Piergiorgio Fanti

Michele Cammarano: “Il 24 giugno a San Martino”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Anna

La parola ‘coraggio’

Francesca

Il coraggio e l’accettazione

Antonio Marco Serra

Il coraggio e la non accettazione

Tina Gualandi

La preghiera della felicità

Costanza Tuor

Prima e dopo

Edoardo Bellanca

I fratelli degli ammalati

Tonina Lai

La malattia opportunità di crescita

Paolo Marchiori

La luce dopo il buio

Mariangela

Il coraggio di mia madre

Giovanna Giusti

Ci vuole coraggio

Darietto

Un mondo troppo pieno di ostacoli

Filippo Montorsi

Un po’ della mia fantasia

Mariana Alena Parera

Felicità… lunga vita!

Lucia Luminasi

Il repertorio dei matti della città di Bologna

***

Una si sedeva alla fermata del 29…

L. L.

Uno fino a poco tempo fa…

Cristicchi

La recensione: Il campo giusto di Elio Cicchetti

INSERTO
      Alessandra Solmi     Coraggio
      Ileana Vagnozzi     Accettazione
      ***     Il cervello fra paura e coraggio
      Cristiana Milla     La paura della paura

Luca G.

Atti di coraggio e accettazione attraverso il tempo

***

La canzone: Le cinque anatre di Francesco Guccini

DEDICATO AD ARIANNA Lo spazio della poesia

 

      Loopa Sonivree     Il coraggio e l’accettazione
      Domenico Barone     Terre lontane
      Marcella Colaci     Zoppa
      Paola Scatola     Vorrei averti qui
      Matteo Bosinelli     Lucida follia
      Filippo Montorsi     Nessuno, Elena e il coraggio
      Filippo Montorsi     L’uomo nella casa senza porte
      Giovanni Romagnani     Bolle di Sapone
      Marcella Colaci     L’indifferente
      Marcella Colaci     Violenza
      Giovanna Giusti     Esistenza
      Luisa Paolucci delle Roncole     Estendo ogni grammo
      Giovanni Romagnani     Tao Oscuro
IL TIMONE
      Milena Di Camillo     Guardare negli occhi chi sta peggio di noi

Associazione élève

Alleniamo la mente con il Matequiz

Giovanni Romagnani

La notte di note

Luigi Zen

Il coraggio, l’accettazione e lo Zen

Associazione UmanaMente

Coraggio e accettazione

Centro Diurno Casalecchio

Coraggio e accettazione

Giovanni Romagnani

Lo sfogatoio

***

La canzone: Delusa di Vasco Rossi

Luisa Paolucci delle Roncole

Poesia

Darietto

Dazzenger

***

Soluzione del Matequiz

***

La Posta

Michele Ferri

L’inaugurazione di Ca’ Provvidone

LE GITE DELLA TROTTOLA
      Tina Gualandi     Madonna dell’Acero
      Paola Scatola     Verona città dell’amore

Associazione UmanaMente

La guerra delle tribù africane

 

                                                                                                                                                                               
MICHELE CAMMARANO: “IL 24 GIUGNO A SAN MARTINO” (1883)

   Piergiorgio Fanti


M ichele Cammarano nasce a Napoli il 23 febbraio 1835. Fu garibaldino, e dalle vicende di guerra, come altri pittori del tempo, trasse lo spunto per studi di argomento militare che saranno in parte utilizzati, più tardi, nelle grandi composizioni celebranti famosi fatti d’arme delle guerre d'indipendenza. Di famiglia d’artisti, pittori e teatranti, dal nonno Giuseppe, che primeggia tra i ne¬oclassicisti della Corte borbonica, al padre Salvatore, che fu pittore di poco successo, ma famoso librettista d’Opera Lirica. Michele fu allievo del paesaggista Smargiassi, per passare, in un secondo tempo, alla scuola di Filippo Palizzi. Poi a Firenze, a Venezia. Tra il 1870 e1875 era a Parigi, dove si interessò alla pittura di Courbet e Gericault, e gli vennero le idee dei grandi quadri di battaglia, come quella di San Martino (1883). Forse, piuttosto che alla maturata coscienza di nuove idealità politiche, la ricerca di Cammarano mira a rendere accenti di forte drammaticità emotiva. Il vero problema era di liberarsi degli orpelli piacevoli per affrontare un macchiato violento; riguardare il Seicento per andare oltre sulla via del luminismo. Michele Cammarano si spense a Napoli il 21 settembre 1920.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


F orza, coraggio e vita lesta, mangiare poco e lavorar da bestia, diceva un vecchio proverbio. In questo c’è molto di vero.
Il vocabolario Zingarelli definisce il coraggio come: “forza morale che mette in grado di intraprendere grandi cose e di affrontare difficoltà e pericoli di ogni genere con piena responsabilità”.
Tra il proverbio e la definizione c’è una parola in comune: ‘forza’.
Questa forma di energia mi è stata di grande aiuto nei momenti più cupi della mia malattia. Un sinonimo di malattia psicologica è appunto ‘esaurimento nervoso’. Manca cioè la forza per resistere o superare difficoltà.
Nel mio caso sono stati prima tic nervosi, poi depressione e infine pensieri ossessivi.
Ma allora dove sta il coraggio? Il coraggio sta nell’accettazione. Accettazione intesa sia come ricevere di buon grado un brutto pensiero, sia come prendere a colpi di accetta quest’ultimo.
La temerarietà, che differisce dal coraggio per il senso di responsabilità, non porta alla soluzione del problema. Per risolverlo è indispensabile definirlo sotto tutti i punti vista senza nascondere o nascondersi nulla. Il coraggio insomma risiede nel riconoscere i propri problemi senza la paura o la sofferenza che questi provocano.
È chiaro che alcuni pensieri non possono essere scoperti e curati da soli; è indispensabile che un professionista aiuti nel percorso. Talvolta i pensieri generano una profonda sofferenza, e solo i farmaci possono aiutare. Ma che grande gioia e senso di liberazione si genera quando un pensiero viene risolto e distrutto, magari metaforicamente a colpi d’accetta! Dove per ‘accetta’ si intende la forza, l’energia di controllare liberamente i propri pensieri e avere la mente libera da pensieri sconvenienti.
Concludo con una rapida sintesi sul proverbio iniziale, che appunto ci parla del coraggio inteso come senso di responsabilità nell’affrontare le difficoltà e i problemi. Invita infatti ad avere vita lesta e non passare inutilmente tempo a rimuginare su pensieri ossessivi che intorbidiscono la mente e non portano a nulla. A non lasciarsi andare ai piaceri della gola, ma a preferire una alimentazione sana che favorisce benessere e lucidità. Infine, a lavorare a testa bassa, per non lasciarsi andare ad una pigrizia improduttiva.
Buona lettura de Il Faro, nella speranza che le paure insite in ognuno di noi possano portare a trovare e riscoprire energie e coraggio che non pensavamo di avere.

LA PAROLA ‘CORAGGIO’

   Anna


Coraggio, è una parola molto singolare, ha tanti significati nascosti e che si possono fraintendere. Etimologicamente deriva dal provenzale courage, a sua volta derivato dal latino cor-cordis, ‘cuore’. Ma, per esempio, affrontare la guerra, per tanti giovani è coraggio o incoscienza? Curare i malati che soffrono negli ospedali, è coraggio o indifferenza? Partire per missioni pericolose, è coraggio o necessità? Promuovere gare di solidarietà, è coraggio o mettersi in mostra? Come è problematico interpretare questa parola, ma, se ci pensiamo bene, in realtà ha un solo vero unico grande significato: ‘Amore’. Tutto ciò che si fa per amore è ‘Coraggio’.

IL CORAGGIO E L’ACCETTAZIONE

   Francesca


Io penso che il coraggio non sia solo ribellarsi all’ingiustizia in genere o porre termine alla violenza psicologica e fisica altrui o affrontare i pericoli, ma, parlando di salute mentale, quando c’è un disagio psichico o una sofferenza tale da non stare più bene con sé stessi né con gli altri, penso che il coraggio sia prendere atto del fatto che si ha bisogno di aiuto con una figura idonea, come un analista, uno psicoterapeuta o uno psichiatra, con cui fare un’approfondita analisi e lavoro su sé stessi, a volte molto lungo, difficile e doloroso, con lo scopo di capire cosa e perché non va, e fare chiarezza su di sé e sul proprio vissuto.
Bisogna trovare il coraggio per fare questo passo perché prendere coscienza di sé, imparare a conoscersi meglio e accettarsi, sia nel bene che nel male, non è facile, ma lavorando su quello che non va, sui propri difetti e lati negativi del carattere e della personalità che fanno sentire a disagio, per tramutarli possibilmente in virtù e lati positivi, si può raggiungere un buon equilibrio, raggiungendo una visione sempre più realistica di sé e del mondo circostante.
Questo, secondo me, è fondamentale perché riconoscere che c’è un malessere che va affrontato, con l’aiuto di specialisti e, in molti casi, con un supporto farmacologico, può portare a un miglioramento generale anche della malattia psichica che dipende ovviamente dalla gravità della stessa.
Con un’analisi continua del proprio vissuto si può stare meglio, affrontando con lucidità tutti gli ostacoli che si frappongono man mano, cercando di superarli, cadendo anche più volte a terra, ma cercando ogni volta di trovare la forza di rialzarsi e andare avanti con grinta e volontà e con le proprie forze, senza adagiarsi sulla propria sofferenza psichica o malattia, perché queste rischiano di diventare degli alibi e delle scuse dietro le quali rifugiarsi per pararsi le spalle e per non affrontare la realtà con le sue difficoltà; e del resto la vita va vissuta per quella che è, perché è così che ci si mette alla prova e si impara a conoscersi sempre di più, con il confronto e il rapporto diretto con la gente, aprendosi e relazionandosi, e non con l’isolamento o un atteggiamento di chiusura e rifiuto al dialogo col mondo circostante, pensando che “ho ragione io”.
Soprattutto non bisogna piangersi sempre addosso né fare le vittime, perché questo è un atteggiamento che infastidisce molto la gente che ha, a sua volta, problemi personali più o meno gravi da risolvere e i piagnistei e le lamentele altrui, non interessano.
Certamente ci vuole coraggio per ammettere una propria condizione di disagio o di malattia psichica e il riuscire a riconoscerla e affrontarla con l’aiuto esterno, è una dimostrazione di buon senso e intelligenza, perché c’è la volontà di uscirne e proseguire meglio per la propria strada e progredire, migliorando in tutti i sensi.
Chi sta male e non vuole riconoscere di aver bisogno di aiuto, perché rifiuta e nega la malattia, non vuole affrontare una verità scomoda, perché la teme e non fa altro che peggiorare la propria situazione, perché spesso si trincera dietro il fatto che la colpa del suo malessere e scontento è da attribuire agli altri che non lo capiscono, isolandosi, in questo modo, sempre più da tutto e tutti, creandosi un mondo tutto suo in cui rifugiarsi completamente lontano dalla vita reale, entrando in un vortice da cui non esce più. È come un cane che si morde la coda.
A volte può succedere che se non si è raggiunto il proprio scopo nella vita per ostacoli intervenuti durante il proprio percorso formativo e culturale e si sia intrapresa solo una parte della strada che ci si era prefissi di percorrere, tipo un lavoro, senza però riuscire parallelamente a finire per esempio l’università con la laurea finale, per svariati motivi, e poi arrivati ad una certa tappa della vita in età matura senza più un lavoro, ci si trova costretti a continuare la propria strada cercando una soluzione alternativa in altri ambiti, ‘accettando’ una situazione precaria in cui per poter raggiungere degli obbiettivi, occorre rivolgersi ai servizi sociali, che possono fornire un aiuto per conseguire una formazione lavorativa e, perché no, culturale, anche in un ambiente diverso, che consente di trovare delle soluzioni e opportunità in vista di un lavoro, anche se questa soluzione non sempre piace, perché ci si ritrova catapultati in un ambiente in cui non ci si rispecchia e non ci si ritrova, perché non ci appartiene, e di conseguenza è francamente difficile da accettare. Così come è difficile ‘accettare’, spesso, l’umiliazione di un atteggiamento di scarso rispetto, sdegnoso e di compatimento, nei confronti di chi si rivolge a queste strutture per provare a trovare un lavoro, visto che la crisi tocca tutti, il lavoro non si trova e la maggior parte della gente è rimasta disoccupata; dicevo, quindi, che chi ha la possibilità di farlo si rivolge allora ai servizi sociali, ma deve subire tante volte i comportamenti molto discutibili da parte di ‘alcune altre figure’ che denotano scarsa sensibilità, intelligenza, e poca conoscenza della psicologia, mostrano un lato poco umano, anche se pensano di star facendo chissà che cosa per gli utenti della salute mentale!
Spesso fanno di tutta l’erba un fascio e solo per il fatto di avere uno psichiatra di riferi¬mento e quindi in automatico far parte di un CSM (Centro di Salute Mentale), collocano tutti gli utenti nella malattia, anche se in alcuni casi non mostrano o non hanno affatto nessuna invalidità, disabilità né malattia mentale, anzi! E comportandosi di conseguenza nello stesso modo con tutti gli utenti del CSM, non hanno un giusto approccio con loro.
E comunque disabilità o meno, nessuno merita di essere trattato e umiliato in questo modo.
Anche se ritengo che questi atteggiamenti siano profondamente ingiusti, penso sia inutile ribellarsi, purtroppo, e che convenga non dargli importanza più di tanto, ma subirli, se si vuole tentare di proseguire per vedere se si riesce a trovare anche qualcosa di positivo che può venire in aiuto per il futuro.
Penso che la forza di volontà sia una ‘sana’ ribellione, se non diventa troppo invasiva, perché è il motore fondamentale per affrontare tutto, e nella fattispecie questa situazione frustrante per certi versi, senza crollare per questo psicologicamente e senza rinunciare ai propri progetti, né alla propria identità e personalità e perciò senza doversi sentire dei falliti.
Voglio dire che questa è una ‘scelta’ forzata, che non deve far crollare la propria autostima e penso che l’unica soluzione è quella di non soccombere e tenere d’occhio l’obiettivo finale a cui si vuole arrivare… tipo un lavoro, magari e perché no!
Qualunque sia la strada da percorrere l’importante è arrivare a una meta soddisfacente, andando oltre a ciò che non piace, ignorandolo, e cercando i lati positivi anche di una situazione frustrante e disagevole.
Come diceva Simona Ventura: “crederci sempre arrendersi mai”!!!
Può sembrare ermetico il senso di queste mie ultime considerazioni anche perché mi sono limitata ad esprimere in parte ciò che penso, ma non importa se non si è compreso bene il concetto: l’importante è che sono abbastanza soddisfatta perché sono riuscita ad esporlo senza troppe remore.
A chiusura ci tengo a ribadire il concetto che il coraggio sia soprattutto essere sempre sinceri con sé stessi e con gli altri e che i coraggiosi purtroppo sono una razza quasi estinta.



IL CORAGGIO E LA NON ACCETTAZIONE

   Antonio Marco Serra

È questo in fondo l'unico coraggio che si richieda a noi: essere coraggiosi
verso quanto di più strano, prodigioso e inesplicabile ci possa accadere.

