erano stati oramai
disintegrati, quantizzati, dall’esplosione dell’hip hop già da tempo
immemore.
Oggi si nuotava bene nel triangolo delle Bermuda, certo faceva un gran
caldo, ma Yuri aveva trovato un posticino fresco sotto lo scoglio di
Gianni Giannone, il polipo scrittore, che aveva fatto il boom
rivisitando delle canzoni di Modugno negli anni precedenti la grande
alluvione del 3009.
Da là sotto, io e Yuri potevamo finalmente goderci un momento di
riposo, sorseggiando una birra e curiosi di ogni svolazzo che la
cittadella, allegramente distesa ai nostri piedi, ci regalava. Così
aspettavamo l’arrivo di Gianni.
Gianni il polipo aveva un grande problema all’udito, ci toccava sempre
chiamare prima sua moglie Alga, che ci preparava delle fantastiche
colazioni di “vermicelli di mare”, dopo di che arrivava gongolando
Gianni e ci raccontava una delle sue avventure. Che fossero storie di
vita vissuta o create dalla portentosa fantasia polipa a noi non
importava. Gianni arrivava e si sedeva accanto a noi fumando la sua
pipa azzurra e cacciando qualche boccata iniziava a raccontare, come se
leggesse le sue storie nei disegni che il fumo tracciava tra le
correnti.
Quella sera apparve un pesce e prima che si dissolvesse scoprimmo che
si chiamava Nabir, Nabir Perdu. Nabir apparteneva alla famiglia dei
pesci pagliaccio, una specie rara da queste parti, non ce ne sarebbero
restati ancora per molto in città. La loro vita era quella del
giramondo e ovunque si trovassero organizzavano piccoli spettacoli,
arti libere in ordine sparso, gioiose danze con i totani, trotto al
riccio di mare, magie, illusioni varie…
Per quella sera, in occasione della festa del Gammero Rosso, avevano
preparato lo spettacolo teatrale “Processo a Capitan Findus”, accusato
del tentato olocausto dei merluzzi. In questa commedia Nabir faceva la
parte dell’esca di cui si serviva Capitan Findus per catturare i
merluzzi. Erano anni che portavano in giro quello spettacolo in tutte
le acque del regno di Nettuno, ma quella sera successe qualcosa di
straordinario, mentre Nabir ripeteva la sua parte, un’anziana merluzza
lo raggiunse in quell’angolino appartato.
La bruttezza della merluzza era tale da raggelare il sangue e così fu
per Nabir che, pur provando un grande disgusto, non trovò la forza per
andarsene. La vecchierella si pose di fronte a Nabir e senza lasciargli
respiro, subito incalzò: “Finalmente ricapiti sulla mia strada, Nabir.
Ti ricordi di me? Sono Kalimba, stavo nei lager d’Aral, il lago salato
dove ci tenevate prigionieri… Perché mi guardi così? Non ricordi?
“Ma che dici? rispose Nabir Io sono un attore conosciuto nei sette
mari, alla stregua di Marlon Branzo e Lo Squalo 3! Di che vai parlando?
Per di più, sono decenni che vado denunciando i crimini di Capitan
Findus. Ti stai confondendo con il mio personaggio, questo è uno
spettacolo, non è la realtà. Il Capitan Findus è morto prima che io
nascessi”.
“Ti inganni, Nabir, mi adescasti e consegnasti alle Falangi Findus che
mi portarono poi nei Lager.”
“Tu sei pazza: non è vero!” esclamò Nabir.
La discussione continuò a lungo e i toni non si abbassarono, anzi,
erano sempre più alti, acuti e concitati. Ma nel parlare i lineamenti
della vecchierella ripresero colore e il suo viso ringiovanì. Nabir
restò stupefatto per quel cambiamento. Dei ricordi, così lontani da non
essere suoi, gli ritornarono alla mente, facendolo cadere in un
profondo sonno. Al suo risveglio la merluzza era sparita, lasciando
Nabir con una gran confusione.
Quella sera la festa cominciò con un annuncio. “Ci scusiamo con voi
tutti, ma lo spettacolo è annullato: Nabir si è perso…”.
Da quel giorno nessuno più ha avuto notizie di Nabir, la compagnia, la
famiglia, gli amici, nessuno lo rivide mai più.
