febbraio-marzo 2011 - anno V  n. 1 - Dolore e speranza


sommario

Fabio Tolomelli

Editoriale

Piergiorgio Fanti

Analisi del dipinto di Patini: ‘Vanga e latte’

Ave

Avere il male di vivere come inquilino

Antonio Marco Serra

La sofferenza e la speranza

L.L.

Tempo verrà…

Cinzia

Autoritratto

Mariangela

Filastrocca

Angela e Roberto Finotello

Piccola luce / Ormai fa parte di noi

Stefano Biasco

Il faro (dipinto)

Ass. UmanaMente

Dolore e speranza

***

Testo della canzone ‘Meraviglioso’ di Domenico Modugno

Edoardo

Massima

Lucia

Il dolore è una sentinella sempre all’erta

Luigi Zen

Versione Zen

Lucia

Una lettera dal mio dottore (Giovanni Gatti)

***

La terapia del sorriso

Edoardo

Come diventai Guglielmo Polpetta (intervista)

Lucio Serio

La quiete dopo la tempesta

Vasco Rossi

Testo della canzone “Jenny è pazza”

Dedicato ad Arianna
Lo spazio della poesia

 

      Marcella Colaci     L’hanno portata via… non amo più
      Loopa Sonivree     Piangi sa vuoi
      Lucio Polazzi     La speranza
      Piergiorgio Fanti     Ma il pensiero risale / Nascita
      Paola Scatola     Dolore / Speranza / Dolore e speranza
      Mariangela     Speranza / Voglia di vivere
      Marcella Colaci     Ombre amate

Costanza Tuor

Cartolina da Piazza Maggiore

Chiara Reitani

La famiglia Albani e le sue difficoltà

Tina

La storia, la rinascita e la
resurrezione di Concettina

Paola Scatola

Dolore e speranza

ArteInsieme

Testimonianze

Giorgia Busti

L’amico ritrovato: la speranza nasce dal dolore

***

Corso di Italiano a Casa Mantovani

ArteInsieme

L'isola del tesoro (4a puntata)

Luigi, Edoardo

Botta e risposta

Luigi Zen

Pensieri Zen

 

Editoriale


Ho insistito a lungo in redazione perché il tema principale di questo numero trattasse non solamente di dolore ma anche di speranza. Nella maggior parte dei casi dolore e speranza sono contemporanei e complementari. Per spiegarmi meglio: quando ho male ad un dente ho la speranza che un bravo dentista possa aiutarmi a sconfiggere il male. Lo stesso vale quando ho un disagio mentale, che mi crea dolore molto profondo, angoscioso, terrificante: vivo con la speranza che questo cessi così come se ne è venuto o che una figura della psichiatria possa aiutarmi a debellarlo.
Purtroppo ci sono malattie in cui il dolore diviene cronico ed incurabile, creando una condizione in cui la speranza viene messa in varia misura da parte, lasciando spazio alla rassegnazione.
Il dolore è una esperienza soggettiva che si trova all’interno di un contesto sociale, cioè la famiglia, gli amici, i conoscenti, i sanitari, i colleghi di lavoro, la cultura e le tradizioni del luogo in cui il sofferente è immerso.
Attraverso una serie di feed-back reciproci si può fare in modo che il dolore venga modulato sia in positivo che in negativo. Per fare un esempio: un ragazzo perde definitivamente l’uso delle gambe, soffre di atroci mal di testa e si sente fortemente giù di corda. Nell’incidente che gli ha causato il danno gli è morto il suo migliore amico. Cosa succede? Dolore, speranza e rassegnazione devono sedimentare e fare in modo che il malato si rassegni a vivere non come prima dell’incidente, ma in modo diverso, in funzione delle sue abilità residue.
Se il contesto sociale coerentemente si adopera nella realizzazione e libera manifestazione della personalità del ragazzo, è probabile che si instauri un circolo virtuoso: le persone che hanno contatto con il portatore di handicap si sentono utili, e non incapaci e impotenti nei suoi confronti. Il ragazzo sente che può essere parte attiva nella società e sposta il centro dei suoi pensieri da sé stesso verso l’esterno, dando meno peso al suo mal di testa. Il che favorisce in lui un leggero buon umore, che a sua volta gli permette di vedere con più oggettività la sua situazione, e lo aiuta a reggere il lutto per la morte del suo amico e la rassegnazione alla paraplegia. Purtroppo il trinomio dolore, speranza, rassegnazione deve essere rispettato perché al bene come al male non c’è limite.
Quando mi ammalai ricordo che il buonismo mi feriva quanto le offese. Il punto di svolta nella mia esperienza patologica personale è stata la recovery che mi ha ridato una bozza di quella personalità che avevo perso e mi ha aiutato ad esprimere me stesso individuando i miei sogni e gestendo le mie paure ed incubi. Così il dolore ha smesso di dilaniarmi da dentro, la rassegnazione ha preso la sua giusta dimensione e la speranza ha ripreso un genuino vigore.
Mi ha colpito questa frase di una persona malata di un male incurabile: “ Quando stiamo male ci comportiamo come i gatti; teniamo a debita distanza le persone… e le coccole le vogliamo solo quando ne abbiamo voglia”.


Fabio Tolomelli


Analisi del dipinto di Teofilo Patini: ‘Vanga e latte’


pagina 1



Teofilo Patini (Castel di Sangro (AQ) 1840 - Napoli 1906) fu uno dei maggiori rappresentanti del Verismo di impronta sociale.
Terzo di dieci figli di un’agiata famiglia borghese, completò gli studi classici a Sulmona e, dopo aver studiato filosofia presso l’Università di Napoli, si iscrisse nel 1856 ai corsi di pittura dell’Accademia delle Belle Arti della stessa città, che frequentò con brillanti risultati. Fu influenzato dall’esempio di Filippo Palizzi, impegnato in una ricerca pittorica incentrata sulla piena adesione al “vero”. Importante, fu anche l’amicizia col Cammarano.
Sull’evolversi della sua sensibilità e creatività ebbe un’incidenza determinante l’osservazione del gravissimo degrado economico e sociale causato dalle improvvide leggi postunitarie. Gliene derivarono nuove consapevolezze, che lo fecero procedere a una cronaca intesa a registrare le drammatiche situazioni economiche del proletariato centro-meridionale, consapevole della nascente questione meridionale e del dibattito sul “risorgimento tradito”.
Furono questi i presupposti da cui nacque la sua pittura d’ispirazione sociale: la sua “trilogia” che accompagna / l’eroe della gleba / dal nascere al morire /. La prima di esse, in ordine di tempo, fu “L’erede ” che venne terminata nel 1880 e che l’artista fece figurare all’esposizione nazionale di Milano del 1881, che si inserì in un dibattito economico-politico assai acceso e che diede fama al Patini, anche per le notevoli caratteristiche pittoriche dell’opera. Seguì “Vanga e latte” che fu esposta nel 1884 a Torino, in coincidenza coi primi moti agrari del Veneto. In quella stessa esposizione, il maestro ripropose anche “L’erede”. La terza opera “Bestie da soma” fu presentata all’esposizione nazionale di Venezia del 1887.
Il bambino allattato dalla madre fra i campi in “Vanga e latte” si sarebbe inevitabilmente trasformato nell’uomo condannato a una vita grama e di dolore, come evidenziò ne “L’erede”, in cui l’infante, ignaro della precoce morte del padre, è destinato suo malgrado a ripercorrerne l’ingrata e dolorosa vicenda terrena.
La speranza dell’artista fu quella, che dalla visione delle sue opere, si venisse a creare una coscienza nazionale che portasse ad un cambiamento legislativo e che impedisse uno scandaloso sfruttamento del lavoro.


Piergiorgio Fanti


Avere il male di vivere come inquilino


La sofferenza non è uno scherzo da imparare a memoria, e molti soffrono disimparando che la vita è una e unica e deve essere rispettata anche se sei disperato e non "vivi" più se non ai margini del sociale.
Nella vita c'è chi ha problemi e chi no, chi ha i soldi e chi no, chi ha la salute e chi no. Ma c'è chi soffre le pene dell'inferno per "tirare a campare" (come si dice).
Ma tutti, sotto sotto, per qualcosa soffrono, anche se non lo dicono. Tutti piangono per un bacio mai dato e ridono con l'elisir d'amore.
La sofferenza colpisce come la falce, tutti, indistintamente. Hai voglia di piangere per giorni e poi per anni. Ma la "mala sorte" resta nel tuo buio di depresso o nella tua pazzia di anoressico, per citare due soli casi di dolore.
La sofferenza colpisce, distrugge, ammorba il mondo e umilia il corpo e la mente malati, fino a pensare al suicidio. Solo la "spes" (ultima dea), la speranza salva l'uomo dal suo sterile destino di burattino in mano alla paura.
Anch'io ho per inquilina la sofferenza fisica e psichica, e solo la speranza di guarire, chissà, forse un giorno futuro, mi tira su.
C'è speranza finché c'è amore tra gli uomini e le donne e la terra e la luna e il sole tutti, finché il respiro muove le ossa stanche, finché continueranno a dirsi "ti amo" i fidanzati, e a volersi bene tutti.