Rainer Maria Rilke
Senza un po' di coraggio non si può scrivere nemmeno un'osservazione sensata su se stessi.
Ludwig Wittgenstein

Definizione di coraggio: scrivere quest’articolo (o provare a farlo) con quest’aberrante caldo afoso, anziché sdraiarmi sotto una pergola, in compagnia dei miei gatti, a grattarmi (leccarmi) la pancia.
Scherzi a parte, mi trovo un po’ in difficoltà a scrivere dell’argomento di questo numero, forse solo perché non vi ho mai riflettuto abbastanza.
Il Coraggio (andreia in greco, fortitudo in latino) viene individuata come una delle quattro principali virtù già da Platone ne La Repubblica, insieme alla Prudenza alla Temperanza e alla Giustizia.
Non credo di essere un codardo, ma certamente sono un pavido, ho paura di moltissime cose, eppure non mi ritrovo nella maggior parte delle paure che molti altri mettono al primo posto (chissà poi se sarà vero). Non ho paura di restare solo, non ho paura di ritrovarmi senza un soldo, non ho paura che gli altri abbiano una bassissima opinione di me e, men che meno, ho paura di morire. In un paio di occasioni, molti anni or sono, ho avuto la certezza che di lì a pochi secondi il mio corpo si sarebbe sfracellato, eppure non solo non ho avuto la minima paura, ma non mi ha minimamente sfiorato l’idea che quella fosse la mia fine.
A volte si sostiene che l’uomo abbia inventato l’immortalità dell’anima o la vita eterna per esorcizzare la paura della morte. Ma ci si dimentica di dire che sarebbe stato assai più semplice per lui, allora, limitarsi a non inventare la morte (ma si sa, l’uomo non ama le soluzioni semplici).
Tra tutte le specie animali create dal buon Dio, l’uomo è l’unica specie che si è messa in testa, chissà per quale bizzarra concatenazione di circostanze, di dover terminare la propria esistenza (in realtà sembra sia stato il nostro progenitore, l’homo erectus a fare questa bella pensata).
Il lutto, la ‘morte’ di chi ci è caro, quello sì, è qualcosa che realmente esiste, che affonda i suoi artigli nelle nostra carne viva, lacerandola, e con la sua dura, durissima realtà la più parte degli uomini deve prima o poi confrontarsi, ma la nostra morte… la morte intesa come cessazione definitiva di ciò che percepiamo come il nostro Io, è un concetto la cui esistenza è scientificamente indimostrabile. L’unica dimostrazione possibile sarebbe che un Io che abbia subito tal sorte, ce lo venga a comunicare, con dovizia di particolari, e dovrebbe darsi anche un bel daffare per convincerci, ma ciò è ovviamente impossibile, “per la contraddizion che nol consente”. Parlare dell’esistenza (o della non esistenza) di tale cessazione e quindi della nostra morte, di fatto, è un assurdo logico.
È già abbastanza complicato confrontarci con i problemi dell’unica condizione di cui abbiamo esperienza, la nostra esistenza. Volerci confrontare anche con i problemi della nostra eventuale non-esistenza, è davvero volersi fare del male a tutti i costi. Diceva, suppergiù, il buon Epicuro: “Quando ci sono io non c’è la morte, e quando c’è la morte non ci sono io: perché preoccuparsi?” Ma sarebbe meglio dire: “Quando ci sono io, ci sono io”, punto. Di più non si può e non si deve dire . “Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” (Ludwig Wittgenstein). Non è necessario alcun coraggio per non temere la morte, basta un minimo di buon senso.
Se poi teniamo conto che la psicologia del XX secolo ci ha ampiamente spiegato (sia pur con le più differenti ed inconciliabili teorie) che il nostro “Io cosciente” non è che una piccola parte di ciò che ci costituisce come esseri umani, il discorso si farebbe ancor più spinoso (muore solo la parte che ha coscienza di poter morire, o anche quella che di tale estinzione non ha, né può, né vuole avere la benché minima idea?), ma lasciamo stare.
Il coraggio, a differenza di altri sentimenti o atteggiamenti, ha senso solo entro un ben preciso schema di valori etici. Riducendo all’osso, agire coraggiosamente mi pare significhi fare ciò che riteniamo giusto, anche se il farlo, o le conseguenze che il nostro agire porterà, ci risultano per qualche motivo gravose, sgradevoli, faticose, imbarazzanti etc. E se può essere esercitato anche in solitudine, il più delle volte è un atteggiamento che si attua in un quadro sociale, con gli inevitabili rischi che ciò comporta: come diceva Nietzsche: “Dietro un uomo che cade in acqua ci si tuffa più volentieri se sono presenti delle persone che non osano farlo”. Vale a dire: non sempre è facile distinguere quanto ci sia di autentico coraggio e quanto di vanagloria.
Una cosa che mi ha sempre incuriosito ma a cui non so fornire una spiegazione, è che nella nostra lingua esistono tante ‘paure’ con un loro nome specifico, me esiste sempre e solo un ‘coraggio’ (tutt’al più si distingue tra ‘coraggio fisico’ e ‘coraggio morale’). E invece credo sarebbe giusto e saggio distinguere tra i tantissimi tipi di coraggio, che pure esistono.
Ovviamente la paura di cui parliamo non è la paura ‘biologica’, quella messa a punto centinaia di milioni di anni fa dal processo evolutivo, comune a tutte le specie animali superiori, che è una strategia per aumentare le probabilità di sopravvivenza nel caso di un pericolo incombente, e che dura pochi istanti. Non provare questa paura, non solo è estremamente dannoso, ma è sintomo di qualche patologia, come ad esempio la sindrome di Urbach-Wiene, nella quale, a causa di un inspessimento dell’amigdala (uno dei centri cerebrali preposti ad attivare tale paura), il paziente diviene incapace di provare questa paura ‘biologica’.
No, la paura ed il coraggio di cui parliamo, sono quelli legati a filo doppio alla natura predittiva dell’uomo. Noi ci figuriamo in una situazione possibile ma non attuale (dipende sia dalla nostra lungimiranza, sia dal ‘caso’ se questa situazione si concretizzerà effettivamente, o meno), e ‘fuggiamo con codardia’ o ‘affrontiamo con coraggio’ questa situazione ipotetica.
Il problema dunque è sempre lo stesso, si tratta di confrontarci con ciò che ancora non è (e forse non sarà mai), avendo però cura che questa proiezione non ci distolga dal nostro concreto essere qui ed ora. Non dobbiamo rinunciare a fare ipotesi sul nostro futuro, ma dobbiamo impedire al nostro futuro di divorare il nostro presente.
Ho volutamente dedicato la maggior parte dell’articolo al coraggio, perché sull’accettazione non ho molto da dire, forse perché è un qualcosa che sento molto lontano da me. In realtà, lo confesso, forse non ho mai ben capito in cosa consista.
Se si tratta di un’accettazione obtorto collo, una sorta di ‘fare buon viso a cattivo gioco’, non vedo quali vantaggi potrebbe portare alla pace interiore dell’individuo: non farebbe che far crescere la rabbia e l’insoddisfazione dentro di lui. Se invece si tratta di autentica accettazione, che vuol mai dire? Se mi trovo in una situazione che è causa di sofferenza, fisica o psichica, e mi sembra che vi sia modo di sottrarmi ad essa, non accetterò la situazione e attraverserò qualunque pertugio, per quanto piccolo, che mi consenta di sfuggire da essa. Ma quando questa fuga non è possibile, mettiamo che abbia perso permanentemente l’uso delle gambe, che significa ‘accettazione’ in tale situazione? Mi dovrei forse convincere che questa è per me la migliore delle situazioni e rallegrarmene? Se lo potessi, lo farei certamente, ma vorrebbe dire che avrei trovato la formula della perfetta felicità, che, a quel che mi risulta, nessuno ha ancora scovato. Dovrei evitare di dare da mane a sera capocciate contro il muro, imprecando contro la sorte ria? Ovviamente sì, ma questo lo definirei soltanto: assenza di masochismo. Quello che farei sarebbe cercare di ottenere, nella non piacevole situazione data, il massimo di ciò che posso ottenere. Ma questo non lo chiamerei ‘accettazione’, ma comune buon senso.
Sicuramente sbaglierò, ma non riesco a liberarmi dall’impressione che a una certa retorica dell’accettazione, oggi così diffusa, sia sempre connesso un certo grado di auto-mistificazione. Ben venga, naturalmente, se ciò porta un sollievo a qualcuno, ma personalmente ho passato tutta la vita a cercare di smascherare le mie personali menzogne, ed alla mia veneranda età non ho davvero intenzione di mutar registro, creandone di nuove.
Confesso che la mia simpatia è sempre andata a coloro che non chinano la testa, anche quando ciò può parere una tracotanza inutile ed assurda, a coloro che dicono sempre ‘no’ a ciò che ritengono un’ingiustizia.
Ad Antigone, che non rinuncia a dare sepoltura all’insepolto fratello Polinice, anche se sa che ciò le costerà la vita.
A Crimilde, che sposa un uomo che non ama e vive per vent’anni in una terra straniera e ostile, pur di vendicare, con lo spargimento del sangue dei suoi stessi congiunti, la morte dell’amato Sigfrido. Ammetterete che almeno esteticamente è più efficace una Crimilde immersa fino alla ginocchia nelle cateratte del sangue burgundo, che una Crimilde che lavorando ai ferri si fa una cuffietta per lenire i dolori della sua artrosi cervicale.
Lo so, c’è chi sostiene che l’autentico eroismo sta nel fare cuffiette. Non sono tra questi.

LA PREGHIERA DELLA FELICITÀ

   Tina Gualandi


E ssere coraggiosa, per me, non è mai stato facile, soprattutto quando ero piccola e avevo un babbo difficile. Accettare le situazioni difficili e complesse, idem, e allora… Allora ho avuto la fortuna, nella sfortuna, di incontrare, nel 1986, un terapeuta, il dott. Scardovi, che durante un periodo di terapia durato un anno e mezzo, mi ha insegnato una preghiera che non sapevo, ma che mi è piaciuta subito e gli ho chiesto di ripetermela, per poterla imparare. La preghiera, chiamata ‘preghiera della serenità’, recita:” Signore, dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che posso, la saggezza di conoscere la differenza tra loro”. A ciò ho aggiunto: “Signore, sia fatta la tua volontà; Signore, dammi la gioia di vivere”. Da quando mi è stata insegnata, credo di averla recitata ogni giorno (o quasi) e anche più volte al giorno quando ero in crisi. Mi hanno aiutata molto il dott. Scardovi e la terapia, e questa preghiera mi ha resa più forte. Quando ancora vivevo con i miei genitori (o mi stavo per separare da loro, perché dopo l’università sono voluta restare a vivere a Bologna) il mio principale problema era mio padre. Mia madre una volta mi disse, con un tono quasi di supplica che non dimenticherò mai: “Tina, rassegnati; non possiamo ucciderlo!”, e io le urlai contro che non mi sarei mai rassegnata ad avere un padre simile! Mia madre mi guardò con uno sguardo che non le avevo mai visto. Per me il verbo ‘rassegnarsi’ non esisteva, perché era il verbo dei vigliacchi. Più tardi ho imparato che nel mio dizionario il verbo giusto era ‘accettare’. Io avrei dovuto imparare ad accettare un padre difficile, ma non ho fatto in tempo, perché mi è mancato prima che avessi capito l’importanza di essere coraggiosi.

PRIMA E DOPO

   Costanza Tuor


Prima e dopo sembrano solo due concetti temporali, eppure sovvertono le prospettive attraverso cui posso guardare la mia esistenza, il mio scorrere, il mio divenire. E ci vuole coraggio per dire: "prima ero una persona diversa". Sulla mia strada ho incontrato la fatica e la speranza, sempre abbracciate in una danza scompaginata, poi ho imparato ad apprezzarle in quella loro strana maniera di muoversi. A volte non cambiavano nemmeno posizione, si divincolavano con i piedi piantati a terra. Invece qualche volta volavano sopra i cieli più azzurri che abbia mai visto, la fatica e la speranza insieme.
Ci vuole coraggio per dire: "dopo sono diventata nuova". Un’altra me, tenuta insieme da cuciture robuste che la fatica e la speranza hanno inciso sulla carne fino a renderle sicure. Un passo dentro l’accettazione di una fragilità composta da tanti pezzettini colorati fatti di creta, legno, vetro e macramé.
Accetto di essere cambiata, eppure di essere sempre la stessa persona. Sono stata e sono, questo basta. E quando guardo dalla collina lo scorrere del mio esistere e vedo la fatica e la speranza che ballano, accetto un prima e un dopo, ma non ho più paura.

I FRATELLI DEGLI AMMALATI

   Edoardo Bellanca


Aproposito del tema: “Coraggio e Accettazione”, vorrei segnalare un gruppo cattolico che si chiama “Volontari della Sofferenza” fondato dal beato Luigi Novarese. In questa associazione, i capi-gruppo sono persone affette da una patologia spesso molto grave, che da essi è stata, magari dopo un tempo di comprensibile rifiuto, accettata con coraggio, anzi, non vissuta più come “una nemica”, anzi, da essa hanno tratto una “Fonte di Sapienza”, per cui sono divenuti “Maestri” nei confronti dei loro confratelli ‘pseudo-sani’ (che appunto vengono chiamati “fratelli degli ammalati”). Questi gruppi normalmente si ritrovano in casa dell’ammalato, vi sono poi incontri fra tutti i gruppi, e vacanze estive in una Casa di Accoglienza in montagna.

LA MALATTIA OPPORTUNITÀ DI CRESCITA

   Tonina Lai


M i chiamo Tonina Lai.
Sono una signora che vive in una carrozzina da quindici anni. Edoardo mi ha parlato del vostro gruppo e di quanto vi impegnate a divulgare un vostro giornalino, che io ho avuto modo di conoscere ed apprezzare per l’apporto libero di diversi pensieri. Nella prossima edizione tratterete del tema coraggio e accettazione. Se credete che possa inserire una mia idea, lo faccio volentieri.
Premetto che faccio parte di un’associazione chiamata Centro Volontari della Sofferenza, fondata da un sacerdote che è stato per anni in sanatorio, e una volta guarito si è dedicato agli ammalati, non per assisterli, ma per far capire loro che la malattia, pur essendo una negatività da combattere con ogni mezzo, può anche diventare un’opportunità di crescita umana e spirituale.
Quando la malattia o la sofferenza si presenta nella nostra esistenza sconvolge i nostri progetti, specialmente quando si tratta di situazioni invalidanti.
Allora, per chi ci crede, si cerca anche un aiuto soprannaturale per riprendere in mano la propria vita, riconoscendo i limiti e utilizzando le capacità residue che esistono in ogni situazione.
Questo per me porta all’accettazione che non è un arrendersi o un rassegnarsi alla malattia, ma una forma di utilizzare il proprio handicap che può diventare ricchezza per se stessi e per chi si accorge che il limite non ci ha vinto.
Diceva il Beato Novarese: “Non è la malattia che ci rende inutili, ma la nostra volontaria inoperosità nella malattia stessa che ci rende tali”.
Credo che l’accettazione ha bisogno di un cammino con una buona dose di coraggio.
Io tutto questo l’ho imparato e lo vivo con l’aiuto che mi dà il credere che Dio mi ama come persona, e mi dà il compito di testimoniare la mia vita così com’è.
Il carisma del C.V.S. è appunto accogliere i doni che il Signore non manca di elargire, e ridistribuirli testimoniando che con il Suo aiuto si può accettare e valorizzare con coraggio qualsiasi situazione di limite.
Vi ringrazio di avermi accolto.
Se qualcuno di voi è curioso di saperne di più su questo carisma ci potete contattare e vi informere¬mo delle nostre attività (segreteria tel. 333/2100408).
Vi saluto con fraterna amicizia e buon lavoro.

LA LUCE DOPO IL BUIO
Testimonianza di un iscritto al Centro Volontari della Sofferenza

   Paolo Marchiori


M i chiamo Paolo, ho quarantanove anni e vivo una condizione fisica motoria molto difficile a causa di una malattia degenerativa che ti priva di ogni autonomia portandoti alla paralisi totale del corpo. Con il suo progredire ti toglie anche la comunicazione verbale e ti porta a dipendere da ausili per l’alimentazione e la respirazione. Malgrado tutto questo, la mia interiorità gode di una profonda serenità grazie ad un fantastico incontro.
Nel gennaio del 2005 mi fu diagnosticata la SLA. Subito non capii bene di cosa si trattasse, quindi andai su internet per approfondirne la conoscenza. L'esito fu drammatico: la SLA è una malattia che concede dai due ai cinque anni di vita, a seconda dell’individuo, e nessuna possibilità di guarigione. Non mi arresi alle prime informazioni ed iniziai una serie di visite mediche in vari ospedali specializzati, ma la diagnosi era sempre la stessa. Provai cure anche all’estero senza nessun esito e fu un percorso di grande sofferenza perché si aggiunsero, oltre alla malattia, situazioni famigliari molto difficili. Ricordo che la mia disperazione mi portò a comportamenti irresponsabili. Quanti pensieri negativi! Il mio carattere chiuso e l’orgoglio peggioravano la mia situazione. In un momento triste di solitudine pensai di farla finita e scrissi alcune lettere, non per giustificarmi, ma per non dare nessuna colpa ad altri di quello che avrei potuto fare.
Ma poi alcuni pensieri positivi calmarono il mio stato d’animo e solo adesso capisco che ero alla ricerca disperata di aiuto.
Furono tre anni molto difficili, nei quali, però, iniziò anche un inatteso percorso interiore. Premetto che, pur essendo cattolico, ero lontano dalla conoscenza del Vangelo che era rimasto legato a pochi ricordi del catechismo.
Dopo la Cresima conobbi un grande distacco e la mia partecipazione alla Santa Messa fu sempre molto limitata.
Stavo bene e quindi non ne avevo bisogno o meglio pensavo non mi servisse. Con l’esordio della malattia le paure e le angosce si fecero sentire e un giorno mi avvicinai alla chiesa. Come uno che non sapeva dove aggrapparsi entrai, mi sedetti nell’ultimo banco e guardai sull’altare il Crocifisso. Provai un attimo di tranquillità e chiesi la forza di poter affrontare tutto quello che mi stava capitando. Nell’agosto del 2005 dovetti recarmi in ospedale per delle cure. In quel luogo c’era una cappella e tutti i giorni mi recavo a pregare per la mia mamma chiedendo di non vederla soffrire dato che aveva poco da vivere. La mia povertà di conoscenza della preghiera era infinita per cui chiesi ad una persona di insegnarmi il Santo Rosario.
Dopo un mese mia madre se ne andò, erano le quattro del mattino, ed io sentii il suo ultimo respiro. Le mie preghiere furono esaudite: la mia mamma patì solo una lieve sofferenza, ma solo ora capisco che quello era l’inizio dei tanti segni che lo Spirito Santo mi stava effondendo. Subito dopo iniziai a frequentare la Santa Messa alla domenica, arrivavo in chiesa mezz'ora prima e uscivo mezz'ora dopo perché mi vergognavo dato che zoppicavo vistosamente.
Avevo un bisogno estremo di capire perché la vita non era più vita: mi sentivo solo ed inutile.
Le forze fisiche diminuivano e nei momenti bui con grande fatica salivo in macchina rischiando tantissimo perché non ero perfettamente in grado di guidare.
Mi recavo in un santuario a trenta km di distanza e dal piazzale, rimanendo in auto, pregavo e chiedevo cosa dovevo fare. Dentro di me tremavo ed ogni rumore mi rimbalzava dentro provocandomi angosce e paure.
Proprio in quel difficile periodo, era il 2008, mi fu proposto un pellegrinaggio a Lourdes con il C.V.S. da una persona che avevo conosciuto all’inizio della malattia, ma che non mi disse di appartenere all’associazione. Accettai con timore, non conoscevo nessuno, ma era arrivato il momento in cui dovevo affidarmi.
Fu l’inizio della mia guarigione, una guarigione interiore: conobbi il valore della sofferenza offerta con quella di Cristo, come il C.V.S. insegna.
Al ritorno da Lourdes la mia vita si modificò completamente, paure e angosce scomparvero e conobbi la serenità, la gioia di vivere e di amare. Qualcosa di fantastico era successo, non capivo bene come era possibile che fossi passato all’improvviso da un baratro oscuro a un’emozione costante di gioia. Le notti, al contrario di prima, mi rilassavano e mi davano tantissime risposte.
Pian piano incominciai a capire tutto il percorso che avevo fatto: mi ero spogliato di ogni cosa ed avevo riconosciuto i miei limiti, le mie debolezze, la mia fragilità e le mie mancanze. Semplicemente capii che il mio cuore si era aperto ad accogliere il Suo amore sì da poterlo donare ad altri. Rimasi profondamente stupito della mia trasformazione. E lo sono ancora tanto.
Non sapevo scrivere, ora mi è più facile. Non sapevo parlare in pubblico, ora senza appunti posso continuare a parlare anche per un’ora. Non voglio essere presuntuoso, ma la cosa straordinaria è che riesco sempre a dare una risposta a chi è disperato, riesco a dare speranza laddove la maggior parte delle persone crede che non ci sia. Dopo quel viaggio a Lourdes, sempre non per caso, sono diventato responsabile della provincia della SLA. Ogni cosa mi è arrivata senza che io avessi fatto nulla per ottenerla. Ho conosciuto persone con le quali ho organizzato eventi e incontri per raccogliere fondi per la ricerca e per famiglie in difficoltà.
Ho messo a disposizione, non solo la mia sofferenza unendola a quella di Cristo, ma anche il mio sapere riguardo all’aspetto burocratico, farmacologico e psicologico della malattia. Distribuisco ai miei compagni di malattia, e non solo, una medicina miracolosa che è la fede nel Suo amore, che si ottiene grazie alla preghiera sincera. La preghiera non risolve la malattia, ma ti guarisce dentro portandoti serenità e gioia anche nelle grandi difficoltà e dà un senso alla vita. Sono le tantissime persone che incontro che mi dicono che trasmetto positività, serenità e che le arricchisco col mio modo di ascoltare e di parlare. Ma se è veramente così, tutto questo mi è stato donato. Ero disperato ed ho ricevuto il dono della fede.
Mi si è aperto il libro della vita e forse la mia pagina era già scritta, posso dire che nulla succede per caso. La mia malattia mi ha portato ad elaborare ogni mio vissuto. In me ora, grazie alla fede, non esiste odio né egoismo, c’è solo amore. Per tutti.
Nel 2008 incominciai a frequentare il Centro Volontari della Sofferenza e man mano che mi accostavo percepivo l’intuizione del fondatore monsignor Luigi Novarese, pur senza aver approfondito i suoi scritti. Vivevo dentro di me ogni cosa, avevo imparato il valore e l’offerta della sofferenza, le potenzialità che un malato o un disabile ha nell’aiutare, con la parola di Gesù, un altro in difficoltà.
Stavo vivendo il suo carisma ancor prima di conoscerlo. Ecco, questo mi fa capire ancora di più che c’è Qualcuno che ti indica la strada e che nel bisogno non sei solo se veramente hai il desiderio di incontrarLo e di amarLo.
Novarese, grazie alla sua esperienza di malattia, aveva capito che ogni sofferente può essere una ricchezza per la Chiesa, non solo oggetto di carità, ma soggetto di azione. Parola viva del Vangelo. Tutto questo io lo sto vivendo perché, in condizioni di totale non autosufficienza, aiuto chi sta peggio di me, ma anche chi sta meglio e quando porto un sorriso su un viso triste il cuore mi si riempie di gioia. Lui chiede ad ognuno di noi di donare quello che possiamo e abbiamo a chi ha bisogno. Ora posso affermare che il mio partecipare a questa associazione non è avvenuto per caso, ma è stato un dono dello Spirito Consolatore e mi sta insegnando a portare la mia croce valorizzando la mia sofferenza, dando così un senso alla mia vita nel realizzare quanto dice Gesù: “Andate e riferite ciò che udite e vedete”.
Io ho udito e visto Gesù in Croce, e ho sentito il suo messaggio.

