settembre-ottobre 2010 - anno IV  n. 3 - Lo stigma


sommario

Fabio Tolomelli

Editoriale

Piergiorgio Fanti

Telemaco Signorini: La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze

***

Stigma: è una parola!

Lucia

La parola ‘stigma’, non sarà un po' stigmatizzante?

Antonio Marco Serra

Riflessioni di un picchiatello

Ave

Lo stigma

Elena Leonesi

Stigma = ? (I quesiti di Elena)

Tina Gualandi

Io sono matta... tu sei matta...

Lara (a cura di)

Una società amica o no?

Gruppo ArteInsieme

Brainstorming sullo stigma

Sabrina Soffri

La mia storia

Anna Corsini

Me stessa

Anna Corsini

Siamo un popolo di matti

Eugenio Barbieri

Le formichine (vignetta)

Mariangela

Riflessioni sul libro “Bruciata viva”

Lucia

Il marchio di Caino

Lucia

“Fragments” di Marilyn Monroe

Giorgia Busti (a cura)

Stigma e letteratura

Dedicato ad Arianna
Lo spazio della poesia

 

      Mariangela     Dedicato ad Arianna
      Lucio Polazzi     L'umiltà di Dio / L'amicizia
      Annamaria Moruzzi     Pietra inconscia
      Piergiorgio Fanti     Dal 1° piano (di sotto)
      Anonimo     Poesia a Dio
      Paola Scatola     Cosa avrò mai dalla vita
      Daniela Sitzia     Breve preghiera su Maria
      Mariangela     I diversi
      Loopa Sonivree     Guardati le spalle
      Marcella     Mani amiche

AAVV

Suggestioni:
guardando i disegni di Paola Scatola

Concetta

“Uguali diritti per tutti”

***

Nabir Perdu

Jaja

La straordinaria storia
dell'omino turchino (2a puntata)

Lab. ArteInsieme

L'isola del tesoro (2a puntata)

Luigi Zen

Lo zen e i quattro principali “stigmi” dell'uomo

Giorgia

Francia insieme!

Eugenio Barbieri

Sky Deams (dipinto)

Luigi Zen, Tina

I colmi / Lo stuzzichino

 

Editoriale


Come sempre prima di dare vita all’editoriale mi documento su libri, riviste e soprattutto su internet. Questa volta sono rimasto letteralmente spiazzato dalla quantità e qualità del materiale che ho trovato. In particolare il portale del Ministero della Salute offre un panorama preciso e dettagliato sullo stigma, che invito tutti a leggere. Vi si trovano testi così intitolati: “Nessun pregiudizio, nessuna esclusione”, “Uno sguardo ai dati”, “Lo stigma, molti lo praticano pochi lo conoscono”, “Cosa pensano gli Italiani dei disturbi mentali”.
Ma cerchiamo di capire cosa esprime la parola “stigma”. Secondo il dizionario significa marchio, impronta, segno distintivo. Da Wikipedia si apprende che sono i Greci che si servono per primi di questa parola, per denominare una serie di segni fisici che possono essere associati ad aspetti riprovevoli, considerati legati alla "condizione morale" dei soggetti che ne sono afflitti.
Per gli esperti di salute mentale il termine indica la discriminazione basata sul pregiudizio nei confronti del malato. Ma per un malato mentale lo stigma significa, ogni giorno, esclusione, rifiuto, vergogna, solitudine.
Terminata questa lunga premessa posso descrivere come ho vissuto lo stigma nei miei confronti. E’ difficile trovare il bandolo della matassa: si deve tornare nel lontano 1996, anno in cui mi sono ammalato, stavo molto male ed era difficile per me stesso farmene una ragione. Credevo fosse un periodo di esaurimento di qualche settimana. Un po’ di riposo poi sarei tornato in forma. Il tempo passava ma stavo sempre peggio. Facevo sempre più fatica a stare attento e studiare, ma non mi arrendevo.
Dopo il primo anno di malattia mi recai al CSM di San Lazzaro di Savena, dove cominciai una terapia farmacologica e psicologica e iniziai ad alternare periodi di euforia ad altri di depressione. Così incominciai a capire più o meno coscientemente che l’abito fa anche il monaco: quando conoscevo persone nuove ed ero in fase euforica inducevo timore di sottomissione nell’altro, quando ero depresso e un po’ trasandato suscitavo nell’altro un’autorità e una posizione di supremazia che gli permetteva di pensare le peggiori cose di me. Questa alternanza di sensazioni mi rendeva difficile farmi un’idea esatta della malattia e si alternavano in me pensieri che andavano da un opposto all’altro; per intenderci passavo dal pensiero: “io sono la persona più malata del mondo” a quello: “io sono la persona più sana del mondo e il pregiudizio nei miei confronti è la causa di una malattia che non ho”.
Questa alternanza di situazioni e sensazioni mi portò ad un lungo periodo di depressione, che è partito nel 2001 ed è durato fino al 2007. In questo periodo ho potuto farmi un idea della malattia, grazie ai dottori: Filippi, che mi ha permesso di partecipare alla recovery (individuando i miei sogni ed incubi), Rizzardi che mi ha curato con terapie sempre più precise e la dottoressa Beltrami, che mi ha ridato fiducia in me stesso. Con questi aiuti ho ricominciato a lavorare con una borsa lavoro, che è stata fondamentale, perché nessuno da me si aspettava miracoli; così lentamente ho ritrovato un ruolo e miglioravo di giorno in giorno. Parallelamente cresceva l’autostima e la stima delle persone che prima non ne avevano in me. Da ciò ho capito che per abbattere lo stigma bisogna lavorare sulla cultura della società; ma soprattutto permettere alle persone affette da disagio psichico di creare dei piccoli nidi da cui far nascere o rinascere un’autostima equilibrata, che permetta di svezzarsi e superare con coraggio lo stigma.
Tutte le volte che incontro persone che avevano pregiudizi nei miei confronti e con il dialogo dimostro che sono una persona anche abbastanza ricca di contenuti, è una piccola vittoria per me e per tutte le persone che come me soffrono di questa malattia. Il fare assieme credo sia lo strumento più importante per abbattere lo stigma.
Approfitto per ringraziare anche i “Diavoli Rossi”, tutto il personale del CSM di cui si parla sempre troppo poco, tutti gli operatori che si danno da fare perché lo stigma venga appreso come fenomeno negativo nelle scuole, tutta la redazione e gli inserzionisti del giornale “Il Faro” e tutti gli amici di “Spazio e Amicizia”. Infine ringrazio Don Paolo Dall’Olio, che mi dato la possibilità di fare volontariato presso la parrocchia del Farneto, ridonandomi il lavoro e il ruolo sociale a cui tanto ero attaccato, che ora posso esprimere e che spero, in un futuro prossimo, di tornare a esercitare professionalmente.
Senza ruolo sociale mi sentivo perso, inutile ed emarginato. Ora, grazie a tutti, non più.


Fabio Tolomelli


Telemaco Signorini
‘La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze’ 1865 (olio)


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Questo è un dipinto, di un realismo crudo, che in letteratura era tipico dei romanzi dello Zola; tentativo di resa oggettiva della realtà (in Italia, ben presto, questo approccio prenderà il nome di Verismo).
L'opera suscitò sulle prime una vivace reazione e la critica quasi unanime manifestò le sue perplessità. Così qualcuno disse del quadro: "Mi mette indosso i brividi della paura. Non vorrei tenerlo nella mia stanza da letto per timore di sognarci su qualche tenebroso dramma, frutto di una fantasia malata."
Il Cecioni, grande artista macchiaiolo come il Signorini, ci dice che dopo aver eseguito il dipinto, l'autore dovette "adoperare la lingua più che sempre per tenere a posto i cretini." Solo il Pica, scrivendo nel 1898, parla della "brutale efficacia evocativa davvero impressionante della Sala delle Agitate del manicomio di Firenze".
Questo quadro è comunque uno dei di Signorini che più sono oggi apprezzati e che gli danno fama internazionale.


Piergiorgio Fanti
(comunità “Il Melograno”)


Stigma: è una parola!


La parola stigma ci viene dal greco attraverso il latino.
     ● in greco: Stigma – stigmatos foratura; puntura con ferro rovente per tatuaggio; marchio, segno, marca; punto, macchia, stria della pelle.
     ● in latino: Stigma stigmatis, bollatura, marchio impresso con ferro rovente sul bestiame o sopra schiavi, come segno di proprietà o per punizione ( es. FHE, “fugitivus hic est”); marchio d’infamia, nota infamante; sfregio fatto sul volto da barbiere inesperto (ironico, in Marziale).
     ● in italiano: impronta, marchio, puntura; segno distintivo caratteristico (dispregiativo); censura sociale.




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Collezione "Arti e Mestieri" di Renato Mencarelli
Apparecchio in ferro utilizzato per marchiare a fuoco il bestiame di proprietà.
L'oggetto raffigurato risale a prima degli anni '50
e richiedeva circa 3 ore per essere realizzato da un fabbro esperto.



     ● in botanica: parte superiore del pistillo.




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     ● in zoologia: parte della trachea di insetti, macchie su ali di farfalle.




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     ● lettera greca in disuso nella scrittura, usata per rappresentare il numero 6.




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     ● segno usato su manoscritti per indicare il gruppo st


STIGMATIZZARE
     ● disapprovare con energica e indignata fermezza, censurare, deplorare.
     ● segnare con le stimmate (raro).


STIGMATE - STIMMATE
     ● al singolare, marchio impresso a fuoco sul bestiame e sugli schiavi.
     ● al plurale, in ambito ecclesiastico, piaghe del corpo di Cristo e poi del corpo di alcuni santi (San Francesco, San Pio da Pietrelcina…).
     ● in medicina: impronte permanenti, fisiche e psichiche, di certe malattie, specialmente professionali.


***


La parola ‘stigma’, non sarà un po' stigmatizzante?


