Editoriale
Ho insistito a lungo in redazione perché il tema
principale di questo numero trattasse non solamente di dolore ma anche
di speranza. Nella maggior parte dei casi dolore e speranza sono
contemporanei e complementari. Per spiegarmi meglio: quando ho male ad
un dente ho la speranza che un bravo dentista possa aiutarmi a
sconfiggere il male. Lo stesso vale quando ho un disagio mentale, che
mi crea dolore molto profondo, angoscioso, terrificante: vivo con la
speranza che questo cessi così come se ne è venuto o che una figura
della psichiatria possa aiutarmi a debellarlo.
Purtroppo ci sono malattie in cui il dolore diviene cronico ed
incurabile, creando una condizione in cui la speranza viene messa in
varia misura da parte,
lasciando spazio alla rassegnazione.
Il dolore è una esperienza soggettiva che si trova all’interno di un
contesto sociale, cioè la famiglia, gli amici, i conoscenti, i
sanitari, i colleghi di lavoro, la cultura e le tradizioni del luogo in
cui il sofferente è immerso.
Attraverso una serie di feed-back reciproci si può fare in modo che il
dolore venga modulato sia in positivo che in negativo. Per fare un
esempio: un ragazzo perde definitivamente l’uso delle gambe, soffre di
atroci mal di testa e si sente fortemente giù di corda. Nell’incidente
che gli ha causato il danno gli è morto il suo migliore amico. Cosa
succede? Dolore, speranza e rassegnazione devono sedimentare e fare in
modo che il malato si rassegni a vivere non come prima dell’incidente,
ma in modo diverso, in funzione delle sue abilità residue.
Se il contesto sociale coerentemente si adopera nella realizzazione e
libera manifestazione della personalità del ragazzo, è probabile che si
instauri un circolo virtuoso: le persone che hanno contatto con il
portatore di handicap si sentono utili, e non incapaci e impotenti nei
suoi confronti. Il ragazzo sente che può essere parte attiva nella
società e sposta il centro dei suoi pensieri da sé stesso verso
l’esterno, dando meno peso al suo mal di testa. Il che favorisce in lui
un leggero buon umore, che a sua volta gli permette di vedere con più
oggettività la sua situazione, e lo aiuta a reggere il lutto per la
morte del suo amico e la rassegnazione alla paraplegia. Purtroppo il
trinomio dolore, speranza, rassegnazione deve essere rispettato perché
al bene
come al male non c’è limite.
Quando mi ammalai ricordo che il buonismo mi feriva quanto le offese.
Il punto di svolta nella mia esperienza patologica personale è stata la
recovery che mi ha ridato una bozza di quella personalità che avevo
perso e mi ha aiutato ad esprimere me stesso individuando i miei sogni
e gestendo le mie paure ed incubi. Così il dolore ha smesso di
dilaniarmi da dentro, la rassegnazione ha preso la sua giusta
dimensione e la speranza ha ripreso un genuino vigore.
Mi ha colpito questa frase di una persona malata di un male incurabile:
“ Quando stiamo male ci comportiamo come i gatti; teniamo a debita
distanza le persone… e le coccole le vogliamo solo quando ne abbiamo
voglia”.
Fabio Tolomelli
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Analisi del dipinto di Teofilo
Patini: ‘Vanga e latte’
Teofilo Patini (Castel di Sangro (AQ) 1840 - Napoli 1906) fu uno dei
maggiori rappresentanti del Verismo di impronta sociale.
Terzo di dieci figli di un’agiata famiglia borghese, completò gli studi
classici a Sulmona e, dopo aver studiato filosofia presso l’Università
di Napoli, si iscrisse nel 1856 ai corsi di pittura dell’Accademia
delle Belle Arti della stessa città, che frequentò con brillanti
risultati. Fu influenzato dall’esempio di Filippo Palizzi, impegnato in
una ricerca pittorica incentrata sulla piena adesione al “vero”.
Importante, fu anche l’amicizia col Cammarano.
Sull’evolversi della sua sensibilità e creatività ebbe un’incidenza
determinante l’osservazione del gravissimo degrado economico e sociale
causato dalle improvvide leggi postunitarie. Gliene derivarono nuove
consapevolezze, che lo fecero procedere a una cronaca intesa a
registrare le drammatiche situazioni economiche del proletariato
centro-meridionale, consapevole della nascente questione meridionale e
del dibattito sul “risorgimento tradito”.
Furono questi i presupposti da cui nacque la sua pittura d’ispirazione
sociale: la sua “trilogia” che accompagna / l’eroe della gleba / dal
nascere al morire /. La prima di esse, in ordine di tempo, fu “L’erede
” che venne terminata nel 1880 e che l’artista fece figurare
all’esposizione nazionale di Milano del 1881, che si inserì in un
dibattito economico-politico assai acceso e che diede fama al Patini,
anche per le notevoli caratteristiche pittoriche dell’opera. Seguì
“Vanga e latte” che fu esposta nel 1884 a Torino, in coincidenza coi
primi moti agrari del Veneto. In quella stessa esposizione, il maestro
ripropose anche “L’erede”. La terza opera “Bestie da soma” fu
presentata all’esposizione nazionale di Venezia del 1887.
Il bambino allattato dalla madre fra i campi in “Vanga e latte” si
sarebbe inevitabilmente trasformato nell’uomo condannato a una vita
grama e di dolore, come evidenziò ne “L’erede”, in cui l’infante,
ignaro della precoce morte del padre, è destinato suo malgrado a
ripercorrerne l’ingrata e dolorosa vicenda terrena.
La speranza dell’artista fu quella, che dalla visione delle sue opere,
si venisse a creare una coscienza nazionale che portasse ad un
cambiamento legislativo e che impedisse uno scandaloso sfruttamento del
lavoro.
Piergiorgio Fanti
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Avere il male di vivere come
inquilino
La sofferenza non è uno scherzo da imparare a memoria,
e molti soffrono disimparando che la vita è una e unica e deve essere
rispettata anche se sei disperato e non "vivi" più se non ai margini
del sociale.
Nella vita c'è chi ha problemi e chi no, chi ha i soldi e chi no, chi
ha la salute e chi no. Ma c'è chi soffre le pene dell'inferno per
"tirare a campare" (come si dice).
Ma tutti, sotto sotto, per qualcosa soffrono, anche se non lo dicono.
Tutti piangono per un bacio mai dato e ridono con l'elisir d'amore.
La sofferenza colpisce come la falce, tutti, indistintamente. Hai
voglia di piangere per giorni e poi per anni. Ma la "mala sorte" resta
nel tuo buio di depresso o nella tua pazzia di anoressico, per citare
due soli casi di dolore.
La sofferenza colpisce, distrugge, ammorba il mondo e umilia il corpo e
la mente malati, fino a pensare al suicidio. Solo la "spes" (ultima
dea), la speranza salva l'uomo dal suo sterile destino di burattino in
mano alla paura.
Anch'io ho per inquilina la sofferenza fisica e psichica, e solo la
speranza di guarire, chissà, forse un giorno futuro, mi tira su.
C'è speranza finché c'è amore tra gli uomini e le donne e la terra e la
luna e il sole tutti, finché il respiro muove le ossa stanche, finché
continueranno a dirsi "ti amo" i fidanzati, e a volersi bene tutti.
Ave
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La sofferenza e la speranza
Per chi è cresciuto in una società permeata dal
cristianesimo, sofferenza e speranza appaiono indissolubilmente legate:
molti sono abituati a legare la speranza della propria definitiva
salvezza alle sofferenze e alla morte che Gesù patì sulla croce, per
cui l'accettazione delle proprie sofferenze appare in qualche modo
inevitabile se non addirittura meritoria. "Il mio è un vero e proprio
Calvario" si suol dire, per descrivere i propri malanni, e c'è un certo
compiacimento nell'affermarlo.
Ma a ben vedere sofferenza e speranza sono una l'antitesi dell'altra:
l'una ci schiaccia sul presente, sul momento che stiamo ora
concretamente vivendo, l'altra, da questo presente pretenderebbe di
affrancarci, aprendoci squarci verso futuri oggi inesistenti ma,
chissà, forse domani possibili.
In un mondo sempre più virtuale il cui valore supremo sembra diventata
la "comunicazione", non è forse male che ogni tanto qualche sofferenza
ci ricordi la carne da cui siamo costituiti, e che anch'essa ha da
"comunicarci" qualcosa di estremamente importante.
C'è chi sembra dire: "Ho questa sofferenza, datemi un cachet, cosicché
possa tornare alla mia vera vita", come se la sofferenza ci costituisse
meno delle nostre alate costruzioni mentali o dalle nostre
complicatissime relazioni interpersonali: dall'una e dalle altre siamo
egualmente costituiti, e forse l'una e le altre sono tra loro assai più
fortemente interconnesse di quanto non siamo disposti ad ammettere.
La sofferenza ci fa coscienti di essere fatti di carne e di sangue,
cosa che talvolta tendiamo a scordare. La sofferenza corre attraverso i
nostri muscoli, i nostri nervi e i nostri neuroni, non attraverso la
rete globale di Internet.
Ma per chi, come noi, soffre di problemi psichiatrici, che spesso
portano con loro anche grandi sofferenze, la sofferenza e la speranza
sono talvolta legate tra loro da un rapporto ancor più elementare:
tante volte la speranza si riduce al solo augurarsi che la sofferenza
abbia termine. Credo che sia difficile per chi non ha mai sofferto di
forti depressioni comprendere come a volta per il depresso l'intera
giornata non abbia altro fine che osservare lo scorrere troppo lento
delle ore, nell'attesa di quei pochi momenti della giornata in cui
solitamente, e con discreta puntualità, la depressione allenta la sua
ferrea presa, lasciando spazio a un po' di sollievo.
Ricordo che quando mi trovavo in questa situazione, a mio padre che mi
domandava come mai in quei momenti in cui stavo meglio non leggessi un
libro o facessi qualcosa di utile, un po' vergognandomi, ma con molta
sincerità, non potevo che rispondere che dovevo gustare, senza
lasciarmi distrarre da nessun'altra attività, ogni singolo attimo di
quel breve sollievo, che presto -lo sapevo bene- avrebbe lasciato il
posto a una nottata colma d'angoscia.
Potremmo parlare in questo caso di "grado zero" della speranza: tutto
quello che speriamo è che la situazione in cui ci troviamo si modifichi
in una maniera purchessia, convinti che qualunque modifica ci porterà
comunque in una situazione migliore di quella in cui presentemente ci
troviamo.