IL CORAGGIO DI MIA MADRE

   Mariangela


M ia madre è affetta da una grave malattia. I medici le hanno diagnosticato un tumore al seno. Una cura debilitante e invasiva, perché ha subito l’asportazione di una mammella, ma i medici stanno facendo il possibile per risparmiare l’altra mammella, e ci sono buone possibilità di salvarla. Una situazione triste e difficile, ma i famigliari e i suoi figli le sono molto d’aiuto, tanto che con grande forza e coraggio sta affrontando la malattia. Anche se non desidera la morte non ha paura di affrontarla, ma il suo più grande dispiacere è quello di non vedere più i suoi figli che lei considera la sua più grande ricchezza e dobbiamo ammettere che ci vuole forza e coraggio per accettare anche questa triste situazione; certo non è facile mostrare coraggio e accettazione in casi come questi, ma la nostra determinazione può essere di grande esempio ai nostri figli e ai nostri nipoti, che ricordando il nostro comportamento saranno più propensi ad accettare le sfide di questo mondo imperfetto, e riguardo al dolore saranno più coraggiosi nell’affrontarlo preservando così la salute della loro progenie.

   Giovanna Giusti

CI VUOLE CORAGGIO

Ci vuol coraggio per accettare la nostra condizione mentale. Spesso siamo additati come stereotipi violenti o demoniaci. Ma non è così! Soffriamo solo perché dentro di noi ci sono lacerazioni che non si sono rimarginate.
Sono anni che io combatto questa situazione e posso dire che in quanto persone disagiate, siamo a mio avviso molto seguite. Merito dei Centri di Salute Mentale e dei Centri Diurni. Dal 1980, dopo la Legge Basaglia, le cose sono molto migliorate, e a noi emarginati questo fa bene. Per ribadire ciò che ho scritto fa seguito quest'altra considerazione per coloro che si sentono emarginati. Noi, confinati in un esilio non voluto né meritato! Noi, isolati da discriminazioni secolari! Noi, perduti in una società senz'anima! Noi che ci disperiamo inutilmente, perché tutti sono sordi e non odono il grande urlato bisogno di amare e di essere amati! Noi, per chi ha un cuore e avrà il privilegio di sentire il dolce canto di un giorno nuovo!

UN MONDO TROPPO PIENO DI OSTACOLI

   Darietto


Sono nato nel 1982 e fino ai quindici anni ricordo di esser stato una persona cosiddetta ‘normale’: mi piacevano le ragazze, adoravo il calcio (tifavo per la Sampdoria), la pallavolo (soprattutto quando ero alla scuola media, poi di meno alle superiori) e ricordo che ero molto estroverso (alle elementari avevo tantissimi amici). In quel periodo, in cui non c’era ancora la crisi, del mondo esterno, tipo dei TG o dei giornali, non ricordo se me ne interessavo: le mie preoccupazioni erano solo quelle di andare bene a scuola. Le insegnanti a volte si arrabbiavano (ho avuto da litigare con Anna perché mi sgridava troppo spesso anche per delle sciocchezze e una volta mi sculacciò pesantemente, tanto che lo dissi a mio papà e lui intervenne in mio favore). Mi ricordo pure che a ginnastica, sempre alle elementari, ero veramente impacciato e la odiavo; giocavano sempre a basket e lo odiavo con tutto me stesso perché lo trovavo molto violento per dei bambini piccoli come noi. Inoltre ricordo alcune immagini di quando andavo in chiesa per la dottrina; ma non ricordo se credevo in qualcosa, nell’esistenza di un essere supremo: mi pare di sì; ricordo che mi piaceva andare nel coro a cantare e avevo una voce molto melodiosa.
Dopo i quindici anni, purtroppo, cominciò un brutto periodo tenebroso. Divenni ateo (cioè non cre¬devo più a niente, nemmeno a Dio) ma per fortuna durò molto poco, perché mi accaddero dei miracoli che mi fecero subito rinsavire. Divenni gay, perché l’ultima ragazza (si chiamava Alessandra) per la quale provai dei sentimenti, mi ferì nel profondo e da allora le ragazze divennero per me come “acqua e sapone” (cioè non mi attraevano più). Cominciavo con pensieri di morte personali (praticamente cercai più volte di suicidarmi) e disastri che colpissero la Terra, maledicendo tutte le persone che mi facevano del male a partire proprio dalle ragazze che odiavo profondamente: questo mi portò ad una grave perdita di fiducia in me stesso e per colmare la tristezza intorno a me cominciai a mangiare tantissima cioccolata (arrivando persino a tre tavolette da 100 grammi al giorno, barattoli di Nutella, quantitativi enormi di biscotti e tantissimi snack). Da estroverso passai ad introverso, mi chiusi come un riccio in una forma di guscio e fu una nuova trasformazione negativa.
Alle scuole superiori, prima che lasciassi definitivamente la scuola (avevo, credo, diciassette anni), in quarta nella sezione chimica ero arrivato a non avere più amici, mi sentivo solo e i professori erano estremamente maleducati, ma di una maleducazione mai vista prima; questo non lo accettavo, era una situazione assurda che mi portò ad un blocco persino coi miei genitori: spesse notti, piangevo sperando che il giorno dopo fosse migliore, ma non accadeva. Solo la mia passione per il fumetto e per la mia amata Sailor Moon, qualche anno prima, mi lasciava un riferimento positivo ma era troppo poco: stavo disegnando un fumetto della mia bella eroina vestita alla marinara intitolato Sailor Moon e l’Armatura Perduta e solo questo mi dava un po’ di spinta a reagire per continuare a vivere, mentre mi abbuffavo di dolci per consolarmi.
A diciotto anni, quando arrivò il momento di fare il servizio di leva obbligatorio, fui, per fortuna, esonerato ma anche lì avvenne, dentro di me, un grave tracollo. Qualcosa si svegliò dentro di me, quella che viene chiamata ‘sensibilità’ e guardandomi intorno cominciai a capire di sentirmi diverso dalle persone che mi circondavano; cominciò così la trasformazione da persona ‘normale’ a persona ‘strana’, ‘ambigua’ o, se vi piace di più, ‘matta’, perché in effetti, essendo diventato introverso, mi veniva di parlare con i miei dolci ‘pupetti’ (non mi piace chiamarli pupazzi, perché non sono pazzi, ma certa gente sì e anche di più), erano loro a tenermi compagnia, quindi era come se parlassi da solo; un atteggiamento infantile da molti non accettato, ma purtroppo mi dava meno senso di solitudine. Stavo ingrassando e continuavo a odiare le donne che mi guardavano per il mio aspetto fisico (quello che chiamo ‘cratere’, altri lo chiamano ‘involucro’) senza tener conto invece del mio io interiore (quello che chiamo ‘magma’, alcuni lo chiamano ‘contenuto’) e questo non lo accettavo (e non lo accetto tuttora): sentivo che era loro la colpa di questo mio cambiamento esterno (l’ingrassamento) e l’odio si tramutava in voglia di cose dolci per placarla. Questa voglia peggiorò quando la mia ‘sensibilità’ mi aprì gli occhi sul mondo marcio (mi ricordo, credo, che ci fu una buffissima coincidenza e nacque proprio in quel periodo un gruppo musicale intitolato “Mondo Marcio”) che mi circondava, sia la mia città (Bologna) che il mondo in cui abito (tutta la Terra): seppi che il calcio aveva degli scandali sul mercato e nei fui disgustato; la politica marciava (e lo fa tuttora) sui nostri soldi; la gente rimaneva indifferente a molti avvenimenti; la nostra città, Bologna, si avviava ad un degrado disgustante, mentre prima era veramente bella, accogliente e divertente (mi ricordo le bellissime feste che si facevano nelle varie stagioni dell’anno, persino alla Fiera di Bologna; ora, invece, non è rimasto nulla, se non qualche festival del fumetto e poco altro). Questo mi portò come ad un grave senso di smarrimento, quindi ad una depressione che però mi era nascosta e che quindi non percepivo; mi sentivo solamente strano, col fatto normalissimo di capire come questo mondo, invece di aiutarti e di accettare la persona che sei, ti rifiuta ed è come se ti mettesse dentro un bidone della spazzatura.
Tutto ciò fino ai ventiquattro anni quando, ecco, la depressione venne a galla (esplose) e purtroppo capivo benissimo i motivi: mi sentivo inutile, di fronte ad una società in cui la gente è completamente indifferente, non nota i tuoi meriti, chi è malvagio viene premiato, e chi è onesto, invece, perde tutto; e le donne guardano solo se uno ha il portafoglio pieno, oppure se è un gran ‘fusto’ (cioè molto bello nell’aspetto fisico) e nemmeno analizzano com’è interiormente (infatti ho saputo poi di ragazze che son state con ragazzi ‘fusto’ e hanno beccato malissimo: come ci ho goduto, ma come ci ho goduto… Peggio per loro che sono state delle gran oche a giudicare superficialmente quei tipi).
Ero talmente spiazzato, perso e giù di morale che mi sentii malissimo (mi ricordo gli ultimi giorni di lavoro presso la Carisbo come portinaio: piangevo dal dolore che provavo e quindi mi dovetti licenziare): decisi allora di andarmi a curare presso la Villa Baruzziana. Lì conobbi una bravissima psicologa e le spiegai che dentro di me avvertivo che un gigantesco “buco nero” mi stava divorando e non mi permetteva di fare più nulla: mi sentivo sempre fiacco e spesso avvertivo la voglia di togliermi la vita; tanto, che ci stavo lì a fare? Grazie alla bravissima psicologa (che però purtroppo non ricordo cosa mi disse) dopo alcuni mesi, cominciò una lenta salita e il ‘buco nero’ cominciò a richiudersi lentamente. Mi venivano però lo stesso degli atroci dubbi: “Sarò accettato per quel che sono dalla società? Sono un brutto ragazzo, ciccione, gay, introverso e piagnucolone… Chi lo sa?”
Uscito dalla villa e tornato in casa, vidi i miei ‘pupetti’, e mi fecero un’enorme tenerezza. Mi ricordavo quando mi facevano compagnia nella mia solitudine e subito presi a coccolarmeli. Non ricordo quando conobbi il mio amico Alessio, se durante il soggiorno nella villa o dopo. Ricordo che grazie a lui e grazie ai miei genitori cominciò una salita positiva; Alessio poi mi fece conoscere Massimiliano (il grande Massy, di cui sono tuttora amico). Lui dopo alcuni anni, durante un giro in Piazza Nettuno, mi portò a farmi rincontrare il mio adorato zietto Francesco (e con lui c’era anche Roberto di cui poco dopo siamo diventati amici). Da lì altra salita positiva, perché grazie allo zietto, ci fu uno straordinario miracolo: da piccolino, alle elementari, un cagnolino mi attaccò presso una piccola collinetta vicino ai giochi e io scappai su un albero gridando aiuto; da quell’episodio, ebbi una paura matta dei cani; invece, con la conoscenza delle cagnoline dello zietto, Shelby e Chevel (prima) e Cheyenne (dopo), tale paura venne annientata e persino l’allergia che avevo quando accarezzavo i cani e i gatti (mi venivano dei brufoli con un prurito fastidioso), scomparve.
Purtroppo però avvenne che quando ritrovai lo zietto, dopo ben quindici anni, e quindi anche la dolcissima nonna, questa se ne andò dopo pochi anni e mi venne un gran dolore (mi ricordo che piansi tantissimo in chiesa per la sua scomparsa; un dolore accecante e pesante) tanto che la mia mente poi, dal giorno dopo, quando vedeva una signora anziana, pensava in modo maligno: “Perché non sei morta tu invece della mia povera nonna?”.
Per un po’ rimasi in casa, ma la voglia di tornare a lavorare mi era cresciuta; però pensavo che era ovvio che una persona così sensibile e depressa, nel crudele e reale mondo lavorativo non venisse accettata. Cercavo quindi il coraggio di accettarmi per quello che ero, ma non mi riusciva, tanto che un giorno conobbi un certo Giovanni e lui mi parlò delle trans; ne vidi alcune di così belle che in loro capii finalmente me stesso, cioè praticamente lui mi aveva aperto gli occhi. Ora finalmente avevo capito. Esternamente sono un maschio, ma dentro mi sento molto femminile, mi sento donna; da quel momento capii perché mi piacevano (e mi piacciono tuttora) gli uomini, cioè l’esser gay. Da lì per me ci fu una nuova salita molto positiva, perché Giovanni mi aiutò molto anche a comprendere il mondo marcio che mi circondava e quindi a starne attento. Purtroppo la costrizione di essere in un paese, l’Italia, avente persone e politica davvero stupide e sciocche, mi tolse l’accettazione di essere un italiano, in quanto su molte particolarità ho l’impressione che il vero razzismo lo facciano su chi è italiano, come ricordo quella volta al CIP (Centro Per l’Impiego) dove mi trovai a disagio in mezzo a tanti extracomunitari: mi sentivo frustrato. Per fortuna, poco dopo, ebbi delle spinte positive di hobby, come la raccolta dei ‘cuccioli’ (li chiamo così, scusate, ah, ah, ah, ahahhaaaahah!!! Sono praticamente delle collezioni di miniature di antichi romani, egizi, divinità, cavalieri, templari e creature mitologiche), i libri sui ‘cuccioli’, la biblioteca dei film e dei telefilm, i cartoni animati e un grande interesse per lo sport in generale (attenzione: il calcio non lo sopporto - Ah, ah, ah, ahahhaaaahah!!! - anche se in effetti ci sono dei bei ‘fusti’, come Francesco Totti).
Quando arrivò la crisi, la ricerca di un posto di lavoro divenne ancora più frustrante, ma la mia voglia di lavorare era veramente elevata; grazie al mio psichiatra Valerio Spinedi e al mio educatore Luca de Giorgis, sono riuscito a trovare una ‘borsa lavoro’ e ad entrare in una bellissima associazione denominata Il Ventaglio di O.R.A.V., intorno credo al 2008. All’inizio ero molto introverso e piagnucolone, poi come il bruco diventa farfalla, divenni l’opposto, cioè una persona estroversa e solare e che quindi viene accettata per come è e questo mi rende davvero felice. Ho conosciuto persone davvero carine, che mi hanno trattato con gentilezza, permettendomi di rendermi sempre più una persona estroversa e solare, Desidero ringraziare talmente tante persone che non so da chi partire: tra queste desidero nominare Gianluca Laudicina, Carla Facchini (Jaja), Lucia Luminasi, Concetta Pietrobattista e Franca Pastorelli. Ho scoperto il coraggio di impugnare oggetti che prima avevo paura addirittura di toccare, come ad esempio la seghetta. Inoltre il fatto di stare in mezzo alla natura (cosa meravigliosa e che adoro) mi ha dato la possibilità di scoprire ancora meglio la bellezza del creato, cosa che mi ha aumentato la fede in Dio e negli Angeli a tal punto da creare un nuovo fumetto su di Loro intitolato Supreme Angels al quale tuttora sto lavorando.
Attualmente (anno 2015) mi trovo sempre depresso, ma è una depressione diversa da quella scaturita quando avevo ventiquattro anni e cioè ‘reattiva’ e ‘sensibile’, capace cioè di combattere ciò che mi capita attorno e, come dice la mia collega/amica Francesca, far come la pubblicità della Lindor, ovvero ‘far la scioglievolezza’ di quello che dicono le persone su di me, devo ‘menefregarmene’; la gente quando bada ai fatti degli altri lo fa solo nel modo negativo e pochissime volte nel modo positivo: questo non lo accetto e anzi lo odio, soprattutto quando in politica si continua ad insistere sulla giustizia e non se ne fa mai purtroppo nulla. Una delle mie ‘reattività’ positive è, ad esempio, quella di mangiare molta meno cioccolata e da quando Jaja mi salvò da una glicemia di circa 600 (ti sposo Jaja!!! - Ah, ah, ah, ahahhaaaahah!!!), ora sto più attento e addirittura sembra che la glicemia stia molto migliorando, stabilizzandosi su un livello dai 150 ai 180. Infine, ringrazio Lucia e Fabio Tolomelli perché grazie al giornalino Il Faro posso pubblicare questo articolo per far conoscere ad altre persone il coraggio che ho di vivere, e non di levarmi la vita, la quale è davvero bella!!!