E la giovane vecchierella? “Chissà se è veramente esistita… Di certo
per Nabir è stata fatale…” Disse Gianni il polipo con
quell’azzurrognola nuvola di fumo con cui chiudeva tutte le sue storie.
Ci guardò con quel sorriso a metà e chiese: “Bè, ragazzi, che c’è
questa sera alla festa del Gammero Rosso?”
E noi: “Il processo a Capitan Findus” “E… secondo voi, ci sarà Nabir?”
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La straordinaria storia
dell'omino turchino
(seconda puntata)
Passò la notte tra rumori che nel silenzio assoluto
assumevano tonalità forti ed incutevano timore.
Al sorgere del sole l’omino turchino si domandò cosa avrebbe fatto di
tutta quella libertà che all’improvviso gli era stata regalata, dalla
folata di vento, dopo anni ed anni di forzata prigionia all’interno
della stanza di nonna Luisa, anche se prima non aveva mai percepito di
non essere libero, perché non conosceva l’alternativa alla sua funzione
di soprammobile.
Anzi, il suo umore oscillava, in quella prima mattina là fuori, tra
l’euforia di tutte le cose che avrebbe potuto fare e scoprire ed il
bisogno di sicurezza che solo le quattro mura domestiche gli
garantivano.
E poi un pensiero lo assillava: avrebbe rivisto la nonna Luisa? Una
forte nostalgia per ciò che era stato fino al giorno precedente lo
paralizzò per un attimo, solo un attimo, perché per fortuna sentì una
vocina chiamarlo: “Ehi, come stai? Hai dormito bene?” disse la
formichina tornata a trovarlo, “Adesso ti carico sul mio dorso e ti
porto via da qui”.
L’omino turchino capì subito il perché di tanta premura: infatti sentì
un rumore tremendo e sentì la terra come scossa da un terremoto.
Immediatamente ci fu un corri corri di tutte le forme di vita che
pullulavano nel prato: ragni, formiche, coccinelle, coleotteri
scappavano in ordine sparso in ogni direzione mentre i lombrichi si
tuffavano nei loro cunicoli sotterranei. Gli uccellini si diressero
sugli arbusti per mettersi al sicuro.
Quella mattina, che era una domenica, il proprietario del giardino
aveva deciso di tagliare l’erba alta, nella quale l’omino turchino
aveva trovato un rifugio così sicuro, e aveva messo in azione il
tosaerba a motore.
“Dai sbrigati, dobbiamo andare via di qua ed in fretta”… La formichina
avrebbe potuto fregarsene e pensare solo alla sua salvezza, invece si
prese cura di lui, che non aveva i piedi, per poter muoversi.
L’omino turchino pensò che non avrebbe potuto trovare un’amica migliore
ed in cuor suo suggellò un sentimento di fedeltà assoluta verso quella
piccola creatura così generosa, sicuro di poter un giorno ricambiare.
Sicuro… sì, sicuro! Perché l’amicizia che gli era stata dimostrata gli
diede la forza di credere in sé, anche se non aveva mani e piedi,
almeno per ora!
Si nascosero nel cavo di una vecchia quercia. Era una ferita alla quale
l’albero aveva posto rimedio producendo una quantità tale di resina che
si era formata una caverna profumata e accogliente.
Non erano i soli lì, altri avevano avuto la stessa idea ed in poco
tempo, dopo le presentazioni, si misero a commentare con
disapprovazione l’azione distruttiva dell’uomo, concordi
nell’importanza del condividere i pericoli e i momenti di paura.
Alla prossima, ciao.
Jaja
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L'isola del tesoro
Racconto avventuroso fantascientifico a puntate
Laboratorio di scrittura e immagini ARTEINSIEME
Centro Diurno Casalecchio di Reno
seconda puntata
Riassunto della puntata precedente:
Ricordate i viaggiatori coinvolti nella spedizione, finanziata da un
miliardario, diretta all’isola inesplorata alla ricerca del tesoro? Li
abbiamo lasciati nel momento di salire a bordo del mezzo anfibio,
controllato a distanza dall’astronave, che li avrebbe portati proprio
all’isola…
Per arrivare in vista dell’isola impiegano tre giorni fermandosi solo
al tramonto per dormire e mangiare sotto le stelle e al calore di un
falò.
Sulla riva del Rio delle Amazzoni avvistano l’isola lontana. L’anfibio
naviga nelle acque infestate dai pirana fino ad approdare all’isola.