Certo, abitualmente le nostre speranze sono ben più complesse e
variegate, ci costruiamo possibili futuri per noi gratificanti, per
poter sfuggire all'angustia del presente. Ci auguriamo che accadano
cose che ci diano quelle soddisfazioni di cui il presente è avaro.
Ora è indubbio che filosoficamente parlando questo appare un
atteggiamento puerile: anziché confrontarci con la realtà, seppure
spiacevole, che ci è data, ci rifugiamo in immaginarie, spesso
improbabili, situazioni a venire e ci verrebbe da dire, con
Michelstaedter: "Che v'importa di vivere se rinunciate alla vita in
ogni presente per la cura del possibile?"
Ma poi, con una certa malignità, ci sovviene che chi ha veramente
rinunciato alla vita è stato proprio Michelstaedter stesso, che a soli
ventitré anni d'età ha posto fine alla propria esistenza, sparandosi un
colpo di pistola alla testa.
Come possiamo affermare con certezza che quella fuga dal presente (che
è lo sperare) non sia l'unica arma di difesa che un dato individuo in
un dato momento sia in grado di mettere in campo per lenire una
situazione per lui davvero troppo dolorosa per essere affrontata a viso
aperto?
Mi ricordo di un episodio occorsomi tanto tempo fa, anche se in realtà
in quel caso più che di "speranza" si trattava di pura fantasticheria,
ma credo che il procedimento mentale di compensazione di una realtà
insoddisfacente fosse il medesimo che si attiva nello sperare in
qualcosa.
Era un periodo in cui le relazioni interpersonali erano per me fonte di
sofferenza (eccola ancora la sofferenza!) e in cui avevo anche problemi
di insonnia, e per potermi addormentare non trovavo di meglio che
immaginare di abitare in una casa sul Qiang-Tang, lo sterminato
altopiano nel nord del Tibet, totalmente disabitato (era questa la cosa
importante) e notte dopo notte aggiungevo nella mia mente particolari a
quell'abitazione, stabilendo l'esatta planimetria della magione, la
destinazione dei vari ambienti e persino l'esatta mobilia che
l'arredava. E la cosa più incredibile e che lo stratagemma funzionava:
mi trovavo così a mio agio in quella casa immaginaria, lontana da ogni
sorgente di ansietà, che dopo poco mi addormentavo sereno come un
bambino. Che volete, c'è chi per dormire conta le pecore, e chi
ammobilia una casa sul tetto del mondo.
E come direbbe Woody Allen: "Basta che funzioni".
Antonio Marco Serra
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Tempo verrà…
“Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima,
sarà spenta. E nel modo che grandissimi regni ed imperi umani, e loro
meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi
segno né fama alcuna; parimenti del mondo intero, e delle infinite
vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure vestigia; ma un
silenzio nudo e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso.
Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale,
innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi”.
Giacomo Leopardi, Cantico del
gallo silvestre, in Operette morali, 1824
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo
di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita,
naturale come l'aria.
Cesare Pavese, Il mestiere di
vivere, 1935/50 (postumo 1952)
La speranza è una virtù, virtus, una determinazione
eroica dell'anima. La più alta forma della speranza è la disperazione
vinta.
Georges Bernanos, La libertà
perché?, 1953
L.L.
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Autoritratto
Mi vedo lì, dietro quel piccolo banco, con gli occhi
sgranati, il sorriso un po’ sforzato, il bambolotto nudo tra le
braccia, con tutta la faccia sporca e i miei due ciuffetti di capelli
legati con un nastrino rosa. Il grembiulino e, in sottofondo, i
giocattoli di plastica con il nano di Biancaneve, l’angelo e l’altro
nano di Biancaneve…
Mia nonna Nicolina mi guarda dal Paradiso, perché lo so che è lì, ne
sono sicura e mi dice che sono stata una brava bambina e sono diventata
una brava mamma. Sono riuscita negli studi e, principalmente, l’ho
sposato, il mio Paolo che mi ha fatto tanto penare! Lei lo sapeva e me
lo diceva sempre, quando eravamo in crisi, appoggiate su quel balcone
della finestra della mia camera, con l’odore del tiglio, dovevo solo
avere pazienza.
Lei se n’è andata pochi mesi prima che io mi sposassi, ma so che da
lassù mi guida e mi protegge. È per merito suo che ho imparato che
nella vita la pazienza è sapienza e che quando desideri una cosa con
tutto il cuore e lasci che il destino faccia il suo corso, poi riesci
ad ottenerla.
Lei mi dice: “Grazie, Cinzia, per avermi ascoltata: continua così!”
Ti amo, nonna, per tutta la vita. Ciao!
Cinzia
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Filastrocca
La Speranza si è affacciata alla finestra di casa mia
ed ha visto: derisione, dispetti, confusione e dolore, che ti rubano la
gioia e il buon umore! Sono detriti di un mondo che va a pezzi, ma più
si rompe e più lo disprezzi.
Vorrei che si potesse portare rimedio a questo strano movimento, così
che sia felice chi non è contento. È ridicolo pensare che questo
avvenga presto, c’è chi lo considera un pretesto per non dover perdere
il prestigio, che qualunque esso sia non voglio fare entrare in casa
mia!
Se questa società malata non vuol guarire, io son disposta con la
Speranza a fare un patto e formular questa richiesta: “ Se ti do un po’
della mia malattia e
un po’ del mio dolore, Tu che mi dai in cambio?”
La Speranza senza batter ciglio risponde: “ Mi è rimasto solo un po’
d’amore, questo soltanto posso darti, ma non so se riesco ad
accontentarti”.
“Un po’ di amore, hai detto? Con un po’ di amore posso lenire un po’ il
mio dolore. Grazie di cuore!”.
“Sono cose che insieme posson stare e difficili da separare”.
“Aspetta, non andartene via: chiudo la finestra, e apro a Te la porta
di casa mia!”.
Mariangela
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Piccola luce
La piccola luce bianca
nell’immensa oscurità di un occhio
che non ha il coraggio di guardare l’altro
la piccola luce bianca nei tuoi occhi
ha aperto uno spiraglio dentro me
La piccola luce bianca
sta uccidendo una grande paura
come una formica ucciderebbe un uomo
l’ho vista e la rivedo
la sogno e la sento
La piccola luce bianca
ha incendiato i miei capelli
la piccola luce bianca
ha rapito le mie mani
La piccola luce bianca
sta uccidendo una grande paura
come una formica ucciderebbe un uomo
l’ho vista e la rivedo
la sogno e la sento
Chiudo gli occhi e nella notte
una piccola luce bianca
accenderà i miei sogni
accenderà i miei giorni
Angela Finotello
(La canzone è nel CD singolo “Mare Altrove”)
Ormai fa parte di noi
Fin dalle prime volte che l’ho sentita, “Piccola Luce”
ha toccato le mie corde più intime. Ancora adesso, ogni volta che
l’ascolto, mi emoziona.
Questa “Piccola Luce”, che secondo me non è altro che la SPERANZA, ha
aiutato Angela e me ad affrontare delle situazioni molto difficili e
dolorose nella nostra adolescenza e giovinezza e, ormai, fa parte di
noi.
Insomma, la “Piccola Luce” ha definitivamente “incendiato i nostri
capelli” e ha “rapito le nostre mani”!
Roberto Finotello (fratello dell’autrice)
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“Il faro” di Stefano Biasco
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Dolore e Speranza
Dolore per una perdita, per una troppo pressante
presenza.
Dolore per qualcosa che fa male, per qualcosa che non fa più nemmeno
male.
Dolore perché sono morto, ma anche perché sono vivo e non so vivere.
Dolore perché sono malato, perché gli altri si ammalano; perché
impazzisco, perché attorno a me tutto è diventato folle.
Dolore che diventa ansia e poi angoscia, che fa piangere e disperare.
Dolore che è mancanza.
…“Tagliatemi la lingua
Strappatemi i capelli
Mozzatemi gli arti
Ma lasciatemi l’amore
Preferirei aver perduto le gambe
Che mi avessero strappato via i denti
Cavato gli occhi
Piuttosto che aver perduto l’amore”…
Sarah Kane, da “Tutto il teatro” edizioni Einaudi
Il dolore viene centrato sulla parte del messaggio dato dai neuroni che
lo segnalano e lo confermano attraverso il cervello e le vie
spinotalamiche e attraverso la corteccia cerebrale. Il dolore non è una
cosa piacevole, il dolore può dare angoscia e ansia nel senso della
separazione e del lutto: della separazione dall’amore o dalla persona
amata e angoscia in caso di perdita della persona cara, che ti ha
lasciato: pianto e dolore. La gioia e la speranza possono essere
l’opposto del dolore, basta ampliarle nel tuo cuore dando sensazioni
piacevoli, ricordandosi che tu eri felice.
Il dolore fisico è differente dal dolore della mente, dovuto alla
perdita di una persona cara.
Il dolore si può percepire dallo stato d’animo, ma anche lo si sente
dal male allo stomaco, al braccio da una storta al piede o una
slogatura oppure quando cadi.
Il dolore non è una cosa piacevole, quando ti mancano gli amici il
dolore dell’amicizia lo senti dalla loro mancanza. E rispetto alle
persone care, io ho sofferto per tutti quelli che ho perso, il loro
abbandono, le lacrime che tu hai versato.
Silvia
Il dolore più forte che ho avuto è stato quello recente
della morte di mia mamma. E’ accaduto il 27 Dicembre e il funerale è
stato celebrato l’ultimo dell’anno. Il giorno in cui me lo hanno detto
davo calci e pugni al divano. Il mio cane è venuto a togliermi il
braccio mentre colpivo il divano; poi ho cominciato a prendere fuori le
foto più recenti di mia mamma dove sorride. Lei era una persona sempre
sorridente e quando la guardo penso che sia ancora viva e sorridente,
anche se ogni tanto mi viene la malinconia.
Maya
Io ho il timore e ne provo il dolore che mia madre
possa morire da un momento all’altro e spesso sono preoccupato per ciò
che le potrebbe accadere.
Nel 2002 è morto mio padre e il funerale è stato straziante, perché io
e mia madre stavamo abbracciati nel dolore. E’ sepolto a Livergnano
vicino a Pianoro dove è nato nel ’27 e ogni tanto lo vado a trovare.