Ave


La sofferenza e la speranza


Per chi è cresciuto in una società permeata dal cristianesimo, sofferenza e speranza appaiono indissolubilmente legate: molti sono abituati a legare la speranza della propria definitiva salvezza alle sofferenze e alla morte che Gesù patì sulla croce, per cui l'accettazione delle proprie sofferenze appare in qualche modo inevitabile se non addirittura meritoria. "Il mio è un vero e proprio Calvario" si suol dire, per descrivere i propri malanni, e c'è un certo compiacimento nell'affermarlo.
Ma a ben vedere sofferenza e speranza sono una l'antitesi dell'altra: l'una ci schiaccia sul presente, sul momento che stiamo ora concretamente vivendo, l'altra, da questo presente pretenderebbe di affrancarci, aprendoci squarci verso futuri oggi inesistenti ma, chissà, forse domani possibili.
In un mondo sempre più virtuale il cui valore supremo sembra diventata la "comunicazione", non è forse male che ogni tanto qualche sofferenza ci ricordi la carne da cui siamo costituiti, e che anch'essa ha da "comunicarci" qualcosa di estremamente importante.
C'è chi sembra dire: "Ho questa sofferenza, datemi un cachet, cosicché possa tornare alla mia vera vita", come se la sofferenza ci costituisse meno delle nostre alate costruzioni mentali o dalle nostre complicatissime relazioni interpersonali: dall'una e dalle altre siamo egualmente costituiti, e forse l'una e le altre sono tra loro assai più fortemente interconnesse di quanto non siamo disposti ad ammettere.
La sofferenza ci fa coscienti di essere fatti di carne e di sangue, cosa che talvolta tendiamo a scordare. La sofferenza corre attraverso i nostri muscoli, i nostri nervi e i nostri neuroni, non attraverso la rete globale di Internet.
Ma per chi, come noi, soffre di problemi psichiatrici, che spesso portano con loro anche grandi sofferenze, la sofferenza e la speranza sono talvolta legate tra loro da un rapporto ancor più elementare: tante volte la speranza si riduce al solo augurarsi che la sofferenza abbia termine. Credo che sia difficile per chi non ha mai sofferto di forti depressioni comprendere come a volta per il depresso l'intera giornata non abbia altro fine che osservare lo scorrere troppo lento delle ore, nell'attesa di quei pochi momenti della giornata in cui solitamente, e con discreta puntualità, la depressione allenta la sua ferrea presa, lasciando spazio a un po' di sollievo.
Ricordo che quando mi trovavo in questa situazione, a mio padre che mi domandava come mai in quei momenti in cui stavo meglio non leggessi un libro o facessi qualcosa di utile, un po' vergognandomi, ma con molta sincerità, non potevo che rispondere che dovevo gustare, senza lasciarmi distrarre da nessun'altra attività, ogni singolo attimo di quel breve sollievo, che presto -lo sapevo bene- avrebbe lasciato il posto a una nottata colma d'angoscia.
Potremmo parlare in questo caso di "grado zero" della speranza: tutto quello che speriamo è che la situazione in cui ci troviamo si modifichi in una maniera purchessia, convinti che qualunque modifica ci porterà comunque in una situazione migliore di quella in cui presentemente ci troviamo.
Certo, abitualmente le nostre speranze sono ben più complesse e variegate, ci costruiamo possibili futuri per noi gratificanti, per poter sfuggire all'angustia del presente. Ci auguriamo che accadano cose che ci diano quelle soddisfazioni di cui il presente è avaro.
Ora è indubbio che filosoficamente parlando questo appare un atteggiamento puerile: anziché confrontarci con la realtà, seppure spiacevole, che ci è data, ci rifugiamo in immaginarie, spesso improbabili, situazioni a venire e ci verrebbe da dire, con Michelstaedter: "Che v'importa di vivere se rinunciate alla vita in ogni presente per la cura del possibile?"
Ma poi, con una certa malignità, ci sovviene che chi ha veramente rinunciato alla vita è stato proprio Michelstaedter stesso, che a soli ventitré anni d'età ha posto fine alla propria esistenza, sparandosi un colpo di pistola alla testa.
Come possiamo affermare con certezza che quella fuga dal presente (che è lo sperare) non sia l'unica arma di difesa che un dato individuo in un dato momento sia in grado di mettere in campo per lenire una situazione per lui davvero troppo dolorosa per essere affrontata a viso aperto?
Mi ricordo di un episodio occorsomi tanto tempo fa, anche se in realtà in quel caso più che di "speranza" si trattava di pura fantasticheria, ma credo che il procedimento mentale di compensazione di una realtà insoddisfacente fosse il medesimo che si attiva nello sperare in qualcosa.
Era un periodo in cui le relazioni interpersonali erano per me fonte di sofferenza (eccola ancora la sofferenza!) e in cui avevo anche problemi di insonnia, e per potermi addormentare non trovavo di meglio che immaginare di abitare in una casa sul Qiang-Tang, lo sterminato altopiano nel nord del Tibet, totalmente disabitato (era questa la cosa importante) e notte dopo notte aggiungevo nella mia mente particolari a quell'abitazione, stabilendo l'esatta planimetria della magione, la destinazione dei vari ambienti e persino l'esatta mobilia che l'arredava. E la cosa più incredibile e che lo stratagemma funzionava: mi trovavo così a mio agio in quella casa immaginaria, lontana da ogni sorgente di ansietà, che dopo poco mi addormentavo sereno come un bambino. Che volete, c'è chi per dormire conta le pecore, e chi ammobilia una casa sul tetto del mondo.
E come direbbe Woody Allen: "Basta che funzioni".


Antonio Marco Serra


Tempo verrà…


“Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure vestigia; ma un silenzio nudo e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi”.

Giacomo Leopardi, Cantico del gallo silvestre, in Operette morali, 1824



pagina 1



Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l'aria.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo 1952)



La speranza è una virtù, virtus, una determinazione eroica dell'anima. La più alta forma della speranza è la disperazione vinta.


Georges Bernanos, La libertà perché?, 1953


L.L.


Autoritratto


Mi vedo lì, dietro quel piccolo banco, con gli occhi sgranati, il sorriso un po’ sforzato, il bambolotto nudo tra le braccia, con tutta la faccia sporca e i miei due ciuffetti di capelli legati con un nastrino rosa. Il grembiulino e, in sottofondo, i giocattoli di plastica con il nano di Biancaneve, l’angelo e l’altro nano di Biancaneve…
Mia nonna Nicolina mi guarda dal Paradiso, perché lo so che è lì, ne sono sicura e mi dice che sono stata una brava bambina e sono diventata una brava mamma. Sono riuscita negli studi e, principalmente, l’ho sposato, il mio Paolo che mi ha fatto tanto penare! Lei lo sapeva e me lo diceva sempre, quando eravamo in crisi, appoggiate su quel balcone della finestra della mia camera, con l’odore del tiglio, dovevo solo avere pazienza.
Lei se n’è andata pochi mesi prima che io mi sposassi, ma so che da lassù mi guida e mi protegge. È per merito suo che ho imparato che nella vita la pazienza è sapienza e che quando desideri una cosa con tutto il cuore e lasci che il destino faccia il suo corso, poi riesci ad ottenerla.
Lei mi dice: “Grazie, Cinzia, per avermi ascoltata: continua così!”
Ti amo, nonna, per tutta la vita. Ciao!


Cinzia


Filastrocca


La Speranza si è affacciata alla finestra di casa mia ed ha visto: derisione, dispetti, confusione e dolore, che ti rubano la gioia e il buon umore! Sono detriti di un mondo che va a pezzi, ma più si rompe e più lo disprezzi.
Vorrei che si potesse portare rimedio a questo strano movimento, così che sia felice chi non è contento. È ridicolo pensare che questo avvenga presto, c’è chi lo considera un pretesto per non dover perdere il prestigio, che qualunque esso sia non voglio fare entrare in casa mia!
Se questa società malata non vuol guarire, io son disposta con la Speranza a fare un patto e formular questa richiesta: “ Se ti do un po’ della mia malattia e un po’ del mio dolore, Tu che mi dai in cambio?”
La Speranza senza batter ciglio risponde: “ Mi è rimasto solo un po’ d’amore, questo soltanto posso darti, ma non so se riesco ad accontentarti”.
“Un po’ di amore, hai detto? Con un po’ di amore posso lenire un po’ il mio dolore. Grazie di cuore!”.
“Sono cose che insieme posson stare e difficili da separare”.
“Aspetta, non andartene via: chiudo la finestra, e apro a Te la porta di casa mia!”.


Mariangela


Piccola luce


La piccola luce bianca
nell’immensa oscurità di un occhio
che non ha il coraggio di guardare l’altro
la piccola luce bianca nei tuoi occhi
ha aperto uno spiraglio dentro me
La piccola luce bianca
sta uccidendo una grande paura
come una formica ucciderebbe un uomo
l’ho vista e la rivedo
la sogno e la sento

La piccola luce bianca
ha incendiato i miei capelli
la piccola luce bianca
ha rapito le mie mani
La piccola luce bianca
sta uccidendo una grande paura
come una formica ucciderebbe un uomo
l’ho vista e la rivedo
la sogno e la sento
Chiudo gli occhi e nella notte
una piccola luce bianca
accenderà i miei sogni
accenderà i miei giorni


Angela Finotello
(La canzone è nel CD singolo “Mare Altrove”)




Ormai fa parte di noi


Fin dalle prime volte che l’ho sentita, “Piccola Luce” ha toccato le mie corde più intime. Ancora adesso, ogni volta che l’ascolto, mi emoziona.
Questa “Piccola Luce”, che secondo me non è altro che la SPERANZA, ha aiutato Angela e me ad affrontare delle situazioni molto difficili e dolorose nella nostra adolescenza e giovinezza e, ormai, fa parte di noi.
Insomma, la “Piccola Luce” ha definitivamente “incendiato i nostri capelli” e ha “rapito le nostre mani”!


Roberto Finotello (fratello dell’autrice)


“Il faro” di Stefano Biasco


pagina 1


Dolore e Speranza


Dolore per una perdita, per una troppo pressante presenza.
Dolore per qualcosa che fa male, per qualcosa che non fa più nemmeno male.
Dolore perché sono morto, ma anche perché sono vivo e non so vivere.
Dolore perché sono malato, perché gli altri si ammalano; perché impazzisco, perché attorno a me tutto è diventato folle.
Dolore che diventa ansia e poi angoscia, che fa piangere e disperare.
Dolore che è mancanza.


…“Tagliatemi la lingua
Strappatemi i capelli
Mozzatemi gli arti
Ma lasciatemi l’amore
Preferirei aver perduto le gambe
Che mi avessero strappato via i denti
Cavato gli occhi
Piuttosto che aver perduto l’amore”…
Sarah Kane, da “Tutto il teatro” edizioni Einaudi




Il dolore viene centrato sulla parte del messaggio dato dai neuroni che lo segnalano e lo confermano attraverso il cervello e le vie spinotalamiche e attraverso la corteccia cerebrale. Il dolore non è una cosa piacevole, il dolore può dare angoscia e ansia nel senso della separazione e del lutto: della separazione dall’amore o dalla persona amata e angoscia in caso di perdita della persona cara, che ti ha lasciato: pianto e dolore. La gioia e la speranza possono essere l’opposto del dolore, basta ampliarle nel tuo cuore dando sensazioni piacevoli, ricordandosi che tu eri felice.
Il dolore fisico è differente dal dolore della mente, dovuto alla perdita di una persona cara.
Il dolore si può percepire dallo stato d’animo, ma anche lo si sente dal male allo stomaco, al braccio da una storta al piede o una slogatura oppure quando cadi.
Il dolore non è una cosa piacevole, quando ti mancano gli amici il dolore dell’amicizia lo senti dalla loro mancanza. E rispetto alle persone care, io ho sofferto per tutti quelli che ho perso, il loro abbandono, le lacrime che tu hai versato.