Appena sbarcati intravedono in lontananza delle luci e odono una
musica… Avvicinandosi scoprono degli indigeni dipinti di bianco, di
rosso e di marrone che ballano e cantano.
Gli esploratori si avvicinano portando loro i doni che avevano dentro i
loro zaini: specchi, collane, orecchini e coltelli. Gli indigeni,
contenti dei regali ricevuti, ricambiano con pelli di babbuino e borse
di coccodrillo.
Intanto cala la notte e non avendo gli esploratori costruito ancora un
riparo devono accontentarsi di dormire sotto le stelle nel sacco a pelo.
Jessica, la “viziata”, mostra insofferenza nei confronti della nonna
che continua a rimproverarla e si lamenta molto perché è stanca di
dormire all’addiaccio e pretende un letto comodo.
Chaulì durante la festa aveva avvicinato, con fare seduttivo, l’unico
indigeno, Cornelius Da Siuva, che avendo viaggiato per il mondo parlava
un po’ di italiano.
Durante una notte d’amore nello stesso sacco a pelo lui le racconta che
esisteva una leggenda nella tribù che parlava di un tesoro nascosto
dietro le grandi cascate… Il mattino dopo Chaulì rivela il segreto al
resto del gruppo. Tutti insieme decidono di partire alla scoperta delle
grandi cascate consultando prima la mappa per sapere in che direzione
andare.
Hanno presto una sorpresa: la pianta dell’isola rivela loro che di
cascate ne esistono ben quattro. La leggenda racconta che le cascate
siano mortali a causa del grande salto alla cieca da compiere. Nel caso
in cui si tratti di quella giusta, grazie al salto, sarà possibile
attraversarla e atterrare su una pietra all’ingresso di una caverna.
Nel caso in cui si tratta della cascata sbagliata, ahimè si ruzzolerà,
si sfrombolerà, ci si spataccherà nel vuoto.
Dunque una possibilità su quattro di salvezza! La leggenda narra che,
tra le altre cose, nel tesoro ci sia un teschio di agata tempestato di
diamanti. Il teschio riporta delle iscrizioni che spiegano come
ottenere l’immortalità. Dopo la consultazione la nonna rimette nella
borsa da viaggio la mappa e mentre il gruppo discute animatamente sul
da farsi, Jessica decide di iniziare la ricerca del tesoro da sola per
poterlo avere tutto per sé. Così sottrae la mappa alla nonna e si avvia
da sola alla ricerca del tesoro. Purtroppo sceglie la cascata sbagliata
e precipita nel vuoto. Il gruppo accortosi della sua assenza si domanda
dove possa trovarsi. Dopo un po’ di tempo sentono un urlo che proviene
dalla direzione della cascata più vicina. Corrono a vedere e la trovano
esamine che sembra morta. La mappa galleggia ancora sull’acqua. Tutti,
tranne Chaulì, cominciano a piangere e si chiedono come sia potuto
succedere. Quasi tutto il gruppo si precipita a recuperare la mappa.
Linda con la sua attrezzatura da speziale va verso il corpo e cerca di
scoprire quali siano le condizioni reali di Jessica. Linda si rende
conto che la sua amica non è morta ma solo svenutaper l’impatto
violento. Riporta solo alcune escoriazioni facili da curare. Sul posto
le prepara una tisana d’erbe che le possa dare energia per il ritorno
all’accampamento, dove la curerà con impiastri e rimedi vari. Quando
Jessica si riprende, Chaulì si avvicina e le dice:“Minchaulì! Tu
svegliata! Tu cattiva avele lubato mappa! Tu da sola dove cledele di
andale! Io non pallale più con te!”.
Pedro Alvarez fa una passeggiata con la panterina, ragionando sul fatto
che non è bene tradire la fiducia del gruppo. Camminando trova un
quadrifoglio e ritorna al campo per incollarlo alla mappa che è stata
rubata, convinto che questo riporterà la buona armonia e la buona sorte
nel gruppo. La nonna si avventa contro Jessica e la schiaffeggia
dicendo:“Svergognata! Potevi anche morire!”. Per punizione la rinchiude
in una capanna che era stata costruita per riporre l’equipaggiamento.
Linda tra pozioni e cataplasmi pensa quale potrebbe essere la giusta
punizione che aiuti Jessica a capire quanto sia stato brutto il suo
gesto.