Oriano
Il mio dolore più forte l’ho avuto quando sono stato
ricoverato in manicomio, perché non mi lasciavano uscire. Speravo di
uscire al più presto e non tornarci mai più. Il primo ricovero
ospedaliero e altri ricoveri li ho fatti perché non volevo prendere la
terapia. Mi sono venuti a prendere sotto casa con l’ambulanza e i
vigili urbani e poi mi hanno portato in ospedale al Roncati; sono
rimasto dentro all’incirca un mese. Il manicomio è una galera e non
vedevo l’ora di uscire.
Stefano
Il dolore è una cosa che fa stare molto male, che
distrugge. Il dolore che ho passato io poco tempo fa è di una perdita,
quella di un fratello di 54 anni. Questo è stato un vero dolore per me
e l’ho vissuto piangendo senza dormire e senza mangiare. Ancora non mi
sembra vero e sto male. Lavoro e penso a lui. Nei momenti difficili
sono molto arrabbiata.
Poi non sono stata neanche al suo funerale perché in quel periodo ero
all’ospedale e sapendolo dopo, da altre persone, ho ancora tanta
rabbia. Però adesso so che lui mi vede e mi sorride e che mi ha sempre
voluto bene, ho ancora il suo sorriso davanti a me.
Luisa
Il dolore per me è l’opposto del piacere. La speranza è
quella che ti carica per il futuro. Non avere speranza è la
depressione, un dolore psichico.
Dino
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Meraviglioso
È vero….credetemi è accaduto….
di notte su di un ponte guardando l'acqua scura… con la dannata voglia
di fare un tuffo giù …..
D'un tratto qualcuno alle mie spalle…
forse un angelo vestito da passante
mi portò via dicendomi, così:
Meraviglioso…. ma come non ti accorgi
di quanto il mondo sia… meraviglioso
Meraviglioso
perfino il tuo dolore… potrà sembrarti poi…
Meraviglioso
Ma guarda intorno a te… che doni ti hanno fatto:
ti hanno inventato il mare!
Tu dici non ho niente…
Ti sembra niente il sole!
La vita…
L'amore…
Meraviglioso…
Il bene di una donna …che ama solo te
Meraviglioso…
La luce di un mattino… l'abbraccio di un amico…
il viso di un bambino
Meraviglioso…
Meraviglioso…
La notte era finita… e ti sentivo ancora
Sapore per la vita….
Meraviglioso….
Meraviglioso….
Domenico Modugno
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Ho una speranza
Io ho una speranza certa: che Dio mi ama.
Edoardo
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Il dolore è una sentinella sempre
all’erta
…Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla
stanchezza e dalla fame e perché non aveva più forza di reggersi ritto,
si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra
un caldano pieno di brace accesa. E lì si addormentò; e nel dormire, i
piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si
carbonizzarono e diventarono cenere. E Pinocchio seguitava a dormire e
a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro…
Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, storia di un
burattino, cap VI.
Il dolore è una sentinella sempre all’erta: la sua
funzione è salvarci da guai peggiori.
Se Pinocchio fosse stato di carne e ossa, avrebbe avvertito il bruciore
e avrebbe tolto in fretta i piedi dalle braci ardenti. Gli sarebbe
venuta qualche vescica, ma non avrebbe perduto i piedi. Invece i piedi
di Pinocchio erano insensibili, essendo di legno, e andarono in cenere,
lasciando il loro sventato proprietario in un bel guaio.
Il dolore fisico, dunque, ha una funzione salvifica.
Io penso che anche il dolore che invade la mente ce l’abbia, anche se è
più difficile coglierne il messaggio. Forse, così come per combattere i
virus ci viene la febbre alta, per metabolizzare il male che
incontriamo nel nostro cammino, lutti, sventure, ingiustizie… reagiamo
con una specie di febbre interiore, il dolore, e produciamo anticorpi.
Così succede che il dolore in qualche modo ci rafforza per le prove
successive.
Può essere a volte che, non riuscendo a comprendere quello che non va
nella nostra vita, ci avvitiamo su noi stessi senza trovare scampo.
Così a qualcuno accade di passare attraverso la malattia mentale, e la
bruciatura del dolore può risultare devastante… Ma non è detto che da
una crisi non si possa uscire migliori di prima.
Se infine i piedi che bruciano sono “quelli d’un altro”, magari ce ne
accorgiamo, ma siamo tentati di tirare dritto. - Questa volta il dolore
grida per lui - pensiamo - non per me - Ma al mondo non c’è dolore che
non ci riguardi: la carne parla una lingua universale, racconta di un
destino dolente e mortale che ci accomuna tutti e ci chiama a raccolta
per aiutarci l’un l’altro. Magari uno deve essersi scottato a sua volta
perché gli venga spontaneo immedesimarsi, comprendere, soccorrere…
Comunque sia, quando la sentinella del dolore chiama, è sempre meglio
prestarle ascolto, anche se apparentemente l’allarme non è per noi.
Lucia
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Versione Zen
Pinocchio di legno, essendo tutto bagnato, per timore
di perdere tutto il corpo, che si sarebbe “scavicchiato” e scollato, si
asciuga davanti al fuoco e si brucia gli arti inferiori: così perde i
piedi, ma salva il resto del corpo.
Luigi Zen
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Una lettera dal mio dottore…
Il mio medico di base, Giovanni Gatti, è un personaggio
un po’ fuori dal comune. Versatile, estroso, pieno di iniziative che lo
portano spesso in giro per il mondo, fa però il suo lavoro con
dedizione. Bravo e preparato nella medicina tradizionale, non esita a
percorrere anche altre strade, come l’agopuntura, l’omeopatia, le
tecniche energetiche… Insomma, un approccio a tutto campo, pur di dare
aiuto, sollievo, speranza. L’idea che me ne sono fatta in tanti anni è
di una persona di grande sensibilità, che si mette nei tuoi panni e non
si arrende. A prescindere dalle cure, credo che il suo punto di forza
sia l’empatia che si crea fra lui e il paziente.
Per me è anche un caro amico. Per questo ho pensato di proporgli di
scrivere qualcosa sul nostro argomento: “il dolore e la speranza” ,
visto con gli occhi di chi se ne occupa da più di trent’anni per
professione. Il risultato è questa e-mail…
Lucia
Cara Lucia,
il dolore ha diritto alla speranza.
La speranza è una precisa entità biofisica, il dolore è una precisa
entità biochimica, perlomeno quando non è psichico, o forse anche
quando lo è.
Cara Lucia, in questa realtà bipolare dove tutto si crea dalla
differenza di potenziale e dall'incessante alternarsi di yin e di yang,
di più e di meno, di sì e di no, l'intelligenza di noi umani ha
inventato spesso realtà separate, ha studiato e costruito grattacieli
che analizzano elaborano curano il dolore (e questo è perfetto), ma ha
lasciato la speranza nelle sue antiche casupole, spesso di pertinenza
di antiche tradizioni o di religioni.
La speranza ha diritto al suo grattacielo. Limitrofo al dolore.
Detto questo non è facile alimentare la speranza quando si è immersi
nel dolore.
Pensate solo quando abbiamo mal di testa: tutta la realtà intorno
cambia, tutto diventa più difficile, faticoso, quasi insuperabile… ma
basta una pillola che magicamente torna il sole. E torna la speranza.
No! dobbiamo allenarci soprattutto quando stiamo bene… dobbiamo
allenare il nostro organismo ad aumentare la quantità di energia di
scambio con l'ambiente, dobbiamo lavorare sulla nostra energia,
soprattutto quando siamo in salute. Perché? Perché la salute decade
quando cala l'energia del sistema, il che porta con sé un cambiamento
di direzione energetica e un successivo cambiamento biochimico, che la
medicina occidentale scopre quando il processo è già ben
"concretizzato" e quindi può già apparire agli esami clinici.
Nel caso per esempio di un tumore o di altra patologia è estremamente
utile agire con la chimica farmacologica e nel contempo è ugualmente
importante e necessario praticare tecniche energetiche (tipo QI GONG) e
modificare l'alimentazione secondo le moderne regole nutrizionistiche.
Queste due info vivono nel grattacielo della speranza. E sono concrete.
Sono atti che dipendono da noi e sono da iniziare subito e sono "LA
CONSAPEVOLEZZA ", necessaria prima per resistere e successivamente per
guarire, ripristinando l'armonia la direzione l'energia del nostro
sistema bio fisico.
Queste per molti sono solo parole, ma per chi sta lottando
quotidianamente per guarire sono fatti concreti, a volte faticosi, a
volte considerati inutili, a volte inaspettatamente terapeutici. Ecco:
"L'INASPETTATO" nutre la speranza e vive nel grattacielo.
Ma l'inaspettato è stato coltivato ed è il risultato.
Cara Lucia anche un nome come il tuo è speranza, perché porta luce e
quindi visione più ampia e consapevole. Dicono che il dolore fa
crescere lo spirito: è vero. Ma il troppo dolore no, perché offusca e
ti egemonizza. Ed ecco che arriva la "PIETAS", anch'essa abitatrice
basculante fra i due vicini grattacieli. E comunque nella natura c'è
spesso la risposta giusta, nell'amore, nella compassione (cum patior)
c'è la risposta perfetta. L'importante è salire sui grattacieli, alzare
le braccia e chiedere, chiedere sempre e ringraziare.
L'inaspettato e spesse volte disatteso… arriverà.
Cara Lucia, baci.
Giovanni Gatti
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La terapia del sorriso
Chi non conosce la storia di Patch Adams, il medico
americano con il naso da clown che ha trasformato la risata in cura?
Dalla sua storia è stato tratto anche un famoso film con Robin Williams.
Dati statistici recenti rilevati in alcuni ospedali pediatrici
americani, hanno messo in luce che in pazienti trattati regolarmente
con “terapia del sorriso” si ha una drastica riduzione nella
somministrazione di anestetici e/o antidolorifici e una diminuzione
della degenza ospedaliera del 50%.
Oggi molti volontari anche in Italia svolgono regolarmente questa
attività che dona sollievo ai pazienti e alle famiglie.
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Come diventai Guglielmo Polpetta
(intervista a Edoardo)
Caro Edoardo, ci hai raccontato che fra le tue tante
esperienze hai fatto anche quella del clown: come ti è venuto in mente?
Ho deciso di mettermi il naso rosso di Patch Adams, perché volevo far
ridere un amico. Il mio amico soffriva molto, perché aveva la spina
bifida e ultimamente era costretto a rimanere sempre sdraiato a letto.