Silvia




Il dolore più forte che ho avuto è stato quello recente della morte di mia mamma. E’ accaduto il 27 Dicembre e il funerale è stato celebrato l’ultimo dell’anno. Il giorno in cui me lo hanno detto davo calci e pugni al divano. Il mio cane è venuto a togliermi il braccio mentre colpivo il divano; poi ho cominciato a prendere fuori le foto più recenti di mia mamma dove sorride. Lei era una persona sempre sorridente e quando la guardo penso che sia ancora viva e sorridente, anche se ogni tanto mi viene la malinconia.

Maya




Io ho il timore e ne provo il dolore che mia madre possa morire da un momento all’altro e spesso sono preoccupato per ciò che le potrebbe accadere.
Nel 2002 è morto mio padre e il funerale è stato straziante, perché io e mia madre stavamo abbracciati nel dolore. E’ sepolto a Livergnano vicino a Pianoro dove è nato nel ’27 e ogni tanto lo vado a trovare.

Oriano




Il mio dolore più forte l’ho avuto quando sono stato ricoverato in manicomio, perché non mi lasciavano uscire. Speravo di uscire al più presto e non tornarci mai più. Il primo ricovero ospedaliero e altri ricoveri li ho fatti perché non volevo prendere la terapia. Mi sono venuti a prendere sotto casa con l’ambulanza e i vigili urbani e poi mi hanno portato in ospedale al Roncati; sono rimasto dentro all’incirca un mese. Il manicomio è una galera e non vedevo l’ora di uscire.

Stefano




Il dolore è una cosa che fa stare molto male, che distrugge. Il dolore che ho passato io poco tempo fa è di una perdita, quella di un fratello di 54 anni. Questo è stato un vero dolore per me e l’ho vissuto piangendo senza dormire e senza mangiare. Ancora non mi sembra vero e sto male. Lavoro e penso a lui. Nei momenti difficili sono molto arrabbiata.
Poi non sono stata neanche al suo funerale perché in quel periodo ero all’ospedale e sapendolo dopo, da altre persone, ho ancora tanta rabbia. Però adesso so che lui mi vede e mi sorride e che mi ha sempre voluto bene, ho ancora il suo sorriso davanti a me.

Luisa




Il dolore per me è l’opposto del piacere. La speranza è quella che ti carica per il futuro. Non avere speranza è la depressione, un dolore psichico.

Dino


Meraviglioso


È vero….credetemi è accaduto….
di notte su di un ponte guardando l'acqua scura… con la dannata voglia
di fare un tuffo giù …..
D'un tratto qualcuno alle mie spalle…
forse un angelo vestito da passante
mi portò via dicendomi, così:
Meraviglioso…. ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia… meraviglioso
Meraviglioso
perfino il tuo dolore… potrà sembrarti poi…
Meraviglioso
Ma guarda intorno a te… che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato il mare!
Tu dici non ho niente…
Ti sembra niente il sole!
La vita…
L'amore…
Meraviglioso…
Il bene di una donna …che ama solo te
Meraviglioso…
La luce di un mattino… l'abbraccio di un amico…
il viso di un bambino
Meraviglioso…
Meraviglioso…
La notte era finita… e ti sentivo ancora
Sapore per la vita….
Meraviglioso….
Meraviglioso….


Domenico Modugno


Ho una speranza


Io ho una speranza certa: che Dio mi ama.


Edoardo


Il dolore è una sentinella sempre all’erta


…Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame e perché non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa. E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere. E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro…


Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, storia di un burattino, cap VI.



Il dolore è una sentinella sempre all’erta: la sua funzione è salvarci da guai peggiori.
Se Pinocchio fosse stato di carne e ossa, avrebbe avvertito il bruciore e avrebbe tolto in fretta i piedi dalle braci ardenti. Gli sarebbe venuta qualche vescica, ma non avrebbe perduto i piedi. Invece i piedi di Pinocchio erano insensibili, essendo di legno, e andarono in cenere, lasciando il loro sventato proprietario in un bel guaio.
Il dolore fisico, dunque, ha una funzione salvifica.
Io penso che anche il dolore che invade la mente ce l’abbia, anche se è più difficile coglierne il messaggio. Forse, così come per combattere i virus ci viene la febbre alta, per metabolizzare il male che incontriamo nel nostro cammino, lutti, sventure, ingiustizie… reagiamo con una specie di febbre interiore, il dolore, e produciamo anticorpi. Così succede che il dolore in qualche modo ci rafforza per le prove successive.
Può essere a volte che, non riuscendo a comprendere quello che non va nella nostra vita, ci avvitiamo su noi stessi senza trovare scampo. Così a qualcuno accade di passare attraverso la malattia mentale, e la bruciatura del dolore può risultare devastante… Ma non è detto che da una crisi non si possa uscire migliori di prima.
Se infine i piedi che bruciano sono “quelli d’un altro”, magari ce ne accorgiamo, ma siamo tentati di tirare dritto. - Questa volta il dolore grida per lui - pensiamo - non per me - Ma al mondo non c’è dolore che non ci riguardi: la carne parla una lingua universale, racconta di un destino dolente e mortale che ci accomuna tutti e ci chiama a raccolta per aiutarci l’un l’altro. Magari uno deve essersi scottato a sua volta perché gli venga spontaneo immedesimarsi, comprendere, soccorrere…
Comunque sia, quando la sentinella del dolore chiama, è sempre meglio prestarle ascolto, anche se apparentemente l’allarme non è per noi.


Lucia


Versione Zen


Pinocchio di legno, essendo tutto bagnato, per timore di perdere tutto il corpo, che si sarebbe “scavicchiato” e scollato, si asciuga davanti al fuoco e si brucia gli arti inferiori: così perde i piedi, ma salva il resto del corpo.


Luigi Zen


Una lettera dal mio dottore…


Il mio medico di base, Giovanni Gatti, è un personaggio un po’ fuori dal comune. Versatile, estroso, pieno di iniziative che lo portano spesso in giro per il mondo, fa però il suo lavoro con dedizione. Bravo e preparato nella medicina tradizionale, non esita a percorrere anche altre strade, come l’agopuntura, l’omeopatia, le tecniche energetiche… Insomma, un approccio a tutto campo, pur di dare aiuto, sollievo, speranza. L’idea che me ne sono fatta in tanti anni è di una persona di grande sensibilità, che si mette nei tuoi panni e non si arrende. A prescindere dalle cure, credo che il suo punto di forza sia l’empatia che si crea fra lui e il paziente. Per me è anche un caro amico. Per questo ho pensato di proporgli di scrivere qualcosa sul nostro argomento: “il dolore e la speranza” , visto con gli occhi di chi se ne occupa da più di trent’anni per professione. Il risultato è questa e-mail…

Lucia




Cara Lucia,
il dolore ha diritto alla speranza.
La speranza è una precisa entità biofisica, il dolore è una precisa entità biochimica, perlomeno quando non è psichico, o forse anche quando lo è.
Cara Lucia, in questa realtà bipolare dove tutto si crea dalla differenza di potenziale e dall'incessante alternarsi di yin e di yang, di più e di meno, di sì e di no, l'intelligenza di noi umani ha inventato spesso realtà separate, ha studiato e costruito grattacieli che analizzano elaborano curano il dolore (e questo è perfetto), ma ha lasciato la speranza nelle sue antiche casupole, spesso di pertinenza di antiche tradizioni o di religioni.
La speranza ha diritto al suo grattacielo. Limitrofo al dolore.
Detto questo non è facile alimentare la speranza quando si è immersi nel dolore.
Pensate solo quando abbiamo mal di testa: tutta la realtà intorno cambia, tutto diventa più difficile, faticoso, quasi insuperabile… ma basta una pillola che magicamente torna il sole. E torna la speranza.
No! dobbiamo allenarci soprattutto quando stiamo bene… dobbiamo allenare il nostro organismo ad aumentare la quantità di energia di scambio con l'ambiente, dobbiamo lavorare sulla nostra energia, soprattutto quando siamo in salute. Perché? Perché la salute decade quando cala l'energia del sistema, il che porta con sé un cambiamento di direzione energetica e un successivo cambiamento biochimico, che la medicina occidentale scopre quando il processo è già ben "concretizzato" e quindi può già apparire agli esami clinici.
Nel caso per esempio di un tumore o di altra patologia è estremamente utile agire con la chimica farmacologica e nel contempo è ugualmente importante e necessario praticare tecniche energetiche (tipo QI GONG) e modificare l'alimentazione secondo le moderne regole nutrizionistiche.
Queste due info vivono nel grattacielo della speranza. E sono concrete. Sono atti che dipendono da noi e sono da iniziare subito e sono "LA CONSAPEVOLEZZA ", necessaria prima per resistere e successivamente per guarire, ripristinando l'armonia la direzione l'energia del nostro sistema bio fisico.
Queste per molti sono solo parole, ma per chi sta lottando quotidianamente per guarire sono fatti concreti, a volte faticosi, a volte considerati inutili, a volte inaspettatamente terapeutici. Ecco: "L'INASPETTATO" nutre la speranza e vive nel grattacielo.
Ma l'inaspettato è stato coltivato ed è il risultato.
Cara Lucia anche un nome come il tuo è speranza, perché porta luce e quindi visione più ampia e consapevole. Dicono che il dolore fa crescere lo spirito: è vero. Ma il troppo dolore no, perché offusca e ti egemonizza. Ed ecco che arriva la "PIETAS", anch'essa abitatrice basculante fra i due vicini grattacieli. E comunque nella natura c'è spesso la risposta giusta, nell'amore, nella compassione (cum patior) c'è la risposta perfetta. L'importante è salire sui grattacieli, alzare le braccia e chiedere, chiedere sempre e ringraziare.
L'inaspettato e spesse volte disatteso… arriverà.
Cara Lucia, baci.