È molto arrabbiata e come prima cosa le viene in mente che Jessica
potrebbe essere punita per la sua avidità decurtando una parte del suo
tesoro. Gianmarco pensa che Jessica sia molto avida ed è convinto che
sarebbe meglio cacciarla dal gruppo. A questo punto il gruppo si
riunisce per decidere cosa fare della sorte di Jessica. Il gruppo, dopo
una lunga discussione, concorda di perdonarla tenendo in considerazione
il fatto che era un brutto periodo per lei. Viene deciso anche che
l’indomani mattina la spedizione per le cascate ripartirà…
(continua nella prossima puntata)
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Lo zen e i quattro principali
“stigmi” dell’uomo…
Dovendone parlare in breve, come è la durata di una
canzone, si dirà:
Descrizione del I stigma:
L’uomo nasce con lo stigma della morte. Ad essa principalmente si
sottrae per mezzo della nutrizione, del bere , respirare… togliendosi
dal caldo o dal freddo eccessivo ecc. che è un allenamento a vivere; o
di sottrarsi alla morte; nel sottrarsi allo stigma della morte l’uomo
determina in sé un coefficiente di vitalità; ossia quello che produce
anche la volontà .
Descrizione del II stigma:
È quello che si eredita geneticamente, ed è di serie, già dalla
nascita. Gli altri debbono provvedere completamente al nostro
sostentamento, es.: tigre in gabbia nata in cattività.
Descrizione del III stigma:
È lo stigma dormiente. Allorché si manifesta, l’uomo diventa come la
tigre, che era libera di procacciarsi il cibo e di avere un territorio
come sua casa, ma allorché viene catturata ed ingabbiata, potrà avere
un territorio recintato grande, ma non è libera.
Nell’uomo accade che gli altri si debbano occupare parzialmente o
totalmente di lui, avrà un territorio casa, ma non sarà libero; ossia
sarà come la tigre che da libera viene catturata e ingabbiata.
Descrizione del IV stigma:
O stigma occulto, non manifesto. È contenuto in un racconto zen… Un
uomo diceva che non poteva avere rapporti sessuali, perché con la
professione che esercitava glieli facevano cadere costantemente a terra
e si rompevano. Era così costretto ad avere due attività: la principale
consisteva nel fatto di far vedere e dimostrare che lui li aveva sempre
al suo posto. Cosicché la sua professione principale diventava la sua
secondaria e il suo gioco era che nessuno avrebbe dovuto mai
accorgersene…
Luigi Zen
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Francia insieme!
25 Luglio 2010 Sabato sera – Ritrovo ore 21.50 –
Partenza ore 22.30
Incomincia il nostro viaggio, su un treno notturno, con le cuccette.
BOLOGNA-PARIGI
Fra valigie, zaini, lenzuola e coperte ci siamo inoltrati fuori dai
confini, oltre la notte.
Stazioni, fermate, tosse, risate. Abbiamo dormito poco. Alle 5 ci siamo
svegliati, ci hanno restituito i documenti. Una pausa caffè. Alle 9
circa siamo arrivati a Parigi: la metropoli romantica nel cuore
dell’Europa. Una buonissima colazione, muffins e tortini alla mela,
succo d’arancia e caffè. Non si può fare a meno di notare che la
Francia è molto piu ricca dell’Italia. Abbiamo comprato qualche disco
alla Virgin e visitato un negozio di camicie. Poi si riparte: verso…
Il tragitto in treno e tranquillo, fra foreste, fiumi e paesaggi ameni
fluviali, casette dal tetto a punta e campagne. Dopo un’ora e mezzo di
viaggio, arriviamo a Troyes, ci vengono a prendere in macchina Louis e
Antoine. Enormi distese di grano, di paglia, di ortaggi, a volte anche
girasoli. Alcune pale
per l’energia eolica. Arriviamo dopo 40 minuti di macchina alla nostra
meta: una casa di campagna ben arredata, dove ci aspettano Francoise e
Idefix.
Mi ha colpito molto di questo luogo, l’ospitalita e la cortesia,
insieme all’ottima cucina tipica francese che, io almeno, non avevo mai
avuto l’occasione di assaggiare. Sono tanti i piatti tipici della
Francia: dagli antipasti di verdure con salsa di yogurt e vinaigrette,
insalata russa, per arrivare ad alta cucina come la bourguignonne
(carne stufata con aromi e vino, simile al nostro brasato), ai formaggi
(caprice des dieux, brie, camembert, ecc…), les boudelles blanches
(salsicce bianche fatte con carne di tacchino e pollo e latte) le
verdure, i legumi con carni di maiale in umido ecc…
Le camere sono belle, in legno massiccio, stile rustico. Fuori un
giardino di meli e un tavolo con sedie a sdraio tutte per noi.