Dopo aver subito oltre dieci interventi chirurgici, ormai non poteva
più stare seduto, aveva il catetere ed era arrivato a rimpiangere la
carrozzina, proprio quella che prima aveva disprezzato e odiato. La
carrozzina infatti gli aveva consentito una certa autonomia e una vita
molto attiva anche nell’associazionismo e nel volontariato e ora invece
si trovava immobilizzato. Per questo lui che prima era così coraggioso
e combattivo, era caduto in depressione.
E quindi tu hai pensato di trovare un modo per ridargli un po’ di
buonumore…
Un giorno una persona che frequentava con me un gruppo di meditazione
mi suggerì il corso di clown-terapia . Pensai che potevo provare,
perché forse faceva al caso mio. Al corso partecipavano solo ragazze,
più giovani e spensierate di me… ma io ho tentato lo stesso e,
nonostante fosse molto difficile, sono riuscito a portarlo a termine.
Perché dici che è stato difficile? Non è una cosa divertente?
Per poter far ridere bisogna conoscere bene i propri difetti … i
partecipanti si descrivevano a vicenda anche impietosamente per far
emergere le caratteristiche più comiche. Ci vuole disinvoltura e
autoironia. Una volta ho dovuto girare senza scarpe ed esibire un bel
buco nel calzino… Il desiderio di fare il clown mi veniva anche da
dolorose esperienze vissute… Le motivazioni profonde erano dolorose. Ho
dovuto lavorare molto su me stesso. Anche le ragazze si sono trovate in
difficoltà, ma io ho resistito perché ero molto motivato, volevo
proprio trovare qualcosa che sollevasse il mio amico.
Lo conoscevi da tempo?
Era una persona a me molto cara. L’ho visto via via peggiorare e
soffrire atrocemente. Aveva smesso di bere e io cercavo di andare
spesso da lui per fargli mandar giù un po’ d’acqua. Sapevo che era
molto importante per lui bere. Il mio amico non si svegliava mai,
dovevo andare io a svegliarlo. Facevo per lui tante piccole cose, ma
speravo che diventare clown mi desse un mezzo in più per farlo
sorridere. Così ho scoperto un talento nascosto che ho esercitato per
pochi attimi, ma che mi ha riempito di gioia. era come una goccia di
speranza in un oceano di dolore.
Come ha reagito il tuo amico a questa iniziativa?
All’inizio è stato un successo: io portavo un campanellino che serviva
per svegliarlo quando era ora di bere e lui aprendo gli occhi mi vedeva
con il naso rosso e il cappello con la piuma. Lui comprendeva il mio
sforzo e per gratitudine si sforzava di accontentarmi. Purtroppo però
era difficile per me trovare altre idee divertenti. Io non ho molte
risorse, non so fare giochi di destrezza… Fare il clown da soli, poi,
non è facile: ci vorrebbe qualcuno che fa da spalla. Così dopo un po’
l’effetto magico si affievolì.
Hai fatto la parte del clown anche per altre persone?
Dopo la morte del mio amico non ne ho avuto l’occasione. Però ricordo
con piacere l’esperienza fatta con i bambini di una scuola. Era una
specie di “tirocinio” che abbiamo fatto alla fine del corso. Bastava
indossare il naso rosso e il cappello con la piuma perché i bambini mi
coprissero di attenzione. La cosa straordinaria è la rapidità con cui
si instaura un rapporto di confidenza. I bambini mi hanno raccontato
storie personalissime, anche tristi. Anche i bimbi sani hanno tanti
problemi… Erano così disposti a parlare che mi hanno messo in imbarazzo
con la schiettezza che mi dimostravano. Mi sono sentito come un
elefantone in mezzo a vasi di cristallo.
Un’altra volta, con persone adulte, mi è capitato di non essere
apprezzato: ero in parrocchia e il prete mi ha chiesto di fare un po’
di scena col naso rosso… c’era però qualcuno che brontolava, dicendo
che non era il tempo e il luogo adatto per quelle sciocchezze e mi sono
sentito a disagio.
Hai detto che hai anche un nome d’arte…
Sì, è “Guglielmo Polpetta”.
Come ti è venuto in mente?
Il nome “Guglielmo” me lo ha dato uno dei bambini. “Polpetta” è
un’espressione bolognese per dire un furbino, uno che fa scherzetti, me
lo hanno affibbiato e mi è piaciuto molto… e piace molto anche al mio
nipotino. Il naso rosso è come una magia: trasforma in un istante un
uomo normale in Guglielmo Polpetta…
A proposito: il naso rosso è un punto che mi accomuna al mio amico
Luigi… infatti, vedete qui, questa è la copertina di un suo bel libro,
disegnata da lui.
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La quiete dopo la tempesta
non so chi di voi l'ha conosciuta
so che per me è stato importante incontrarLa; presenza complessa,
faticosa, leggermente ingombrante.
ha significato per me, come credo per molti, continuare a rimettersi in
discussione SEMPRE… non lasciava mai tranquilli, come non lo era lei!
ha significato stravolgere tutte le procedure perché non si adeguava
mai a nulla, forse non si sentiva… adeguata! ricordo i primi anni al
Beltrame… liti continue, botte, urla… poi pianti, abbracci, dolci
sguardi.
"quiete dopo la tempesta"
bellezza incompresa
ruvida dolcezza
rauco alito di vento
che tristezza oggi
mi sono legato, in questi anni
di lavoro, a tante persone; tanti ospiti mi hanno rapito e rubato
angoli di cuore, spicchi di anima, rivoli di mente.
Marzia è entrata dentro, non poteva essere altrimenti. forse perché in
fondo mi sentivo così… vicino alle sue follie, al suo provocatorio modo
di chiedere aiuto al suo strano modo di dimostrare affetto.
strano… il suo modo
ora solo un po' di amarezza
perché avevo ancora tante cose da chiederle…
così un'altra stella da oggi mi accompagnerà in questo faticoso ma
splendido cammino
Grazie di essermi stata così vicina amica MARZIA
ti lascio con una canzone che forse un po'… ti farebbe ridere
Lucio S.
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Jenny è pazza
Jenny non vuol più parlare
non vuol più giocare
vorrebbe soltanto dormire
Jenny non vuol più capire
sbadiglia soltanto
non vuol più nemmeno mangiare
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire…
Jenny ha lasciato la gente
a guardarsi stupita
a cercar di capir cosa
Jenny non sente più niente
non sente le voci che il vento le porta
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire…
Io che l'ho vista piangere
di gioia e ridere
che più di lei la vita
credo mai nessuno amò
io non vi credo
lasciatela stare
voi non potete
Jenny non può più restare
portatela via
rovina il morale alla gente
Jenny sta bene
è lontano… la curano
forse potrà anche guarire un giorno
Jenny è pazza
c'è chi dice anche questo…
Jenny ha pagato per tutti
ha pagato per noi
che restiamo a guardarla ora
Jenny è soltanto un ricordo
qualcosa di amaro da spingere giù in fondo
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire…
Vasco Rossi
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L’hanno portata via… non amo più
Dove..
Dov'è
Dioooo
Dov'è…
La mia creatura dov'è
L'hanno portata via.
L'hanno portata viaaa
Cani, animali, vigliacchi
Mia figlia.
Mia figlia.
Mia
Mia
Mia
State lontani.
Noooo. Non toccatemi.
Mia figliaaaa
L'hanno portata via.
Dove mi portate
Dove mi portateeee
----------------
Non amo.
Non amo nessuno
fino in fondo,
fino all'anima,
fin nel profondo.
Han tutti l'oscuro,
quell'ombra silenziosa,
quel nero che copre ogni senso.
Non amo più la superficialità,
quell'insieme formale,
quel formale oggettivo,
quell'oggettivo uniforme.
Sazia di tutto
non amo più
aspetto il momento
per staccare la spina al mio cuore
che lentamente vegeta.
Non assaporo più
fragranze di essenze
d'amore.
Non amo più.
Marcella Colaci
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Piangi sa vuoi
Corri corri veloce
più veloce del tuo sguardo
più veloce delle tue lacrime.
Sorridi e piangi
ascolta il tuo cuore.
Sto ascoltando il tuo respiro affannoso
il battito del tuo cuore
piangi per la morte del tuo amico
piangi pensando ai momenti passati assieme
per il suo ricordo che rimane impresso
nella tua mente.
Il dolore consuma la tua anima,
liberati dal dolore,
piangi, piangi, sfogati, liberati dalla tristezza.
Guarda la luna, guarda le stelle splendono e
sono bagnate dalle tue lacrime.
Il vostro legame non è finito,
il tuo amico ti protegge dall’alto,
un giorno vi troverete assieme
a correre nei prati e le tue lacrime
saranno solo un triste ricordo…
I tuoi occhi risplendono al buio
la sua mancanza si sente,
ma tu continua a correre
fallo per lui,
vai avanti;
il viso rigato da lacrime,
lo sguardo basso e distante,
il tremare delle tue mani,
il vento che ti muove i capelli,
tutto questo dovuto alla sua morte
vi volevate proprio bene voi due,
che il suo ricordo possa rimanere
impresso indelebile in te.
Solo il tempo può rimarginare il dolore
solo una grande amicizia
poteva renderti così affezionato,
non dimenticarlo mai,
che possa sempre rimanere
uno spazio in te
per tutto quello che ti ha dato,
per l’affetto venuto a mancare.
Un sorriso malinconico pervade il tuo volto
e un pianto sommesso la tua anima
piangi, piangi per lui.
Loopa Sonivree
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La speranza
Aprivo gli occhi ma non
capivo,
forse sognavo mentre
dormivo,
sulla terra non c’era né odio né guerre
né malattie,
neanche saccheggi e razzie.
No, non ero diventato scemo,
è la Speranza che non viene Mai meno.
Lucio Polazzi
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Ma il pensiero risale
Si sprofonda (talvolta)
la fine a toccare
poi il pensiero
con affanno risale la china
disperatamente
in cerca di segni
di segni.
Piergiorgio Fanti (dalla raccolta “ Tardorosa”)
Nascita
È rinata al calore
nel suolo morbido
del grembo la vita
Il tempo al dolore
con tenero soffio
ha riaperto il nirvana
E il nuovo
tepido chiaro
profumo di maggio
Raccoglie
l’abbaglio del sole
s’è luce
e il vento di vita
e di morte.