Giovanni Gatti


La terapia del sorriso


Chi non conosce la storia di Patch Adams, il medico americano con il naso da clown che ha trasformato la risata in cura? Dalla sua storia è stato tratto anche un famoso film con Robin Williams.
Dati statistici recenti rilevati in alcuni ospedali pediatrici americani, hanno messo in luce che in pazienti trattati regolarmente con “terapia del sorriso” si ha una drastica riduzione nella somministrazione di anestetici e/o antidolorifici e una diminuzione della degenza ospedaliera del 50%.
Oggi molti volontari anche in Italia svolgono regolarmente questa attività che dona sollievo ai pazienti e alle famiglie.


***


Come diventai Guglielmo Polpetta


(intervista a Edoardo)


Caro Edoardo, ci hai raccontato che fra le tue tante esperienze hai fatto anche quella del clown: come ti è venuto in mente?



Ho deciso di mettermi il naso rosso di Patch Adams, perché volevo far ridere un amico. Il mio amico soffriva molto, perché aveva la spina bifida e ultimamente era costretto a rimanere sempre sdraiato a letto. Dopo aver subito oltre dieci interventi chirurgici, ormai non poteva più stare seduto, aveva il catetere ed era arrivato a rimpiangere la carrozzina, proprio quella che prima aveva disprezzato e odiato. La carrozzina infatti gli aveva consentito una certa autonomia e una vita molto attiva anche nell’associazionismo e nel volontariato e ora invece si trovava immobilizzato. Per questo lui che prima era così coraggioso e combattivo, era caduto in depressione.




E quindi tu hai pensato di trovare un modo per ridargli un po’ di buonumore…



Un giorno una persona che frequentava con me un gruppo di meditazione mi suggerì il corso di clown-terapia . Pensai che potevo provare, perché forse faceva al caso mio. Al corso partecipavano solo ragazze, più giovani e spensierate di me… ma io ho tentato lo stesso e, nonostante fosse molto difficile, sono riuscito a portarlo a termine.




Perché dici che è stato difficile? Non è una cosa divertente?



Per poter far ridere bisogna conoscere bene i propri difetti … i partecipanti si descrivevano a vicenda anche impietosamente per far emergere le caratteristiche più comiche. Ci vuole disinvoltura e autoironia. Una volta ho dovuto girare senza scarpe ed esibire un bel buco nel calzino… Il desiderio di fare il clown mi veniva anche da dolorose esperienze vissute… Le motivazioni profonde erano dolorose. Ho dovuto lavorare molto su me stesso. Anche le ragazze si sono trovate in difficoltà, ma io ho resistito perché ero molto motivato, volevo proprio trovare qualcosa che sollevasse il mio amico.




Lo conoscevi da tempo?



Era una persona a me molto cara. L’ho visto via via peggiorare e soffrire atrocemente. Aveva smesso di bere e io cercavo di andare spesso da lui per fargli mandar giù un po’ d’acqua. Sapevo che era molto importante per lui bere. Il mio amico non si svegliava mai, dovevo andare io a svegliarlo. Facevo per lui tante piccole cose, ma speravo che diventare clown mi desse un mezzo in più per farlo sorridere. Così ho scoperto un talento nascosto che ho esercitato per pochi attimi, ma che mi ha riempito di gioia. era come una goccia di speranza in un oceano di dolore.




Come ha reagito il tuo amico a questa iniziativa?



All’inizio è stato un successo: io portavo un campanellino che serviva per svegliarlo quando era ora di bere e lui aprendo gli occhi mi vedeva con il naso rosso e il cappello con la piuma. Lui comprendeva il mio sforzo e per gratitudine si sforzava di accontentarmi. Purtroppo però era difficile per me trovare altre idee divertenti. Io non ho molte risorse, non so fare giochi di destrezza… Fare il clown da soli, poi, non è facile: ci vorrebbe qualcuno che fa da spalla. Così dopo un po’ l’effetto magico si affievolì.




Hai fatto la parte del clown anche per altre persone?



Dopo la morte del mio amico non ne ho avuto l’occasione. Però ricordo con piacere l’esperienza fatta con i bambini di una scuola. Era una specie di “tirocinio” che abbiamo fatto alla fine del corso. Bastava indossare il naso rosso e il cappello con la piuma perché i bambini mi coprissero di attenzione. La cosa straordinaria è la rapidità con cui si instaura un rapporto di confidenza. I bambini mi hanno raccontato storie personalissime, anche tristi. Anche i bimbi sani hanno tanti problemi… Erano così disposti a parlare che mi hanno messo in imbarazzo con la schiettezza che mi dimostravano. Mi sono sentito come un elefantone in mezzo a vasi di cristallo.
Un’altra volta, con persone adulte, mi è capitato di non essere apprezzato: ero in parrocchia e il prete mi ha chiesto di fare un po’ di scena col naso rosso… c’era però qualcuno che brontolava, dicendo che non era il tempo e il luogo adatto per quelle sciocchezze e mi sono sentito a disagio.




Hai detto che hai anche un nome d’arte…



Sì, è “Guglielmo Polpetta”.




Come ti è venuto in mente?



Il nome “Guglielmo” me lo ha dato uno dei bambini. “Polpetta” è un’espressione bolognese per dire un furbino, uno che fa scherzetti, me lo hanno affibbiato e mi è piaciuto molto… e piace molto anche al mio nipotino. Il naso rosso è come una magia: trasforma in un istante un uomo normale in Guglielmo Polpetta…
A proposito: il naso rosso è un punto che mi accomuna al mio amico Luigi… infatti, vedete qui, questa è la copertina di un suo bel libro, disegnata da lui.




pagina 1


La quiete dopo la tempesta


non so chi di voi l'ha conosciuta
so che per me è stato importante incontrarLa; presenza complessa, faticosa, leggermente ingombrante.
ha significato per me, come credo per molti, continuare a rimettersi in discussione SEMPRE… non lasciava mai tranquilli, come non lo era lei! ha significato stravolgere tutte le procedure perché non si adeguava mai a nulla, forse non si sentiva… adeguata! ricordo i primi anni al Beltrame… liti continue, botte, urla… poi pianti, abbracci, dolci sguardi.

"quiete dopo la tempesta"



bellezza incompresa



ruvida dolcezza



rauco alito di vento



che tristezza oggi



mi sono legato, in questi anni di lavoro, a tante persone; tanti ospiti mi hanno rapito e rubato angoli di cuore, spicchi di anima, rivoli di mente.
Marzia è entrata dentro, non poteva essere altrimenti. forse perché in fondo mi sentivo così… vicino alle sue follie, al suo provocatorio modo di chiedere aiuto al suo strano modo di dimostrare affetto.



strano… il suo modo



ora solo un po' di amarezza perché avevo ancora tante cose da chiederle…
così un'altra stella da oggi mi accompagnerà in questo faticoso ma splendido cammino
Grazie di essermi stata così vicina amica MARZIA
ti lascio con una canzone che forse un po'… ti farebbe ridere


Lucio S.


Jenny è pazza


Jenny non vuol più parlare
non vuol più giocare
vorrebbe soltanto dormire
Jenny non vuol più capire
sbadiglia soltanto
non vuol più nemmeno mangiare
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire…

Jenny ha lasciato la gente
a guardarsi stupita
a cercar di capir cosa
Jenny non sente più niente
non sente le voci che il vento le porta
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire…

Io che l'ho vista piangere
di gioia e ridere
che più di lei la vita
credo mai nessuno amò
io non vi credo
lasciatela stare
voi non potete

Jenny non può più restare
portatela via
rovina il morale alla gente
Jenny sta bene
è lontano… la curano
forse potrà anche guarire un giorno
Jenny è pazza
c'è chi dice anche questo…

Jenny ha pagato per tutti
ha pagato per noi
che restiamo a guardarla ora
Jenny è soltanto un ricordo
qualcosa di amaro da spingere giù in fondo
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire…


Vasco Rossi


L’hanno portata via… non amo più


Dove..
Dov'è
Dioooo
Dov'è…
La mia creatura dov'è
L'hanno portata via.
L'hanno portata viaaa
Cani, animali, vigliacchi
Mia figlia.
Mia figlia.
Mia
Mia
Mia
State lontani.
Noooo. Non toccatemi.
Mia figliaaaa
L'hanno portata via.
Dove mi portate
Dove mi portateeee
----------------
Non amo.
Non amo nessuno
fino in fondo,
fino all'anima,
fin nel profondo.
Han tutti l'oscuro,
quell'ombra silenziosa,
quel nero che copre ogni senso.
Non amo più la superficialità,
quell'insieme formale,
quel formale oggettivo,
quell'oggettivo uniforme.
Sazia di tutto
non amo più
aspetto il momento
per staccare la spina al mio cuore
che lentamente vegeta.
Non assaporo più
fragranze di essenze
d'amore.
Non amo più.


Marcella Colaci


Piangi sa vuoi


Corri corri veloce
più veloce del tuo sguardo
più veloce delle tue lacrime.
Sorridi e piangi
ascolta il tuo cuore.
Sto ascoltando il tuo respiro affannoso
il battito del tuo cuore
piangi per la morte del tuo amico
piangi pensando ai momenti passati assieme
per il suo ricordo che rimane impresso
nella tua mente.
Il dolore consuma la tua anima,
liberati dal dolore,
piangi, piangi, sfogati, liberati dalla tristezza.
Guarda la luna, guarda le stelle splendono e
sono bagnate dalle tue lacrime.
Il vostro legame non è finito,
il tuo amico ti protegge dall’alto,
un giorno vi troverete assieme
a correre nei prati e le tue lacrime
saranno solo un triste ricordo…
I tuoi occhi risplendono al buio
la sua mancanza si sente,
ma tu continua a correre
fallo per lui,
vai avanti;
il viso rigato da lacrime,
lo sguardo basso e distante,
il tremare delle tue mani,
il vento che ti muove i capelli,
tutto questo dovuto alla sua morte
vi volevate proprio bene voi due,
che il suo ricordo possa rimanere
impresso indelebile in te.
Solo il tempo può rimarginare il dolore
solo una grande amicizia
poteva renderti così affezionato,
non dimenticarlo mai,
che possa sempre rimanere
uno spazio in te
per tutto quello che ti ha dato,
per l’affetto venuto a mancare.
Un sorriso malinconico pervade il tuo volto
e un pianto sommesso la tua anima
piangi, piangi per lui.