Nel linguaggio della psichiatria la parola “stigma” è usata per designare il pregiudizio negativo che si ritiene circondi il malato di mente, la sua famiglia e in genere chi ha a che fare con la malattia mentale.
Credo che il primo a parlarne in questo senso sia stato il sociologo canadese Erving Goffman, che si occupò di questa materia fin dai primi anni sessanta, divenendone il principale teorico. Comunque sia, oggi la parola “stigma” è internazionalmente usata dagli addetti ai lavori come un termine tecnico. A quanto ho potuto osservare, tra le persone che hanno familiarità con il mondo della psichiatria si tende generalmente ad accogliere il concetto a priori: in sostanza, cioè, si deplora il fatto che la malattia mentale sia stigmatizzata, dando la cosa per scontata. Quasi che lo stigma fosse parte del quadro clinico, come un sintomo.
O un effetto collaterale delle cure psichiatriche… Mi è venuto perciò da pensare che, nonostante le buone intenzioni, un uso troppo tecnico, perentorio ed aprioristico della parola “stigma” possa contribuire, paradossalmente, a rafforzare nelle persone un senso di persecuzione, disapprovazione, emarginazione e a diffondere vissuti di inadeguatezza, insicurezza, auto svalutazione (un po’ come quando viene evocato un nemico o un pericolo a cui non si stava pensando). Oppure, al contrario, risvegliare un’orgogliosa rivendicazione di ruolo, un’identificazione con la propria etichetta, tendente alla fin fine a cristallizzarsi.
Due atteggiamenti opposti che in un modo o nell’altro producono cronicità.
È vero, è abbastanza facile imbattersi in pregiudizi, generalizzazioni, infondati timori nei confronti delle persone con disagio psichico e delle loro famiglie, però la stigmatizzazione delle categorie sociali non è mai totale, univoca e ineluttabile: la comunità può essere sensibilizzata, cambiare. Inoltre ogni persona può far parte di tante e differenti categorie, entrarvi e uscirne, a seconda del momento, delle situazioni e della sua volontà.
Fortunatamente le persone in cura, se si chiede di parlare di ”stigma”, non sempre pensano di far riferimento al proprio caso, anzi tendono sulle prime a pensare a problematiche estranee a quelle di tipo psichiatrico (razzismo, intolleranza, superstizione ecc…), cosa molto giusta, in quanto sono numerose le categorie di persone che vengono stigmatizzate ed è difficile dire quale sia quella che ne risulta più danneggiata.
Più che una crociata antistigma, insomma, mi sembra importante una campagna di serena e corretta informazione sul disagio e sulle vie per uscirne.


Lucia


Riflessioni di un picchiatello


"Non dobbiamo lasciarci intimorire da coloro che sostengono che si debba preferire l'uomo assennato a colui che è in preda alla follia."

Quale migliore manifesto antistigma di questo, per di più declamato nel suo "Fedro" da uno dei maggiori pensatori della cultura occidentale: Platone? Disgraziatamente Platone si riferiva ad un invasamento temporaneo (secondo lui opera di una divinità) che consentiva agli aruspici di predire il futuro, ai poeti di comporre versi ispirati, agli innamorati... ma lasciamo perdere gli innamorati.
Non credo davvero che neanche Platone avrebbe avuto piacere ad accompagnarsi ad un picchiatello par mio (o ad uno dei tanti che come me vantano assidue frequentazioni dei centri di igiene mentale).
E qui vengono le dolenti note: mi spiace mostrarmi contro corrente, ma non credo che la lotta antistigma ci possa portare gran giovamento. Non nego che possano esserci una serie di falsi pregiudizi sui "folli" (del tipo: che siano pericolosi, inguaribili o contagiosi) che creano un diaframma che tiene lontano il "normale" dal "picchiatello". Ma è proprio quando questo diaframma cade che sorgono i veri problemi, e son problemi oggettivi, che non possono essere elusi da qualche generica petizione di principio.
Non è quando qualcuno si ritrae da me che mi sento ferito, ma quando, non ritraendosi, ed ascoltandomi con la più grande buona volontà, sentendomi esporre i miei alati deliri, almeno tali a lui appaiono, per lo stupore e la contrarietà spalanca a tal punto la bocca, che la mandibola gli sfiora le ginocchia. È allora che mi sento ferito e mi rammarico che non si sia più prudentemente ritratto.
Ma che pretendiamo, se gli esseri umani non sono talvolta neppure in grado di rapportarsi adeguatamente coi propri stessi figli, che trattano (con tutto l'affetto del mondo, beninteso) da minus habens (1), che pretendiamo dunque!
Forse, non so, fino a 3, 4, 5 anni le cose sono diverse, ma certamente man mano che l'uomo cresce, decrescono inesorabilmente ed esponenzialmente il numero dei comportamenti altrui che quell'uomo è in grado di gestire senza perdere la bussola.
Quando ci troviamo dinnanzi a un altro essere umano siamo in grado, nella migliore delle ipotesi, di prevedere e quindi di gestire qualche decina di suoi comportamenti. Se ci troviamo di fronte a una risposta al di fuori di questo limitato repertorio, ci sentiamo persi, non sappiamo come reagire, venendoci a trovare in uno stato di disagio e di stress estremi.
Noi viviamo in una società civilizzata e altamente regolamentata e perciò forse ci sfugge il motivo o l'utilità di un simile disagio; ma i nostri geni sono esattamente gli stessi dei nostri antenati che vivevano nelle caverne, in tempi in cui anche un breve ritardo nel comprendere se l'atteggiamento dell'uomo che ci stava dinnanzi fosse amichevole o aggressivo, poteva comportare la differenza tra il vivere o il morire.
In quell'ambiente abbiamo selezionato i nostri geni, e quel corredo genetico è la dote che ancora, e per sempre, ci portiamo appresso. E purtroppo temo che con tutta la miglior buona volontà, pazienza e perseveranza del mondo un essere umano non possa allargare più di tanto la propria capacità di rapportarsi a coloro che non si adeguano ad una serie semplice e limitata di comportamenti che sia in grado di padroneggiare. Sarebbe come pretendere che una persona giunta all'età matura imparasse una lingua straniera e la padroneggiasse come la propria madrelingua. Può essere che in qualche caso eccezionale ciò avvenga, ma non può certo essere la norma.
E in ogni caso ciò non servirebbe a niente, visto che ogni picchiatello parla una sua propria lingua, e non basterebbero mille vite, anche volendo, a comprenderle tutte.
Beninteso, ogni uomo parla una sua propria lingua che nessun altro comprende (fatti salvo, forse e solo parzialmente, coloro che gli sono veramente intimi), anche se non sempre ha piena coscienza di ciò, ma oltre a ciò è in grado anche di parlare una lingua comune, una koiné (2) semplice, fatta di pochi segni, lingua povera, ma più che sufficiente per intendersi con gli altri e per istituire una civile convivenza con i propri simili. Ma è proprio questa capacità che al picchiatello è negata, non solo parla una lingua propria, ma ne è anche, di fatto, prigioniero. Ed anzi, a ben vedere, è proprio in questa incapacità, in questa prigionia, che consiste l'essenza più vera dell'essere picchiatelli.
Perciò ciò che a me veramente interesserebbe non è che gli altri, abbattuto ogni stigma, parlassero la mia lingua, ma di imparare a parlare questa lingua comune, che vorrebbe poi dire di cessare di essere un picchiatello. Così sia.
Ma mi accorgo di non potermi congedare da voi con una visione così pessimista, diciamo allora che, con inguaribile ottimismo, ci auguriamo che oltre al rapportarsi colloquiale, possa esistere tra gli uomini una misteriosa empatia, una "corrispondenza d'amorosi sensi" (direbbe il Foscolo), al di là delle parole che possono e sanno pronunciare, una comunanza d'essenze da cui, proprio per la sua natura non dialogica, neanche i picchiatelli sarebbero esclusi. Ben venga allora ogni lotta antistigma, che consentendo di avvicinare i "picchiatelli" ai "normali", faccia sì che questa corrispondenza d'amorosi sensi dia frutti maturi. Beato chi può crederci. Amen.




(1) Minus habens in latino significa letteralmente “che ha meno” sottintendendo doti, capacità. Quindi = subnormale, inferiore, stupido.
(2) Koiné è il termine greco che significa “comune”. Sottintendendo diàlektos, cioè linguaggio, viene usato per far riferimento al greco “classico” (basato sul dialetto attico del V IV secolo a. C), che si diffuse in epoca ellenistica e nel mondo romano come lingua colta.
(N.d.R.)


Antonio Marco Serra


Lo stigma


Lo stigma (io pungo) vuol dire segnare e mettere in disparte qualcuno, come ad esempio una persona affetta da malattia mentale.
Io mi sono trovata in tale situazione, ad essere guardata male e ad essere derisa per strada, mentre intanto chiudevano le finestre e i bambini a loro volta ridevano.
Il pregiudizio sociale "stigmatizza", cioè segna una persona per tutta la vita. Vieni emarginato per quel pregiudizio dalla vita sociale e dal lavoro ed anche dalla scuola. Non riesci a guadagnare un soldo, sei solo, sei colpevole.


Ave


Stigma = ? (I quesiti di Elena)


• stigma = pregiudizio = giudicare prima.
• ma stigma anche come marchio che non è più cancellabile (ricordo ad esempio che erano marchiate a fuoco le adultere con una " A ", che erano marchiati i carcerati e i deportati nei lager ecc).
• è facile capire come noi pazienti psichiatrici non siamo gli unici stigmatizzati nel grande mondo del pregiudizio.
• ogni essere umano è portatore di stigma e stigmatizzato al contempo.
• spesso noi pazienti psichiatrici siamo stigmatizzati e per lo stesso motivo ci autostigmatizziamo a causa del fatto che abbiamo fatto nostro lo stesso pregiudizio.
• in che modo però stigma e stigma di sé si interscambiano e rafforzano?
• stigma ed empatia, come lavorano assieme? il mettersi nei panni di qualcuno può produrre pregiudizio o accettazione?
• la parola stigma ha accezione negativa, ma a volte si creano pregiudizi positivi altrettanto erronei, ad esempio: follia e genialità ecc.
• stigma e razzismo in che cosa si assomigliano, in che cosa si differenziano?
• che cos’è che nella società fa sì che il pregiudizio sia in qualsiasi forma come un male necessario?
• che cosa nelle diverse culture produce comunque pregiudizio?
• razzismo e pregiudizio sono veramente un male necessario?
• il pregiudizio è sempre figlio dell’ignoranza o della non conoscenza?
• se dopo aver conosciuto le persone che stigmatizzavo e malgrado ciò seguito nel farlo, si tratta ancora di stigmatizzazione o diventa altro?
• come lo stigma cambia nei secoli e perché?
• perché gli esseri umani non imparano mai dalla storia passata?
• è fondamentale essere almeno consapevoli, quando si stigmatizza …


Elena Leonesi


Io sono matta... tu sei matta...