Piergiorgio Fanti (dalla raccolta “ Cristallo di rocca”)
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Dolore
Vorrei dirle addio
ma io addio
dir non so.
Avrei voluto amarla
ma lei amor di me ancor non può.
Avrei voluto
poterle dire ti amo ma io amar non so.
Paola Scatola
Speranza
Babba
muore così, oggi,
all'età di 44 anni:
bella, bella, bellissimamente bella.
Sei tu che volevo,
sì, proprio tu, dallo sguardo di bambino:
e se fossi tu e se fossi proprio tu
la lontananza,
la suggestione di rivederti,
la voglia di un nuovo incontro.
La mia Babba è ora tra le mie braccia,
è qui.
Paola Scatola
Dolore e speranza
Se potessi il mio dolore ti
cadrebbe addosso e come se
si chiudesse in una stanza
vorrei se potessi ai suoi
occhi sulla mia pelle dirgli addio
dolor della non curanza d'amarti
d'averti avuto vicino
per sempre con me,
toglierti dal sonno e portarti alla luce
delle sue mani per chiederle
"Aiutami!"
Paola Scatola
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Speranza
C’è un astro lassù nel ciel
che più non brilla
perché una vita in terra
se ne è andata e più non è tornata.
È un lembo del mio cuor
che mi han strappato
e soltanto mi è rimasto
l’amor che Ei mi avea donato.
Ma ciò non basta a confortarmi dentro
perché a te continuamente penso.
Ti cerco fuori, nelle strade, nelle piazze, nei giardini,
ovunque vedo i tuoi capelli neri lunghi e ricci
ma non ti trovo.
Stupida che sono,
ti cerco fuori e non mi accorgo
che nel mio cuor sei dentro e più di prima,
solo che i battiti del cuor non puoi udire
perché soltanto ti è concesso di dormire.
Un giorno o l’altro di rivederti spero
dove, come, e quando non lo so
ma son sicura che ti rivedrò.
Voglia di vivere
Da vortice profondo inghiottita era l’anima mia
e tristezza e solitudine eran mia compagnia.
Poi sei arrivata tu, voglia di vivere,
il tuo forte braccio mi hai teso,
ma il mio era troppo debole:
le mie fragili dita sono scivolate via dalle tue.
Turbini e tempeste sono sopraggiunte
e l’animo mio hanno infranto,
così che angoscia, dolore e perfino rimpianto
solo mi restavano accanto.
Ancora la vita mi offriva il suo dolce sapore,
ma nemmeno l’odore ne volevo sentire.
Chi sono io, anima inquieta e nullità perenne,
che qualcuno si degni di salvarmi la pelle?
Ma …forse soltanto di cangiar la mia sorte in morte!
Eppur di sete arde la mia gola,
tanta, che nemmen l’immenso mare può estinguerla.
Passano giorni, anni e nulla cambia
e l’anima mia non si ristora.
Non sia eterna questa mia sorte,
perché la sete mia arde più forte.
Potrà mai qualcuno a me pensare,
perché qualcosa possa migliorare?
Dove sei finita voglia di vivere, dove ti nascondi?
Rivelami il tuo nascondiglio finché io possa ritrovarti!
Ecco…c’è un’altra aurora che ritorna…
Ma questa volta, tu, voglia di vivere,
mille braccia mi tendi, non uno solo,
perché in qualche modo io mi consoli.
Mariangela
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Ombre amate
Ascolto il pulsare
di ogni parola
visto che in esse
la mente converte il cuore.
Il mio essere donna
…diverso da te
è saturo di parole
eppur le sole
che sappiano
amare.
A volte spengo l’interruttore
per captare l’ombra
ed il silenzio complice
risveglia l’occhio.
Poi la luce
fra gli echi di uomini
trafitti e depressi
fieri e seri
dolorosi d’amore.
Alla sera al calar
spengo anche l’ombra
ma di loro resta
l’anima amata
di solitarie confidenze.
Cosa siamo
se non anime perse
ombre disgiunte
voci cadenti
in cerca d’amore!
Le note dell’umore
abbracciano i contorni
del giorno
palpitano fino al cervello
scendono fino al cuore
e sotterro amarezza di ieri
e poi vivo l’oggi paziente
di ombre amate.
Marcella Colaci
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Cartolina da Piazza Maggiore
Un giorno un amico mi ha mostrato, molto rattristato,
la piazza principale della nostra città, piazza Maggiore, circondata da
transenne. Perfino la chiesa, monumento del centro prezioso e antico,
era resa inaccessibile, nascosta dietro barricate metalliche deturpanti
la bellezza di quel luogo. Era la nostra
piazza: quella degli incontri, quella dove i bimbi nutrivano i piccioni
con le mani piene di granturco, quella dove si guardava sempre verso
qualcosa di concreto, dove le persone si radunavano per imparare,
scegliere, riflettere, litigare, discutere, giocare.
In quel momento, invece, anche i piccioni sembravano scomparsi, forse
migrati lontano. Rimanevano le pietre possenti ma inermi, che non
potevano far altro che acconsentire alla sonnolenza di una città
ammutolita, dove le persone sole, chiuse nei loro pensieri, camminavano
con noncuranza, gli occhi fissi a terra. La città aveva paura, non
sapeva più cosa pensare, verso dove rivolgere lo sguardo.
Eppure proprio lì in quel centro, di generazione in generazione, gli
incontri si erano succeduti, perfino Dante, sommo poeta, aveva visitato
quel luogo, poi anziani raccolti in crocchi si erano impegnati in
lunghe discussioni di partito, urla giovani e arrabbiate avevano
sfondato il brusio dell’ingiustizia, si erano uditi cori sacri e
profani, una volta si era visto perfino un Papa salutare la folla
festante dai gradini della chiesa. E poi mani alzate a chiedere
rispetto per i diritti di tutti, baci soffusi di tenerezze, sguardi
rapiti da certi cieli così blu da fare dimenticare i più bei dipinti,
biciclette bizzarre appena comprate dal rigattiere, e poi studenti
d’ogni città e paese, e infine bambini. Quanti bambini avevano imparato
a camminare su quelle pietre con gli occhi rivolti al cielo e le
braccia tese verso il traguardo tangibile di un abbraccio che i
genitori offrivano ogni volta ricolmo di affetto e di sorrisi.
Mi guardai intorno e scorsi le inferriate. La piazza era recintata e
con lei la città, rimasta rinchiusa dentro la paura e l’indifferenza,
non trovava la forza di rinascere, di ricominciare a riappropriarsi
degli spazi che le erano concessi dalla storia.
Attraversai quel luogo con un senso di sconfitta e un vento freddo alzò
l’angolo del mio cappotto. Mi rimase impresso lo sguardo del mio amico
che, con rammarico, si trasferì in un’altra città. Ero triste.
Qualche mese dopo, però, un giorno come tanti, mentre passeggiavo in
centro mi ritrovai in quella piazza e mi accorsi, con gioia, che le
transenne non c’erano più. La piazza era di nuovo libera quel giorno e
un vento fresco aveva preso a soffiare, lo sentii sul viso come una
carezza. Pensai subito che dovevo raccontare al mio amico di quella
piccola liberazione. Doveva sapere che forse non era tutto perduto, un
flusso ininterrotto di desideri di libertà aveva aperto un varco nel
cuore della città. Gli scrissi. Non so di preciso cosa provò, ma mi
piace credere che gli piacque questa notizia. Si tratta, infatti, di
una notizia minuscola, grande come una gemma primaverile, una di quelle
notizie che non si adattano ai giornali, una notizia che, invece,
viaggia con un passaparola a cui partecipa soltanto chi ama quel luogo
con cuore sincero. Nel trascorrere dei giorni, nei pressi delle
costruzioni di una piazza antica si nascondono le voci che, liberate
come sbuffi di cielo, con tono appassionato ma lievi come sussurri,
continuano a diffondere le notizie importanti per i cuori che le
cercano, cuori che amano le persone e che, con tenace speranza, esigono
uno scatto di coraggio, un pensiero d’attenzione e di cura per la vita.
Costanza Tuor
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La famiglia Albani e le sue
difficoltà
Il silenzio
Era il tramonto, Ersilia e Duilio erano fermi nei
pressi della loro casa. Mucchi di neve giacevano in terra. Ersilia
aveva con sé due fiaschi di vino, che avevano consumato quella sera a
cena. Duilio aveva rinunziato quel giorno a un lavoro di una certa
importanza. Erano lì, vicini, senza dirsi una parola. Dopo trent’anni
di vita in comune, ormai si capivano al volo anche senza dirsi una
parola. Era un bene immenso quello che li accomunava. Avevano condiviso
momenti belli e meno belli, forse anche tragici, ma erano riusciti
sempre a superarli.
Ora erano ammutoliti. Le ore passavano inesorabilmente, la notte si
avvicinava, i loro figli erano in casa, intenti alle faccende
domestiche. Ormai era risaputo, facevano da genitori ai propri
genitori. Giulio e Michela erano sereni, sapevano che il loro destino
era difficile, segnato da molte difficoltà, ma non si scoraggiavano.
Andavano avanti, malgrado tutto, malgrado il lavoro, precario ma
impegnativo.
La notte si avvicinava. Ersilia ruppe il silenzio e si rivolse
dolcemente a Duilio, si avvicinò a lui e lo accarezzò. Bastò quel gesto
semplice ad accomunarli, a farli sentire vicini, a rasserenarli. Di lì
a poco sarebbero rientrati in casa. Pronti ad affrontare un’altra
notte, un’altra alba, ed anche un’altra giornata con tutte le sue
incognite.
La famiglia Albani avrebbe superato anche questo momento difficile che
li avrebbe rafforzati. Ribadiamolo, era questo il vero valore della
famiglia.
Il sogno
Ersilia quella notte aveva fatto
un sogno strano: le era apparsa una donna bella e maestosa,vestita di
bianco, che la chiamava e le diceva: “Tra tre giorni tu raggiungerai la
fertile Stia”, terreno a lei caro, dove aveva coltivato fiori e piante
di ogni genere.
Duilio, suo marito, aveva finalmente trovato lavoro e i suoi figli
vivevano una vita tranquilla. La donna aveva fatto molti sacrifici per
la sua famiglia, ora i giorni scorrevano tranquilli, poteva darsi pace.
Il sogno di tanto in tanto le tornava in mente, aveva perciò deciso di
raggiungere Stia, podere non lontano dalla sua casa. Quel giorno con le
sue sementi sarebbe partita per coltivare rose, tulipani, garofani e
altri fiori: le piaceva molto questa attività.