Loopa Sonivree


La speranza


Aprivo gli occhi ma non
capivo,
forse sognavo mentre
dormivo,
sulla terra non c’era né odio né guerre
né malattie,
neanche saccheggi e razzie.
No, non ero diventato scemo,
è la Speranza che non viene Mai meno.


Lucio Polazzi


Ma il pensiero risale


Si sprofonda (talvolta)
la fine a toccare
poi il pensiero
con affanno risale la china
disperatamente
in cerca di segni
di segni.


Piergiorgio Fanti (dalla raccolta “ Tardorosa”)




Nascita


È rinata al calore
nel suolo morbido
del grembo la vita

Il tempo al dolore
con tenero soffio
ha riaperto il nirvana

E il nuovo
tepido chiaro
profumo di maggio

Raccoglie
l’abbaglio del sole
s’è luce
e il vento di vita
e di morte.


Piergiorgio Fanti (dalla raccolta “ Cristallo di rocca”)


Dolore


Vorrei dirle addio
ma io addio
dir non so.
Avrei voluto amarla
ma lei amor di me ancor non può.
Avrei voluto
poterle dire ti amo ma io amar non so.


Paola Scatola




Speranza


Babba
muore così, oggi,
all'età di 44 anni:
bella, bella, bellissimamente bella.
Sei tu che volevo,
sì, proprio tu, dallo sguardo di bambino:
e se fossi tu e se fossi proprio tu
la lontananza,
la suggestione di rivederti,
la voglia di un nuovo incontro.
La mia Babba è ora tra le mie braccia,
è qui.


Paola Scatola




Dolore e speranza


Se potessi il mio dolore ti
cadrebbe addosso e come se
si chiudesse in una stanza
vorrei se potessi ai suoi
occhi sulla mia pelle dirgli addio
dolor della non curanza d'amarti
d'averti avuto vicino
per sempre con me,
toglierti dal sonno e portarti alla luce
delle sue mani per chiederle
"Aiutami!"


Paola Scatola


Speranza


C’è un astro lassù nel ciel
che più non brilla
perché una vita in terra
se ne è andata e più non è tornata.
È un lembo del mio cuor
che mi han strappato
e soltanto mi è rimasto
l’amor che Ei mi avea donato.
Ma ciò non basta a confortarmi dentro
perché a te continuamente penso.
Ti cerco fuori, nelle strade, nelle piazze, nei giardini,
ovunque vedo i tuoi capelli neri lunghi e ricci
ma non ti trovo.
Stupida che sono,
ti cerco fuori e non mi accorgo
che nel mio cuor sei dentro e più di prima,
solo che i battiti del cuor non puoi udire
perché soltanto ti è concesso di dormire.
Un giorno o l’altro di rivederti spero
dove, come, e quando non lo so
ma son sicura che ti rivedrò.




Voglia di vivere


Da vortice profondo inghiottita era l’anima mia
e tristezza e solitudine eran mia compagnia.
Poi sei arrivata tu, voglia di vivere,
il tuo forte braccio mi hai teso,
ma il mio era troppo debole:
le mie fragili dita sono scivolate via dalle tue.
Turbini e tempeste sono sopraggiunte
e l’animo mio hanno infranto,
così che angoscia, dolore e perfino rimpianto
solo mi restavano accanto.
Ancora la vita mi offriva il suo dolce sapore,
ma nemmeno l’odore ne volevo sentire.
Chi sono io, anima inquieta e nullità perenne,
che qualcuno si degni di salvarmi la pelle?
Ma …forse soltanto di cangiar la mia sorte in morte!
Eppur di sete arde la mia gola,
tanta, che nemmen l’immenso mare può estinguerla.
Passano giorni, anni e nulla cambia
e l’anima mia non si ristora.
Non sia eterna questa mia sorte,
perché la sete mia arde più forte.
Potrà mai qualcuno a me pensare,
perché qualcosa possa migliorare?
Dove sei finita voglia di vivere, dove ti nascondi?
Rivelami il tuo nascondiglio finché io possa ritrovarti!
Ecco…c’è un’altra aurora che ritorna…
Ma questa volta, tu, voglia di vivere,
mille braccia mi tendi, non uno solo,
perché in qualche modo io mi consoli.


Mariangela


Ombre amate


Ascolto il pulsare
di ogni parola
visto che in esse
la mente converte il cuore.
Il mio essere donna
…diverso da te
è saturo di parole
eppur le sole
che sappiano
amare.
A volte spengo l’interruttore
per captare l’ombra
ed il silenzio complice
risveglia l’occhio.
Poi la luce
fra gli echi di uomini
trafitti e depressi
fieri e seri
dolorosi d’amore.
Alla sera al calar
spengo anche l’ombra
ma di loro resta
l’anima amata
di solitarie confidenze.
Cosa siamo
se non anime perse
ombre disgiunte
voci cadenti
in cerca d’amore!
Le note dell’umore
abbracciano i contorni
del giorno
palpitano fino al cervello
scendono fino al cuore
e sotterro amarezza di ieri
e poi vivo l’oggi paziente
di ombre amate.


Marcella Colaci


Cartolina da Piazza Maggiore


Un giorno un amico mi ha mostrato, molto rattristato, la piazza principale della nostra città, piazza Maggiore, circondata da transenne. Perfino la chiesa, monumento del centro prezioso e antico, era resa inaccessibile, nascosta dietro barricate metalliche deturpanti la bellezza di quel luogo. Era la nostra piazza: quella degli incontri, quella dove i bimbi nutrivano i piccioni con le mani piene di granturco, quella dove si guardava sempre verso qualcosa di concreto, dove le persone si radunavano per imparare, scegliere, riflettere, litigare, discutere, giocare.
In quel momento, invece, anche i piccioni sembravano scomparsi, forse migrati lontano. Rimanevano le pietre possenti ma inermi, che non potevano far altro che acconsentire alla sonnolenza di una città ammutolita, dove le persone sole, chiuse nei loro pensieri, camminavano con noncuranza, gli occhi fissi a terra. La città aveva paura, non sapeva più cosa pensare, verso dove rivolgere lo sguardo.
Eppure proprio lì in quel centro, di generazione in generazione, gli incontri si erano succeduti, perfino Dante, sommo poeta, aveva visitato quel luogo, poi anziani raccolti in crocchi si erano impegnati in lunghe discussioni di partito, urla giovani e arrabbiate avevano sfondato il brusio dell’ingiustizia, si erano uditi cori sacri e profani, una volta si era visto perfino un Papa salutare la folla festante dai gradini della chiesa. E poi mani alzate a chiedere rispetto per i diritti di tutti, baci soffusi di tenerezze, sguardi rapiti da certi cieli così blu da fare dimenticare i più bei dipinti, biciclette bizzarre appena comprate dal rigattiere, e poi studenti d’ogni città e paese, e infine bambini. Quanti bambini avevano imparato a camminare su quelle pietre con gli occhi rivolti al cielo e le braccia tese verso il traguardo tangibile di un abbraccio che i genitori offrivano ogni volta ricolmo di affetto e di sorrisi.
Mi guardai intorno e scorsi le inferriate. La piazza era recintata e con lei la città, rimasta rinchiusa dentro la paura e l’indifferenza, non trovava la forza di rinascere, di ricominciare a riappropriarsi degli spazi che le erano concessi dalla storia.
Attraversai quel luogo con un senso di sconfitta e un vento freddo alzò l’angolo del mio cappotto. Mi rimase impresso lo sguardo del mio amico che, con rammarico, si trasferì in un’altra città. Ero triste.
Qualche mese dopo, però, un giorno come tanti, mentre passeggiavo in centro mi ritrovai in quella piazza e mi accorsi, con gioia, che le transenne non c’erano più. La piazza era di nuovo libera quel giorno e un vento fresco aveva preso a soffiare, lo sentii sul viso come una carezza. Pensai subito che dovevo raccontare al mio amico di quella piccola liberazione. Doveva sapere che forse non era tutto perduto, un flusso ininterrotto di desideri di libertà aveva aperto un varco nel cuore della città. Gli scrissi. Non so di preciso cosa provò, ma mi piace credere che gli piacque questa notizia. Si tratta, infatti, di una notizia minuscola, grande come una gemma primaverile, una di quelle notizie che non si adattano ai giornali, una notizia che, invece, viaggia con un passaparola a cui partecipa soltanto chi ama quel luogo con cuore sincero. Nel trascorrere dei giorni, nei pressi delle costruzioni di una piazza antica si nascondono le voci che, liberate come sbuffi di cielo, con tono appassionato ma lievi come sussurri, continuano a diffondere le notizie importanti per i cuori che le cercano, cuori che amano le persone e che, con tenace speranza, esigono uno scatto di coraggio, un pensiero d’attenzione e di cura per la vita.


Costanza Tuor


La famiglia Albani e le sue difficoltà


Il silenzio



Era il tramonto, Ersilia e Duilio erano fermi nei pressi della loro casa. Mucchi di neve giacevano in terra. Ersilia aveva con sé due fiaschi di vino, che avevano consumato quella sera a cena. Duilio aveva rinunziato quel giorno a un lavoro di una certa importanza. Erano lì, vicini, senza dirsi una parola. Dopo trent’anni di vita in comune, ormai si capivano al volo anche senza dirsi una parola. Era un bene immenso quello che li accomunava. Avevano condiviso momenti belli e meno belli, forse anche tragici, ma erano riusciti sempre a superarli.
Ora erano ammutoliti. Le ore passavano inesorabilmente, la notte si avvicinava, i loro figli erano in casa, intenti alle faccende domestiche. Ormai era risaputo, facevano da genitori ai propri genitori. Giulio e Michela erano sereni, sapevano che il loro destino era difficile, segnato da molte difficoltà, ma non si scoraggiavano. Andavano avanti, malgrado tutto, malgrado il lavoro, precario ma impegnativo.
La notte si avvicinava. Ersilia ruppe il silenzio e si rivolse dolcemente a Duilio, si avvicinò a lui e lo accarezzò. Bastò quel gesto semplice ad accomunarli, a farli sentire vicini, a rasserenarli. Di lì a poco sarebbero rientrati in casa. Pronti ad affrontare un’altra notte, un’altra alba, ed anche un’altra giornata con tutte le sue incognite.
La famiglia Albani avrebbe superato anche questo momento difficile che li avrebbe rafforzati. Ribadiamolo, era questo il vero valore della famiglia.