Quando si parla di persone colpite da disagio mentale, si parla spesso (troppo spesso!) di stigma, pregiudizio, indifferenza.
Andiamo con ordine:
1) stigma è il marchio che un tempo si imprimeva sulla fronte di delinquenti e/o schiavi;
2) il pregiudizio è un’opinione errata dovuta a scarsa conoscenza dei fatti, oppure una credenza superstiziosa;
3) l’indifferenza (che ha come sinonimi l’insensibilità e la freddezza) si può intendere come il considerare qualcuno senza importanza e/o non rilevante.
Vediamo dunque che le persone affette da disagio mentale si possono considerare marchiate (a vita!), insignificanti e/o senza importanza e/o non rilevanti.
Nei loro confronti vi è il pregiudizio di chi non li conosce, di chi non sa che cosa sia la malattia mentale e pensa che loro siano dei diversi. Ma diversi da chi? Da coloro che si ritengono sani e “normali”. Dove inizi la normalità e dove finisca è ancora tutto da vedere e studiare, ma è vero che in Africa (non ricordo dove) ancora oggi i “matti” vengono nascosti e incatenati e sono visti come “stregoni cattivi”, mentre gli indiani d’America li tenevano in grande considerazione, perché per loro erano molto più vicini a Dio degli altri esseri “normali”.
Quando qualcuno dice che le persone con disagio psichico sono dotate di una sensibilità unica e di un’umanità senza pari, forse bisognerebbe credergli. Come forse bisognerebbe credere al fatto che proprio queste grandi ricchezze per loro (per gli animi più fragili) possono anche essere veicolo di dolore.
L’insensibilità e le lame taglienti dell’indifferenza e/o del pregiudizio peggio feriscono chi sente più profondamente la vita.
Lo stigma può essere dato da noi stessi “io sono matta”, o dagli altri “tu sei matta”.
In ogni caso è un marchio che bene proprio non fa e certo non aiuta chi vorrebbe passare dal disagio mentale alla salute mentale.
Il 3 ottobre 2010, allo Chalet dei Giardini Margherita di Bologna, nell’ambito della Giornata del Volontariato, vi è stato un incontro sullo stigma organizzato da A.I.T.Sa.M. Bologna. Da questo incontro è emerso che sarebbero necessarie persone che, oltre alle attività di volontariato che già si fanno, facessero cose perché la malattia mentale sia vista per quello che è e non solo stigmatizzata.
È stato chiesto alle persone presenti di sensibilizzarsi sempre più al problema, parlare a successivi incontri.
L. ha detto nell’introduzione che bisogna rendersi conto che l’umanità può essere divisa in “ammalati” e “ammalabili”.
Ciò significa che le persone “sane” e “normali” dovrebbero fare un pensierino sulla loro indifferenza al problema, perché non è detto che un giorno non possa capitare anche a loro. Chi scrive non augura a nessuno di passare dal gradino alto del “sano” al gradino basso basso del “malato psichico”, ma bisogna ricordare che la depressione, tanto per fare un esempio, è sempre in aumento e colpisce anche le fasce giovanili della popolazione. Secondo l’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) nel 2020 la depressione sarà la seconda patologia, dopo le malattie cardiache. Nei prossimi anni dunque la malattia mentale sarà un costo sempre più grosso per la società, anche perché quando si entra nel nero tunnel si sa più o meno quando si entra, ma non come e quando se ne uscirà.
Tornando all’incontro del 3 ottobre, sono stati interessanti i pareri dei presenti (disposti a cerchio, come nei gruppi A.M.A.) che comprendevano utenti, familiari, operatori e interessati all’argomento, che cercherò di riassumere.
• G. : “Ci sono persone che, se non sono toccate dalla malattia mentale, spesso non ne vogliono mezza, come se la cosa non li toccasse”.
• E. “Io sono stata stigmatizzata da amici e colleghi: la malattia mentale non vuole essere toccata”.
• G.”Ho una figlia con problemi di anoressia, droga e altro: L. ha parlato di speranza… Ecco, è una cosa molto difficile. Ormai tutti la conoscono, diranno che è matta”.
• C. “Ho un figlio che è a Ferrara, a San Bartolo (struttura psichiatrica) e sta facendo un percorso. Non vedo mai familiari…”.
• D. “Mio figlio è malato. Io ho parlato di mio figlio ai condomini. Non bisogna nascondersi, perché altrimenti il malato può anche essere visto come un delinquente”.
• E. “Io ho una specie di stigma di questa malattia e anche di mia figlia stessa: io ho vissuto la paura, paura di una persona che è diversa”.
• T. “Sono una persona con disagio mentale. Sono seguita da dieci anni da un CSM e sono stata molto male. Per tre anni non avevo voglia di niente e non facevo niente. Trascuravo me stessa e la mia casa. Non uscivo, non facevo la spesa, non cucinavo. Mi sentivo… niente, nessuno… un’ameba. Poi… click(?) Ho visto… lontano, lontano, una lucina e ho ripreso a fare delle cose, a muovermi. Ora, da alcuni anni sto bene, sono sulla riga, dopo anni e anni di alti e bassi (depressione bipolare) in cui ne ho fatte di cotte e di crude, continuo a prendere i medicinali senza dimenticarli mai (li ho sul tavolo, bene in vista); dall’8 luglio frequento il gruppo A.M.A. di viale Pepoli, ho conosciuto L. e con lei altre persone. Ho fatto e faccio altre attività che mi piacciono molto e sono proprio contenta. Farò di tutto per non ricadere mai più in quel terribile buco nero. Quando ero malata i miei vicini di casa temevano che aprissi il gas per suicidarmi e facessi esplodere la casa. Per loro ero sicuramente diventata matta”.
• M. “Sono qui per capire. Parlo da familiare, perché ho avuto un figlio con tanti problemi. Sette anni fa mio figlio si è suicidato. Nessuno mai mi ha dato una risposta su questa sua diversità, su questi suoi problemi. Ha lasciato una moglie, un figlio ed io… ho anche perso il mio compagno, mia madre ha l’alzheimer e io sono rimasta da sola. Ultimamente in me c’è apatia. Sono qui per capire”.
• T. non se la sente di parlare.
• L. "Questa malattia viene fuori quando c’è un pregiudizio: al lavoro ho avuto un mobbing… Ho perso i miei genitori… il TSO mi ha fatto molto male. È nella psichiatria che può nascere lo stigma. Nella psichiatria fanno delle diagnosi: bipolare, schizofrenico ecc. e non ti danno spiegazioni. Ecco allora che può nascere lo stigma, come se ti attaccassero delle etichette”.
• M. “Per me è iniziato tutto con la separazione. Negli anni ’80, amore libero e altro, io non ero preparata a una storia del genere. Sono scappata di casa (padre padrone) e mia madre ha avuto molti dispiaceri per causa mia. Tra una crisi e l’altra, lo studio, il guardarsi dentro. Adesso vogliono darmi una cura preventiva: ho un problema di bipolarismo. Io vivo nella speranza, che mi fa studiare e comprendere me stessa e gli altri”.
• G. “Il discorso sullo stigma è molto impegnativo. Per quanto riguarda il mio lavoro potrei raccontarne moltissime… C’è il dubbio sull’ereditarietà della malattia. Lo stigma c’è sempre stato e non solo sui malati, anche sui familiari. La quotidianità… le persone (dei bar, ecc.) tendono ad allontanarsi dalle persone con disagio psichico”.
• T. “Sono utente e familiare. D. è mio figlio e frequenta il CSM di via dello Scalo. Frequento il gruppo A.M.A. di viale Pepoli; mi sento meno sola e ogni giovedì è una conquista”.
• L. “Un aspetto che si riscontra anche in questa occasione, è che a parlare di queste cose si finisce sempre per essere in pochi. Alla gente comune il problema pare non interessi”.
• T. “Pochi, ma buoni, dico io…”.
• L. “Sì, perché chi è venuto a contatto col dolore ha una marcia in più. La sfiga immane deve trasformarsi in qualcosa di buono…”.
• G. “Vi è stata un’esperienza in una quarta dell’ex Istituto Magistrale. È stata molto positiva: i ragazzi hanno riconosciuto che le persone malate (gli utenti dei servizi psichiatrici) erano come loro.”.
T. “La malattia mentale non si vede e non si capisce. Si sente parlare di male oscuro, dell’anima, ma che cosa sia realmente…”.
M. “Se i genitori vogliono partecipare al gruppo di viale Pepoli, possono farlo”.
P. “ Io faccio volontariato alla “Casa dei Risvegli”. All’inizio rapportarmi con le persone uscite dal coma, con le loro difficoltà nel riprendersi, mi metteva in uno stato di disagio, poi mi sono fatta coraggio… sto imparando.”.
M. “Con il gruppo si può anche sdrammatizzare”.
Una società amica o no?
Lara, infermiera presso il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura “Ottonello” ha spiegato e semplificato l'argomento “Stigma” servendosi di questi quesiti, a cui hanno risposto due persone ricoverate.
Chi scrive, non solo è stata ritenuta “matta” quando stava male, ma continua a sentirsi stigmatizzata. Domenica 7 marzo 2010 sono scesa dai miei vicini di casa (con C. a volte ci scambiamo dei libri) che sono anche genitori di una mia ex allieva. Mi conoscono da molti anni e sanno bene come sono. Ad un certo punto M. (il papà della mia ex alunna) è uscito con questa frase, così, all’improvviso: “ Tu, Tina, la più bella cosa che hai fatto è stata quella di darti per matta e metterti in pensione”.
Premessa: sono andata in pensione per motivi di salute e all’inizio non ero certo contenta, perché non avevo mai pensato di andare in pensione prima del termine degli anni lavorativi e per motivi di salute. Alla sua battuta ?!? frase infelice?!? come ha detto il mio psicoterapeuta che stronzo!!! come ha detto mia sorella io ho reagito con una mezza risata. Mi ha spiazzata: non sono riuscita a dirgli nulla nemmeno successivamente, ma ho pensato: “ecco che cosa pensano i miei vicini!!! Che mi sono data per matta per andare in pensione…”
. Ci sono stata molto male, ma ora che sto meglio e mi sento più forte, non so se starei zitta; credo che qualcosa farei e/o direi, perché nessuno deve sentirsi in diritto di stigmatizzare un altro e non solo perché siamo tutti figli di Dio, ma perché anche i “sani” e i “normali” devono ricordare che “ chi la fa l’aspetti”. Quello che si vede nell’altro con paura, sospetto, indifferenza, pregiudizio, potrebbe capitare anche a loro e/o ai loro familiari.
A coloro che hanno pensato fossi diventata matta e/o che mi fossi data per matta per andare in pensione, io rispondo così:



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Tina Gualandi


Una società amica o no?


Lara, infermiera presso il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura “Ottonello” ha spiegato e semplificato l'argomento “Stigma” servendosi di questi quesiti, a cui hanno risposto due persone ricoverate.

1) Vi siete mai trovati in una situazione di disagio o discriminazione a causa della vostra condizione?
2) Pensate che la società attuale sia aperta alla comprensione delle problematiche psichiatriche?



1° persona:
Sì, più di una volta; il problema sta nel fatto che chi non ha mai provato determinati stati d'animo, fa fatica a comprendere e ad immedesimarsi in particolari "momenti" psicologici.
Inizialmente c'erano i manicomi, fortunatamente la scienza, con il suo progredire ha chiuso i suddetti e ha provato e prova tuttora a comprendere il disagio psicologico da dove proviene, quali parti del cervello sono interessate da queste problematiche. La società è riuscita sempre tramite il progresso scientifico e l'informazione a capire che queste forme di "malattia" possono essere curate e non solo guardate con distacco e paura.