UN PO’ DELLA MIA FANTASIA

   Filippo Montorsi


O cchi di Terra, occhi severi, il loro sguardo un giudizio inconsapevole.
Occhi di Fuoco, l'invidia e la rabbia prigionieri dentro alla torre della paura.
Occhi d'Aria, occhi sognanti oppure smarriti dentro la speranza di una notte che non finisce mai o in un vecchio confessionale di una chiesa abbandonata.
Occhi d'Acqua, sono i miei, sono i tuoi, amore mio, che se mi giuri che la smetti di piangere da domani ci provo anch'io.

FELICITÀ… LUNGA VITA

   Mariana Elena Parera


R acconterò un'esperienza vissuta qualche settimana fa, mentre svolgevo un’attività di socializzazione con il gruppo di anziani con cui lavoro quotidianamente come animatrice. Premetto che si tratta di un progetto legato ad un concorso di racconti e poesie che segue una traccia e che si ripete ogni anno. In questa occasione l'argomento prescelto è "la felicità".
La felicità? … in quell'incontro a differenza degli anni precedenti si è creato un lungo silenzio... mai successo tutto questo silenzio, anziani e animatrice eravamo caduti in un abisso, anzi, un profondo abisso!!! Solitamente, con altri temi, presto affiorava dalle loro menti qualche ricordo. Invece questa volta chi sa perché mai mi sembrava un'impresa quasi impossibile. Dopo un po' ho cercato di girare e rigirare l'argomento per stimolarli con idee e parole, insomma, senza riuscire a sbloccarli e interrompere questo silenzio imbarazzante. Ad essere sincera, dai miei preconcetti sull'anzianità, temevo che la felicità potesse rivelarsi un argomento spinoso. Poi mi son detta, ma noooo, vedrai che verranno fuori dei racconti belli, magari il giorno del matrimonio, la nascita di un figlio … niente affatto! Successivamente, pian piano abbiamo iniziato a condividere riflessioni che si avvicinavano all'obiettivo pur non trasmettendo una reale emozione, tantomeno quel senso di felicità che ci saremmo aspettati. Emergeva qualche timido ricordino gradevole che curiosamente per esser tale si contrapponeva a esperienze negative. Tanto è che ci siamo chiesti "com'è che ci riesce sempre più facile ricordare il brutto e non il bello della vita?".
A tenere questa conversazione era un gruppo composto da me, un signore e altre tre donne. Tutti loro in grado di raccontarsi e con buone capacità cognitive, quindi adatti a partecipare a questo spazio dedicato alla reminiscenza.
A proposito di reminiscenza, si tratta di una tecnica utilizzata in Animazione Sociale che, nel recuperare i ricordi del passato, favorisce l'integrazione dell'essere come individuo con una sua storia e come parte integrante di una comunità socio-culturale più vasta.
Tornando alle difficoltà in merito all'argomento "la felicità", faccio notare che con questi anziani abbiamo già sviluppato un buon livello di confidenza, ci conosciamo bene, spesso parliamo dei loro vissuti, talvolta molto delicati, senza alcun ostacolo.
Ho notato che una delle donne presenti, normalmente molto comunicativa, non diceva nulla. Pensai che non fosse in una buona giornata, un po' più sorda del solito, indifferente, forse confusa e probabilmente poco interessata al tema. Abbiamo proseguito rispettando il suo silenzio, godendo della sua squisita compagnia pur lasciandola indisturbata… Invece lei stava solo elaborando!
Ad un certo punto è intervenuta narrando un ricordo della sua giovinezza. Con la bicicletta, di ritorno a casa, doveva attraversare un ponte. Raccontò che a metà ponte si fermava per contemplare il paesaggio attorno e che provava quella felicità che tanto si era fatta attendere nei nostri discorsi e che ora lasciava intravedere nei suoi occhi. Tanto verde, una natura imponente piena di bellezza! Ha poi proseguito elencando: la famiglia, nei momenti in cui è tutta riunita per mangiare insieme, anche se non si parla tanto in quel momento si sente la presenza delle persone più care. La salute, come qualcosa che faceva parte del suo passato. Con un linguaggio non verbale mostrò la sua condizione sulla sedia a rotelle, mentre faceva notare le sue mani, la sua pelle grinzosa. La giovinezza, secondo lei è tutta felicità. A quel punto si era creata un'atmosfera in cui parlava solo lei, eravamo tutti ad ascoltarla, era praticamente divenuta il nostro oracolo. Le abbiamo chiesto: "Quando è che si smette di essere giovani?" "Dipende," rispose, e dopo un breve silenzio con grande lucidità, un bellissimo sorriso e un pizzico di imbarazzo, aggiunse: "Io mi sento giovane, sinceramente dentro mi sento giovanissima!". Noi non abbiamo potuto fare a meno di crederci nonostante sia lei che noi siamo consapevoli che stia per compiere cent'anni! Abbiamo incrociato gli sguardi e mi è venuto solo da dire: "… chissà quale vita avrà fatto per essere arrivata a questa età cosi bene?". Nelle sue parole c'è tanto di coraggio e di accettazione, non credete?

IL REPERTORIO DEI MATTI DELLA CITTÀ DI BOLOGNA

   Lucia Luminasi


Nell’ambito delle iniziative “Delle Cure e delle Arti”, tenutesi a Bologna dal 14 maggio al 18 giugno 2015, noi del Faro siamo stati invitati a partecipare, insieme a Psicoradio, a un dibattito su questo libro, il cui titolo ci ha fatto un po’ sussultare, perché ci siamo subito chiesti che cosa si intendesse dire col termine ‘matti’ e soprattutto dove si andasse a parare. Ci siamo resi conto poi, leggendo il libro, che i personaggi descritti corrispondono solo in minima parte a persone curate per disturbi psichiatrici, anzi, nel mucchio del ‘bei tipi’ che si possono incontrare a Bologna, c’è finito di tutto calciatori, politici, e persino famosi artisti e scienziati del passato. La parola ‘matto’, insomma, è stata usata in modo ‘inclusivo’ e il messaggio alla fine è che siamo tutti un po’ ‘matti’, chi più chi meno. L’ispirazione è venuta a Paolo Nori dai libri di Roberto Alajmo, che dopo aver descritto i pazzi della città di Palermo, nell’introduzione al suo Repertorio dei pazzi d’Italia lanciava l’idea che ogni città, così come ha le guide dei ristoranti, dovrebbe avere un repertorio dei suoi pazzi. Ed ecco nascere i gruppi di scrittura diretti da Paolo Nori prima a Bologna e poi in altre città d’Italia. I venti partecipanti al gruppo bolognese sono elencati in apertura con nome e cognome, ma poi non vengono indicati come autori dei singoli bozzetti: il risultato è un libro ‘corale’, che fra l’altro è stilisticamente così omogeneo da sembrare scritto da uno solo. Il tocco è molto leggero, l’ironia bonaria: ci si limita a mettere a fuoco, per ogni personaggio, una qualche bizzarria. Chi vive a Bologna non stenta a riconoscere, nonostante l’anonimato, molte delle figure tratteggiate, e a seconda dei casi, gli può scappare un sorriso, un sospiro, a volte anche una lacrima…
Il testo che ci è piaciuto di più è “Una si sedeva alla fermata del 29…”, in cui coraggio e accettazione sfociano in una curiosa strategia di sopravvivenza. Riveliamo infine che fra i ‘coristi’, figura Angelo Fioritti, sì, proprio il nostro direttore del Dipartimento di Salute Mentale, ora divenuto direttore sanitario dell’AUSL di Bologna, che si è avventurato in questa esperienza cercando almeno all’inizio di non dichiarare la sua professione e anche in questa occasione ha dimostrato la sua attenta sensibilità.
Noi del Faro siamo fieri di averlo per amico e poiché lo consideriamo un tipo veramente fuori dal comune, lo abbiamo nominato ‘matto onorario’ dedicandogli un bozzetto da aggiungere in appendice al Repertorio.

UNA SI SEDEVA ALLA FERMATA DEL 29…

Una si sedeva alla fermata del 29, in via Rizzoli, e si metteva a gridare dietro alla gente che passava. “Dove cazzo andate” urlava “che cazzo fate, coglioni, che cazzo avete da guardare”. E poi “Vaffanculo” urlava “vaffanculo stronzi”.
Quando qualcuno, in mancanza di un posto libero sotto la pensilina, era costretto a sedersi vicino a lei, lei gli diceva piano in un orecchio: “Non sono mica matta, eh, faccio così perché mi diverto”. E raccontava che stava tornando dall’ospedale, che suo marito era rimasto paralizzato e lei, che pensava che dopo la pensione avrebbero fatto sempre delle gite insieme, doveva andare tutti i giorni a trovarlo, e lui non parlava neanche più, non capiva neanche chi era, figurarsi fare delle gite. Ogni tanto si interrompeva per urlare “Che cazzo guardate?” ai nuovi arrivati. I suoi figli, diceva, le avevano chiesto di tornare a vivere con loro, si erano offerti di pagarle una badante, ma lei no, aveva detto: “Io finché ce la faccio da sola non voglio dare fastidio a nessuno, io finché cammino da sola tutte le mattine prendo l’autobus, vado a trovare mio marito, poi mi sfogo un po’, non ce l’ho con loro” diceva, indicando quelli che aspettavano il 29, “Coglioni! – non sono matta, è che così mi diverto un po’, almeno questo – Andate tutti affanculo!” urlava “Non voglio dare fastidio a nessuno”.

Tratto dal libro “Il repertorio dei matti della città di Bologna”, a cura di Paolo Nori

UNO FINO A POCO TEMPO FA…

   L. L.


UUno fino a poco tempo fa era facilmente rintracciabile dalle parti di viale Pepoli. Ultimamente, chiamato ad alto ruolo, si aggira prevalentemente nella zona di via Castiglione.
Con tanti mestieri che ci sono al mondo, lui ha pensato bene di fare lo psichiatra.
Che i ‘matti’ gli piacciano è evidente, infatti se ne occupa a tutto tondo, professionalmente, culturalmente, politicamente, e anche in modi non canonici, per esempio partecipando in incognito a un gruppo di scrittura intenzionato a stilarne un repertorio.
Ama condividere con le persone in cura presso i servizi di Salute Mentale e i loro familiari, momenti ludici, partite di calcetto, viaggi intercontinentali… e, naturalmente, pensieri.
La sua capacità di dare ascolto, dote naturale affinata con anni di esercizio, è giunta a tal punto che gli riesce di farlo bene persino con i ‘sani’, il che è tutto dire.

IL CAMPO GIUSTO

   Cristicchi


Q uest'opera tratta di vicende della seconda guerra mondiale viste da un partigiano.
La cosa che più mi ha colpito è il coraggio dei partigiani. Questi hanno avuto il coraggio di schierarsi per una causa giusta. Più di una volta hanno rischiato la vita per ideali di libertà e giustizia. Sacrifici e privazioni come: poco cibo, condizioni igieniche scarse, caldo e freddo e giacigli scomodi. Per esempio, dover dormire in un materasso stretto e intriso di acqua. Un altro particolare interessante è che durante un rifugio in una casa abbandonata dovettero filtrare l'acqua di un pozzo con un setaccio tanto era piena di ramoscelli e alghe. Una volta l'autore fu ferito ad una gamba, portato all'Ospedale di Bentivoglio dove venne curato da sanitari amici con una ingessatura.
Al di là di queste privazioni psicofisiche, i partigiani, consapevoli di rischiare la propria vita, con coraggio affrontavano i Tedeschi.
Una cosa che mi ha colpito molto è che questi fatti sono avvenuti nella terra in cui vivo, dove ho la possibilità di vivere in libertà, democrazia, pace, col diritto alla salute e con la possibilità di manifestare la mia personalità.
Se fossi catapultata indietro nel tempo, in quel periodo, non so se ad esempio avrei il coraggio di fare la staffetta partigiana. La staffetta era in genere una donna che portava messaggi di coordinamento per i partigiani. Qualche volta prendeva parte anche a scontri armati. Io non so se a quel tempo avrei accettato la dittatura o se avrei preso a colpi d'accetta il nazi-fascismo. Io sono orgogliosa di essere italiana e sono fiera delle persone che con coraggio, e spesso a costo della vita, mi hanno permesso di respirare la democrazia, la pace e la libertà. Coraggio lettori, vi consiglio quest'opera perché è molto particolareggiata e ricca di emozioni dal contenuto anche politico. A voi la scelta su quale campo stare.




CORAGGIO

   Alessandra Solmi (tirocinante in psicologia presso l’associazione UmanaMente)

Ho imparato che il coraggio non è la mancanza di paura, ma la vittoria sulla paura.
L'uomo coraggioso non è colui che non prova paura ma colui che riesce a controllarla.

Nelson Mandela

I l coraggio (dal latino coraticum o anche cor habeo, aggettivo derivante dalla parola composta cor, cordis cuore e dal verbo habere avere: ho cuore) è la virtù umana, spesso indicata anche come fortitudo o fortezza, che fa sì che chi ne è dotato non si sbigottisca di fronte ai pericoli, affronti con serenità i rischi, non si abbatta per dolori fisici o morali e, più in generale, affronti a viso aperto la sofferenza, il pericolo, l'incertezza e l'intimidazione. In linea di massima, si può distinguere un "coraggio fisico", di fronte al dolore fisico o alla minaccia della morte, da un "coraggio morale", di fronte alla vergogna e allo scandalo. Un noto proverbio dice: "tanta pazienza, forza e coraggio che la vita è un oltraggio" (definizione wikipedia)
Partendo dal concetto di paura, l'uomo, come affermano i primi filosofi greci, ha sempre cercato di dare una spiegazione ad ogni fenomeno della realtà, proprio per non avere paura e per evitare gli eventuali pericoli causati da tutti gli aspetti che avvenivano intorno a lui e che egli non poteva controllare con la sua ragione. Proprio per questo motivo, secondo il filosofo Democrito, l'uomo ha cercato una soluzione per superare questa sua paura riunendosi con i suoi simili in comunità. La paura si genera nell'uomo poiché egli viene a contatto con qualcosa di nuovo, di ignoto, che non conosce e ciò provoca solitamente un sentimento di ansia e di preoccupazione. Superare delle situazioni nuove è sempre molto difficile e per fare ciò serve il coraggio. Si parla di paura perché dove c’è paura c’è coraggio e viceversa. Ma cos'è questo coraggio? Come afferma Mandela nella frase citata, il coraggio è la vittoria sulla paura, ma ciò non sottintende la mancanza di quest'ultima. Il coraggio vuol dire affrontare le proprie paure senza scappare, perché tanto queste ci inseguono dappertutto. È bene accettare una verità ‘amara’ o una verità che a noi può sembrare ‘dolce’. Accettare vuol dire prenderne i pro e i contro. Il coraggio poi, varia da situazione a situazione ed esistono vari tipi di coraggio, in base a ciò che bisogna affrontare. Per esempio una prova di coraggio sta nell'affrontare un esame o un'interrogazione importante, o superare il dolore per la perdita di una persona cara o semplicemente nell'alzarsi dal letto ogni mattina, poiché ogni giorno è nuovo e diverso da quello precedente e anche se ognuno di noi ha dei progetti per la giornata, non si sa veramente cosa potrà accadere e ci sarà sempre qualcosa di nuovo da affrontare. Eppure il tempo scorre e la vita continua e bisogna accettare e superare ogni cosa, altrimenti per avere paura e per preoccuparsi di ogni cosa, si arriva a non ‘vivere’ più. Un altro tipo di coraggio è quello che si ha nel superare particolari malattie e accettarle per quello che sono. Si pensi anche al coraggio di chi ha lottato tutta la vita per difendere le proprie idee, pur consapevole dei rischi che avrebbe corso, dimostrando grande forza e determinazione, come Gandhi e Martin Luther King. Il coraggio, quindi, è una virtù fondamentale che permette di essere determinati e forti nelle scelte della nostra vita.