Di solito usano ospitare, per il momento, gruppi di non piu di otto
persone, nell’attesa di ultimare i lavori di restauro di altri stabili,
cioè: nel fienile un garage, con una saletta di accoglienza di sopra,
di fianco la carraia (dove mangiavamo a pranzo e a cena). La lavanderia
e ancora da ultimare. Un bed & breakfast nel cuore della
campagna, terra del celeberrimo champagne.
A parte questi dettagli, il bello della vacanza è stato il gruppo:
siamo stati molto uniti, ci siamo trovati bene da subito. Si parlava di
esperienze di vita vissuta, di psichiatria, di salute, di famiglia, di
problemi di relazione, e anche di filosofia e di religione, di storia,
insomma di cultura. Non sono mancate battute di spirito, racconti,
barzellette ad allietare la nostra vacanza. Insomma, ci siamo
conosciuti e abbiamo, per cosi dire, fondato un gruppo.
Esattamente siamo: Concetta (educatrice del Centro Diurno di
Casalecchio di Reno), Cinzia (infermiera di Bazzano), Giorgia, Lucio,
Roberto (tre attori di ”Arte e Salute”), Marco Rafani (direttore della
“Psicoradio”), Cristina (una ragazza del CSM Scalo), e Laura (una
signora di Monteveglio).
Il clima in questa parte della Francia è molto variabile e comunque
fresco. Quando è nuvoloso, e grigio, temperato, romantico e
malinconico. Un clima che affascina e ispira le menti dei poeti .
Ricordo i poeti decadenti: Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Verlaine… Poi
Jacques Prevert ecc.
Abbiamo fatto un giro in canoa, sul delizioso fiume Aube (che vuol dire
Alba), costeggiato da file di pioppi e salici d’acqua. Un fiume verde,
limpido, tranquillo, che segna un percorso tra le campagne per
congiungersi infine alla Senna.
Di sera ci hanno portato in macchina per viottoli, in mezzo ai campi
coltivati. Da lì' si potevano osservare le pale eoliche e molti conigli
selvatici, che saltellavano qua e là, illuminati dai fanali e dalla
luna piena.
Non è mancata la visita a Parigi, in un solo giorno, però abbiamo visto
molto: Montmartre, la cattedrale gotica e storica famosa, i ponti sulla
Senna, dove i bateaux mouche portano i turisti sul fiume che circonda
la citta. L’arc du Carrousel ci ha portato ai Jardins des Tuileries,
dove una ruota panoramica enorme, insieme a qualche giostra di luna
park divertiva coppie e bambini.
Il cibo ottimo: hot dogs, baguettes farcite, hamburger, e pommes
frites. Dopo una pausa di ristoro abbiamo proseguito verso la Tour
Eiffel e il Trocadéro. Ho fatto molte foto in questo viaggio. Sotto la
torre alcuni ragazzi si esibivano in salti e piroette, break dance, per
l’esattezza.
Fantastico anche il métro, sotterraneo e anche allo scoperto, fra
palazzi stile britannico e casette caratteristiche con il tetto a
punta. Alla sera siamo rientrati alla Gare de l’Est, poi a Troyes.
Ricordo anche un pomeriggio al lago: windsurf e bagnanti. Pioveva. Ci
siamo seduti sotto un ombrellone a gustare le gauffres al cioccolato,
tipici dolci francesi che si trovano in tutto il Nord Europa.
Nella periferia di Troyes c’è un outlet molto grande che per chi ama lo
shopping è un bel punto di riferimento. Lo abbiamo visitato e comprato
jeans, maglie e caramelle.
Troyes è soprattutto una citta medievale. Il penultimo giorno siamo
andati a visitarla nel tardo pomeriggio. Deliziose casette a
“colombage” (a graticcio), cioè fatte di travi di legno con in mezzo
mattoni e cemento, risultano bianche, incrociate da travi marroni, e
tetti a forma di trapezio. A cena, in un ristorante tipico, abbiamo
gustato le galettes (cioe crèpes fatte con farina di grano saraceno, di
colore marrone, che usavano cucinare i cittadini francesi al sabato,
quando i fornai erano chiusi), il sidro dolce e alcuni tipi di gelato.