2° persona:
Purtroppo sì. Il disagio psichico porta con sé una moltitudine di pregiudizi a carico della persona, pregiudizi che non sono facilmente risolvibili.Vieni visto per lo più come un diverso, una persona strana, anormale, quando in realtà hai solo una sensibilità superiore alla norma. Vieni spesso tacciato come una persona da evitare. La società attuale ritengo non sia molto aperta di fronte a queste problematiche specialmente nel nostro Paese. E' un vero peccato. Più sensibilità equivale a più intelligenza. Spesso in noi, persone con disagio psichico, c'è una vena artistica quale la pittura, la poesia ecc. Bisognerebbe valorizzare queste persone che altro non sono che persone con caratteristiche diverse come tutti gli esseri umani.


a cura di Lara


Brain storming sullo Stigma
(Gruppo “Arteinsieme” del C.D. di S.Biagio)



Lo stigma è non essere informati sulle cose (Stefano)


Giudicare prima di conoscere, come quando nel Medioevo bastava essere diverso per essere bruciato… (Andrea)


Durante il primo ricovero pensavo di essere matta e lo esprimevo ai miei familiari: questo è lo stigma interno (Mariangela)


Io non ho mai conosciuto l'amore. La maggior parte delle persone mi ha sgridata e presa in giro, poche persone mi hanno stimata. Non ho avuto compagne fedeli, persone che non mi prendevano in giro. Quindi, chi più solo di me al mondo? Poi un giorno conobbi il Centro Diurno e col tempo scoprii che non era affatto così, anzi lo debbo dire, non mi sono mai sentita così circondata d'affetto prima d'ora . Ora ho più speranza e non mi sento più sola come prima (Erika)


In ognuno c'è un punto fermo: per me è la Semiresidenza. In Semiresidenza trovi quel riconoscimento che ti meriti sul campo, lavorando su di te ogni giorno, capendo che non sei solo un malato, ma una persona capace di capire com'è la vita e il tuo problema...quasi sempre con una soluzione. In Semiresidenza ho trovato un mondo reale, sincero e pieno di umanità verso di me, che non ero un santo e mi mostravo molto ambiguo. Ma presto capii che dovevo riflettere (Maurizio)


La mia storia


La sofferenza seguita alla perdita di mio marito, otto anni fa, è stata talmente grande che ha fortemente aggravato il mio disturbo depressivo, insorto già nel periodo adolescenziale.
A questa situazione, di per sé tristissima, si è aggiunto un altro evento forse più doloroso: i Servizi Sociali, a seguito della segnalazione fatta da mia sorella, nel corso della malattia di mio marito mi hanno tolto due delle tre figlie, in quanto minorenni. Secondo lei ero inadeguata e trascuravo le mie bambine.
Pur ammettendo che il farmi carico di mio marito, gravemente malato, mi stancava molto e non riuscivo a soddisfare tutte le esigenze delle figliole, ritengo comunque di essere stata vittima di una ingiustizia immensa.
Da questo momento in poi i parenti, tranne i miei anziani genitori, si sono dileguati. Lo stesso hanno fatto conoscenti e amici. La solitudine e il grande dolore, mi hanno costretta, su prescrizione della mia psichiatra, ad assumere terapie molto pesanti, per non soccombere sotto questo pesantissimo fardello. Nel tempo però ho realizzato che i farmaci, sono importanti, ma non sufficienti…
Grazie ad un gruppo amatoriale di teatro di Pioppe di Salvaro, ho iniziato a stringere rapporti umani significativi. Inoltre da due anni frequento il Centro Diurno di San Biagio, dove ho conosciuto e fatto amicizia con altre brave persone che mi ascoltano, mi sostengono e mi comprendono.
Al di fuori però ancora molte persone prendono le distanze da me e mi trattano con freddezza. Sono sicura che questi atteggiamenti sono frutto dell'ignoranza, infatti di solito fanno paura le cose che non si conoscono.
Il mio più grande desiderio è di non essere più sola, avere molti amici e soprattutto avere di nuovo con me la mia terzogenita.


Sabrina Soffri


Me stessa



Oggi è un anno che me ne sono andata via dai miei mali, non ti succede mai di voltarti indietro e rivedere i tuoi errori.
Ho buttato via tutti i miei ricordi, il mio marchio mi è rimasto addosso: come un’onda sei nella mia mente, ci rimani. Quanta pioggia grida sopra i vetri. Ho cercato di chiamarti, per rimpiangere i miei errori. Stai come una volta in più per proteggermi. Tu ogni estate sei dentro di me, come il primo giorno che mi hai fatto prigioniera: non voglio più quel respiro di affanno e di dolore.
Tu sarai sempre nel mio cuore, dammi la chiave per fuggire lontano da te (il male).
Cammino lungo questa via, lunga di pericoli, ma ho la forza di andare via. Non mi fai più paura. La vita con te non è facile, ma ti fai sentire e spezzi la mia anima.
Nel mio silenzio resterò, questo per me è un affrontare la vita, una decima volta senza pensare alle conseguenze.
Tu starai sempre a inseguirmi per non farmi vivere la vita come gli altri, ti combatto per distruggerti, ma so già che ritornerai. Con te però non andrò, vorrei tanto conoscerti meglio, soprattutto il tuo volto. Fai vedere il tuo volto furbo e ribelle, devi solo farmi stare male come hai fatto in questo tempo, anni?
Facile prima rubare l’anima e poi fuggire, e contagiare un’altra anima per poi ritornare da me, per farmi rinchiudere dentro ai manicomi. Non ti voglio più credere, perché giochi con i sentimenti. Ma questa volta è finita, sto vincendo io e tu sei fuori dal mio corpo. Ti odio non c’è per te una via d’uscita.
Guarda sono quella che te le dava tutte vinte e si feriva da sola. Con questi errori miei, ora che maledico me, spero che ci sia una tregua, almeno per vedere un raggio di sole. Ora sono qui a combattere e rimettere a posto la mia coscienza e i miei sbagli.
Mi hai sempre accompagnato nella crescita. Mi hai accettato con i miei errori invece di voltare le spalle. Guarda, piango, mi fa male tutto, sei sempre al centro del mio mondo.
Certe sere spengo la luce e rimango per ore da sola con me stessa a guardare nel buio, per avere una risposta alle mie insolite e stupide domande di una adolescente innamorata.
Faccio i conti con la mia vita e dico a me stessa: mai più. Cerco le intenzioni migliori e piango tutti gli errori, perché ho bisogno d’amore e di aprire il mio cuore in un mondo che corre più veloce di me … di cercare il mio senso, piccolissimo e immenso, a cui penso. Resto a guardarmi allo specchio, vedo se un giorno posso rincominciare a fare una vita come gente normale.
Dove posso cercarti? Dimmi dove sei!
Non è facile sopravvivere alle favole. Alla mia età non si torna indietro. I miei peggiori incubi e brividi sono graffi e lividi chiusi in una stanza: ho buttato la chiave, ho buttato la mia anima. Mi sta crollando tutto addosso, nelle mie insicurezze e nella mia fragilità. Dove sto cercando la mia libertà? Non ho un senso dell’orientamento, mi sento spaesata.
Io non mi voglio buttare via, l’ho promesso alle persone che mi sono state vicine, ma soprattutto alla mia stessa anima e vita. La mia fragilità e la mia insicurezza, sì! La vorrei combattere ma non ho le armi giuste, mi sento insicura di me stessa.
Odio le prediche della gente che non ascolta i tuoi problemi e si fa beffe di te, della tua persona fragile, in poche parole ti marchia per tutta la vita. Quali notti sto inseguendo … un mondo per ritornare. La sicurezza è ritornare come prima, ma non ci riuscirò più: la mia vita è questa, non posso fuggire dalla realtà.
Ho raccolto in fretta tutti i miei errori. È più facile fuggire dai problemi e non risolverli e hai dei residui della tua vita da ingerire a stomaco chiuso. Per paura di contagiare gli altri della mia vita mi sono allontanata e mi sono fatta un vuoto, per risolvere i miei problemi psicologici.
Con il passar degli anni anch’io mi riconosco, mi riparo i danni. Il risveglio è brusco, si sveglia ogni sbaglio e segreto.
Inseguire la corrente come una cretina, per dimostrare agli altri che sei uguale a loro e che non sei un cretino o matto.
Non lo avrei detto mai che sarebbe capitato a me. La mia generazione queste cose non le sa. Fretta, con emozione a pelle, con questa realtà ed è un rifiuto della società.
Piango nel cuscino e spengo le mie pene togliendomi la vita. Poche possibilità da raggiungere una come me. Sono un po’ donna, ma ancora nella pancia della mamma. Questa è la mia vita.
Una ragazza ricoverata.


Anna Corsini


Siamo un popolo di matti


Siamo un popolo di matti, non solo noi, ma anche quelli fuori.
L’approccio, e quindi la cura, non possono essere che di tipo farmacologico, quindi di controllo e mantenimento.
Le patologie psichiatriche colpiscono chiunque senza differenzazioni di classe, ceto sociale, sesso… le maggiori sofferenze mentali sono di tipo psicotico, depressivo, nevrotico, suicidale e psicosomatico.
La famiglia, lo stress e il precariato sociale sono molto probabilmente le cause maggiori delle sofferenze mentali.
I “matti” sono incapaci quindi di poter gestirsi autonomamente nella vita quotidiana, destinati a passare la vita in manicomio.
Questi disturbi sono causati da fenomeni di precariato economico sociale dovrebbero corrispondere ad un aumento della tensione sociale e quindi portare ad un conflitto sociale e per questo veniamo chiamati, invece di persone, come matti.
Sembra esserci difatti, da parte dello stato, un’attitudine a rendere e mantenere le persone matte o invalide piuttosto che disoccupate: meglio matte che disoccupate, costa meno.
In pochi sono disposti a riconoscerla, solo perché fa paura, la malattia quando inizia a manifestarsi (nel 50% dei casi prima dei 14 anni).
Genitori, insegnanti e anche il personale sociale che ruota intorno alla scuola, spesso rifiutano di individuarla e di chiamarla con il suo nome.
Ma questo complotto del silenzio nasce nello stigma generalizzato nei confronti del disturbo psichico. È il primo ostacolo alla prevenzione e all’assistenza precoce del soggetto infermo, che diversamente, in un ambiente ricettivo, troverebbe una pronta risposta ai propri problemi. Il tema della malattia va visto da un punto di vista “relazionale,” guardando, cioè, prima ancora che alle tecniche di cura, al contesto sociale in cui si muovono la vittima e la sua famiglia.
Ci si sofferma sullo stigma e sul pregiudizio suscitati dalla malattia psichiatrica.
I mezzi impegnati per la salute mentale risultano spesso insufficienti.
Prevenzione dei soggetti a rischio.