ACCETTAZIONE

   Ileana Vagnozzi (tirocinante in psicologia presso l’associazione UmanaMente)

Per ciascuno di noi v'è un giorno, più o meno triste, più o
meno lontano, in cui deve infine accettare di essere uomo.

Jean Anouilh, Antigone, 1942

Il punto di vista psicologico

Quante volte abbiamo ascoltato gli altri dire che dobbiamo accettare la situazione? Si presuppone che dobbiamo accettare gli errori degli altri e i nostri, l’impotenza di cambiare molte cose che vorremmo diverse, il fatto di avere dei limiti, i cambiamenti imposti dalla vita… Insomma, ci sarà sempre qualcuno che ci ricorderà che dobbiamo accettare qualcosa. Addirittura, a volte, secondo il tono con il quale ci giunge il messaggio, ci viene fatto intendere che non solo dobbiamo rassegnarci ma che dovremmo anche essere soddisfatti di ciò che è avvenuto. Qualcosa che ovviamente, ci risulta del tutto insensato.
Il termine ‘accettare’ proviene dalla lingua latina, acceptāre, frequentativo di accipĕre ‘accogliere’ e il dizionario ne esprime i seguenti significati:
1. acconsentire a ricevere qualcosa oppure a fare qualcosa [+ di, che]: accettare un regalo, una sfida; accettò di partire, che essi partissero | accogliere, ammettere: lo accettarono nel gruppo; mi accettò come amico
2. approvare, seguire: accettare una proposta, un’idea
3. riconoscere [+ di, che]: accettare i propri limiti; accettai di non essere preparato, che la mia preparazione era insufficiente
4. sopportare con serenità [+ di, che]: accettare la cattiva sorte; non accetta di essere sgridato, che lo maltrattino
5. (dir.) compiere un atto di accettazione: accettare un’eredità
Per quanto riguarda il discorso esistenziale riferito all’accettazione inserita nel contesto di vita, Romano Guardini (scrittore italiano) dice che l’accettazione non è sopportare tutto in modo debole e passivo, ma piuttosto si tratta di osservare la realtà e predisporsi ad affrontarla con atteggiamento disposto alla fatica, pronti a lottare.
Tradizionalmente comprendiamo l’accettazione come tolleranza per ciò che è fatto male, per la mediocrità e il conformismo, ma è certo che accettare qualcosa (indipendentemente da che cosa) è un atto di coraggio che implica che abbiamo finalmente compreso la realtà e decidiamo di affrontarla. Accettare una situazione implica non solo comprendere un’idea dal punto di vista cognitivo, ma anche condividerla sotto il profilo emotivo. In questo modo, la genuina accettazione presuppone il fatto di accettare le cose per ciò che sono, ma anche per ciò che non sono. E questa frase non è un semplice gioco di parole, ma piuttosto rinchiude un senso profondo, dato che normalmente accettiamo un fenomeno perché ci sentiamo incapaci di cambiarlo, ma questo atto implica anche che assumiamo un’attitudine passiva nella quale non siamo del tutto soddisfatti della scelta fatta. Al contrario, quando accettiamo una realtà, con tutte le implicazioni che ha per noi, stiamo assumendo un’attitudine attiva di fronte alla vita. In questo modo, l’accettazione genuina ci offre la possibilità di vedere il mondo con occhi diversi e di avere un ruolo attivo nel processo. Cambia la nostra posizione, da vittime passiamo a essere protagonisti.
Ovviamente, il processo di accettazione tende a essere lungo e per nulla semplice, perché molte volte implica un cambiamento nel nostro schema di valori, in quelle credenze che davamo per certe e che davano un ordine logico alla nostra vita. Tuttavia, sempre secondo le parole di Guardini: “Il principio di qualsiasi proposito e conquista morale sta nel riconoscere quello che è, inclusi errori e difetti. Soltanto se decido lealmente di farmi carico del peso dei miei difetti, raggiungo la serietà, e solo in un secondo tempo posso così iniziare il lavoro che mi permette di superarmi”.
Per entrare ancora di più nel merito e inserire il concetto di accettazione all’interno del vissuto patologico e psicopatologico, in termini psicologici possiamo dire che certe persone vedono l'accettazione di una malattia cronica quasi come una capitolazione completa, oppure come una continua vigilanza in ogni istante. Non è niente di tutto questo. In realtà, l'accettazione fa parte integrante della vita. Si accetta un complimento, un regalo, un'offerta di lavoro, l'amore di una persona, una sfida. Sinonimi della parola ‘accettare’ sono: ricevere, concordare con, assumere, consentire. Una definizione indica che l'accettazione è fatta volentieri, con gioia. L'accettazione di una malattia cronica sarà tuttavia dettata dalla necessità, e non volontaria o gioiosa. Una persona può reagire in tre modi differenti ad una malattia cronica. Il primo è l'abbandono, la rinunzia. Il secondo è lottare costantemente contro la diagnosi: disperante, perché un tale atteggiamento non porta da nessuna parte. La terza via è quella di diventare attivi e assumersi la responsabilità del proprio benessere e dei propri obiettivi per il futuro. Esistono certi segni d'accettazione che risulteranno evidenti per le persone che soffrono di malattie croniche e per le persone che sono loro vicine. L'accettazione è contemporaneamente intellettuale ed emotiva. La razionalizzazione può essere una forma di negazione. Si deve anche attraversare una specie di lutto emozionale. L'accettazione intellettuale talvolta è il primo passo verso un'accettazione emotiva. I sentimenti di amarezza, collera e gli atteggiamenti difensivi sono superati quando uno non si vede più come una vittima, ma come un partecipante che si assume la responsabilità della propria vita, le paure diventano più realiste, invece di suscitare un'angoscia generalizzata che esaurisce. Spesso le persone dicono di tribolare perché incapaci di accettare una certa situazione in vari domini dell’esistenza (il lutto di una persona cara, un tradimento, un fallimento, una malattia o una disabilità persistente). La sofferenza normale dovuta alla frustrazione dello scopo che tale condizione comporta è aggravata dal ritenere che a un certo punto bisognerebbe accettarla e smettere di dolersene. Il soggetto dunque sta male e in più sta ulteriormente male perché pensa che non dovrebbe. C’è tutta una mistica dell’accettazione che finisce per incrementare la sofferenza con temi di inadeguatezza e di colpa. Spesso quando siamo travolti da un evento inaspettato che possa esso essere una malattia, un lutto o un cambiamento imprevisto ci sentiamo frustrati e pervasi da tre emozioni prevalenti: la tristezza, l’ansia e la rabbia. Tutte e tre sono generatrici di uno stato d’animo sgradevole ma non è vero che siano inutili e disadattive. La tristezza favorisce il ritiro dell’investimento dallo scopo perduto per sempre e il reinvestimento su scopi sostitutivi o del tutto diversi. La tristezza dunque permette di abbandonare le strategie impercorribili e di trovarne altre sostitutive. È un’emozione che, comportando la sospensione di molte attività e un disinteresse verso l’esterno, consente un ritiro in sé stessi da cui si esce rinnovati. Nuovi interessi sostituiscono i vecchi. L’ansia è comprensibile e persino utile perché il soggetto si trova improvvisamente ad operare in un contesto radicalmente mutato e quindi molto meno conosciuto e prevedibile del precedente. Un sovrappiù di allerta può rappresentare un utile investimento per scongiurare i pericoli di una situazione nuova e ignota. Infine la rabbia che è rivolta verso chi si ritiene responsabile del danno subito (gli altri, il destino, Dio o sé stessi). Se si esclude il caso di Dio o del destino sui quali non abbiamo influenza, la rabbia verso i responsabili del danno costituisce un fattore protettivo verso il ripetersi della situazione dannosa. È una sorta di minaccia a non riprovarci più. Anche quella verso sé stessi, la più apparentemente disfunzionale, protegge da comportamenti imprudenti o autolesivi che possono essere stati causa del danno (bere, fumare, correre, ecc.). Abbiamo dunque visto come l’accettazione serva a sospendere investimenti inutili e le emozioni negative associate a ricreare un nuovo equilibrio e a prevenire il ripetersi del danno. Vediamo ora cosa ostacoli il processo di accettazione per come lo abbiamo descritto e come ciò diventi un’ulteriore occasione di sofferenza.
Accettare, è qualcosa di attivo e non passivo, dove decidi di abbracciare e andare incontro alle cose piuttosto che evitarle.








IL CERVELLO, FRA PAURA E CORAGGIO

   http://www.aitsam.it/ricerca/cervello_e_paura.html
(Ricerca 2011, da brainfactor-cervello-e-neuroscienze, testata giornalistica scientifica)


C hi di noi di fronte al pericolo non ha provato paura? Siamo scappati o abbiamo affrontato il rischio? Quando abbiamo scelto che fare, cosa è accaduto nel nostro cervello in quel momento?
Nili e colleghi del Dipartimento di Neurobiologia dell’Istituto di Scienze Weizmann (Israele) hanno risposto a queste domande in uno studio pubblicato su Neuron.
Il gruppo di Israele ha costruito un paradigma sperimentale in cui i partecipanti dovevano scegliere di avvicinare o allontanare da loro un oggetto, posto su un carrello in movimento, mentre il loro cervello veniva osservato con la risonanza magnetica per immagini (fMRI). L’oggetto poteva essere un rassicurante orso di peluche o un esemplare di serpente del granturco (Elaphe guttata), animale prescelto per rappresentare una fobia diffusa nella popolazione.

Ogni volta che i soggetti sceglievano come muovere l’oggetto, venivano registrate la paura somatica (involontaria, attraverso la conduzione della pelle) e la paura soggettiva (che coinvolge la coscienza attraverso l’associazione della soglia di paura provata con una scala di valori). Abili manipolatori di serpenti sono stati impiegati come controllo del paradigma.
Lo studio con MRI del cervello dei partecipanti ha dimostrato che quando le paure soggettiva e somatica hanno valori tra loro discordi (la prima elevata e la seconda bassa, o viceversa), un’area particolare chiamata corteccia cingolare subgenuale anteriore (sgACC) si attiva e promuove la manifestazione di coraggio, cioè avvicinare a sé il serpente. Al contrario, se il partecipante raggiunge valori elevati di paura soggettiva e somatica, la sgACC viene inibita e si attivano altre parti del lobo temporale, come amigdala ed insula, che comandano i comportamenti di tipo viscerale e portano il soggetto a soccombere alla propria paura.
Nel momento in cui i soggetti valutano la paura percepita durante il movimento dell’oggetto, la fMRI ha osservato l’attivazione della parte destra del lobo temporale (rTP). La rTP è un’area collegata alla percezione visiva, olfattiva e auditiva del lobo temporale. La sua attività sembra essere presente quando un soggetto immagina o percepisce delle emozioni. Per tale motivo, si suppone che la sua attività sia richiesta nel momento in cui i partecipanti debbano classificare la paura provata durante la scelta.
“Il nostro risultato propone una descrizione dei processi del cervello e i meccanismi che supportano un intrigante aspetto del comportamento umano, l’abilità di effettuare un’azione volontaria opposta a quella promossa dalla paura, e chiamata coraggio”, conclude Dudai. “ Specificamente, I nostri risultati delineano l’importanza di mantenere alta l’attività della sgACC quando si riesce con successo a superare la paura e si punta alla possibilità di manipolare l’attività della sgACC nell’intervento terapeutico per i disturbi che coinvolgono il non riuscire a superare le paure”.

Referenze:
Nili et al.: “Fear Thou Not: Activity of Frontal and Tem¬poral Circuits in Moments of Real-Life Courage.” Pubblicato in Neuron 66, pagg. 949-962, 24 giugno 2010. DOI 10.1016/j.neuron.2010.06.009








LA PAURA DELLA PAURA

   Cristiana Milla (psicologa e psicoterapeuta)
http://www.quipsicologia.it/vincere-la-paura-della-paura


Chi di noi non conosce la paura?
È un’emozione che abbiamo certamente sperimentato nelle sue varie sfaccettature e in relazione a diversi eventi o cose.
Ogni individuo ha il proprio tallone d’Achille, la propria paura. Qualunque essa sia, non è mai troppo tardi per iniziare a cambiare l’atteggiamento che abbiamo nei suoi confronti. La paura è un allarme che scatta di fronte a rischi dai quali fuggire o difendersi, oppure davanti a ciò che ci sembra a prima vista estraneo, sconosciuto. Nella maggior parte dei casi però, è la paura della paura quella che ci condiziona maggiormente, ossia il timore di poter rivivere una minaccia che in passato ha minato la nostra sicurezza, reale o simbolica che sia.
Pensiamo per esempio agli attacchi di panico. Esiste un primo episodio che determina tutta una serie di disturbi psicofisici, di intensità più o meno elevata. Tutti gli altri episodi che si susseguono nel tempo, sono semplicemente il timore, e quindi la paura, di rivivere le stesse medesime sensazioni drammatiche e di sperimentare lo stesso malessere che il primo attacco di panico ha provocato. Per l’appunto la paura (della prima) paura. Dal punto di vista psichico, anche la paura si manifesta attraverso una sensazione di allarme, di forte ansia, anche se è soprattutto il corpo che reagisce nella maniera più intensa: tachicardia, respiro corto e spezzato, senso di debolezza, o nei caso estremi, brividi, tremori, scariche di diarrea, fin quasi a raggiungere la perdita dei sensi. Le modificazioni corporee che si attivano hanno lo scopo di predisporre l’organismo a scappare o difendersi attaccando. Questo meccanismo “attacco-fuga” è una reazione innata e istintiva che si attiva di fronte a ciò che consideriamo minaccioso.

Quali paure?
Le paure possono essere infinite, per quanto infiniti possono essere gli oggetti o le situazioni che ci troviamo ad affrontare nella vita di tutti i giorni. La stessa cosa che fa star bene una persona, può allo stesso tempo terrorizzarne un’altra: dal timore di un oggetto, anche di per sé non pericoloso (es. il sangue, i ragni) al timore di una situazione concreta (es. gli spazi chiusi, gli spazi aperti, le malattie, guidare l’automobile).
Pensiamo per esempio alla paura del futuro. Si tratta di una paura indefinita e impalpabile. Potremmo spiegarla come la paura della perdita delle certezze, del senso di sicurezza, di vedere la nostra vita e le nostre abitudini, che con tanta fatica abbiamo fondato, sconvolte da un evento che non è possibile prevedere, come un terremoto, e che ci lascia senza più nulla di quello che prima ci dava invece protezione e sicurezza.
La paura è perciò un sentimento del tutto soggettivo, che nasce profondamente dentro di noi, dal nostro modo di affrontare la vita e di attribuire significati a ciò che ci circonda. In un certo senso è come se “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli”.

La paura ha un senso
Se per un momento riuscissimo a liberare il campo dai pregiudizi e osservare la paura da un punto di vista nuovo, si aprirebbe davanti a noi uno scenario denso di significati. Dietro ad una nostra paura, per quanto inoffensiva o incontenibile sia, si nasconde una sua ragione d’essere: la paura svolge una precisa funzione che affonda le sue origini nella storia personale di ognuno di noi, o meglio ancora nel suo inconscio. Allo stesso tempo però, possiamo azzardarci a dire che la paura è una nostra alleata, nel senso che serve a mantenerci stabili, ossia a mantenerci in una situazione d’equilibrio psicofisico che in quel preciso momento è la migliore che possiamo consentirci. La paura è quindi un’amica fidata che ci segnala pericoli e ci protegge da situazioni rischiose.
A questo punto sarebbe utile chiederci: ma come si fa a vincere una paura? O meglio a vincere la paura della paura? Vincere una paura non vuol dire cancellarla ignorandola e neppure arrendersi impotenti ad essa. Anche assumere atteggiamenti del tipo “dichiarazione di guerra” non portano a nessun risultato. Piuttosto è certamente vantaggioso disporsi con uno stato d’animo aperto ed incontrare la paura sul suo stesso terreno, avvicinandola e guardandola con meno diffidenza e più interesse e curiosità.

Comprendere e trasformare la paura
Se desideriamo veramente superare una paura, qualsiasi essa sia, dobbiamo inevitabilmente accoglierla come si farebbe con un ospite fastidioso ma necessario. L’accettazione è il primo passo. Questo vuol dire ammettere intanto di avere una paura, ma anche cercare di comprenderla, che non significa cercare di capirla con la mente, ossia razionalmente. Comprendere vuol dire prenderla dentro di noi, dando alla paura la possibilità di esserci, di esistere. Sento quella paura e le faccio spazio dentro di me, così da consentirle di svolgere la sua funzione, ma allo stesso tempo la conosco per capire meglio chi sono io, perché la paura rivela aspetti di noi di cui spesso non siamo consapevoli.
La paura, è vero che ci protegge da esperienze, anche se piacevoli, che minacciano un equilibrio che non siamo ancora pronti a lasciar andare, ma allo stesso tempo erige intorno a noi un muro invisibile: più grande e invasiva è la paura, più alto è il muro e angusto lo spazio interno che comunica con il mondo esterno. Insomma una prigione. Con l’aiuto di un percorso psicoterapeutico è possibile trasformare questa prigione in uno spazio di lavoro alchemico, un luogo protetto nel quale, ognuno con i suoi tempi, può costruire o rinforzare quegli aspetti fragili, vulnerabili di sé, aspetti che non sono ancora pronti a relazionarsi e confrontarsi con il mondo. In questo modo la paura diventa un potenziale strumento di crescita e d’evoluzione per ogni individuo che intende mettersi in gioco e trasformare aspetti disarmonici di sé.
Quando vinciamo una paura, significa che ci siamo aperti a una nuova consapevolezza, che abbiamo fatto nostri quegli aspetti di noi stessi e della vita che non accettavamo, anzi che disdegnavamo con tanta energia.