Il sogno

Ersilia quella notte aveva fatto un sogno strano: le era apparsa una donna bella e maestosa,vestita di bianco, che la chiamava e le diceva: “Tra tre giorni tu raggiungerai la fertile Stia”, terreno a lei caro, dove aveva coltivato fiori e piante di ogni genere.
Duilio, suo marito, aveva finalmente trovato lavoro e i suoi figli vivevano una vita tranquilla. La donna aveva fatto molti sacrifici per la sua famiglia, ora i giorni scorrevano tranquilli, poteva darsi pace.
Il sogno di tanto in tanto le tornava in mente, aveva perciò deciso di raggiungere Stia, podere non lontano dalla sua casa. Quel giorno con le sue sementi sarebbe partita per coltivare rose, tulipani, garofani e altri fiori: le piaceva molto questa attività.
Di tanto in tanto pensava a Duilio, alla sua fatica per trovare un’occupazione. Per molti mesi si era dato da fare, aveva fatto molti colloqui ed ora lavorava in una falegnameria. Gli piaceva molto segare, piallare, creare oggetti di ogni genere. L’uomo aveva ormai una certa età e fra poco avrebbe abbandonato il lavoro, con un certo rimpianto. Ersilia e Duilio erano una coppia ormai rodata, avevano attraversato periodi scuri, ma ne erano usciti sempre con una certa soddisfazione.
Molte albe e molti tramonti si sarebbero susseguiti, ma la famiglia Albani poteva vivere i giorni che rimanevano con serenità e pace. La gente del vicinato li ammirava per il loro coraggio e la loro forza.
Da quel momento in avanti la loro vita avrebbe preso un andamento tranquillo, sarebbero diventati un simbolo per la comunità in cui vivevano. Sarebbero stati di esempio agli altri, potevano dirsi soddisfatti e vincenti.

La guarigione

Ersilia era occupata nelle faccende domestiche. Era una giornata tranquilla di settembre. La donna sognava sempre: le notti erano per lei il momento più bello. Le tornò in mente una frase che le era rimasta impressa, diceva, più o meno: “Qui gli balzò incontro il figlio del re Pilemene”. Era uno strano messaggio che la inquietava, molta angoscia la opprimeva, la attanagliava. La sua vita fino a quel momento era stata tranquilla, ma ora forse non sarebbe stato più così…
Le sue giornate erano intense, il giardinaggio era la sua occupazione principale. Duilio, suo marito, era molto occupato, finalmente aveva trovato lavoro e tornava a casa stanco, ma per lei era veramente il compagno della sua vita. I figli erano soddisfatti e orgogliosi, la famiglia Albani era veramente un simbolo per la comunità. Chi era il figlio del re Pilemene? La donnase lo chiedeva incessantemente durante il giorno. Molti personaggi popolavano i suoi sogni, le notti erano per lei il momento più bello, come abbiamo già accennato all’inizio… Da quel momento in avanti forse qualcosa sarebbe cambiato in negativo, avrebbe dovuto difendersi, ma da che cosa?
Forse dal suo immaginario, dalla sua fantasia, dalla sua malattia che l’aveva oppressa per tanti anni, che aveva curato con tenacia e pazienza. Ricordava con amarezza e angoscia i ricoveri che aveva dovuto subire, le cure, a volte massacranti, a cui era stata sottoposta. Ora poteva dirsi finalmente guarita, ma non si dava pace: che cosa avrebbe fatto da quel momento in avanti? Era un’incognita che la inquietava. Ma aveva fiducia nel domani, aveva molta forza, non si sarebbe mai rassegnata al dolore e alla malattia. La comunità in cui viveva la stimava ed era forse la sua forza. Qualcosa sarebbe cambiato, finalmente, in positivo.


Chiara Reitani


La storia, la rinascita e
la resurrezione di Concettina


Chi scrive è uscita dal tunnel ed ha rivisto la luce, perciò capisce bene chi è ancora al buio, non intravede, non ha trovato nessuna lucina e spesso, non rassegnandosi a quello stato, perde la speranza e cerca delle scappatoie: alcool, droghe, discoteche a gogò, sballi vari, corse sfrenate nella notte (le morti del sabato sera sono numerosissime), suicidio…
Ora io penso che “chi vive sperando muore cantando”, ma c’è anche la versione: “chi vive sperando muore… cacando”! Dal dolore bisogna uscire soprattutto quando il dolore è immenso, infinito, senza speranza.
La mamma di una mia amica ha provato due volte a suicidarsi perché “non ne poteva più”, si era stancata di soffrire e “di far tribolare” i propri cari. Per due volte è finita all’Ottonello ed ancora “vive”, davanti ai familiari che aspettano… che cosa? la sua morte… A che serve tanta sofferenza? Io sono credente e non penso che Dio voglia la sofferenza delle sue creature.
Non credo nemmeno alla “cagata”: “Tu partorirai con dolore!”. Io sono single e non ho mai avuto figli, ma ho avuto diverse amiche che, dopo aver partorito, mi hanno raccontato le “gioie del parto”. Mi è stato detto che è “un male che si dimentica” , ma mi sono state fatte delle ricostruzioni terribili. Quando mia sorella ha avuto il primo figlio con parto cesareo, mi disse: “se rimani qui un po’ ti passano tutte le voglie di avere un figlio”. C’erano donne che uscivano “sbragate”, altre che uscivano dalla sala parto simili a cadaveri, con emorroidi, suture varie eccetera. Una mia amica per due o tre mesi non ha potuto sedersi sul water per via dei punti un’altra ne ha avuti trentatré fra interni ed esterni. Un’altra mia amica, che ha avuto Francesco, un pelino robusto (5.300 kg!), urlava al marito: “Alberto, tiramelo fuori, non ne posso più!”…
Anni fa, mentre ero in un centro termale, ho fatto una magnifica terapia in acqua “warm”, quasi sconosciuta in Italia, che serve per mille cose (aiuta nei traumi, rilassa al punto da farti sentire in paradiso, può servire per avere un parto indolore, che mi risulta facciano nell’ospedale di Bentivoglio (Bologna) a posti limitati.
Veniamo ai problemi legati alla depressione e ai relativi farmaci. Io ho un problema di depressione bipolare, sono seguita da undici anni da un CSM: anni di momenti di euforia che si alternavano a momenti di tristezza. Dopo vari tentativi di suicidio -ho anche tentato di buttarmi giù dalla finestra del mio bagno (abito al terzo piano)- vari ricoveri, ora sto finalmente bene. Prendo ormai pochissimi farmaci, si è rimesso in moto il metabolismo che si era come bloccato, fino al punto di portarmi a centoventun chili (oggi ne peso ottantacinque).
Va detto che io ho fatto due periodi di psicoterapia individuale a pagamento: un anno e mezzo con un freudiano (una volta alla settimana) e circa due anni con una rogersiana.
Con i soli farmaci non sarei mai guarita. Ecco perché nei CSM e nei vari SPDC dovrebbero esserci psicologi e psicoterapeuti, perché è fondamentale che ciò che si ha dentro si butti fuori. Anni fa uno psichiatra a una mia amica disse: “I rospi che buttiamo giù, o fanno ingrassare - ed io ero anche ingrassata - o fanno avvelenare” - ed io ero tutta un blocco.
Essendo seguita da circa dodici anni da una nutrizionista biologa e dietologa, per il mio problema di obesità e intolleranze alimentari, ho iniziato a bere il magico e prezioso tè verde dalle mille proprietà. Prima ne bevevo una tazza a colazione, ora ne faccio un litro al giorno e… “più lo mandi giù e più ti tira su” (come recitava la pubblicità della miscela Lavazza). Il tè verde è depurativo, antiossidante. La mia nutrizionista Valeria dice che lei da due anni sostiene l’utilità del tè verde, ma… nessuno le crede… Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e non c’è peggior tonto di chi non vuol capire! Ora io bevo tè verde, lo regalo, lo porto ai miei gruppi, lo offro a tutte le persone che vengono a trovarmi ed insieme ad acqua naturale e succhi di frutta, io bevo circa un litro e mezzo di liquido al giorno, sto benissimo, faccio tanta pipì e i miei reni funzionano alla grande.
Alla morte della mia mamma – nel 1992 – io che avevo ventotto anni , entrai in un percorso di disperazione totale. In quel periodo studiavo per l’abilitazione all’insegnamento, insegnavo lettere come precaria e… piangevo. Soffrivo perché non l’avevo salutata, perché non le avevo telefonato, perché non ero tornata a casa da lei (ero via per lavoro e le avevo detto che forse sarei tornata a casa per un giorno). Ma la cosa più straziante era pensare che era finita sotto due metri di terra e basta. A questa cosa proprio non mi rassegnavo.
In quel periodo “io davo i numeri”. Purtroppo ho buttato le agende di quegli anni, ma so che “davo e scrivevo numeri all’impazzata”. Ora credo che – se non avessi buttato fuori scrivendo tutta quella disperazione – io sarei impazzita del tutto.
Ma io… ho avuto una sana, positiva e costante educazione cattolica, religiosa, e soprattutto cristiana. I miei familiari (quelli credenti, è ovvio) erano religiosi, ma non bigotti (che tengo alla larga più dei senza Dio) ed io avevo frequentato regolarmente la chiesa fino a sedici anni e mezzo. In seguito ad un trasferimento di casa e di quartiere, io – che non mi trovavo per niente bene nella nuova parrocchia – avevo mollato tutto. Mia madre urlava: “Se penso che cantavi in chiesa! Ora sei diventata una bestia”… Ed io : “Vacci tu, in chiesa, che non ci vai mai!”
Ma io, nel 1999, ho iniziato a cantare nel coro di San Petronio. Cantavamo musica sacra, tutta in latino ed io –ascoltando gli altri cantare e poi cantando con loro – ho cominciato ad avere la pelle d’oca e a sentire strani rimescolii all’interno del mio “corpicino”. Il 25 maggio 1999, giorno della Pentecoste, nella locandina rosa del mio coro io scrivevo: “Tina Gualandi, cantore del Signore e della Signora (e di tutti gli altri)”.
Dopo i miei anni di depressione, il coro e il canto erano stati messi da parte, ma ora ho ripreso a cantare, ad ascoltare le cassette che avevo registrato durante le prove del coro, ad ascoltare il CD che comprende vari brani di vari concerti, tra cui il ”Dies Irae”, il “Credo” e il “Propitio numini” e… ho capito che: io credo, quindi so che c’è un Dio, una Madonna che vigila su tutti noi, un Gesù che è morto per noi sulla croce ma poi è resuscitato e quindi la mia meravigliosa mamma insieme al mio babbo, morto cinque anni dopo, sono lassù in cielo, ci guardano e ci proteggono dall’alto, pregano per la nostra salute e felicità.
In questi ultimi giorni - facendo finalmente le pulizie di Pasqua all’interno della mia casa - in una scatolina dentro una scatolona ho trovato i bigliettini che parenti ed amici avevano mandato ai miei genitori per il loro matrimonio e mi sono resa conto che i miei genitori non si erano sposati solo perché mia mamma era rimasta incinta di mia sorella (e per questo era finita in manicomio tre mesi a Imola), ma perché si amavano. Purtroppo però la loro vita era stata difficile e li aveva allontanati, ma quando sono nata io, le cose credo andassero molto meglio, perché intanto io ricordo gli anni della mia infanzia molto positivi (adorata e benvoluta da tutti, soprattutto dai miei genitori) e ho anche capito perché sono stata battezzata: “Concettina”. Mia mamma – molto religiosa - rimanendo incinta fuori dal matrimonio, temeva di “aver peccato” e l’avevano, eccome, fatta sentire in peccato (ecco perché il manicomio… E lei, che quando andavamo a trovare una zia in manicomio dopo un esaurimento nervoso, durante la guerra, mi diceva tenendomi per mano: “Non aver paura. Non ti fanno niente. Non sono cattivi.”).
Ma io ero nata all’interno del matrimonio, figlia di due genitori che si sono amati, anche se molto diversi tra loro.
Io ho ritrovato le mie radici, sono uscita dal tunnel, ho rivisto la luce, riprenderò a cantare e condividerò la mia gioia di vivere e la mia voglia di amare con gli altri, perché una vera e totale gioia non si può tenere solo per sé. Perché dividendola con gli altri, si moltiplica all’infinito.