Anna Corsini


"Le formichine" di Eugenio Barbieri


pagina 1

Riflessioni sul libro “Bruciata viva”: la storia vera di Suad


“Suad, una giovane cisgiordana, sta facendo il bucato nel cortile di casa, quando sente sbattere una porta alle sue spalle. È il cognato che le rivolge una frase scherzosa. Suad si volta per replicare, ma all’improvviso il suo corpo è intriso di un liquido freddo che in meno di un secondo diventa fuoco”… Bruciare viva! Questa è la punizione che la famiglia le infligge per aver commesso il peggiore dei peccati: essere rimasta incinta prima del matrimonio.
Nel piccolo villaggio dove Suad è nata, le donne non possono andare a scuola, non possono vestirsi come vogliono, non possono uscire senza essere accompagnate e non possono innamorarsi. Il loro destino è quello di dedicarsi ai lavori più umili, al servizio prima dei padri poi dei mariti.
Suad, però, non viene lasciata al suo destino: per mezzo di una istituzione umanitaria riesce a fuggire in Europa, dove viene curata e protetta, anche se deve portare una maschera che lascia intravedere solo gli occhi e la bocca, questo per nascondere il viso deturpato dalle gravi ustioni.
Suad è uno pseudonimo ma queste sono le sue vere parole: “Al mio paese, nascere donna è una maledizione”.
Situazioni come queste sono ancora presenti maggiormente nei paesi del medio oriente. Qualche caso si è riscontrato anche in Italia. Possiamo sottolineare casi di giovani donne straniere uccise dal padre perché fidanzate con uomini del nostro paese o addirittura perché vestono alla maniera occidentale. Causa di questo, l’ignoranza e una cultura che oltrepassa il limite della ragionevolezza umana e che colpisce maggiormente gli indifesi: in questo caso, le donne.
A noi, qualcuno potrebbe voler infliggere un altro tipo di stigma, quello del “malato di mente”. É vero che possiamo essere malati, ma lo stigma che i cosiddetti sani vogliono infliggerci, non deve farci intimorire, perché non siamo lasciati soli al nostro destino. Ci sono istituzioni, persone qualificate e amorevoli che ci accompagnano in un percorso di riabilitazione e se anche non riusciamo a vincere la malattia, possiamo essere ugualmente in grado di vivere una vita libera e felice.


Mariangela


Il marchio di Caino


Disse Caino a Iahvé: “Tanto grande è la mia colpa da non meritare perdono? Ecco, tu mi scacci oggi dalla faccia di questo suolo, e lungi dalla tua presenza io mi dovrò nascondere; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra, e d’ora innanzi chiunque mi troverà mi potrà uccidere”. Ma Iahvé gli disse: “Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!”. E Iahvé pose su di Caino un segno, perché non lo uccidesse chiunque lo avesse incontrato. E Caino partì dalla presenza di Iahvé, ed abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden. (Genesi, 4, 1316).
Il marchio posto da Dio su Caino, più che una punizione è un “lasciapassare”, un’estrema difesa, che permette al fratricida di sopravvivere e di dare origine a una sua stirpe. Imperscrutabile giustizia divina.
Eppure… Chi, di fronte a certi fatti efferati, come ad esempio lo stupro di una giovane donna o la brutalizzazione di un bambino, non ha avuto almeno per un attimo il pensiero che bisognerebbe marchiare in fronte il colpevole, in modo da poterlo riconoscere a vista?
Si possono trovare diversi riscontri storici di stigmatizzazione dei colpevoli. Naturalmente col variare dei tempi e dei luoghi variano anche i tipi di colpa da espiare e le modalità di marchiatura.
Un esempio suggestivo ce lo offre il romanzo storico “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, pubblicato nel 1850 e ambientato nella Boston del XVII secolo. La protagonista, Hester Prynne, nonostante il marito sia assente da anni dalla città, ha dato alla luce una bambina, Pearl. Hester si rifiuta di rivelare chi sia il padre, anche perché si tratta di un uomo di chiesa, e viene esposta al pubblico ludibrio e condannata a portare sul petto una A scarlatta (che sta per "Adultera"), diventando così facile bersaglio per la comunità puritana, assai poco incline al perdono e alla comprensione.
Oltre ai singoli individui, possono essere colpiti da condanne analoghe anche i gruppi sociali, gli aderenti a una religione, le etnie. Basti per tutti l’esempio degli Ebrei, costretti dal Nazismo a portare la stella gialla sul petto. Si scatenano così le persecuzioni, i pogrom, i genocidi.
Ma a cosa serve un segnale del genere? L’intento evidente è quello di escludere e perseguitare il “diverso”, ma il più importante è il rovescio della medaglia, cioè l’intento di rafforzare la coesione sociale tra i non stigmatizzati, gli integrati, gli omologati… quelli che per temperamento o per comodità scelgono di adattarsi ai divieti e alle regole sociali così come sono.
Lo scrittore Hermann Hesse, nel suo romanzo “Demian”, parla di un segno (metaforico) che caratterizza le persone dotate di spirito critico e di moralità autonoma e lo chiama “marchio di Caino”. I marchiati da questo segno non hanno vita facile, perché devono sempre rispondere in primo luogo alla propria coscienza.
“Ognuno di noi deve trovare per conto suo che cosa sia lecito e che cosa sia proibito: proibito per lui. Si può non fare mai alcunché di proibito ed essere tuttavia un grande furfante. E viceversa…”.
Non è facile però mantenere nel tempo tanto rigore morale e tanta indipendenza di giudizio.
Del resto nessuno possiede da solo la scienza del bene e del male… il confronto con l’opinione degli altri è ineludibile.


Lucia


Recensione al libro “Fragments” di Marilyn Monroe


È uscito in questi giorni, edito da Feltrinelli col titolo di “Fragments”, un diario di Marilyn Monroe, sbucato fortunosamente da una soffitta, comprendente annotazioni, racconti e poesie finora sconosciuti. La vita di quella che forse è l’attrice più celebre di tutti i tempi è un vero concentrato di dolore, in soli trentasei anni, dalla nascita a un presunto suicidio dai risvolti molto oscuri.
Marilyn si chiamava in realtà Norma Jane Baker Mortenson. Cresciuta senza padre, con madre e nonna sofferenti di disturbi psichici, a dieci anni subì uno stupro, poi passò da un affido all’altro, da un istituto all’altro, finché a sedici anni pur di accasarsi si sposò. Poco dopo divorziò e in seguito ebbe una serie di mariti ed amanti, ma senza trovare pace, nonostante il successo, il denaro e l’accesso al mondo dei ricchi e famosi, degli intellettuali e dei potenti, compresi il presidente degli Stati Uniti John Kennedy e il fratello Bob.
Forse non tutti sanno che Marilyn fu a lungo in cura per disturbi nervosi e che, pur essendo già una star, subì tra l’altro anche l’esperienza del ricovero coatto in manicomio.
Nell’introduzione a “Fragments”, Antonio Tabucchi scrive tra l’altro:


… le persone troppo sensibili e troppo intelligenti tendono a fare del male a se stesse: chi è troppo sensibile e intelligente conosce i rischi che comporta la complessità di ciò che la vita sceglie per noi o ci consente di scegliere, è consapevole della pluralità di cui siamo fatti non solo con una natura doppia, ma tripla, quadrupla, con le mille ipotesi dell’esistenza. Questo è il grande problema di coloro che sentono troppo e capiscono troppo: che potremmo essere tante cose, ma la vita è una sola e ci obbliga a essere solo una cosa, quella che gli altri pensano che noi siamo.


Parole tremende.
Anche a me capita spesso di pensare che molte delle persone che vengono definite “malate di mente” sono appunto persone troppo sensibili e troppo intelligenti per chiudere gli occhi sulla follia del mondo, come i “normali” sono costretti a fare, pur di tirare avanti. Troppo intelligenti per star dentro ai binari dell’ovvietà, del conformismo, dell’ipocrisia e troppo sensibili per reggere alle bordate della disapprovazione, della svalutazione, dell’emarginazione…
Granelli stritolati nell’ingranaggio, troppo piccoli per riuscire a bloccarlo, ma capaci, per lo meno, di far stridere i suoi denti…


Lucia


Stigma e letteratura


Quest’estate uno dei temi affrontati al Laboratorio di Narrativa di Casa Mantovani è stato lo stigma. Lo abbiamo fatto leggendo diversi brani, ma quello che ci è sembrato più significativo è la novella “La Patente” di Luigi Pirandello tratta dalla collana “Novelle per un Anno”. In questo brano Pirandello racconta il dramma di una persona costretta in una "forma" nella quale gli altri lo hanno calato: un povero onesto uomo, per il casuale concorrere di circostanze fortuite, indicato dai più come iettatore, arriva alla totale disperazione senza che alcuno si senta personalmente responsabile del danno arrecatogli. Chiàrchiaro, questo è il nome del protagonista della novella, reca con sé il peso di portare sciagura, pertanto perde il suo lavoro e non riesce a procurarsene un altro, e ben presto si riduce alla fame; pensa allora di citare in giudizio due dei suoi diffamatori, non per accusarli, bensì per ottenere il riconoscimento ufficiale di iettatore. L’ignoranza, causa principale della superstizione popolare, e lo stigma, hanno fatto di lui un disgraziato e perciò egli vuole ora rifarsi dei tanti scherni subiti in silenzio. La sua ribellione è comprensibile: è quella di un uomo che, in preda allo sconforto, vuole gettare in faccia alla gente, spietata e superstiziosa, la sua sofferenza e trarre dalla sua sventura il massimo profitto. Chiàrchiaro passa di colpo dal ruolo di caricatura a quello di eroe drammatico e la sua situazione diventa emblematica della farsa della vita, delle menzogne in cui l’uomo si dibatte, incapace di sottrarsi alle stravaganti regole che lo pressano, se non trova il modo di adattarsi. Dopo la lettura del testo, è stato chiesto ai partecipanti un parere sullo stigma e le osservazioni registrate sono risultate davvero interessanti e vengono di seguito riportate.


Giorgia Busti




In diverse occasioni mi è capitato d’incontrare situazioni simili a quelle di Chiàrchiaro. Conoscevo una persona che aveva la gobba e tutti gliela toccavano, altrimenti avrebbe portato iella. A me è sempre dispiaciuto per questa persona, perché mi sembra che fosse diventato oggetto di scherno degli altri, che lo vedevano solo per la sua gobba e non per la sua sensibilità ed umanità. Anche questa secondo me è una forma di stigma.

Maya D.





Questa è una storia paradossale! Tutti credono in qualcosa che non esiste davvero… gli viene affibbiato un marchio … è tragicamente comica la rivalsa del personaggio pirandelliano.

Pierfrancesco P.





Lo stigma, proprio come in questo racconto, crea un circolo vizioso di alienazione e privazione di diritti e benefici per la persona discriminata. La conseguenza di tutto ciò diventa un grave isolamento sociale e un’incapacità seria di trovare un lavoro. E’ incredibile che tutto ciò esista ancora al giorno d’oggi e che ci siano persone che credono anche a dei proverbi superstiziosi come, ad esempio, “Né di Venere né di Marte non si sposa e non si parte, né si fa acquisto d’arte”.

Dino S.





Sfortunatamente io avevo un amico che aveva avuto grande successo nella vita, ma che ad un certo punto della sua esistenza era stato etichettato come “iettatore” ed è dovuto scappare in Brasile e ricostruirsi così la sua vita per non impazzire.

Gianluigi M.





Mia Martini e Marco Masini sono due esempi eclatanti di cosa sia lo stigma. Tutti dicevano che portavano iella e la Martini pare si sia suicidata per questo. Ho letto su un giornale che tutti toccavano ferro quando passava e quando la invitavano ai programmi faceva quasi pena, perché era entusiasta per essere stata presa in considerazione. Anche Masini era diventato un emarginato sociale, ma con l’aiuto di Celentano pare che la situazione sia rientrata. Personalmente credo che questa non sia superstizione, ma cattiveria umana.