Di tanto in tanto pensava a Duilio, alla sua fatica per trovare
un’occupazione. Per molti mesi si era dato da fare, aveva fatto molti
colloqui ed ora lavorava in una falegnameria. Gli piaceva molto segare,
piallare, creare oggetti di ogni genere. L’uomo aveva ormai una certa
età e fra poco avrebbe abbandonato il lavoro, con un certo rimpianto.
Ersilia e Duilio erano una coppia ormai rodata, avevano attraversato
periodi scuri, ma ne erano usciti sempre con una certa soddisfazione.
Molte albe e molti tramonti si sarebbero susseguiti, ma la famiglia
Albani poteva vivere i giorni che rimanevano con serenità e pace. La
gente del vicinato li ammirava per il loro coraggio e la loro forza.
Da quel momento in avanti la loro vita avrebbe preso un andamento
tranquillo, sarebbero diventati un simbolo per la comunità in cui
vivevano. Sarebbero stati di esempio agli altri, potevano dirsi
soddisfatti e vincenti.
La guarigione
Ersilia era occupata nelle
faccende domestiche. Era una giornata tranquilla di settembre. La donna
sognava sempre: le notti erano per lei il momento più bello. Le tornò
in mente una frase che le era rimasta impressa, diceva, più o meno:
“Qui gli balzò incontro il figlio del re Pilemene”. Era uno strano
messaggio che la inquietava, molta angoscia la opprimeva, la
attanagliava. La sua vita fino a quel momento era stata tranquilla, ma
ora forse non sarebbe stato più così…
Le sue giornate erano intense, il giardinaggio era la sua occupazione
principale. Duilio, suo marito, era molto occupato, finalmente aveva
trovato lavoro e tornava a casa stanco, ma per lei era veramente il
compagno della sua vita. I figli erano soddisfatti e orgogliosi, la
famiglia Albani era veramente un simbolo per la comunità. Chi era il
figlio del re Pilemene? La donnase lo chiedeva incessantemente durante
il giorno. Molti personaggi popolavano i suoi sogni, le notti erano per
lei il momento più bello, come abbiamo già accennato all’inizio… Da
quel momento in avanti forse qualcosa sarebbe cambiato in negativo,
avrebbe dovuto difendersi, ma da che cosa?
Forse dal suo immaginario, dalla sua fantasia, dalla sua malattia che
l’aveva oppressa per tanti anni, che aveva curato con tenacia e
pazienza. Ricordava con amarezza e angoscia i ricoveri che aveva dovuto
subire, le cure, a volte massacranti, a cui era stata sottoposta. Ora
poteva dirsi finalmente guarita, ma non si dava pace: che cosa avrebbe
fatto da quel momento in avanti? Era un’incognita che la inquietava. Ma
aveva fiducia nel domani, aveva molta forza, non si sarebbe mai
rassegnata al dolore e alla malattia. La comunità in cui viveva la
stimava ed era forse la sua forza. Qualcosa sarebbe cambiato,
finalmente, in positivo.
Chiara Reitani
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La storia, la rinascita e
la resurrezione di Concettina
Chi scrive è uscita dal tunnel ed ha rivisto la luce,
perciò capisce bene chi è ancora al buio, non intravede, non ha trovato
nessuna lucina e spesso, non rassegnandosi a quello stato, perde la
speranza e cerca delle scappatoie: alcool, droghe, discoteche a gogò,
sballi vari, corse sfrenate nella notte (le morti del sabato sera sono
numerosissime), suicidio…
Ora io penso che “chi vive sperando muore cantando”, ma c’è anche la
versione: “chi vive sperando muore… cacando”! Dal dolore bisogna uscire
soprattutto quando il dolore è immenso, infinito, senza speranza.
La mamma di una mia amica ha provato due volte a suicidarsi perché “non
ne poteva più”, si era stancata di soffrire e “di far tribolare” i
propri cari. Per due volte è finita all’Ottonello ed ancora “vive”,
davanti ai familiari che aspettano… che cosa? la sua morte… A che serve
tanta sofferenza? Io sono credente e non penso che Dio voglia la
sofferenza delle sue creature.
Non credo nemmeno alla “cagata”: “Tu partorirai con dolore!”. Io sono
single e non ho mai avuto figli, ma ho avuto diverse amiche che, dopo
aver partorito, mi hanno raccontato le “gioie del parto”. Mi è stato
detto che è “un male che si dimentica” , ma mi sono state fatte delle
ricostruzioni terribili. Quando mia sorella ha avuto il primo figlio
con parto cesareo, mi disse: “se rimani qui un po’ ti passano tutte le
voglie di avere un figlio”. C’erano donne che uscivano “sbragate”,
altre che uscivano dalla sala parto simili a cadaveri, con emorroidi,
suture varie eccetera. Una mia amica per due o tre mesi non ha potuto
sedersi sul water per via dei punti un’altra ne ha avuti trentatré fra
interni ed esterni. Un’altra mia amica, che ha avuto Francesco, un
pelino robusto (5.300 kg!), urlava al marito: “Alberto, tiramelo fuori,
non ne posso più!”…
Anni fa, mentre ero in un centro termale, ho fatto una magnifica
terapia in acqua “warm”, quasi sconosciuta in Italia, che serve per
mille cose (aiuta nei traumi, rilassa al punto da farti sentire in
paradiso, può servire per avere un parto indolore, che mi risulta
facciano nell’ospedale di Bentivoglio (Bologna) a posti limitati.
Veniamo ai problemi legati alla depressione e ai relativi farmaci. Io
ho un problema di depressione bipolare, sono seguita da undici anni da
un CSM: anni di momenti di euforia che si alternavano a momenti di
tristezza. Dopo vari tentativi di suicidio -ho anche tentato di
buttarmi giù dalla finestra del mio bagno (abito al terzo piano)- vari
ricoveri, ora sto finalmente bene. Prendo ormai pochissimi farmaci, si
è rimesso in moto il metabolismo che si era come bloccato, fino al
punto di portarmi a centoventun chili (oggi ne peso ottantacinque).
Va detto che io ho fatto due periodi di psicoterapia individuale a
pagamento: un anno e mezzo con un freudiano (una volta alla settimana)
e circa due anni con una rogersiana.
Con i soli farmaci non sarei mai guarita. Ecco perché nei CSM e nei
vari SPDC dovrebbero esserci psicologi e psicoterapeuti, perché è
fondamentale che ciò che si ha dentro si butti fuori. Anni fa uno
psichiatra a una mia amica disse: “I rospi che buttiamo giù, o fanno
ingrassare - ed io ero anche ingrassata - o fanno avvelenare” - ed io
ero tutta un blocco.
Essendo seguita da circa dodici anni da una nutrizionista biologa e
dietologa, per il mio problema di obesità e intolleranze alimentari, ho
iniziato a bere il magico e prezioso tè verde dalle mille proprietà.
Prima ne bevevo una tazza a colazione, ora ne faccio un litro al giorno
e… “più lo mandi giù e più ti tira su” (come recitava la pubblicità
della miscela Lavazza). Il tè verde è depurativo, antiossidante. La mia
nutrizionista Valeria dice che lei da due anni sostiene l’utilità del
tè verde, ma… nessuno le crede… Non c’è peggior sordo di chi non vuol
sentire e non c’è peggior tonto di chi non vuol capire! Ora io bevo tè
verde, lo regalo, lo porto ai miei gruppi, lo offro a tutte le persone
che vengono a trovarmi ed insieme ad acqua naturale e succhi di frutta,
io bevo circa un litro e mezzo di liquido al giorno, sto benissimo,
faccio tanta pipì e i miei reni funzionano alla grande.
Alla morte della mia mamma – nel 1992 – io che avevo ventotto anni ,
entrai in un percorso di disperazione totale. In quel periodo studiavo
per l’abilitazione all’insegnamento, insegnavo lettere come precaria e…
piangevo. Soffrivo perché non l’avevo salutata, perché non le avevo
telefonato, perché non ero tornata a casa da lei (ero via per lavoro e
le avevo detto che forse sarei tornata a casa per un giorno). Ma la
cosa più straziante era pensare che era finita sotto due metri di terra
e basta. A questa cosa proprio non mi rassegnavo.
In quel periodo “io davo i numeri”. Purtroppo ho buttato le agende di
quegli anni, ma so che “davo e scrivevo numeri all’impazzata”. Ora
credo che – se non avessi buttato fuori scrivendo tutta quella
disperazione – io sarei impazzita del tutto.
Ma io… ho avuto una sana, positiva e costante educazione cattolica,
religiosa, e soprattutto cristiana. I miei familiari (quelli credenti,
è ovvio) erano religiosi, ma non bigotti (che tengo alla larga più dei
senza Dio) ed io avevo frequentato regolarmente la chiesa fino a sedici
anni e mezzo. In seguito ad un trasferimento di casa e di quartiere, io
– che non mi trovavo per niente bene nella nuova parrocchia – avevo
mollato tutto. Mia madre urlava: “Se penso che cantavi in chiesa! Ora
sei diventata una bestia”… Ed io : “Vacci tu, in chiesa, che non ci vai
mai!”
Ma io, nel 1999, ho iniziato a cantare nel coro di San Petronio.
Cantavamo musica sacra, tutta in latino ed io –ascoltando gli altri
cantare e poi cantando con loro – ho cominciato ad avere la pelle d’oca
e a sentire strani rimescolii all’interno del mio “corpicino”. Il 25
maggio 1999, giorno della Pentecoste, nella locandina rosa del mio coro
io scrivevo: “Tina Gualandi, cantore del Signore e della Signora (e di
tutti gli altri)”.
Dopo i miei anni di depressione, il coro e il canto erano stati messi
da parte, ma ora ho ripreso a cantare, ad ascoltare le cassette che
avevo registrato durante le prove del coro, ad ascoltare il CD che
comprende vari brani di vari concerti, tra cui il ”Dies Irae”, il
“Credo” e il “Propitio numini” e… ho capito che: io credo, quindi so
che c’è un Dio, una Madonna che vigila su tutti noi, un Gesù che è
morto per noi sulla croce ma poi è resuscitato e quindi la mia
meravigliosa mamma insieme al mio babbo, morto cinque anni dopo, sono
lassù in cielo, ci guardano e ci proteggono dall’alto, pregano per la
nostra salute e felicità.