Tina


Dolore e speranza


Se ti chiamo con il tuo nome, cosa rispondi al tuo delirio, di infrangere cose dette mai, cose spese a te, chiamate mai inviate al ricevente di una casa nascosta sulle montagne; di roccia in roccia, di gabbione in gabbione, se m’ibrido di te qual male odora e respira la sabbia dei ricordi, senza un nome, senza respiro, correndo dietro ad un dolore, correndo dietro a: m’accompagna la mano all’altare di una giubba rossa, che condisci di azzurro, di ignoti racconti che sussultano ai gradimenti di un celere viaggio in Italia, dove mi condusse una madre assopita e stanca del calore di una rosa rosa, ormai sbiadita, secca ed aspra diviene ormai anche sulla tomba di chissà quale sacerdozio evocare una gomita suora, funesto nel letto di un uomo che dorme, appaia che dorme.
Ma sei tu che corri dinnanzi a me, tu che danzi su una strada alberata, con i cipressi che piombano giù da una colata d’amore, l’onore funge ad un Dio ribelle, ma sta nelle sue mani ed il male ed il bene di tutto il mondo, di chi sei, di chi sarai mai, se non di un comando inoltrato a ponente, di una lettera speculata ad un indirizzo anonimo, che chiama a te le cose, le esuberanze, i dinieghi più impossibili, ma se cosa fosse l’amore se non che il vizio di un secondo, se non che la penombra di un riflesso di sole, di fiori d’arancio che un giorno io ti chiesi in prestito per raccontare la classe terza A, dove il cammino era disteso, dove i tuoi passi rabbrividivano al cielo per un gioco insufficiente e maldestro di chi sedeva al tuo fianco, ma se per inerzia o velluti di guanto nessuno t’ha mai difesa io ghiaccio il tuo bel vedere e lo rimprovero ad un dolore coatto: quello d’esser mia, d’amarti per sempre.
Io l’idiota del villaggio, tu l’imbecille del Paese costruisce l’emblema posto sul tuo braccio, che adorna il giardino dei beati e l’incredulità di un Dio avverso ed incostante: perché il fiele sia il dolore e la zigonia sembri un colore qualcuno giunse quaggiù e apparve la cancellata dei tuoi limiti, dei tuoi naufragi su di me e composi strofe, su quel carcere di menzogne che piansi in ignote membra dipinte d’azzurro per poi cadere in bisticci di dolori incurabili, di te speranza indissolubile di guarirvi dentro, di dire a te per sempre sì, di dirti ancora che amo anch’io, come soffre Dio, che muoio anch’io come riposa un bimbo che non trova noia, tra le braccia di una mamma che soffre di indubbie codardie anche su di sé, ma che non viola l’inosservatezza delle tue, delle sue, delle lacrime anche tue. Ma forse il dolore calma i singhiozzi della cenere di quel male che riprese le unghie di un assassinio: fu un cuore a morire, non un amore, fu il cielo a stordirmi il reato di bomboniere in gemme di quel fiore, in fiore. Quando le sue mani mi toccarono non conosco più il dolore e quanta speranza.


Paola Scatola


Testimonianze del Gruppo di ArteInsieme



Ce l’ho con il mondo intero, ma…


Nella mia vita ho provato tantissimi dolori, sin dall’infanzia a partire dalla mancanza di affetto da parte dei miei genitori fino ad arrivare a tutti gli altri. Nel 2000 ce ne fu uno che non dimenticherò mai perché mi portò ad ammalarmi psicologicamente.
Ricordo che quell’anno andavo a scuola guida e qualche volta stavo male, perché il mio istruttore quando non mi vedeva concentrata mi sgridava. Io ci passavo sopra perché sapevo che era per il mio bene. Col tempo riuscii piano piano a migliorare ma ancora non lo avevo soddisfatto, perché qualche volta non ricordavo le cose che dovevo fare. Così lui chiese a mia madre se poteva essere più duro e da lì venne il problema. Io feci presente a mia madre che ciò mi avrebbe fortemente turbato, ma a lei non importò niente e con noncuranza disse all’istruttore:”Faccia pure, faccia pure!”. Così ricordo che un giorno mentre ero al volante, lui mi disse di voltare a sinistra, ma io non riuscivo a vedere la strada. Lui volle provare a farmene fare un’altra, ma anche questa volta non la vidi. Ragazzi, non vi dico cosa capitò! Furibondo il mio istruttore cominciò ad urlare talmente forte che io rimasi incollata al volante. Così per tutto il giorno mi maltrattò con modi bruschi e quella che io ricordo come una frase orrenda. Mi disse: “Se non ti dico io di fare una cosa, tu non fai nulla”!
Arrivata a casa scesi dalla macchina senza parole e con i muscoli rigidi dallo spavento. Mi trovai da sola nella mia stanza con il mio amico immaginario che mi chiese: “Com’è andata la guida?”. Non potete immaginare la mia reazione. Mi buttai sul divano piangendo e urlando come una pazza a causa del forte trauma e dell’incomprensione della mia famiglia. Per mezz’ora urlai in presenza della mia famiglia che si preoccupò soltanto che la gente fuori potesse sentire e parlare male. Non si preoccuparono di me che ero messa da cani. Arrivarono le 20.30 e stavo ancora piangendo forte, anche a causa dell’indifferenza della mia famiglia, ancora orgogliosa del gesto che avevo fatto di spingere l’istruttore ad essere una “belva”.
Così da quel giorno persi l’autostima, cominciai a sentirmi inutile e soprattutto non amata; così le mie invidie e le mie gelosie verso le persone che ritenevo buone crebbero. Ogni volta che ricordavo questa cosa urlavo forte; andai in crisi e finii da psicologi che non capivano ciò di cui avevo bisogno, cioè affetto ed empatia. E fu così che quel dolore si ripercosse su di me fino ad ora che ancora ce l’ho con il mondo intero e a volte sono cattiva.
Anche ora sto male, ma dentro di me c’è una speranza che non muore mai. Dalla semiresidenza ricevo e riceverò l’empatia che non ho mai ricevuto e questo mi porterà ad essere più felice.


Erika




Rossella e l’amore

Rossella e Riccardo sono amici e si conoscono da una vita perché i loro genitori sono vicini di casa ed hanno fatto amicizia. Così anche loro con il passare degli anni diventano amici frequentando la stessa scuola e le stesse persone.
Passano gli anni ed i ragazzi crescono. Ora hanno vent’anni e frequentano la stessa università. Rossella è molto gelosa di Riccardo e quando un bel giorno si fidanza con Angelica, una ragazza conosciuta in biblioteca mentre andava a studiare, Rossella va su tutte le furie. Assilla Riccardo di telefonate e di domande per conoscere meglio questa ragazza alla fine però Rossella si rende conto di amare Riccardo perché la sua gelosia è troppo forte.
Un giorno riceve un dolore grande perché Riccardo, stanco delle sue continue telefonate e delle sue intromissioni, le dice che se non la smetterà romperà la sua amicizia con lei. Questa per Rossella è una doccia fredda.
Decide di partire per Londra dove ci sono altri amici disposti ad ospitarla. Pensa che sia l’unico modo per dimenticarlo. Gli scrive una lettera di addio ed inizia una nuova vita con la speranza di innamorarsi di qualcun altro e di essere corrisposta, per formare una famiglia.