Paola L.C.


Dedicato ad Arianna


Sedevi accanto a me ad “Arteinsieme”
e con la tua ironia
mi contagiavi di allegria.
Ora che non mi sei più accanto
al posto tuo si è seduto il pianto,
quel pianto che mi prorompe in petto,
ma che si ciba sol di grande affetto.

Dove solevi posar le tue minute mani
per scrivere di gioia e di dolore
io vorrei posare un bianco fiore,
per ricordarmi sempre del tuo amore.
Questo soltanto nella mente mia,
così che man crudele
non lo getti via.


Mariangela


L'umiltà di Dio


Dovremmo essere noi
a credere in Dio
ed invece ho comprato un libro
che si intitola
DIO CREDE IN TE.


Lucio Polazzi





L'amicizia


L’amico vero è come
l’acqua,
senza non si vive.


Lucio Polazzi


Pietra inconscia


Pietra inconscia al margine bardo
In simultanea nitidezza manca il piano consacrato
Ogni cosa in funzione del corpo che qui si trova
Quasi niente, ciarpe, ciondoloni, corbelli di gatto neonato
Come aurea un ciclopico polline sotterraneo
Lieve come l’oggetto impossibile, organico e dispari
Intorno familiare la terra.


Annamaria Moruzzi


Dal 1° piano (disotto)


Sul marciapiede:
tutto normale, a gettare lo sguardo;

Il Sole tintinna
su vetri e vetrine
tu rodi (salivaliscivia
che sali da visceri ormai
putrefatti in attese…)

I piedi affondano, la mente
affonda,
s’effonde un odore che sa…

Disotto
vedo persone vicine lontane

e non si può uscire
assolutamente non
si può uscire.


Piergiorgio Fanti
dalla raccolta “Cristallo di rocca”


Poesia a Dio


Vidi con i suoi bellissimi colori
l’arcobaleno,
dopo che era piovuto,
quando arrivò il sereno.
Il suo rosso lucente,
il giallo trasparente,
il verde speranza,
tutti i colori nella loro essenza.
Desideravo, lo volevo
tutto mio...
ma poi dissi tra me:
è l’arcobaleno di Dio.


Anonimo


Cosa avrò mai dalla vita


Cosa avrò mai dalla mia vita,
se non il cammino di un bambino…

E perché, e perché questo danno
che m’incombe il cuore,
se non che d’incanto morirei
assopita in quel destino
che si chiama morire o vivere.

L’essenza cosa sia
se è per te
o per qualcuno
a cui domandare ancora:
questo è vivere o morire?


Paola Scatola


Breve preghiera su Maria


Oh Maria,
donna del silenzio,
donna dell’ascolto,
umile ancella del Signore,
prega, intercedi,
presso il Padre,
per noi peccatori.
Amen.


Daniela Sitzia vedova Conti


I diversi


A te che crocifisso stai
su quello strano tronco
io voglio domandare:
che ci facciamo in questo mondo?
Se siam diversi ci chiamano cretini
ma non si avvedono che son dei burattini.
C’è chi a tutti i costi vuole comandare
chi, invece, vuol far girare il mondo
sul palmo di una mano.
Scendi da quel patibolo
e mostra il tuo costato,
la corona di spine
e le tue man forate…
Se le tue sofferenze
non han cambiato il mondo,
l’animo dei diversi
han reso più fecondo,
più ricco d’amore
e di mille altre virtù.
Ed è per questo
che ti chiamano:
Gesù,
il nostro Salvatore.



Mariangela


Guardati le spalle


Attento, stai rischiando troppo,
guardati le spalle,
voltati indietro.
Il passato è molto importante
ogni persona
ha una sua strada
che deriva da quello
che è successo prima…
Quello che sei adesso
è dovuto a come ti sei
comportato finora.
Sei stato fortunato?
Hai avuto una strada facile?
Hai dovuto superare
molte difficoltà?
Allora ti hanno temprato molto,
quindi sei arrivato ad avere
una forte personalità
che adesso ti sta aiutando molto.
Guardati alle spalle,
di quella persona
non ti devi fidare
ti porterà sicuramente
su una cattiva strada.
Devi capire chi ti vuole
veramente bene
e chi invece vuole approfittare
di te.
Attenzione! C’è pericolo…
Allarme rosso!
Ti vuole far male,
ma tu cambia strada,
evitalo, non chiamarlo più.
La vita è un continuo
incontrare persone,
fra loro ci sono
gli invidiosi, i cattivi, gli arroganti.
Riconosci quell’ individuo,
non lo puoi cambiare,
sicuramente la cosa migliore
è continuare per la tua strada.
Devi essere sempre
sicuro dei tuo valori,
seguili e fatti trascinare da loro.


Loopa Sonivree


Mani amiche


Percepisco il tempo
attraverso le dita della tua mano
ancorata io sono…
a quello che le dita tracciano in me.
Mani amiche riattivano il cuore
danno speranza accendono calore.
Siamo sole
afferrami per trafiggere il tempo…
Sento la morte vicina
sento la fine
percepisco il dolore.
Afferrami
non tremare
non tremerò se ci sei.
È un linguaggio comune…


Marcella


Suggestioni:
guardando i disegni di Paola Scatola


Scatola 1

Lo gnomo / folletto, personaggio visibile e invisibile… C’è chi lo vede e chi non lo vede. La realtà o l’irrealtà.

Luigi





Scatola 2

Ti guardo con gli occhi
che riflettono il pianto
sperando che tu
possa vedermi al tuo fianco.

Mariangela





Scatola 3

Ha qualcosa di misterioso, sembra un tunnel dal quale non si riesce a uscire, come un inquietante sogno.

Massimiliano





Scatola 4

I triangolini sono le parti stabili, cioè il carattere di una persona; i trattini sono i pensieri che turbinano attorno… Il Leone, la musica, i tasti della tastiera del pianoforte…

Aldo



“Uguali diritti per tutti”


“Nabir Perdù” è un racconto fantastico che avrebbe trovato la giusta collocazione all'interno del precedente numero del Faro, visto però il contesto nel quale è stato regalato alla sottoscritta, trovo sia anche adatto al Faro in uscita. È stato infatti durante i Mondiali Antirazzisti che una squadra di calcetto di giovani universitari provenienti dalla Calabria, al momento dello scambio di doni con i Diavoli Rossi (squadra di cui faccio parte) ha offerto questo curioso elaborato a noi sfidanti.
I Mondiali Antirazzisti, giunti quest'anno alla 14° edizione, si sono svolti presso il Centro Sportivo di Via Allende (Casalecchio) dal 7 all'11 luglio ed hanno visto 204 squadre di 60 diverse nazionalità, dimostrando una crescita esponenziale in quanto a interesse, a numero di partecipanti e a ricaduta sociale (prevenzione e sensibilizzazione).
Lo scopo che si prefigge la UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) che insieme ad altri organizza questo evento, è quello di promuovere i valori dello sport e di organizzare attività per combattere la discriminazione e l'esclusione sociale.
Siccome non può esserci uguaglianza senza diritti condivisi, lo slogan che gli organizzatori hanno coniato affinché fosse una sorta di parola d'ordine è stato:"Uguali Diritti per Tutti". Il percorso di questiMondiali si basa, infatti, sul principio della lotta attraverso il veicolo dello Sport, per il riconoscimento dei diritti di cittadinanza a tutti coloro che vivono sul suolo di un paese (Ius Soli).
E' proprio questo lo spirito e il percorso che tutte le minoranze, persone con disagio psichico comprese, dovrebbero adottare per sensibilizzare e coinvolgere la società civile, con lo scopo di produrre l'abbattimento del pregiudizio, della violenza e dell'intolleranza che tanto danno e sofferenza provocano alle persone oggetto di esclusione ed emarginazione.
Concludo con lo slogan coniato dalle colleghe referenti di “Arteinsieme” a proposito di un lavoro sullo Stigma:
"ABBATTIAMO LO STIGMA E AUMENTIAMO LA STI(G)MA!”.


Concetta


Nabir Perdu




Scatola 1


Correva l’anno 3614, gli umani erano stati oramai disintegrati, quantizzati, dall’esplosione dell’hip hop già da tempo immemore.
Oggi si nuotava bene nel triangolo delle Bermuda, certo faceva un gran caldo, ma Yuri aveva trovato un posticino fresco sotto lo scoglio di Gianni Giannone, il polipo scrittore, che aveva fatto il boom rivisitando delle canzoni di Modugno negli anni precedenti la grande alluvione del 3009.
Da là sotto, io e Yuri potevamo finalmente goderci un momento di riposo, sorseggiando una birra e curiosi di ogni svolazzo che la cittadella, allegramente distesa ai nostri piedi, ci regalava. Così aspettavamo l’arrivo di Gianni.
Gianni il polipo aveva un grande problema all’udito, ci toccava sempre chiamare prima sua moglie Alga, che ci preparava delle fantastiche colazioni di “vermicelli di mare”, dopo di che arrivava gongolando Gianni e ci raccontava una delle sue avventure. Che fossero storie di vita vissuta o create dalla portentosa fantasia polipa a noi non importava. Gianni arrivava e si sedeva accanto a noi fumando la sua pipa azzurra e cacciando qualche boccata iniziava a raccontare, come se leggesse le sue storie nei disegni che il fumo tracciava tra le correnti.
Quella sera apparve un pesce e prima che si dissolvesse scoprimmo che si chiamava Nabir, Nabir Perdu. Nabir apparteneva alla famiglia dei pesci pagliaccio, una specie rara da queste parti, non ce ne sarebbero restati ancora per molto in città. La loro vita era quella del giramondo e ovunque si trovassero organizzavano piccoli spettacoli, arti libere in ordine sparso, gioiose danze con i totani, trotto al riccio di mare, magie, illusioni varie…
Per quella sera, in occasione della festa del Gammero Rosso, avevano preparato lo spettacolo teatrale “Processo a Capitan Findus”, accusato del tentato olocausto dei merluzzi. In questa commedia Nabir faceva la parte dell’esca di cui si serviva Capitan Findus per catturare i merluzzi. Erano anni che portavano in giro quello spettacolo in tutte le acque del regno di Nettuno, ma quella sera successe qualcosa di straordinario, mentre Nabir ripeteva la sua parte, un’anziana merluzza lo raggiunse in quell’angolino appartato.
La bruttezza della merluzza era tale da raggelare il sangue e così fu per Nabir che, pur provando un grande disgusto, non trovò la forza per andarsene. La vecchierella si pose di fronte a Nabir e senza lasciargli respiro, subito incalzò: “Finalmente ricapiti sulla mia strada, Nabir. Ti ricordi di me? Sono Kalimba, stavo nei lager d’Aral, il lago salato dove ci tenevate prigionieri… Perché mi guardi così? Non ricordi?
“Ma che dici? rispose Nabir Io sono un attore conosciuto nei sette mari, alla stregua di Marlon Branzo e Lo Squalo 3! Di che vai parlando? Per di più, sono decenni che vado denunciando i crimini di Capitan Findus. Ti stai confondendo con il mio personaggio, questo è uno spettacolo, non è la realtà. Il Capitan Findus è morto prima che io nascessi”.
“Ti inganni, Nabir, mi adescasti e consegnasti alle Falangi Findus che mi portarono poi nei Lager.”
“Tu sei pazza: non è vero!” esclamò Nabir.
La discussione continuò a lungo e i toni non si abbassarono, anzi, erano sempre più alti, acuti e concitati. Ma nel parlare i lineamenti della vecchierella ripresero colore e il suo viso ringiovanì. Nabir restò stupefatto per quel cambiamento. Dei ricordi, così lontani da non essere suoi, gli ritornarono alla mente, facendolo cadere in un profondo sonno. Al suo risveglio la merluzza era sparita, lasciando Nabir con una gran confusione.
Quella sera la festa cominciò con un annuncio. “Ci scusiamo con voi tutti, ma lo spettacolo è annullato: Nabir si è perso…”.
Da quel giorno nessuno più ha avuto notizie di Nabir, la compagnia, la famiglia, gli amici, nessuno lo rivide mai più.
E la giovane vecchierella? “Chissà se è veramente esistita… Di certo per Nabir è stata fatale…” Disse Gianni il polipo con quell’azzurrognola nuvola di fumo con cui chiudeva tutte le sue storie. Ci guardò con quel sorriso a metà e chiese: “Bè, ragazzi, che c’è questa sera alla festa del Gammero Rosso?”
E noi: “Il processo a Capitan Findus” “E… secondo voi, ci sarà Nabir?”