ATTI DI CORAGGIO E ACCETTAZIONE ATTRAVERSO IL TEMPO

   Luca G.


U no dei filoni più fortunati del genere della fantascienza (sia in campo letterario che in campo cinematografico) è senza ombra di dubbio quello del viaggio nel tempo.
Di questo filone possiamo citare alcune fortunate saghe cinematografiche, quali Il pianeta delle scimmie, Ritorno al futuro e Terminator.
Ora, ciò che voglio fare con questo articolo non è tanto parlare di viaggi nel tempo, semmai far notare che in questi film possiamo trovare un collegamento al tema di questo numero del Faro, cioè coraggio e accettazione.
Per coraggio si intende la forza di volontà che si raccoglie e che si manifesta nell’affrontare una situazione pericolosa o sgradevole, e di suo comporta alle volte un atto di accettazione. Accettazione è a sua volta qualcosa che comporta sentimenti di tristezza, ansia e rabbia davanti a una situazione sgradita, ma che si è consapevoli di dover vivere, sopportare o subire anche se non si vuole.
A volte tutti noi dobbiamo subire quello che ci capita anche se non vogliamo, e altre volte invece si può lottare, anche se si ha paura. Regola che vale al cinema e anche nella vita. Atti di coraggio e accettazione si trovano un po’ in tutti i film, però io ho voluto citare quelli che sono riuscito a individuare in questi film che ho visto.
Per esempio Charlton Heston nel Pianeta delle scimmie del 1968, interpreta un astronauta di nome Taylor che dopo un viaggio nello spazio di diciotto mesi fatto quasi alla velocità della luce, precipita in un pianeta deserto, dove spera di trovare un mondo migliore del proprio. Dopo le sue esplorazioni, Taylor scopre di essere finito in un mondo in cui le scimmie hanno creato una civiltà preindustriale in cui gli umani sono trattati come animali da laboratorio. E questa è una realtà a cui egli si abitua (e che accetta) con fatica. Non ci sono atti di coraggio veri e propri, se non i suoi tentativi di fuga, fatti anche con l’aiuto della scimmia intelligente Zira, una psicologa veterinaria che lo ha preso a cuore studiandolo. Bisogna considerare pure che gli anni in cui fu girato il film erano anni in cui andava di moda il ruolo dell’antieroe. Però l’atto di accettazione più grande fatto dal protagonista del film è rappresentato dal finale a sorpresa. Taylor ha abbandonato la città delle scimmie e ha ripreso il suo viaggio. Quindi si ferma su una spiaggia, nota qualcosa di familiare ergersi davanti a lui e si sgomenta: questo qualcosa sono i resti della Statua della Libertà, che gli fa comprendere che l’astronave ha viaggiato per diciotto mesi senza però precipitare su un altro pianeta, bensì sulla Terra di un futuro distante duemila anni dalla sua partenza. Un futuro durante il quale si presume ci sia stata una guerra nucleare che ha fatto involvere gli uomini fino al rango di bestie ed evolvere le scimmie fino a divenire intelligenti: una realtà difficilissima da accettare per l’astronauta.
Un secondo esempio di personaggio che fa atti di coraggio e accettazione è Marty McFly, il giovane protagonista della saga di Ritorno al futuro interpretato da Michael J. Fox. La saga è ambientata nell’immaginaria città di Hill Valley e vede Marty avere come amico Doc Emmett Brown, un eccentrico inventore che ha ricavato da un’automobile una macchina del tempo. Nel primo episodio, Marty dopo essere tornato indietro nel tempo dal 1985 al 1955 e aver impedito non volutamente il primo incontro dei suoi genitori, cerca di evitare in tempo di cadere vittima del paradosso temporale che ha creato (senza l’incontro dei suoi genitori, lui non sarebbe mai nato) e affronta con coraggio i bulli della sua città, soprattutto il prepotente Biff; nel secondo episodio, Marty va nel 2015 e affronta coraggiosamente anche i bulli che tormentano il suo futuro figlio, per poi tornare di nuovo nel 1955 dal momento che Biff si è impossessato di un almanacco sportivo e della macchina del tempo creata da Doc per fare una fortuna con le scommesse e cambiare in meglio la propria vita (e rovinare il futuro della città); infine, nel terzo episodio, Marty scopre che Doc è rimasto intrappolato nel 1885, torna in quest’anno per riportarlo a casa; di nuovo con coraggio (e un pizzico di fortuna) affronta pistoleri prepotenti e situazioni rischiose e alla fine accetta con tristezza l’idea che il suo amico Doc abbia deciso di rimanere nel passato perché innamoratosi di una maestra alla quale ha salvato la vita. È quasi un sacrificio accettare questo fatto dopo essersi prodigati per evitare la morte del proprio migliore amico.
Un terzo esempio di coraggio e accettazione che ha come tema i viaggi nel tempo è la saga di Terminator, interpretata da Arnold Schwarzenegger. Anche in questa serie di film, Sarah Connor e suo figlio John compiono atti di coraggio come affrontare cyborg giunti dal futuro, letali, pericolosi, cattivi e pronti a ucciderli, ma soprattutto accettano con fatica l’idea che la civiltà umana sarà distrutta da un sistema informatico di difesa militare, che prima annienterà le città con le bombe atomiche e poi affronterà i sopravvissuti umani con cyborg, macchine e robot vari. E che il destino dell’umanità non sarà di impedire la catastrofe, ma solo di sopravvivere ad essa, proprio grazie al coraggio di John, che nel futuro post-apocalittico narrato dalla saga, organizzerà la resistenza degli uomini che vedrà la vittoria nella guerra contro le macchine. Ed è per questo che nel primo film viene mandato dal futuro un cyborg, un terminator, appunto, programmato perché uccida Sarah Connor prima che suo figlio nasca; nel secondo film ne viene inviato un altro col compito uccidere John quando ha solo dieci anni, e anche nei film successivi ci sono altri cyborg incaricati di uccidere John prima e durante la guerra.
Un quarto esempio di coraggio e accettazione che mi viene in mente l’ho trovato di recente ne La zona morta, il film del 1983 tratto dall’omonimo libro di Stephen King. Non ci sono viaggiatori nel tempo, ma c’è un uomo (Christopher Walken) dotato della capacità di vedere il futuro con un contatto fisico: quando stringe la mano di un senatore, si spaventa nello scoprire che diverrà presidente e scatenerà una guerra nucleare, così, con grande coraggio tenterà di ucciderlo, non ci riuscirà e prima di morire accetterà l’idea di essere comunque riuscito a distruggergli la carriera politica (infatti in una nuova visione il senatore si suicida) e poi accetterà l’idea di non vedere il futuro che ha modificato, perché stroncato dalle pallottole del bodyguard del senatore.
Questi sono solo alcuni esempi di coraggio e accettazione che si possono trovare in alcune delle pellicole che ho imparato ad amare. Ve le consiglio.




LE CINQUE ANATRE

   Francesco Guccini


Cinque anatre volano a sud: molto prima del tempo l'inverno è arrivato:
cinque anatre in volo vedrai contro il sole velato,
contro il sole velato...

Nessun rumore sulla taiga, solo un lampo un istante ed un morso crudele:
quattro anatre in volo vedrai ed una preda cadere
ed una preda cadere...

Quattro anatre volano a sud: quanto dista la terra che le nutriva,
quanto la terra che le nutrirà e l' inverno già arriva
e l' inverno già arriva...

Il giorno sembra non finire mai; bianca fischia ed acceca nel vento la neve:
solo tre anatre in volo vedrai e con un volo ormai greve
e con un volo ormai greve...

A cosa pensan nessuno lo saprà: nulla pensan l'inverno e la grande pianura
e a nulla il gelo che il suolo spaccherà con un gridare che dura,
con un gridare che dura...

E il branco vola, vola verso sud. Nulla esiste più attorno se non sonno e fame:
solo due anatre in volo vedrai verso il sud che ora appare,
verso il sud che ora appare...

Cinque anatre andavano a sud: forse una soltanto vedremo arrivare,
ma quel suo volo certo vuole dire che bisognava volare,
che bisognava volare…

IL CORAGGIO E L’ACCETTAZIONE

   Loopa Sonivree


Chi non desidera
d'aver coraggio...
Chi non desidera
d'accettarsi...
Il coraggio d'accettarsi
come individuo umano
con i propri limiti
renderà sicuramente
l'esistenza della persona migliore!
Mi guardo
e penso
se riesco a superare gli ostacoli
a far progredire
la mia persona
sia fisicamente che
mentalmente.
Preferire solo un aspetto
può creare uno squilibrio nella persona.
Nel mio caso
il variare gli interessi
mi aiuta e mi stimola molto.
Non sarò il migliore
in tutto quello che faccio
ma il solo fatto d'evolvere
mi rende un individuo
più completo...

TERRE LONTANE

   Domenico Barone


Terre lontane
dove soffia tanto il vento
che ne fa il padrone,
dove il mare fa sentire la sua forza
e la terra cosi calda dà i suoi frutti,
dove tante gesta
e generazioni sono passate
lasciando le loro origini.
Siamo i figli di questa terra.

ZOPPA

   Marcella Colaci (da “Poetica vitale a colori”)


Zoppa mi vede il mio amico,
zoppa mi vede mio fratello,
zoppa cammino per tutti loro
e zoppa mi vedo. Accidenti!
Ma ascoltando la zoppa che non vuol morire
che non si vuole amputare,
mentre arriva anche lo zoppo che l’aiuta ad amare,
mi dico che in fondo, sì, son zoppa,
ma non faccio alcun male.

VORREI AVERTI QUI

    Paola Scatola


Vorrei averti qui,
ma sei lontano.

I tuoi occhi sono rimasti impressi nei miei,
ed è tutto qui.
È finita così.

Il cielo ha un colore stupendo stasera,
rosso, verde e amaranto.
Chissà quanta luna per noi ci sarà.

Le mie mani ti sfiorano,
lentamente il viso.
Per quale motivo ti amo ancora tanto.
Forse perché?

LUCIDA FOLLIA

   Matteo Bosinelli


Avevo freddo, sai,
quando ti dissi "ama e vivrai".
Sei fuggita subito molto lontano,
pur prendendomi, timidamente, per mano.
Dolce compagnia,
è ora lucida la mia follia:
sto cercando la comune parola,
ma averti - per ora - non posso,
perché, purtroppo, sei ancora troppo "sola".

NESSUNO, ELENA E IL CORAGGIO

   Filippo Montorsi


Nata in un cortile di pioggia
Le pozzanghere nere nere dove non potevi né specchiarti, né parlarci
Ti piaceva giocare con le Big Babol e guardare gli altri far l'amore.
Non conoscevi l'invidia, i conati sì
Ma i tuoi occhi crescevano più in fretta dei tuoi capelli.
Poi, una mattina, hai trovato il coraggio di soffiarci forte forte
dentro a quella chewing-gum, che è diventata una palla,
un'elica, una mongolfiera.

Tua madre dalla terrazza urlava forte
dentro la tasca del grembiule, ricamato, stringeva in una mano la rabbia,
nell'altra la gioia, la bocca spalancata e una ammissione:

"È proprio come la bella Cecilia, la mia Elena,
che tutti la vogliono ma nessuno la piglia"
-la tua smorfia, di sbieco- -le tue mani piume- -i tuoi occhi cielo-

Ma allora, scusa una cosa, Elena, se io sono Nessuno
e tu sei "Cecilia che tutti la vogliono ma nessuno la piglia"...
io, allora, ti piglio.
Forse.

L’UOMO NELLA CASA SENZA PORTE

   Filippo Montorsi


La casa sulla collina.
Una collina avvolta nella nebbia o forse in una nuvola.
Fuori il dondolo -grigio- si cullava anche senza vento, un bel rumore.
Dentro, l'essenziale, il pane e il vino, l'insalata no.
Il grande specchio gli sorrideva.
Avevano fatto la pace, una cosa loro.
"Il coraggio nasce dal silenzio”, pensò.
Chissà se era vero, secondo me sì, forse; non importa.
Lo chiamavano Maramao anche se non era morto.

BOLLE DI SAPONE

   Giovanni Romagnani


Bolle di sapone.
Se soffi piano escono da sole.
Cosa succede in città.
Che mangi il gelato ed hai lo sguardo incazzato.
Portatemi Dio.
Che può essere amaro.
Con quel che succede in giro.
Qui c'è qualcosa che non va.
I tuoi occhi sorridono dentro i passaggi della notte.
Il denaro è un'allucinazione collettiva.
Soprattutto quando non ne ho.
Hai già preparato il caffè?
Saresti proprio una brava moglie. E...
Amo Te.
Ti prendo e ti porto via.
Stasera.
Nessun pericolo... per te.
Deviazioni?
Giocala!

L’INDIFFERENTE

   Marcella Colaci (da “Poetica vitale a colori”)


Sai cos’è
che mi fa alzare al mattino?
Niente.

Accetto silenziosa me stessa
perché oltre a me
nulla ha valore.

M’incammino
sapendo di non volare.
Passo dopo passo,
attorno echeggia il nulla.

Farò in tempo a comprendere
il poco?
Farò in tempo ad ascoltare
il nulla?
Arriverò alla morte
indifferente?

Strappato un parto,
ho allungato la vita.
Alleggerita dai mostri,
che, facendo eco, vanno via,
le gioie non più indifferenza.

VIOLENZA

   Marcella Colaci (da “Poetica vitale a colori”)


Non toccarmi,
non osare toccarmi,
ferma la tua mano stolta,
abbassa le redini,
non oltrepassare la soglia.
Coltello, pistola,
parole, offese, falsità
troppe volte hanno segnato.

Saper scivolare?
Sono umana?
Saper essere così…
donna?
Mani, mani,
troppe volte,
mani hanno picchiato.

Volare bassi.
Sulla mia pelle ferite.
Se mi tocchi non urlo,
se mi tocchi
non ti ammazzo,
ma se sopravvivo
ti faccio diventare
trasparente e inesistente.
Ed il mio domani è mio.

Guardo il paesaggio
lungo il mare
e mi guarda, lo amo.
Volo di donna,
allontanati.
E vivo.

ESISTENZA

   Giovanna Giusti


Vita materiale e spirituale,
magica, candida, oscura,
corri come un treno
con tante fermate.
Ad ognuna la sua riflessione,
il suo ricordo,
di gioia, di dolore, di amore.
Poi si scende, ma non sai chi sei,
perché hai viaggiato, ma
per quale anima l'hai fatto?
I vagoni ove sei stata
potevano essere abitati
da scheletri, da angeli, da demoni
che hai incontrato nel tragitto
dell'esistenza.
Allora ti senti confusa,
ma procedi in un frastuono
che speri finalmente ti porga
qualcosa di buono!

ESTENDO OGNI GRAMMO

   Luisa Paolucci delle Roncole


Estendo ogni grammo
su di te, per sentire il
peso che ha
l'amore. Leggeri sono
i pensieri e volano nella
tua anima.

TAO OSCURO

   Giovanni Romagnani


Buia oscurità,
anima liquida,
ho cercato in te ristoro e conforto,
ma ho trovato oblio.

Fatture ed incantesimi si inseguono,
immacolati,
fluttuano nel tuo ventre oscuro,
essere e non essere nero,
Tao.

Rincorro anime nei falò,
presenze di sciamani danzanti,
cerco me stesso,
nei riflessi di una notte-luna.

Un lampo tra i fulmini,
oscuro messaggio o presagio,
di un possibile Oltre.




GUARDARE NEGLI OCCHI CHI STA PEGGIO DI NOI
Il coraggio di vincere la paura e l’ipocrisia

   Milena Di Camillo (da LiberaLaMente n° 29, maggio 2011)


Dalle persone che ho incontrato frequentando il “mondo dell’handicap” (le virgolette stanno a sottolineare l’inadeguatezza di questa classificazione, perché l’handicap, nelle sue infinite coniugazioni, fisiche, mentali, culturali, sociali, c’è in ognuno di noi) ho imparato tante cose. Una, che nel tempo si è rivelata molto importante, ha a che fare con il coraggio. È il coraggio di guardare dritto negli occhi una persona che sta male, comunque che sta peggio di te. Non è una banalità ed è tutt’altro che facile. Di fronte alla sofferenza, alla difficoltà, al disagio, si tende a distogliere gli occhi: chi per pudore, chi per paura, guarda altrove, anche se si trova a dover parlare con quella persona… ritiene di farlo per rispetto ma non è così. O, almeno, la persona che sta male non la vive così.
Quando ho imparato a guardare le gambe inerti di Rosa, ad accarezzare le mani rattrappite di Ubaldo, a non sfuggire allo sguardo opaco di Ugo prigioniero della depressione… ho capito che quello era il vero rispetto. È cioè importante riconoscere tutta intera l’individualità della persona che ti sta di fronte, non solo la “parte sana”, quella che non crea imbarazzo…
Può essere difficile e talvolta ci vuole coraggio per farlo: anche perché, da quello sguardo dritto in poi, capisci quanto sia importante, a tua volta, metterti a nudo, riconoscere la tua stessa individualità, tutta intera. Ed accettarla con rispetto.







 
LA NOTTE DI NOTE

   Giovanni Romagnani


Il baraccone

Credo che ci sia molto da riflettere rispetto a questa frase di Franco Battiato:
“Non voglio sentirmi intelligente guardando dei cretini, voglio sentirmi cretino guardando persone intelligenti”. (Parlando del reality show L'Isola dei famosi - da Che tempo che fa, Rai Tre, 6 novembre 2004).
I reality non hanno inventato nulla. Sei personaggi in cerca d'autore, di Luigi Pirandello. L'hanno presa da lì. Un po’ di soldi, possibilità di fama e successo, e la televisione diventa un grande teatro. Di idiozia.
Con un bel po’ di sano cinismo, è divertente vedere quanto si vendono le persone. Non le biasimo, esistono situazioni di necessità. Però non amo chi ci sta dietro. Chi il baraccone lo crea. Consapevolmente. Anche se probabilmente il vero apripista è stato Gianni Boncompagni con Non è la RAI. Meno male che c'è chi ci vede oltre ed attraverso, e scrive Delusa!