Barbara


L’amico ritrovato: la speranza nasce dal dolore

“Casa Mantovani”: laboratorio narrativa e scrittura creativa


Nello scorso quadrimestre, il laboratorio di narrativa ha letto il libro “L’amico ritrovato” scritto da Fred Uhlman.
L’autore nacque nel 1901 a Stoccarda, capitale del Wurttemberg, nella Germania sud-occidentale. Frequentò un liceo classico e in seguito, dopo la prima guerra mondiale, si laureò in legge. Fred Uhlman non era uno scrittore di professione, faceva l'avvocato, ha lasciato pochi esperimenti letterari e solo "L'amico ritrovato" era stato da lui destinato alla pubblicazione; non poté esercitare a lungo in patria la professione di avvocato che aveva intrapreso, fu costretto ad interromperla nel 1933, quando in Germania iniziò la dittatura di Hitler.
Uhlman era un ebreo democratico ed il regime nazista negava ogni diritto di esprimersi, di esistere e di vivere. Così lasciò la Germania nel 1933 e non vi fece più ritorno. Trascorse l'ultima parte della sua vita in Inghilterra, a Londra, dove morì nel 1983.
Leggendo la sua autobiografia si capisce che ne L'amico ritrovato egli dipinge i luoghi e l'ambiente della sua adolescenza. Il romanzo narra la storia di due ragazzi e della loro grande amicizia, nata, cresciuta e inaridita nell'arco di un anno. Il narratore, di nome Hans Schwarz, é uno dei due protagonisti: figlio di ricchi borghesi, ebreo tedesco di diciassette anni, frequenta il liceo classico, il Karl Alexander Gymnasium di Stoccarda ed é legato da un fortissimo affetto al suo compagno di scuola Konradin von Hohenfels, figlio di nobili protestanti che aderiscono alle idee naziste.
Nel 1933 le leggi razziali cominciarono a sconvolgere la vita di Hans: a scuola veniva umiliato dai compagni e dai professori e il legame con Konradin veniva sbaragliato dal clima di intolleranza. Hans fu costretto ad andare in America dove trascorse tutta la vita e, ormai vecchio, venne a conoscenza che la sua città e la sua scuola erano state distrutte.
Hans incontrò per la prima volta Konradin nel febbraio del 1932 e decise che sarebbe dovuto diventare suo amico, perché non c'era niente in lui che non gli piacesse. Riuscì ad attirare la sua attenzione, così una sera di primavera capì che la vita non sarebbe più stata vuota e triste, senza veri amici, ma ricca e piena di speranza per entrambi. Da quel momento Konradin divenne fonte della sua più grande felicità, ma anche della sua più totale disperazione.

“Passarono giorni e mesi e nulla turbò la loro amicizia, ma un giorno, dopo la morte dei figli dei vicini di Hans, la famiglia Bauer, i due amici si chiesero il perché della presenza del dolore e del male nel mondo e come fosse possibile che Dio li permettesse. Essi giunsero a conclusioni del tutto diverse, dovute all'educazione che essi avevano ricevuto”.

In questo libro si sente forte il tema del dolore per l’abbandono dei luoghi cari e delle relazioni significative, ma anche la speranza del cambiamento e di un futuro migliore.


Giorgia Busti



Vengono riportati di seguito alcuni lavori di gruppo dei partecipanti a Narrativa:



Quando Hans cerca Konradin nella lista dei decessi è forte in lui la speranza di non trovare quel nome… vedendolo prova un forte dolore nel vedere che è morto, ma anche stupore, perché è stato giustiziato per difendere gli ebrei… quindi, in un certo senso, a distanza di anni lo ha ritrovato.

Lorella F.




Il padre di Hans si sentiva fortemente tedesco e non accettava quanto imponeva il nazismo, per questo è rimasto in Germania… per la speranza che tutto tornasse come prima e che, da buon medico che era, quello della società tedesca fosse un malessere passeggero.

Maya D., Pierfrancesco P., Massimiliano B.




E’ forte in Hans il dolore per quanto accaduto alla sua terra ed ai suoi amici…ma anche Konradin è dispiaciuto per la partenza dell’amico, costretto ad emigrare in America per motivi che, probabilmente, non comprende a pieno. In entrambi però c’è la speranza di rivedersi, la speranza di tornare ai vecchi tempi, di “ritrovarsi” in un futuro migliore.

Rita R., Paola L., Gianluigi M.


Il dolore e la speranza

Corso di Italiano a Casa Mantovani


Il 10 marzo ho trattato l’argomento “Matilde di Canossa” ponendo in rilievo la difficoltà del personaggio nell’accettare il ruolo di signora e guida di un vastissimo territorio. L’accettazione di due matrimoni non voluti, lo scontro con l’imperatore, il desiderio mai soddisfatto di una vita monastica, le procurarono enormi sacrifici personali, ma fu sempre sostenuta dalla speranza di essere utile alla Chiesa e alla sua gente. A questo punto ho cercato di farmi dire che cosa ne pensassero i presenti e se anche loro potevano aver vissuto, o vivere, simili sentimenti.

Maya: Ho avuto molti dolori, ma non ne vorrei parlare, perché il farlo mi fa stare male.

Oriano: Il dolore più grande per me è stata la morte di mio padre, quando ero ancora a casa.

Rossella: Delle mie esperienze e dei miei sentimenti io ne parlo solo con chi mi fido

(ha parlato della sua grande passione per il gioco degli scacchi).



Claudia: Io sono stata molto male a casa, perché mi davano una medicina che ho cercato di rifiutare recandomi anche dai carabinieri, ma non c’è stato niente da fare. Così mi sono buttata dalla finestra e mi hanno portata qui. Ma anche qui mi danno una medicina che mi fa stare male…

(poi si è interrotta perché è rientrato Oriano al quale dà fastidio sentire questo racconto)
Nessuno di loro ha però parlato di speranza.


Evelina Busi Scanabissi


L'isola del tesoro

Racconto avventuroso fantascientifico a puntate


Riassunto della puntata precedente:

I nostri avventurosi viaggiatori sono arrivati, non senza numerose difficoltà, alla cascata dove ritengono di poter trovare il tesoro. Li abbiamo lasciati nel momento in cui intravedono una roccia che sembrerebbe indicare l’accesso alla grotta del tesoro.



ULTIMA PUNTATA

Pedro si offre volontario per spiccare per primo il salto dalla roccia piatta all’ingresso della grotta e Linda, coraggiosamente, decide di seguirlo con i suoi rimedi naturali. Pedro, imbragato assieme alla panterina, spicca il salto senza alcuna esitazione e Linda dietro di lui. Scivolano velocemente fino a una pozza d’acqua all’interno della grotta e, in men che non si dica, Pedro viene morso da un enorme serpente acquatico. Linda, riconoscendo il serpente e sapendo cosa fare in questi casi, afferra al volo l’animale e raccoglie il veleno per ricavarne l’antidoto e salvare Pedro. Nel frattempo anche Jessica, non resistendo all’attesa, si lancia con tale impeto da superare la pozza dei serpenti e scivolare attraverso un cunicolo per atterrare direttamente nella stanza del tesoro. Gianmarco decide di restare sulla sponda assieme alla nonna di Jessica, perché entrambi hanno il terrore dei serpenti. Chaulì si butta, con impeto da samurai giapponese, e si ritrova a gambe all’aria addosso a Jessica. Si rialza prontamente e, assumendo una postura marziale, urla: “Banzai!!”. Sentendo l’urlo di Chaulì, Linda e Pedro e la panterina cominciano a correre dirigendosi verso la fonte del suono e raggiungono le compagne nella stanza del tesoro. Finalmente riuniti di fronte a tanto “ben di Dio” si tuffano tra i preziosi urlando di gioia. Dopo un primo momento di felicità ed eccitazione ognuno comincia a cercare e mettere da parte ciò che più gli interessa e a stivarlo nel proprio zaino. Pedro trova, su un piccolo altare, il teschio destinato al miliardario che lo renderà immortale come vuole la leggenda. A fianco vede una piccola agata marrone a forma di cuore con un diamante incastonato al centro e la prende. Di seguito raccoglie alcune monete antiche per l’astronave Alex e per Gianmarco. Con lo zaino strapieno torna alla sponda del lago da cui è partito. Linda, esterrefatta da tanta opulenza, si siede e si guarda a lungo intorno per poter scegliere cosa portare con sé. Si accorge di un armadio nel quale trova alcuni preziosi rotoli antichi e aprendone uno si accorge che si tratta di antichi erbolari e ricette per pozioni curative. Ripone cinque rotoli nel suo zaino assieme a una grande quantità di monete d’oro. Chaulì afferra monete d’oro e oggetti d’oro riempiendo così lo zaino. Un pensiero va alla nonna e cerca per lei gioielli che possano essere di suo gusto. Non trovandoli, ripiega sulle monete d’oro, riempiendosi anche la sacca che forma sollevandosi la gonna. Le tre ragazze rimaste nella grotta tenendosi per mano e camminando rasente al muro cercano di non far rumore per non attirare i serpenti e ben presto tornano alla luce del sole. Gianmarco, vedendo Pedro carico, gli chiede cosa abbia portato. Pedro, aprendo lo zaino, risponde: “Ho trovato il teschio per il miliardario, l’agata marrone per me, le monete antiche per l’astronave e per te:” Gianmarco lo abbraccia e con riconoscenza esclama: “Che bravo!Grazie!”. Nel frattempo giungono le altre compagne sorridenti e contente. La nonna si mostra subito curiosa di sapere se qualcuno abbia pensato a lei. Rimane delusa quando Jessica le porge le monete d’oro e non i gioielli. La ringrazia ugualmente, la bacia e l’abbraccia pensando che con quelle monete potrà potuto comprarsi tutti i gioielli che desidera.
L’avventura si conclude con una grande festa che vede tutti riuniti attorno al fuoco. L’astronave Alex, di sua spontanea volontà, decide di andare a recuperare il miliardario con una velocità impressionante di 365.000 km al secondo. Il miliardario raggiunge così il gruppo portando con sé una cassa di bottiglie di champagne per brindare. Dopo aver mangiato ben tre maialini selvatici arrostiti sul fuoco ed essersi scolati tutto lo champagne disponibile si mettono a ballare. Sono così contenti che prolungano i festeggiamenti per due o tre giorni finché sfiniti si addormentano. Al loro risveglio decidono di tornare ognuno a casa propria. E’ arrivato per loro il momento di salutarsi. E’ nata tra loro, uniti per sempre da questa bella e fortunata avventura, una grande amicizia. Si baciano e si abbracciano con il proposito di rivedersi presto.


Laboratorio di scrittura e immagini ArteInsieme
Centro Diurno Casalecchio di Reno


Botta e risposta


Luigi: Se il responsabile non assume la responsabilità a tempo indeterminato, la responsabilità diventa una precaria!
Edoardo: E il responsabile diventa irresponsabile…
Luigi: Le cose tornano!


Pensiero Zen 1


I genitori muoiono…
Ma possono pensare, quando sono ancora in vita, che i loro figli continueranno a guardare, attraverso di loro, il mondo.




Pensiero Zen 2


Il perfetto espianto…
È se una coppia di non vedenti mette al mondo un figlio vedente, attraverso il quale i genitori potranno vedere il mondo.


Luigi Zen