Intanto fuori era cominciato uno spettacolo teatrale itinerante in
costumi medievali, che narrava, in francese, la storia delle Crociate,
la saga di re Artù, la ricerca del Santo Graal… E proprio da Troyes che
passa la via Francigena, quella che ha portato i soldati dalla Gran
Bretagna a Gerusalemme.
L’ultimo giorno, sabato, si preparano le valigie. Si pranza e alle
15.00 si parte per Dijon.
Due ore e mezza di macchina. Visitiamo Digione con le sue rues piene di
ristoranti e negozietti, giardini fioriti e fontane. Ceniamo in un
locale niente male: pizza piu birra € 11.50.
Alle 21.10 ci aspetta il treno Parigi-Bologna, che passa per Digione.
Ritiriamo i bagagli e saliamo. Un altro viaggio notturno in cuccetta.
Dormiamo bene, perché siamo stanchi. La sveglia è alle 5. Alle 6.11
siamo a Bologna.
Ognuno torna a casa sua con una valigia e, dentro, tanta voglia di
ritrovarci, di rincontrarci. Nostalgia di una vacanza e di luoghi
difficili da dimenticare. Ci siamo promessi di rimanere un gruppo, di
conservare la nostra identità di amici, oltre che di compagni di
viaggio, di rivederci, di fare altri viaggi insieme.
Di questa vacanza mi restano bellissimi ricordi, soprattutto di
Antoine, Marie Francoise e Louis, che ci hanno fatto sentire a casa
nostra, ospitati come una vera famiglia. Siccome possiedono una casa
anche in Italia, abbiamo promesso di andarli a trovare per le feste
natalizie.
Marie Françoise ha scritto un libro, “Passo dopo passo”, che uscirà in
Italia in settembre. Si occupa dello stigma a cui porta spesso e
purtroppo la malattia mentale. E di come il percorso individuale di
“guarigione” e di riappropriazione del sé, porti alla realizzazione
dell’individuo, non più concepito come “malato”, ma come persona che ha
delle percezioni e delle potenzialità oltre il normale. A volte le
persone che hanno questi problemi sono dei genialoidi, sensitivi, o
angeli… Vogliono portare nel mondo nuove idee e nuove conoscenze.
Personalmente ho conosciuto Marie Françoise in un gruppo laboratorio
condotto da Ron Coleman, un uditore di voci che ha fondato questa
teoria della riappropriazione del sé che chiama “recovery”. Vuole
restituire alla persona in difficoltà le sue capacità e autonomie, ma
soprattutto l’autostima e la voglia di vivere, ritrovando il sé perduto.
Concludo questo racconto sperando che in psichiatria ci siano altri
viaggi e iniziative come questa, anche per altre persone che non hanno
mai viaggiato. Mi scuso per la prolissità, ma amo molto scrivere e mi
piacerebbe tanto partecipare alla redazione del “Faro” scrivendo
qualche articolo ogni tanto e al gruppo di scrittura creativa che si
tiene in semiresidenza a S. Biagio.
Giorgia
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"Sky Dreams" dipinto di Eugenio
Barbieri
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I colmi
Il fumettista? Non fuma, fumetta.
Il colmo di un gommista? Giocare al lotto e sbagliare ruota.
Luigi Zen
Gli stuzzichini
Chi conosce Luigi sa che la sua specialità sono le
freddure. A volte però, piu che di freddure si tratta di aforismi, cioè
di frasi che fanno pensare, incuriosiscono, stuzzicano… Luigi si fa
chiamare Zen perché ama la brevità (ma anche in onore della Val di
Zena), e non intende sviluppare ulteriormente i suoi enunciati…
Invitiamo quindi i lettori de Il Faro a raccogliere le sue
sollecitazioni e a replicare, in modo serio o faceto, non importa.
Cosa succede quando guardi un film?
Siccome tu non sei un personaggio della scena, ma sei colui o colei che
guarda, diventi tu la telecamera
Luigi Zen
Risponde Tina:
Quando guardiamo qualcosa, un film o altro, noi diventiamo la
telecamera di quello che guardiamo.
Se ci addormentiamo la telecamera continua a girare, e così pure se
rispondiamo al cellulare e/o ci distraiamo.
E ovvio che ognuno di noi è una diversa telecamera.
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