Luci

Osservando le Luci della Centrale Elettrica, penso che ad esse bisogna tornare, rinunciando alle troppe immagini televisive. Dormiente stato di trance perenne: chi si desta perde il clima della non-curanza.
Franco Battiato, La Trance, da Campi Magnetici. Album coraggioso, magnetico. Elettrochimiche cere¬brali in movimento per chi perde il clima della non-curanza. Prezioso il contributo di Manlio Sgalambro. Seguito ideale di Serial Killer, contenuto nell' Imboscata, ci ricorda che per non perdersi nel flusso del divenire è necessario lasciare un senso di sé.
Forse, se non ci sforzassimo di dare forma alle luci, avremmo il coraggio di non farci guidare dalle immagini, e finalmente guarderemmo meno televisione, stando in stand-by di fronte al tramonto.



La paura

Facevo una riflessione sul coraggio & la paura.
Delle volte la seconda è istinto di conservazione e va ascoltata. Troppo coraggio poca paura: imprudenza!
È un equilibrio difficile. La mia speranza è che siano complementari. Poi nel calcio ci sono i supplementari ed anche i rigori, dove ci vuole coraggio... ed eventuale accettazione della sconfitta.



ESP

La Dottoressa Francesca Guzzetta venerdì 3 luglio ci ha spiegato come si articolerà il Progetto ESP.
Ogni futuro ESP deve fare un'intervista presso il suo Csm di Riferimento. Trovare cioè uno Sponsor. E qui mi aggancio. Piccolo, Spazio, Pubblicità. Ho scritto della compressione in cui vivono molti utenti. Credo che gli ESP possano portare spazio. E lo sponsor possa fargli pubblicità. Sperando anche di poter festeggiare gli step intermedi. Come hanno suggerito al Corso di Recovery Star. Aspettando le Bollicine, non di Coca-Cola, ma di Spumante.

IL CORAGGIO, L’ACCETTAZIONE E LO ZEN

   Luigi Zen


Pensando che il coraggio sia un’azione compiuta dal nostro corpo per ottenere quello che vuole il nostro io, o il nostro ego; e che nel compiere tale azione possiamo mettere la nostra vita in pericolo, tale da rischiare ferite o anche la vita; durante quest’azione possiamo avere una paura; che prende il posto del coraggio che c’era un istante prima in noi, ma poi l’azione che si compie, ci può costare talmente tanta fatica che possiamo pensare che questo sforzo prolungato sia simile alla morte o ci faccia morire. Fin qui ho parlato di fatiche materiali come quelle di sport estremi, ecc… Poi c’è il coraggio emozionale o spirituale, che può trasformarsi in paura emozionale come quella di un cantante o attore che entra in scena, o quella di una donna che sceglie di diventare madre e per la quale sono necessari o richiesti sostegni materiali o spirituali o emozionali affinché abbia il coraggio… Un esempio di coraggio emozionale è quello di fumare pensando che procura più danno che benessere; e che comunque si fuma lo stesso. È coraggio. Poi bisogna distinguere se quando io debbo essere coraggioso lo scelgo io, con un personale libero arbitrio, o se mi viene imposto dagli altri e sono obbligato ad accettare; esempio essere mandati in guerra, o per cause naturali essere coinvolti in un terremoto; e questo accade quando noi non siamo più liberi di scegliere, ma una fetta del nostro corpo è nelle mani degli altri, sia per il lavoro che si fa, sia perché si ha una patologia da curare. Tuttavia, tutto quello che ho scritto fin qui è stato inutile, perché penso che la vita sia formata da una sommatoria di tanti piccoli coraggi, di tante piccole paure, di tantissime altre accettazioni libere o obbligate ecc… come dire: io mi uccido però non avrei il coraggio di farlo, perché toglierei il lavoro alla morte. Se poi mi uccidessi in realtà non lo farei del tutto, perché non potrei uccidere la vita vissuta che è già morta in me, potrei uccidermi del tutto solo un istante prima di nascere.




CORAGGIO E ACCETTAZIONE

   Associazione UmanaMente


Brainstorming


Accettazione come tagliare. Accetta.

Giovanni



Accettare la sofferenza vuol dire essere accettati anche dagli altri. Quando qualcuno accetta se stesso viene accettato anche dagli altri. È un cammino. All’interno della sofferenza si trovano dei valori. Persone che hanno questo tipo di esperienza sono meno superficiali. La sofferenza è crescita. Diventare portatori di valori.

Edoardo



Il coraggio fuori dall’accettazione è fare qualcosa che non hai mai fatto e che vorresti fare, anche trasgredire, andare controcorrente.

Stefano G.



Accettazione e coraggio, per me, è vivere nel posto dove vivo io da otto anni. Sembra un bel posto da fuori e invece è un posto orrendo. Io sto bene ma faccio molta fatica a vivere in quel posto lì.

Stefano



Se uno deve pensare a quando comincia ad essere attivo il coraggio in una persona, il coraggio si ha in noi quando non si manifesta la debolezza, il timore, la paura. L’accettazione è quando la persona si sottopone a sforzi di qualsiasi genere, è la conseguenza di avere un coraggio manifesto.

Luigi



Io devo avere ogni giorno coraggio per affrontare la vita. Io sono in ‘gruppo appartamento protetto’ da circa tre anni e le persone che abitano in quel palazzo ci guardano con sospetto e devo sempre trovare il coraggio di affrontare la vita anche se non è facile.

Oriano



L’accettazione è stata molto dura per me. Ho avuto un episodio delirante nel 2002 e da allora ho sempre paura di tornare a quel livello lì. Oggettivamente è dal 2003 che sto bene, ma soggettivamente ho sempre paura di ricadere. Accettare di essere stato male non è stato facile.

Simone



Accettare di poter avere paura

Elena



Il coraggio di porsi per quello che si è. Tra l’accettazione e il coraggio c’è la scelta di voler raccontare se stessi.

Giovanni



Il coraggio è anche usare la paura; può essere la ‘radarizzazione’ (radar) del pericolo a distanza.

Stefano



Coraggio e accettazione sono parole statiche. Se ci sono cose da affrontare nella vita devo usare il coraggio che può diventare paura se non ho tutti gli strumenti per agire. Possiamo essere liberi o obbligati nell’usare il coraggio (es. guerra, coraggio obbligato). Il coraggio lo dividiamo in due: se applicato a cose materiali, tipo guidare una macchina, uno applica le sue abilità e se queste abilità non sono sufficienti allora si può avere paura. Se si tratta di coraggio emotivo, ad esempio una donna che vuole avere un figlio può avere paura, ma il coraggio le può essere dato dall’unione che può diventare una forza per scegliere.

Luigi



I vicini di casa non ci accettano. A volte vorrei prendere la terapia al bisogno, cerco di resistere ma è dura.

Oriano



L’accettazione che… si vive in un condominio e ci sta sempre qualcuno che non gli va mai bene niente

Stefano G.



È difficile accettare di essere un paziente psichiatrico.

Simone



Difficoltà di accettare qualcosa che mi è successa nella vita e che viene da fuori di me, che non dipende da me e accettare qualcosa che mi riguarda, accettare di avere sbagliato, di aver vinto. Accettare: prendere atto di qualcosa.

Nadia




Cosa è il coraggio e quale è la prima cosa che mi viene in mente quando dico 'coraggio'?

Stefano: mi viene in mente l’86 quando ero un punk e un mio amico mi portava con lui dicendo che ero suo fratello e andavamo a presidiare le case occupate.

Oriano: io ho avuto del coraggio per affrontare mio padre quando entrava in casa alticcio e mi picchiava con la cinghia.>

Luca: io ho avuto lo stesso coraggio quando mio padre entrava a casa ubriaco. Non mi picchiava, ma quello che ho avuto il coraggio di fare è stato di perdonare.

Nadia: per me il coraggio è stato prendere coscienza del fatto che bisogna accettarsi e amarsi e che bisogna piano piano imparare a camminare con le proprie gambe.

Simone: è stato capire di essere stato male, per fortuna è stato solo un episodio hanno detto, ma certo che rendersene conto non è facile e anche scrivere un libro su quell’argomento poi. Avere il coraggio di scrivere un libro.

Martina: per me il coraggio è stato cercare di sopravvivere dopo la morte di mio fratello e sono contenta di aver trovato la forza per andare avanti.

Francesca: per me coraggio è cercare di accettare mia mamma che ha avuto dei problemi.

Filippo: la paura.

Luigi: io ho scritto una lettera sul coraggio e l’accettazione con tante cose, ma in un punto in particolare scrivo che il coraggio non è un momento in particolare, ma che la nostra vita è un esempio di tanti piccoli coraggi che si sommano, dei ‘coraggini’. Ci sono poi tante piccole accettazioni.


Un’immagine visiva reale o fantastica per il coraggio

Elena: un piccolo uccello su un burrone che deve volare per la prima volta. Si butta e deve aprire le ali. L’idea del volare per la prima volta.

Oriano: Gandhi.

Luca: la mia immagine è una donna incinta.

Simone: mi ha colpito molto una foto su internet di una persona senza un braccio che solleva dei pesi.

Luigi: la donna incinta… e poi la faccia che fa il padre.

Nadia: a me viene in mente una scena del film Quasi amici dove il protagonista, che facendo parapendio si era rotto le vertebre, ci torna abbracciato ad un altro.

Stefano: a me viene in mente il film Arancia Meccanica.

Filippo: io ce l’ho, ma vi chiedo di chiudere gli occhi. Io ho questa immagine qua. C’è la nebbia, piove. C’è quest’uomo nella nebbia sotto la pioggia. È inverno, siamo in gennaio e lui cammina e tu lo vedi da dietro, quest’uomo tutto vestito di nero con il cappello nero, però ha l’ombrello bianco. Questo è il coraggio.

Nadia: un’altra scena di coraggio che mi è venuta in mente e che si vede spesso nei documentari sono i cuccioli e i genitori che li difendono e li salvano da un attacco di felini.

Stefano: io da ragazzino sognavo di essere un ghepardo e di andare ai 100 km all’ora e di far fuori la gazzella.

Martina e Francesca: per noi l’immagine di coraggio è guardare voi che raccontate, che avete il coraggio di raccontare quello che vi è successo nella vita.


Scritti sull’Accettazione


Martina (19 anni liceale)
Per me l’accettazione è vedere un gruppo di ragazzi musulmani che si tengono per mano e, uniti, formano una catena intorno ad una chiesa cattolica per difendere il simbolo della cristianità dagli estremisti islamici.

Francesca (18 anni liceale)
Ho accettato la malattia di mia mamma anche se con grande fatica, perché ancora adesso non so cosa le può causare tanto dolore, non so come aiutarla e non posso prevedere i periodi in cui starà male. Ho accettato mia madre per quello che è, soprattutto perché so che mi vuole tanto bene, anche se quasi mai me lo dimostra.

Stefanino
Mio padre ha un bypass e una cataratta. È molto anziano. Ha ottantadue anni. Si chiama accettazione della sua anziana amicizia. Lo rispetto, come mio fratello Massimo, e ci vogliamo bene. Maria è mia madre. Massimo lavora alla Ducati e vive con una ragazza ucraina. Io ho lavorato alla Datalogic. Mia madre aiuta mio padre.

Luca
‘Accettazione’, uno dei significati… per me è una parolaccia (mio malgrado, purtroppo). Ho un’indole ribelle che rifiuta il concetto stesso di accettazione. Devo perciò intraprendere un percorso faticoso che parte dalla presa di coscienza della realtà. Intendo dire che devo capire se una cosa è vera, esiste, è realmente accaduta. Fatto questo comincia per me il ‘calvario’ dell’accettazione. Si tratta di separare:
- Accettazione vs rinuncia
- Accettazione vs resa
- Accettazione vs sconfitta
Per poter accettare e vivere la mia realtà l’ho filtrata per vent’anni.
Per accettare qualcosa in modo costruttivo e propositivo devo letteralmente ‘accettarlo’ - sezionarlo, metterlo in discussione, alla fine condividerlo. Senza condivisione anche l’accettazione è un’impresa per me molto difficile. Spesso non è possibile. Richiede tutto il coraggio.


Lettura suggerita: “Il Meraviglioso mago di Oz” di Lyman Frank Baum

protagonisti della fiaba sono Dorothy, la bambina allontanata dalla sua casa in Kansas da un terribile uragano, lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo. Ognuno di loro vuole incontrare il Mago di Oz per chiedergli qualcosa.
Dice lo Spaventapasseri: “Io non so ragionare. La mia testa è piena di paglia. Per questo chiederò al Grande Oz di darmi un po’ di cervello. Tu ce l’hai?” “No. La mia testa è vuota. Ma l’intelligenza non è la cosa più importante nella vita, penso che sia meglio avere un cuore” risponde il Boscaiolo di Latta. “Io chiederò un cervello, perché uno stupido non può sapere cosa farci con il cuore”
“Io prenderò il cuore, perché l’intelligenza non rende felici e la felicità è la cosa più importante”
Dorothy non disse nulla, perché non sapeva proprio decidere chi dei due avesse ragione.
Al trio si aggiunge presto un bizzarro Leone Codardo, ben lontano dal coraggioso stereotipo di re della foresta:
“Il Re degli Animali non dovrebbe essere un codardo!” disse lo Spaventapasseri.
“Lo so” rispose il Leone asciugandosi una lacrima con la punta della coda “ma davanti al pericolo il cuore mi batte forte e questo mi rende infelice”.
“Almeno tu hai un cuore” disse l’Uomo di Latta “io no. Per questo faccio un lungo viaggio: per chiedere al Grande Oz di darmi un cuore”.
“Io invece lo pregherò di darmi un po’ di cervello” lo informò lo Spaventapasseri.
“E io lo supplicherò di farmi tornare nel Kansas” aggiunse Dorothy
“Credete che Oz potrebbe darmi un po’ di coraggio?” chiese il Leone Codardo.
“Sì, se può dare a noi un cuore, un cervello e il Kansas!” rispose Dorothy.


Che cosa rappresentano i doni del Mago di Oz? Nadia:
Non conosco molto bene la storia del mago di Oz, ma ho deciso di non leggerla per poter inventare usando la fantasia.
Un giorno si incontrarono una dolce bambina che desiderava tornare a casa, uno spaventapasseri che desiderava avere un cervello, un uomo di latta che desiderava avere un cuore ed il leone fifone che desiderava imparare ad avere coraggio.
Decisero di partire tutti assieme per cercare il mago di Oz, avevano sentito dire che può esaudire tutti i desideri… Si avviarono per un viottolo sconnesso, ripido e molto faticoso. Durante il viaggio impararono a conoscersi e parlarono dei loro desideri.
Quando arrivarono in cima, la strada finiva in una radura, non c’era il mago di Oz semplicemente perché non esiste. Così poterono capire che ognuno di noi, se sa cercare, ne ha uno dentro di sé... e a volte è tanto utile l’aiuto degli amici sinceri.


CONTRIBUTI SCRITTI

Oriano
Il coraggio è a volte assecondare le persone per evitare diatribe. Il coraggio è vivere con altre persone. L’accettazione è convivere con la propria indole. L’accettazione è capire i propri sentimenti, le proprie emozioni.

Luigi
Appunti Zen

Il coraggio è quello che ti capita quando manifesti delle abilità applicate a esercizi o sport estremi. Dove e quando le nostre abilità non sono sufficienti il coraggio diventa paura di essere feriti o di morire. Può capitare che si è obbligati ad accettare qualcosa di imprevedibile o inaspettato. Coraggio di due tipi: uno volontario dove noi possiamo scegliere; un tipo di coraggio che dobbiamo avere involontario, che dobbiamo accettare, che ce lo impongono gli altri, o coraggio di accettare.

Edoardo
Nella mia vita capitavano e capitano mille situazioni in cui dovevo e devo prendere delle decisioni. Oppure dovevo o devo tuttora accettare situazioni difficili e complesse, anche per esempio dal momento in cui sono andato in pensione.
Credo inoltre che le testimonianze degli altri, persone che vivono con difficoltà maggiori, possano aiutare a relativizzare i propri problemi e ad andare avanti con coraggio perché l'esempio degli altri dà forza. Chi ha problemi, penso soprattutto a chi ha seri problemi fisici, è maestro per gli altri perché vive la sua situazione come un valore. L'accettazione viene da una sofferenza matura.

Nadia
Ho avuto un'infanzia ed un'adolescenza di cui riesco a ricordare per lo più cose brutte e solo qualche sporadico episodio felice. Mi sentivo sola e spesso chiusa nel mio dolore che nessuno sembrava notare. Da ragazzina è iniziato un misterioso e predominante alternarsi di umore, da nero, a normale, a gioioso. Subivo, non capivo, sopportavo aspettando che passasse, che era l'unico consiglio che mia madre mi sapeva dare. Poi a trentun anni, nonostante avessi appena conosciuto il vero unico amore della mia vita, la prima crisi maniacale grave, poi il ricovero, la diagnosi, le cure.
Vivevo la malattia con vergogna e dopo le fasi maniacali con senso di colpa per quello che avevo fatto o detto prima. Cercavo in ogni modo di nascondere il malessere e la sofferenza e se qualcuno mi chiedeva, mi incazzavo con me stessa per aver lasciato trasparire... Da non tanto tempo ho imparato l'accettazione, che non vuol dire rassegnarsi al fatto di essere malata, ma prendere coscienza del fatto che bisogna accettarsi ed amarsi e che si può imparare piano piano a camminare con le proprie gambe. Per trovare questo percorso, faticoso ma fruttifero, mi hanno aiutato tantissimo i laboratori dell’Associazione UmanaMente che mi hanno aperto ad un ricco nuovo mondo di comprensione, condivisione, appartenenza, divertimento ed emozioni finalmente liberate. Grazie a tutti di esserci con così tanto impegno e passione.