La straordinaria storia dell'omino turchino
(seconda puntata)

pagina 1



Passò la notte tra rumori che nel silenzio assoluto assumevano tonalità forti ed incutevano timore.
Al sorgere del sole l’omino turchino si domandò cosa avrebbe fatto di tutta quella libertà che all’improvviso gli era stata regalata, dalla folata di vento, dopo anni ed anni di forzata prigionia all’interno della stanza di nonna Luisa, anche se prima non aveva mai percepito di non essere libero, perché non conosceva l’alternativa alla sua funzione di soprammobile.
Anzi, il suo umore oscillava, in quella prima mattina là fuori, tra l’euforia di tutte le cose che avrebbe potuto fare e scoprire ed il bisogno di sicurezza che solo le quattro mura domestiche gli garantivano.
E poi un pensiero lo assillava: avrebbe rivisto la nonna Luisa? Una forte nostalgia per ciò che era stato fino al giorno precedente lo paralizzò per un attimo, solo un attimo, perché per fortuna sentì una vocina chiamarlo: “Ehi, come stai? Hai dormito bene?” disse la formichina tornata a trovarlo, “Adesso ti carico sul mio dorso e ti porto via da qui”.
L’omino turchino capì subito il perché di tanta premura: infatti sentì un rumore tremendo e sentì la terra come scossa da un terremoto.
Immediatamente ci fu un corri corri di tutte le forme di vita che pullulavano nel prato: ragni, formiche, coccinelle, coleotteri scappavano in ordine sparso in ogni direzione mentre i lombrichi si tuffavano nei loro cunicoli sotterranei. Gli uccellini si diressero sugli arbusti per mettersi al sicuro.
Quella mattina, che era una domenica, il proprietario del giardino aveva deciso di tagliare l’erba alta, nella quale l’omino turchino aveva trovato un rifugio così sicuro, e aveva messo in azione il tosaerba a motore.
“Dai sbrigati, dobbiamo andare via di qua ed in fretta”… La formichina avrebbe potuto fregarsene e pensare solo alla sua salvezza, invece si prese cura di lui, che non aveva i piedi, per poter muoversi.
L’omino turchino pensò che non avrebbe potuto trovare un’amica migliore ed in cuor suo suggellò un sentimento di fedeltà assoluta verso quella piccola creatura così generosa, sicuro di poter un giorno ricambiare. Sicuro… sì, sicuro! Perché l’amicizia che gli era stata dimostrata gli diede la forza di credere in sé, anche se non aveva mani e piedi, almeno per ora!
Si nascosero nel cavo di una vecchia quercia. Era una ferita alla quale l’albero aveva posto rimedio producendo una quantità tale di resina che si era formata una caverna profumata e accogliente.
Non erano i soli lì, altri avevano avuto la stessa idea ed in poco tempo, dopo le presentazioni, si misero a commentare con disapprovazione l’azione distruttiva dell’uomo, concordi nell’importanza del condividere i pericoli e i momenti di paura.
Alla prossima, ciao.


Jaja


L'isola del tesoro



Racconto avventuroso fantascientifico a puntate
Laboratorio di scrittura e immagini ARTEINSIEME
Centro Diurno Casalecchio di Reno
seconda puntata




Riassunto della puntata precedente:
Ricordate i viaggiatori coinvolti nella spedizione, finanziata da un miliardario, diretta all’isola inesplorata alla ricerca del tesoro? Li abbiamo lasciati nel momento di salire a bordo del mezzo anfibio, controllato a distanza dall’astronave, che li avrebbe portati proprio all’isola…



Per arrivare in vista dell’isola impiegano tre giorni fermandosi solo al tramonto per dormire e mangiare sotto le stelle e al calore di un falò. Sulla riva del Rio delle Amazzoni avvistano l’isola lontana. L’anfibio naviga nelle acque infestate dai pirana fino ad approdare all’isola. Appena sbarcati intravedono in lontananza delle luci e odono una musica… Avvicinandosi scoprono degli indigeni dipinti di bianco, di rosso e di marrone che ballano e cantano.
Gli esploratori si avvicinano portando loro i doni che avevano dentro i loro zaini: specchi, collane, orecchini e coltelli. Gli indigeni, contenti dei regali ricevuti, ricambiano con pelli di babbuino e borse di coccodrillo.
Intanto cala la notte e non avendo gli esploratori costruito ancora un riparo devono accontentarsi di dormire sotto le stelle nel sacco a pelo.
Jessica, la “viziata”, mostra insofferenza nei confronti della nonna che continua a rimproverarla e si lamenta molto perché è stanca di dormire all’addiaccio e pretende un letto comodo.
Chaulì durante la festa aveva avvicinato, con fare seduttivo, l’unico indigeno, Cornelius Da Siuva, che avendo viaggiato per il mondo parlava un po’ di italiano.
Durante una notte d’amore nello stesso sacco a pelo lui le racconta che esisteva una leggenda nella tribù che parlava di un tesoro nascosto dietro le grandi cascate… Il mattino dopo Chaulì rivela il segreto al resto del gruppo. Tutti insieme decidono di partire alla scoperta delle grandi cascate consultando prima la mappa per sapere in che direzione andare.
Hanno presto una sorpresa: la pianta dell’isola rivela loro che di cascate ne esistono ben quattro. La leggenda racconta che le cascate siano mortali a causa del grande salto alla cieca da compiere. Nel caso in cui si tratti di quella giusta, grazie al salto, sarà possibile attraversarla e atterrare su una pietra all’ingresso di una caverna. Nel caso in cui si tratta della cascata sbagliata, ahimè si ruzzolerà, si sfrombolerà, ci si spataccherà nel vuoto.
Dunque una possibilità su quattro di salvezza! La leggenda narra che, tra le altre cose, nel tesoro ci sia un teschio di agata tempestato di diamanti. Il teschio riporta delle iscrizioni che spiegano come ottenere l’immortalità. Dopo la consultazione la nonna rimette nella borsa da viaggio la mappa e mentre il gruppo discute animatamente sul da farsi, Jessica decide di iniziare la ricerca del tesoro da sola per poterlo avere tutto per sé. Così sottrae la mappa alla nonna e si avvia da sola alla ricerca del tesoro. Purtroppo sceglie la cascata sbagliata e precipita nel vuoto. Il gruppo accortosi della sua assenza si domanda dove possa trovarsi. Dopo un po’ di tempo sentono un urlo che proviene dalla direzione della cascata più vicina. Corrono a vedere e la trovano esamine che sembra morta. La mappa galleggia ancora sull’acqua. Tutti, tranne Chaulì, cominciano a piangere e si chiedono come sia potuto succedere. Quasi tutto il gruppo si precipita a recuperare la mappa. Linda con la sua attrezzatura da speziale va verso il corpo e cerca di scoprire quali siano le condizioni reali di Jessica. Linda si rende conto che la sua amica non è morta ma solo svenutaper l’impatto violento. Riporta solo alcune escoriazioni facili da curare. Sul posto le prepara una tisana d’erbe che le possa dare energia per il ritorno all’accampamento, dove la curerà con impiastri e rimedi vari. Quando Jessica si riprende, Chaulì si avvicina e le dice:“Minchaulì! Tu svegliata! Tu cattiva avele lubato mappa! Tu da sola dove cledele di andale! Io non pallale più con te!”.
Pedro Alvarez fa una passeggiata con la panterina, ragionando sul fatto che non è bene tradire la fiducia del gruppo. Camminando trova un quadrifoglio e ritorna al campo per incollarlo alla mappa che è stata rubata, convinto che questo riporterà la buona armonia e la buona sorte nel gruppo. La nonna si avventa contro Jessica e la schiaffeggia dicendo:“Svergognata! Potevi anche morire!”. Per punizione la rinchiude in una capanna che era stata costruita per riporre l’equipaggiamento. Linda tra pozioni e cataplasmi pensa quale potrebbe essere la giusta punizione che aiuti Jessica a capire quanto sia stato brutto il suo gesto.
È molto arrabbiata e come prima cosa le viene in mente che Jessica potrebbe essere punita per la sua avidità decurtando una parte del suo tesoro. Gianmarco pensa che Jessica sia molto avida ed è convinto che sarebbe meglio cacciarla dal gruppo. A questo punto il gruppo si riunisce per decidere cosa fare della sorte di Jessica. Il gruppo, dopo una lunga discussione, concorda di perdonarla tenendo in considerazione il fatto che era un brutto periodo per lei. Viene deciso anche che l’indomani mattina la spedizione per le cascate ripartirà…

(continua nella prossima puntata)


Lo zen e i quattro principali “stigmi” dell’uomo…


Dovendone parlare in breve, come è la durata di una canzone, si dirà:

Descrizione del I stigma:
L’uomo nasce con lo stigma della morte. Ad essa principalmente si sottrae per mezzo della nutrizione, del bere , respirare… togliendosi dal caldo o dal freddo eccessivo ecc. che è un allenamento a vivere; o di sottrarsi alla morte; nel sottrarsi allo stigma della morte l’uomo determina in sé un coefficiente di vitalità; ossia quello che produce anche la volontà .

Descrizione del II stigma:
È quello che si eredita geneticamente, ed è di serie, già dalla nascita. Gli altri debbono provvedere completamente al nostro sostentamento, es.: tigre in gabbia nata in cattività.