In questi ultimi giorni - facendo finalmente le pulizie di Pasqua
all’interno della mia casa - in una scatolina dentro una scatolona ho
trovato i bigliettini che parenti ed amici avevano mandato ai miei
genitori per il loro matrimonio e mi sono resa conto che i miei
genitori non si erano sposati solo perché mia mamma era rimasta incinta
di mia sorella (e per questo era finita in manicomio tre mesi a Imola),
ma perché si amavano. Purtroppo però la loro vita era stata difficile e
li aveva allontanati, ma quando sono nata io, le cose credo andassero
molto meglio, perché intanto io ricordo gli anni della mia infanzia
molto positivi (adorata e benvoluta da tutti, soprattutto dai miei
genitori) e ho anche capito perché sono stata battezzata: “Concettina”.
Mia mamma – molto religiosa - rimanendo incinta fuori dal matrimonio,
temeva di “aver peccato” e l’avevano, eccome, fatta sentire in peccato
(ecco perché il manicomio… E lei, che quando andavamo a trovare una zia
in manicomio dopo un esaurimento nervoso, durante la guerra, mi diceva
tenendomi per mano: “Non aver paura. Non ti fanno niente. Non sono
cattivi.”).
Ma io ero nata all’interno del matrimonio, figlia di due genitori che
si sono amati, anche se molto diversi tra loro.
Io ho ritrovato le mie radici, sono uscita dal tunnel, ho rivisto la
luce, riprenderò a cantare e condividerò la mia gioia di vivere e la
mia voglia di amare con gli altri, perché una vera e totale gioia non
si può tenere solo per sé. Perché dividendola con gli altri, si
moltiplica all’infinito.
Tina
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Dolore e speranza
Se ti chiamo con il tuo nome, cosa rispondi al tuo
delirio, di infrangere cose dette mai, cose spese a te, chiamate mai
inviate al ricevente di una casa nascosta sulle montagne; di roccia in
roccia, di gabbione in gabbione, se m’ibrido di te qual male odora e
respira la sabbia dei ricordi, senza un nome, senza respiro, correndo
dietro ad un dolore, correndo dietro a: m’accompagna la mano all’altare
di una giubba rossa, che condisci di azzurro, di ignoti racconti che
sussultano ai gradimenti di un celere viaggio in Italia, dove mi
condusse una madre assopita e stanca del calore di una rosa rosa, ormai
sbiadita, secca ed aspra diviene ormai anche sulla tomba di chissà
quale sacerdozio evocare una gomita suora, funesto nel letto di un uomo
che dorme, appaia che dorme.
Ma sei tu che corri dinnanzi a me, tu che danzi su una strada alberata,
con i cipressi che piombano giù da una colata d’amore, l’onore funge ad
un Dio ribelle, ma sta nelle sue mani ed il male ed il bene di tutto il
mondo, di chi sei, di chi sarai mai, se non di un comando inoltrato a
ponente, di una lettera speculata ad un indirizzo anonimo, che chiama a
te le cose, le esuberanze, i dinieghi più impossibili, ma se cosa fosse
l’amore se non che il vizio di un secondo, se non che la penombra di un
riflesso di sole, di fiori d’arancio che un giorno io ti chiesi in
prestito per raccontare la classe terza A, dove il cammino era disteso,
dove i tuoi passi rabbrividivano al cielo per un gioco insufficiente e
maldestro di chi sedeva al tuo fianco, ma se per inerzia o velluti di
guanto nessuno t’ha mai difesa io ghiaccio il tuo bel vedere e lo
rimprovero ad un dolore coatto: quello d’esser mia, d’amarti per sempre.
Io l’idiota del villaggio, tu l’imbecille del Paese costruisce
l’emblema posto sul tuo braccio, che adorna il giardino dei beati e
l’incredulità di un Dio avverso ed incostante: perché il fiele sia il
dolore e la zigonia sembri un colore qualcuno giunse quaggiù e apparve
la cancellata dei tuoi limiti, dei tuoi naufragi su di me e composi
strofe, su quel carcere di menzogne che piansi in ignote membra dipinte
d’azzurro per poi cadere in bisticci di dolori incurabili, di te
speranza indissolubile di guarirvi dentro, di dire a te per sempre sì,
di dirti ancora che amo anch’io, come soffre Dio, che muoio anch’io
come riposa un bimbo che non
trova noia, tra le braccia di una mamma che soffre di indubbie codardie
anche su di sé, ma che non viola l’inosservatezza delle tue, delle sue,
delle lacrime anche tue. Ma forse il dolore calma i singhiozzi della
cenere di quel male che riprese le unghie di un assassinio: fu un cuore
a morire, non un amore, fu il cielo a stordirmi il reato di bomboniere
in gemme di quel fiore, in fiore. Quando le sue mani mi toccarono non
conosco più il dolore e quanta speranza.
Paola Scatola
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Testimonianze del Gruppo di
ArteInsieme
Ce l’ho con il mondo intero, ma…
Nella mia vita ho provato tantissimi dolori, sin
dall’infanzia a partire dalla mancanza di affetto da parte dei miei
genitori fino ad arrivare a tutti gli altri. Nel 2000 ce ne fu uno che
non dimenticherò mai perché mi portò ad ammalarmi psicologicamente.
Ricordo che quell’anno andavo a scuola guida e qualche volta stavo
male, perché il mio istruttore quando non mi vedeva concentrata mi
sgridava. Io ci passavo sopra perché sapevo che era per il mio bene.
Col tempo riuscii piano piano a migliorare ma ancora non lo avevo
soddisfatto, perché qualche volta non ricordavo le cose che dovevo
fare. Così lui chiese a mia madre se poteva essere più duro e da lì
venne il problema. Io feci presente a mia madre che ciò mi avrebbe
fortemente turbato, ma a lei non importò niente e con noncuranza disse
all’istruttore:”Faccia pure, faccia pure!”. Così ricordo che un giorno
mentre ero al volante, lui mi disse di voltare a sinistra, ma io non
riuscivo a vedere la strada. Lui volle provare a farmene fare un’altra,
ma anche questa volta non la vidi. Ragazzi, non vi dico cosa capitò!
Furibondo il mio istruttore cominciò ad urlare talmente forte che io
rimasi incollata al volante. Così per tutto il giorno mi maltrattò con
modi bruschi e quella che io ricordo come una frase orrenda. Mi disse:
“Se non ti dico io di fare una cosa, tu non fai nulla”!
Arrivata a casa scesi dalla macchina senza parole e con i muscoli
rigidi dallo spavento. Mi trovai da sola nella mia stanza con il mio
amico immaginario che mi chiese: “Com’è andata la guida?”. Non potete
immaginare la mia reazione. Mi buttai sul divano piangendo e urlando
come una pazza a causa del forte
trauma e dell’incomprensione della mia famiglia. Per mezz’ora urlai in
presenza della mia famiglia che si preoccupò soltanto che la gente
fuori potesse sentire e parlare male. Non si preoccuparono di me che
ero messa da cani. Arrivarono le 20.30 e stavo ancora piangendo forte,
anche a causa dell’indifferenza della mia famiglia, ancora orgogliosa
del gesto che avevo fatto di spingere l’istruttore ad essere una
“belva”.
Così da quel giorno persi l’autostima, cominciai a sentirmi inutile e
soprattutto non amata; così le mie invidie e le mie gelosie verso le
persone che ritenevo buone crebbero. Ogni volta che ricordavo questa
cosa urlavo forte; andai in crisi e finii da psicologi che non capivano
ciò di cui avevo bisogno, cioè affetto ed empatia. E fu così che quel
dolore si ripercosse su di me fino ad ora che ancora ce l’ho con il
mondo intero e a volte sono cattiva.
Anche ora sto male, ma dentro di me c’è una speranza che non muore mai.
Dalla semiresidenza ricevo e riceverò l’empatia che non ho mai ricevuto
e questo mi porterà ad essere più felice.
Erika
Rossella e l’amore
Rossella e Riccardo sono amici e
si conoscono da una vita perché i loro genitori sono vicini di casa ed
hanno fatto amicizia. Così anche loro con il passare degli anni
diventano amici frequentando la stessa scuola e le stesse persone.
Passano gli anni ed i ragazzi crescono. Ora hanno vent’anni e
frequentano la stessa università. Rossella è molto gelosa di Riccardo e
quando un bel giorno si fidanza con Angelica, una ragazza conosciuta in
biblioteca mentre andava a studiare, Rossella va su tutte le furie.
Assilla Riccardo di telefonate e di domande per conoscere meglio questa
ragazza alla fine però Rossella si rende conto di amare Riccardo perché
la sua gelosia è troppo forte.
Un giorno riceve un dolore grande perché Riccardo, stanco delle sue
continue telefonate e delle sue intromissioni, le dice che se non la
smetterà romperà la sua amicizia con lei. Questa per Rossella è una
doccia fredda.
Decide di partire per Londra dove ci sono altri amici disposti ad
ospitarla. Pensa che sia l’unico modo per dimenticarlo. Gli scrive una
lettera di addio ed inizia una nuova vita con la speranza di
innamorarsi di qualcun altro e di essere corrisposta, per formare una
famiglia.
Barbara
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L’amico ritrovato: la speranza
nasce dal dolore
“Casa Mantovani”: laboratorio narrativa e scrittura
creativa
Nello scorso quadrimestre, il laboratorio di narrativa
ha letto il libro “L’amico ritrovato” scritto da Fred Uhlman.
L’autore nacque nel 1901 a Stoccarda, capitale del Wurttemberg, nella
Germania sud-occidentale. Frequentò un liceo classico e in seguito,
dopo la prima guerra mondiale, si laureò in legge. Fred Uhlman non era
uno scrittore di professione, faceva l'avvocato, ha lasciato pochi
esperimenti letterari e solo "L'amico ritrovato" era stato da lui
destinato alla pubblicazione; non poté esercitare a lungo in patria la
professione di avvocato che aveva intrapreso, fu costretto ad
interromperla nel 1933, quando in Germania iniziò la dittatura di
Hitler.
Uhlman era un ebreo democratico ed il regime nazista negava ogni
diritto di esprimersi, di esistere e di vivere. Così lasciò la Germania
nel 1933 e non vi fece più ritorno. Trascorse l'ultima parte della sua
vita in Inghilterra, a Londra, dove morì nel 1983.