Descrizione del III stigma:
È lo stigma dormiente. Allorché si manifesta, l’uomo diventa come la tigre, che era libera di procacciarsi il cibo e di avere un territorio come sua casa, ma allorché viene catturata ed ingabbiata, potrà avere un territorio recintato grande, ma non è libera.
Nell’uomo accade che gli altri si debbano occupare parzialmente o totalmente di lui, avrà un territorio casa, ma non sarà libero; ossia sarà come la tigre che da libera viene catturata e ingabbiata.

Descrizione del IV stigma:
O stigma occulto, non manifesto. È contenuto in un racconto zen… Un uomo diceva che non poteva avere rapporti sessuali, perché con la professione che esercitava glieli facevano cadere costantemente a terra e si rompevano. Era così costretto ad avere due attività: la principale consisteva nel fatto di far vedere e dimostrare che lui li aveva sempre al suo posto. Cosicché la sua professione principale diventava la sua secondaria e il suo gioco era che nessuno avrebbe dovuto mai accorgersene…


Luigi Zen


Francia insieme!


25 Luglio 2010 Sabato sera – Ritrovo ore 21.50 – Partenza ore 22.30
Incomincia il nostro viaggio, su un treno notturno, con le cuccette. BOLOGNA-PARIGI
Fra valigie, zaini, lenzuola e coperte ci siamo inoltrati fuori dai confini, oltre la notte.
Stazioni, fermate, tosse, risate. Abbiamo dormito poco. Alle 5 ci siamo svegliati, ci hanno restituito i documenti. Una pausa caffè. Alle 9 circa siamo arrivati a Parigi: la metropoli romantica nel cuore dell’Europa. Una buonissima colazione, muffins e tortini alla mela, succo d’arancia e caffè. Non si può fare a meno di notare che la Francia è molto piu ricca dell’Italia. Abbiamo comprato qualche disco alla Virgin e visitato un negozio di camicie. Poi si riparte: verso…
Il tragitto in treno e tranquillo, fra foreste, fiumi e paesaggi ameni fluviali, casette dal tetto a punta e campagne. Dopo un’ora e mezzo di viaggio, arriviamo a Troyes, ci vengono a prendere in macchina Louis e Antoine. Enormi distese di grano, di paglia, di ortaggi, a volte anche girasoli. Alcune pale per l’energia eolica. Arriviamo dopo 40 minuti di macchina alla nostra meta: una casa di campagna ben arredata, dove ci aspettano Francoise e Idefix.
Mi ha colpito molto di questo luogo, l’ospitalita e la cortesia, insieme all’ottima cucina tipica francese che, io almeno, non avevo mai avuto l’occasione di assaggiare. Sono tanti i piatti tipici della Francia: dagli antipasti di verdure con salsa di yogurt e vinaigrette, insalata russa, per arrivare ad alta cucina come la bourguignonne (carne stufata con aromi e vino, simile al nostro brasato), ai formaggi (caprice des dieux, brie, camembert, ecc…), les boudelles blanches (salsicce bianche fatte con carne di tacchino e pollo e latte) le verdure, i legumi con carni di maiale in umido ecc…
Le camere sono belle, in legno massiccio, stile rustico. Fuori un giardino di meli e un tavolo con sedie a sdraio tutte per noi.
Di solito usano ospitare, per il momento, gruppi di non piu di otto persone, nell’attesa di ultimare i lavori di restauro di altri stabili, cioè: nel fienile un garage, con una saletta di accoglienza di sopra, di fianco la carraia (dove mangiavamo a pranzo e a cena). La lavanderia e ancora da ultimare. Un bed & breakfast nel cuore della campagna, terra del celeberrimo champagne.



supreme angels



A parte questi dettagli, il bello della vacanza è stato il gruppo: siamo stati molto uniti, ci siamo trovati bene da subito. Si parlava di esperienze di vita vissuta, di psichiatria, di salute, di famiglia, di problemi di relazione, e anche di filosofia e di religione, di storia, insomma di cultura. Non sono mancate battute di spirito, racconti, barzellette ad allietare la nostra vacanza. Insomma, ci siamo conosciuti e abbiamo, per cosi dire, fondato un gruppo.
Esattamente siamo: Concetta (educatrice del Centro Diurno di Casalecchio di Reno), Cinzia (infermiera di Bazzano), Giorgia, Lucio, Roberto (tre attori di ”Arte e Salute”), Marco Rafani (direttore della “Psicoradio”), Cristina (una ragazza del CSM Scalo), e Laura (una signora di Monteveglio). Il clima in questa parte della Francia è molto variabile e comunque fresco. Quando è nuvoloso, e grigio, temperato, romantico e malinconico. Un clima che affascina e ispira le menti dei poeti . Ricordo i poeti decadenti: Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Verlaine… Poi Jacques Prevert ecc.
Abbiamo fatto un giro in canoa, sul delizioso fiume Aube (che vuol dire Alba), costeggiato da file di pioppi e salici d’acqua. Un fiume verde, limpido, tranquillo, che segna un percorso tra le campagne per congiungersi infine alla Senna.
Di sera ci hanno portato in macchina per viottoli, in mezzo ai campi coltivati. Da lì' si potevano osservare le pale eoliche e molti conigli selvatici, che saltellavano qua e là, illuminati dai fanali e dalla luna piena.
Non è mancata la visita a Parigi, in un solo giorno, però abbiamo visto molto: Montmartre, la cattedrale gotica e storica famosa, i ponti sulla Senna, dove i bateaux mouche portano i turisti sul fiume che circonda la citta. L’arc du Carrousel ci ha portato ai Jardins des Tuileries, dove una ruota panoramica enorme, insieme a qualche giostra di luna park divertiva coppie e bambini.
Il cibo ottimo: hot dogs, baguettes farcite, hamburger, e pommes frites. Dopo una pausa di ristoro abbiamo proseguito verso la Tour Eiffel e il Trocadéro. Ho fatto molte foto in questo viaggio. Sotto la torre alcuni ragazzi si esibivano in salti e piroette, break dance, per l’esattezza.
Fantastico anche il métro, sotterraneo e anche allo scoperto, fra palazzi stile britannico e casette caratteristiche con il tetto a punta. Alla sera siamo rientrati alla Gare de l’Est, poi a Troyes.



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Ricordo anche un pomeriggio al lago: windsurf e bagnanti. Pioveva. Ci siamo seduti sotto un ombrellone a gustare le gauffres al cioccolato, tipici dolci francesi che si trovano in tutto il Nord Europa.
Nella periferia di Troyes c’è un outlet molto grande che per chi ama lo shopping è un bel punto di riferimento. Lo abbiamo visitato e comprato jeans, maglie e caramelle.
Troyes è soprattutto una citta medievale. Il penultimo giorno siamo andati a visitarla nel tardo pomeriggio. Deliziose casette a “colombage” (a graticcio), cioè fatte di travi di legno con in mezzo mattoni e cemento, risultano bianche, incrociate da travi marroni, e tetti a forma di trapezio. A cena, in un ristorante tipico, abbiamo gustato le galettes (cioe crèpes fatte con farina di grano saraceno, di colore marrone, che usavano cucinare i cittadini francesi al sabato, quando i fornai erano chiusi), il sidro dolce e alcuni tipi di gelato. Intanto fuori era cominciato uno spettacolo teatrale itinerante in costumi medievali, che narrava, in francese, la storia delle Crociate, la saga di re Artù, la ricerca del Santo Graal… E proprio da Troyes che passa la via Francigena, quella che ha portato i soldati dalla Gran Bretagna a Gerusalemme.
L’ultimo giorno, sabato, si preparano le valigie. Si pranza e alle 15.00 si parte per Dijon.
Due ore e mezza di macchina. Visitiamo Digione con le sue rues piene di ristoranti e negozietti, giardini fioriti e fontane. Ceniamo in un locale niente male: pizza piu birra € 11.50.



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Alle 21.10 ci aspetta il treno Parigi-Bologna, che passa per Digione. Ritiriamo i bagagli e saliamo. Un altro viaggio notturno in cuccetta. Dormiamo bene, perché siamo stanchi. La sveglia è alle 5. Alle 6.11 siamo a Bologna.
Ognuno torna a casa sua con una valigia e, dentro, tanta voglia di ritrovarci, di rincontrarci. Nostalgia di una vacanza e di luoghi difficili da dimenticare. Ci siamo promessi di rimanere un gruppo, di conservare la nostra identità di amici, oltre che di compagni di viaggio, di rivederci, di fare altri viaggi insieme.
Di questa vacanza mi restano bellissimi ricordi, soprattutto di Antoine, Marie Francoise e Louis, che ci hanno fatto sentire a casa nostra, ospitati come una vera famiglia. Siccome possiedono una casa anche in Italia, abbiamo promesso di andarli a trovare per le feste natalizie.
Marie Françoise ha scritto un libro, “Passo dopo passo”, che uscirà in Italia in settembre. Si occupa dello stigma a cui porta spesso e purtroppo la malattia mentale. E di come il percorso individuale di “guarigione” e di riappropriazione del sé, porti alla realizzazione dell’individuo, non più concepito come “malato”, ma come persona che ha delle percezioni e delle potenzialità oltre il normale. A volte le persone che hanno questi problemi sono dei genialoidi, sensitivi, o angeli… Vogliono portare nel mondo nuove idee e nuove conoscenze.
Personalmente ho conosciuto Marie Françoise in un gruppo laboratorio condotto da Ron Coleman, un uditore di voci che ha fondato questa teoria della riappropriazione del sé che chiama “recovery”. Vuole restituire alla persona in difficoltà le sue capacità e autonomie, ma soprattutto l’autostima e la voglia di vivere, ritrovando il sé perduto.
Concludo questo racconto sperando che in psichiatria ci siano altri viaggi e iniziative come questa, anche per altre persone che non hanno mai viaggiato. Mi scuso per la prolissità, ma amo molto scrivere e mi piacerebbe tanto partecipare alla redazione del “Faro” scrivendo qualche articolo ogni tanto e al gruppo di scrittura creativa che si tiene in semiresidenza a S. Biagio.


Giorgia


"Sky Dreams" dipinto di Eugenio Barbieri


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I colmi


Il fumettista? Non fuma, fumetta.
Il colmo di un gommista? Giocare al lotto e sbagliare ruota.


Luigi Zen





Gli stuzzichini


Chi conosce Luigi sa che la sua specialità sono le freddure. A volte però, piu che di freddure si tratta di aforismi, cioè di frasi che fanno pensare, incuriosiscono, stuzzicano… Luigi si fa chiamare Zen perché ama la brevità (ma anche in onore della Val di Zena), e non intende sviluppare ulteriormente i suoi enunciati…
Invitiamo quindi i lettori de Il Faro a raccogliere le sue sollecitazioni e a replicare, in modo serio o faceto, non importa.




Cosa succede quando guardi un film?
Siccome tu non sei un personaggio della scena, ma sei colui o colei che guarda, diventi tu la telecamera


Luigi Zen





Risponde Tina:
Quando guardiamo qualcosa, un film o altro, noi diventiamo la telecamera di quello che guardiamo.
Se ci addormentiamo la telecamera continua a girare, e così pure se rispondiamo al cellulare e/o ci distraiamo.
E ovvio che ognuno di noi è una diversa telecamera.