Leggendo la sua autobiografia si capisce che ne L'amico ritrovato egli
dipinge i luoghi e l'ambiente della sua adolescenza. Il romanzo narra
la storia di due ragazzi e della loro grande amicizia, nata, cresciuta
e inaridita nell'arco di un anno. Il narratore, di nome Hans Schwarz, é
uno dei due protagonisti: figlio di ricchi borghesi, ebreo tedesco di
diciassette anni, frequenta il liceo classico, il Karl Alexander
Gymnasium di Stoccarda ed é legato da un fortissimo affetto al suo
compagno di scuola Konradin von Hohenfels, figlio di nobili protestanti
che aderiscono alle idee naziste.
Nel 1933 le leggi razziali cominciarono a sconvolgere la vita di Hans:
a scuola veniva umiliato dai compagni e dai professori e il legame con
Konradin veniva sbaragliato dal clima di intolleranza. Hans fu
costretto ad andare in America dove trascorse tutta la vita e, ormai
vecchio, venne a conoscenza che la sua città e la sua scuola erano
state distrutte.
Hans incontrò per la prima volta Konradin nel febbraio del 1932 e
decise che sarebbe dovuto diventare suo amico, perché non c'era niente
in lui che non gli piacesse. Riuscì ad attirare la sua attenzione, così
una sera di primavera capì che la vita non sarebbe più stata vuota e
triste, senza veri amici, ma ricca e piena di speranza per entrambi. Da
quel momento Konradin divenne fonte della sua più grande felicità, ma
anche della sua più totale disperazione.
“Passarono giorni e mesi e nulla turbò la loro
amicizia, ma un giorno, dopo la morte dei figli dei vicini di Hans, la
famiglia Bauer, i due amici si chiesero il perché della presenza del
dolore e del male nel mondo e come fosse possibile che Dio li
permettesse. Essi giunsero a conclusioni del tutto diverse, dovute
all'educazione che essi avevano ricevuto”.
In questo libro si sente forte il tema del dolore per l’abbandono dei
luoghi cari e delle relazioni significative, ma anche la speranza del
cambiamento e di un futuro migliore.
Giorgia Busti
Vengono riportati di seguito alcuni lavori di gruppo
dei partecipanti a Narrativa:
Quando Hans cerca Konradin nella lista dei decessi è
forte in lui la speranza di non trovare quel nome… vedendolo prova un
forte dolore nel vedere che è morto, ma anche stupore, perché è stato
giustiziato per difendere gli ebrei… quindi, in un certo senso, a
distanza di anni lo ha ritrovato.
Lorella F.
Il padre di Hans si sentiva fortemente tedesco e non
accettava quanto imponeva il nazismo, per questo è rimasto in Germania…
per la speranza che tutto tornasse come prima e che, da buon medico che
era, quello della società tedesca fosse un malessere passeggero.
Maya D., Pierfrancesco P., Massimiliano B.
E’ forte in Hans il dolore per quanto accaduto alla sua
terra ed ai suoi amici…ma anche Konradin è dispiaciuto per la partenza
dell’amico, costretto ad emigrare in America per motivi che,
probabilmente, non comprende a pieno. In entrambi però c’è la speranza
di rivedersi, la speranza di tornare ai vecchi tempi, di “ritrovarsi”
in un futuro migliore.
Rita R., Paola L., Gianluigi M.
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Il dolore e la speranza
Corso di Italiano a Casa Mantovani
Il 10 marzo ho trattato l’argomento “Matilde di
Canossa” ponendo in rilievo la difficoltà del personaggio
nell’accettare il ruolo di signora e guida di un vastissimo territorio.
L’accettazione di due matrimoni non voluti, lo scontro con
l’imperatore, il desiderio mai soddisfatto di una vita monastica, le
procurarono enormi sacrifici personali, ma fu sempre sostenuta dalla
speranza di essere utile alla Chiesa e alla sua gente.
A questo punto ho cercato di farmi dire che cosa ne pensassero i
presenti e se anche loro potevano aver vissuto, o vivere, simili
sentimenti.
Maya: Ho avuto molti dolori, ma non ne vorrei parlare, perché il farlo
mi fa stare male.
Oriano: Il dolore più grande per me è stata la morte di mio padre,
quando ero ancora a casa.
Rossella: Delle mie esperienze e dei miei sentimenti io ne parlo solo
con chi mi fido
(ha parlato della sua grande passione per il gioco
degli scacchi).
Claudia: Io sono stata molto male a casa, perché mi davano una medicina
che ho cercato di rifiutare recandomi anche dai carabinieri, ma non c’è
stato niente da fare. Così mi sono buttata dalla finestra e mi hanno
portata qui. Ma anche qui mi danno una medicina che mi fa stare male…
(poi si è interrotta perché è rientrato Oriano al quale dà fastidio
sentire questo racconto)
Nessuno di loro ha però parlato di speranza.
Evelina Busi Scanabissi
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L'isola del tesoro
Racconto avventuroso fantascientifico a puntate
Riassunto della puntata precedente:
I nostri avventurosi viaggiatori sono arrivati, non
senza numerose difficoltà, alla cascata dove ritengono di poter trovare
il tesoro. Li abbiamo lasciati nel momento in cui intravedono una
roccia che sembrerebbe indicare l’accesso alla grotta del tesoro.
ULTIMA PUNTATA
Pedro si offre volontario per spiccare per primo il salto dalla roccia
piatta all’ingresso della grotta e Linda, coraggiosamente, decide di
seguirlo con i suoi rimedi naturali. Pedro, imbragato assieme alla
panterina, spicca il salto senza alcuna esitazione e Linda dietro di
lui. Scivolano velocemente fino a una pozza d’acqua all’interno della
grotta e, in men che non si dica, Pedro viene morso da un enorme
serpente acquatico. Linda, riconoscendo il serpente e sapendo cosa fare
in questi casi, afferra al volo l’animale e raccoglie il veleno per
ricavarne l’antidoto e salvare Pedro. Nel frattempo anche Jessica, non
resistendo all’attesa, si lancia con tale impeto da superare la pozza
dei serpenti e scivolare attraverso un cunicolo per atterrare
direttamente nella stanza del tesoro. Gianmarco decide di restare sulla
sponda assieme alla nonna di Jessica, perché entrambi hanno il terrore
dei serpenti. Chaulì si butta, con impeto da samurai giapponese, e si
ritrova a gambe all’aria addosso a Jessica. Si rialza prontamente e,
assumendo una postura marziale, urla: “Banzai!!”. Sentendo l’urlo di
Chaulì, Linda e Pedro e la panterina cominciano a correre dirigendosi
verso la fonte del suono e raggiungono le compagne nella stanza del
tesoro. Finalmente riuniti di fronte a tanto “ben di Dio” si tuffano
tra i preziosi urlando di gioia. Dopo un primo momento di felicità ed
eccitazione ognuno comincia a cercare e mettere da parte ciò che più
gli interessa e a stivarlo nel proprio zaino. Pedro trova, su un
piccolo altare, il teschio destinato al miliardario che lo renderà
immortale come vuole la leggenda. A fianco vede una piccola agata
marrone a forma di cuore con un diamante incastonato al centro e la
prende. Di seguito raccoglie alcune monete antiche per l’astronave Alex
e per Gianmarco. Con lo zaino strapieno torna alla sponda del lago da
cui è partito. Linda, esterrefatta da tanta opulenza, si siede e si
guarda a lungo intorno per poter scegliere cosa portare con sé. Si
accorge di un armadio nel quale trova alcuni preziosi rotoli antichi e
aprendone uno si accorge che si tratta di antichi erbolari e ricette
per pozioni curative. Ripone cinque rotoli nel suo zaino assieme a una
grande quantità di monete d’oro. Chaulì afferra monete d’oro e oggetti
d’oro riempiendo così lo zaino. Un pensiero va alla nonna e cerca per
lei gioielli che possano essere di suo gusto. Non trovandoli, ripiega
sulle monete d’oro, riempiendosi anche la sacca che forma sollevandosi
la gonna. Le tre ragazze rimaste nella grotta tenendosi per mano e
camminando rasente al muro cercano di non far rumore per non attirare i
serpenti e ben presto tornano alla luce del sole. Gianmarco, vedendo
Pedro carico, gli chiede cosa abbia portato. Pedro, aprendo lo zaino,
risponde: “Ho trovato il teschio per il miliardario, l’agata marrone
per me, le monete antiche per l’astronave e per te:” Gianmarco lo
abbraccia e con riconoscenza esclama: “Che bravo!Grazie!”. Nel
frattempo giungono le altre compagne sorridenti e contente. La nonna si
mostra subito curiosa di sapere se qualcuno abbia pensato a lei. Rimane
delusa quando Jessica le porge le monete d’oro e non i gioielli. La
ringrazia ugualmente, la bacia e l’abbraccia pensando che con quelle
monete potrà potuto comprarsi tutti i gioielli che desidera.
L’avventura si conclude con una grande festa che vede tutti riuniti
attorno al fuoco. L’astronave Alex, di sua spontanea volontà, decide di
andare a recuperare il miliardario con una velocità impressionante di
365.000 km al secondo. Il miliardario raggiunge così il gruppo portando
con sé una cassa di bottiglie di champagne per brindare. Dopo aver
mangiato ben tre maialini selvatici arrostiti sul fuoco ed essersi
scolati tutto lo champagne disponibile si mettono a ballare. Sono così
contenti che prolungano i festeggiamenti per due o tre giorni finché
sfiniti si addormentano. Al loro risveglio decidono di tornare ognuno a
casa propria. E’ arrivato per loro il momento di salutarsi. E’ nata tra
loro, uniti per sempre da questa bella e fortunata avventura, una
grande amicizia. Si baciano e si abbracciano con il proposito di
rivedersi presto.
Laboratorio di scrittura e immagini ArteInsieme
Centro Diurno Casalecchio di Reno
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Botta e risposta
Luigi: Se il responsabile non assume la responsabilità
a tempo indeterminato, la responsabilità diventa una precaria!
Edoardo: E il responsabile diventa irresponsabile…
Luigi: Le cose tornano!
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Pensiero Zen 1
I genitori muoiono…
Ma possono pensare, quando sono ancora in vita, che i loro figli
continueranno a guardare, attraverso di loro, il mondo.
Pensiero Zen 2
Il perfetto espianto…
È se una coppia di non vedenti mette al mondo un figlio vedente,
attraverso il quale i genitori potranno vedere il mondo.
Luigi Zen
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