IL MANUALE DELLE DIECI REGOLE D’AMORE


   Antonio e Luca G.


I n una bella mattina, precisamente sabato 10 maggio del 2010, un ragazzo di nome Davide conobbe una favolosa fanciulla di nome Lucia, in uno dei parchi più frequentati di Firenze. Entrambi erano molto giovani: Davide aveva venticinque anni, Lucia ventiquattro.
Davide era un ragazzo molto gentile, simpatico, spiritoso e tanto spontaneo che riusciva sempre ad andare d’accordo con tutti. Fisicamente era il tipico ragazzo che piace alle donne: alto 1 metro e 80, biondo, magro, occhi azzurri, abbastanza muscoloso, ma a differenza di tanti non si vantava, non aveva vizi e non andava mai sopra le righe. Era un tipo semplice, leale, rimanendo sempre se stesso; questo fatto per Davide era diventato un punto di forza soprattutto in campo amoroso, romantico, affettivo.
Lucia, caratterialmente, era simpatica, un po’ timida, molto semplice, sincera; anche lei andava d’accordo un po’ con tutti. Era mora, con capelli lunghi e lisci, magra, alta 1 metro e 74, fisico perfetto, infatti faceva la modella.
Quel sabato, in quel parco, tutti e due passeggiavano; Davide aveva bisogno di un’informazione stradale, per raggiungere il bar appena aperto della sua migliore amica, Angela. Aveva chiesto informazioni a Lucia, e dopo che lei gli aveva spiegato dov’era, tra i due nacque una bella amicizia. A forza di chiacchierare, decisero di andare insieme al bar di Angela per conoscersi meglio. Man mano che si conoscevano, con vari appuntamenti conco
rdati in quel bar, nacque tra loro un feeling eccezionale e a furia di vedersi sempre di più tra Davide e Lucia nacque un vero romantico amore passionale. I due giovani si amarono sempre di più, tanto che dopo cinque anni di fidanzamento decisero di sposarsi, il 20 giugno del 2015.Davide e Lucia nel tempo a furia di frequentarsi e di amarsi per davvero diventarono la ‘coppia perfetta’ ed ebbero la speciale idea di inventare un fantastico manuale d’amore, che descrivesse in modo semplice e chiaro le dieci regole per una coppia che ambisce alla perfezione.
Tutte le coppie di innamorati dovrebbero prendere esempio da Davide e Lucia!

Queste sono le dieci regole d’amore prese dal loro manuale:

1) Non sempre il manuale dell’amore perfetto in una coppia può funzionare, ma funziona per le coppie che si amano per davvero;
2) L’amore di entrambi deve essere vero, duraturo e serio;
3) Il fidanzato deve comprendere che la sua fidanzata vale più di qualsiasi altra cosa che esiste nel mondo, e viceversa;
4) Nessuno dei due innamorati deve mai tradire;
5) Nel tempo i due innamorati devono fare una bellissima famiglia affiatata;
6) Il fidanzato non deve mai essere violento con la fidanzata e viceversa;
7) Il fidanzato deve essere un cavaliere, un gentiluomo nei confronti della fidanzata;
8) La fidanzata deve accontentare le esigenze del fidanzato, ma senza esagerare;
9) Entrambi gli innamorati devono avere il coraggio di accettarsi a vicenda per quello che sono;
10) Entrambi devono apprezzare la vita.

E così Davide e Lucia fecero una bellissima ed affiatata famiglia e si amarono per sempre; il loro amore si può quindi definire perfetto, romantico e serio.

CORAGGIO E ACCETTAZIONE

   Centro Diurno di Casalecchio di Reno

Il coraggio significa non accettare, perché chi ha coraggio non accetta di subire sottomissioni da parte di altra gente. Gente che non ci conosce e che non sa nulla della nostra vita.
Accettare che mio padre sia ricoverato per crisi cardiache almeno due volte l’anno. Lui che urla per i dolori al petto, spaventa tutti in casa, ci terrorizza. Noi non siamo medici e non capiamo cosa succede nel momento dell’attacco cardiaco.
Per fare una vita decente ci vuole coraggio, perché il coraggio implica delle scelte, delle strade. Se non hai il coraggio di scegliere si rimane sospesi, in una vita senza senso.
Ci vuole coraggio e accettazione, oppure occorre rassegnazione? Tante volte al posto di litigare, mi rassegno e vado oltre certe cose.
Che differenza c’è fra accettazione e rassegnazione? L’accettazione è più o meno volontaria, ma la rassegnazione è accettare di essere dominati da altri. La rassegnazione è subire del male da parte di altre persone.
Il coraggio di chiedere aiuto e di essere curati da persone competenti, quindi affidarsi a persone che conoscono di più le malattie.
Quando ero quindicenne avevo scontri fisici con mio padre, letteralmente ci assalivamo perché io non sopportavo di vivere subendo prepotenze da parte di mio padre com’è stato per tutto il periodo dell’infanzia. Mia sorella subiva le stesse cose da parte di mio padre. Ci voleva una forte dose di coraggio nell’affrontare con mano pesante mio padre, perché anche lui era più giovane, più forte, più potente e prepotente. Ho dovuto accettare questo dato di fatto perché non c’era nessun modo per cambiarlo. Ognuno ha la propria matrice, il suo Dna.
Quando si ha una malattia ci vuole il coraggio di conviverci attraverso l’accettazione.
Io ho paura, sempre paura dei miei vicini di casa, sono capaci di trattarmi bestialmente. Io devo rassegnarmi e basta.
Ci dobbiamo accettare per quello che siamo e non per quello che avevamo in mente per noi. Per concludere: vivere… è dura, e ci vuole coraggio.

LO SFOGATOIO

   Giovanni Romagnani


Messaggio originale

Una volta ebbi un'acuzie.
Allora mio padre mi accompagnò dalla Dottoressa P., in via Emilia Ponente. Risultato: colloquio personale. Ero molto depresso per cui si preoccupò, e mi chiese: "Pensa mai al suicidio?". Le risposi: "Molto spesso, ma è solo un pensiero!". È su questo che voglio porre l'attenzione: avendo fatto molto yoga, o bioenergetica, più occidentalmente, ritengo i pensieri come un'emanazione della psiche a cui do il giusto peso e poco di più. Così dovrebbero fare anche certe psichiatre, che hanno una tenuta nervosa nei fatti semplicemente ridicola.


* * *

Il problema di certi genitori è che appoggiano le loro ansie a quelle degli operatori trovando terreno fertile.


* * *

Credo che in psichiatria si dovrebbe arrivare al Point-Break del rapporto, onde evitare che si cronicizzi. È chiaro che questo comporta coraggio da entrambe le parti.


* * *

Mi sono definito in un'intervista andata in onda al TG3 Regionale dell' Emilia Romagna del 21 Aprile 2015 un Impaziente Psichiatrico e così voglio rimanere.
Sono un utente che le utenta tutte ed ho chiesto io quell'intervista.
Noi matti dobbiamo avere il coraggio di apparire e di parlare di Noi. E magari di Essere.


* * *

Matto? Matto! M'atto, cioè faccio, Amici Miei
Il Conte Mascetti, mia sub-personalità radiofonica, ha bisogno di compagni fattivi, che tra la m & la a mettano l'apostrofo.
Esistono troppe congiunzioni avversative. M'A!


* * *

T'immagini se fosse sempre domenica. Però. Domenica tutto è chiuso.
Sostanzialmente si può andare solo a Messa.
E se invece, le biblioteche fossero aperte, si potrebbe santificare la cultura, e sentirsi meno soli.


* * *

Ogni Organizzazione ha il Suo Ente. La Chiesa Dio, la Psichiatria gli Psicofarmaci.


* * *

Sono stato più volte ricoverato nel reparto psichiatrico dell'Ospedale Maggiore “Paolo Ottonello”. Solo una delle ultime volte mi è stato detto che esisteva, e spero esista ancora, una biblioteca a disposizione dei pazienti. Ritengo inaccettabile che questa informazione non venga passata di prassi a chi entra. Dovendo starci, bisogna anche trovare qualcosa da fare per ammazzare il tempo.
Una volta ho chiesto le carte da briscola che con fatica mi sono state date: erano 32.
Non si può giocare nemmeno a scopa! Poi uno può anche ricorrere all'onanismo: stancante ma necessario, anche perché nel reparto “Paolo Ottonello”, la ‘vita’ è dura.




E poi si arrabbiano se li chiami paraculi

È un episodio avvenuto durante un T.S.O voluto dalla Dottoressa E.C. (salute!) nel 2003, nel reparto psichiatrico dell'Ospedale Maggiore di Bologna “Paolo Ottonello”.
Dopo i convenevoli, ritirate chiavi e catenine, chiedo di poter fare una doccia.
Rivestitomi arriva l'infermiera con la terapia in pastiglie. La assumo, tanto non se ne esce. Credevo che la pratica fosse finita lì, invece mi passa il bicchiere con l'acqua.
Rifiuto gentilmente, la terapia la prendo liscia, amara come la vita. Ma l'operatrice insiste. Dopo un dai e dai di circa 30 minuti (detto per inciso, in altre cose sono molto più svelto pur non soffrendo di eiaculazione precoce) mi dice arrossendo che nell'acqua c'erano alcune gocce di Valium per dormire meglio.
E poi si arrabbiano se li chiami paraculi.
Partendo dal presupposto che sono matto e non scemo, non amo essere preso per il culo. Mi sembrava di essere all'Asilo. Meglio quello Republic, in ogni caso, additivi compresi. Il punto è che già per il culo ti prendono quando ti fanno le punture, con mano rapace; per dirla tutta, quando facevo il moditen depot. avevo più buchi nel culo che capelli in testa, poi è meglio una brutta verità che una bella bugia.
Spero di non scatenare la rabbia eventuale del lettore. Il termine Paraculi non è un insulto ma una amara constatazione.




Io ballo da solo

Come Liv Tyler brucio le mie poesie nel momento in cui clicco invio.
Ed il mare della rete non le spegne, ma bruciano dentro di me, come messaggi in una bottiglia aspettando qualcuno che non beva le apparenze ma cerchi le scintille di fuochi se no spenti.


* * *

La legislazione sul Ti.Fo. fa Schi.Fo.
Dunque.
Svolgo un tirocinio (Ti.Fo.) presso il Centro di Formazione Professionale C.S.A.P.S.A. di Bologna.
In agosto chiudiamo; al massimo ci saranno due settimane lavorative, verosimilmente la prima e l'ultima.
La retribuzione del Ti.Fo., a carico dell'Ausl, C.S.A.P.S.A. è semplicemente l'ente ospitante, è a percentuale di giorni lavorati.
Se lavori tutti i giorni previsti, 100%, guadagni 250 €, che comunque è il tetto massimo.
Mi ero detto:
se lavoro tutte le due settimane previste, la percentuale è 100% per cui guadagno 250 €.
Invece no!
I giorni di chiusura dell'azienda ospitante risultano come giorni lavorativi.
Quindi, facendo 2 settimane su 4 la percentuale scende al 50%, da cui 125 €.
Aggiungo che il Ti.Fo. non prevede nè le ferie nè la malattia.
A conti fatti ad Agosto guadagnerò la metà.
Mi limito a dire che sarei curioso di sapere lo stipendio degli Operatori Ausl che lo attivano.
Loro le ferie e la malattia ce l'hanno.
Noi utenti, che siamo dei poveri stronzi, no.
Temo che con questo caldo si rompa anche lo sciacquone.


* * *

E tu dormi mentre i tuoi occhi sorridono. No.
Il sonno chimico indotto dai narcotici non fa sorridere gli occhi.
Al limite il sole muore.
E chi soffre d'insonnia rimane solo.
La Luna si inghiotte i sogni del giorno e nel suo crepuscolo i demoni nascono, ed in molti casi non è una tensione evolutiva.


* * *

I Tempi Sono Maturi.
Vasco Rossi ha dedicato Delusa alle ragazze di Non è la Rai. Io la dedico a tutta la Psichiatria!




DELUSA

   Vasco Rossi


Sei tu che quando balli così, mi vuoi provocare
e lo sai cos'è che scateni tu,
dentro di me!
e... sì, continua pure così,
che vai bene, bene, bene
e lo sai, ti dirò sempre di sì...
io muoio per te!
Sei tu che quando balli così in televisione
chissà com'è orgoglioso di te
tuo papà!
E... sì che il gioco è bello così...
solo "guardare"
però quel Boncompagni lì...
secondo me...

Ehi tu "delusa"
attenta che chi troppo "abusa"
rischia poi di più...

Sei tu che dici sempre così
"non chiamarmi amore"!
Perché? gli amori fatti così, che cosa sono per te!
Eh... sì che se ti muovi così,
mi vuoi far morire...
e lo vuoi, che io ti guardi così...
altro che!

Ehi tu "delusa"
attenta che chi troppo "abusa"
rischia un po'... un po' di più...
e se c'è il lupo... rischi tu!
Ehi tu "delusa"...
che cosa vuoi che sia "una scusa"...
stai pur lì... che io lo so
che cosa è il sesso e il rock'n'roll!

Ti vesti sempre così... anche in casa?
Perché?... di spettatori lì...
non ce n'è?!
Eh... sì!... papà è geloso e così...
non ti lascia uscire!...
Però "in televisione" sì... chissà perché!...

Ehi tu "delusa"
attenta che chi troppo "abusa"
rischia un po'... un po' di più...
e se c'è il lupo... rischi tu!
Ehi tu "delusa"...
che cosa vuoi che sia "una scusa"...
stai pur lì... che io lo so
che cosa è il sesso e il rock'n'roll!

Ehi tu "delusa"
che cosa vuoi che "sia una scusa"...
"divertiti"... e fa il tuo show!...
che questo è sesso e rock'n'roll!...

POESIA

   Luisa Paolucci delle Roncole


Charlotte e Siegfrid
Tenevano la mano
ora solo 6 anime.

DAZZENGER

   Darietto


● Mamma, ho combinato un pasticcio! "Niente paura figliolo, lo vendiamo in pasticceria!"
● Sapete chi è la compagna della cerniera lampo? La cerniera tuono.
● Quale numero ti fa venir voglia di bere? Ottanta... sete!
● Sapete perché Prosciutto piange? Perché è morta Della.

LA SOLUZIONE DEL MATEQUIZ


Se togliete una mela e due palline (unità) da entrambi i lati della bilancia, questa resta in equilibrio.

Perciò il peso di una mela è 4 unità.




Ciao ragazzi!!
Come va? Ormai è passato un anno dal corso di Indesign e dal restyling del Faro e ancora porto nel cuore quest'esperienza. Per me è stata un'ottima occasione di crescita professionale ma anche umana.
Ho avuto a che fare con delle persone interessanti, ognuna con qualcosa da dire e da trasmettere. Grazie a voi per la prima volta la grafica non l'ho solo fatta, ma anche insegnata e siete stati degli ottimi allievi!
E i risultati si vedono, seguo le varie uscite del nuovo Faro su internet e ogni volta rimango sbalordito dal prodotto che riuscite a confezionare. Bravi! Si vede che ci mettete passione!
Sono curioso di vedere il vostro lavoro stampato su carta e non solo sul monitor del computer.
Mi piacerebbe uno di questi giorni passare dalla redazione per salutarvi... In questo periodo sono preso da mille cose, il 20 settembre mi sposo e in queste settimane sto correndo tra preparativi per il matrimonio e ristrutturazione della casa.
Per il momento ancora tanti complimenti e tanti saluti! Un abbraccio a tutti voi. Continuate così!
Marco

Grazie, Marco,
che piacere la tua lettera! Hai ragione, siamo diventati bravini... è perché abbiamo avuto un buon maestro! Anche noi abbiamo molta voglia di rivederti: ti aspettiamo e intanto ti facciamo tanti auguri per il matrimonio e per la nuova vita che ti aspetta!



Gentile redazione del Faro,
potrebbe essere un’idea quella di inserire nella vostra bella rivista un piccolo “angolo con diversivo”? Il titolo “dell’angolo” potrebbe essere: - un quiz - matfitness- fitness matematica- alleniamo la mente, (o qualcosa d’altro). In allegato alcuni esempi. Direi un solo esempio per ogni numero della rivista. Se l’idea non vi piace …amici come prima!
Cordialmente.
Anna Maria Arpinati

Ciao, Annamaria!
Fitness matematica… perché no! Se hai voglia di farci avere a ogni numero un piccolo quiz, possiamo fare una rubrichetta fissa dell’associazione Elève: intanto inauguriamo con questo numero il matequiz!

L’INAUGURAZIONE DI CA’ PROVVIDONE

   Michele Ferri


La Casa delle Associazioni è stata inaugurata l'11aprile 2015, alcune persone, me compreso, hanno raggiunto la struttura con il pulmino partito dalla Casa della Conoscenza di Casalecchio, alla cui guida c'era Rita. Dopo una mezz'ora circa siamo arrivati a destinazione passando per campi e ‘cavedagne’. Tra le diverse proposte di attività sportive ho scelto il Nordic Walking, camminata con l'ausilio di due bastoncini molto leggeri. Il gruppo trekking, ridendo e scherzando, è partito dal Provvidone ed ha raggiuto una località dove si ergeva un cippo con molti nomi di partigiani morti per la libertà, un percorso di circa 4 Km andata e ritorno. Tra i partecipanti c'era anche una persona che avevo conosciuto in clinica l'anno precedente. Dopo un’ottima mangiata, Fabio ha fatto cantare un po’ tutti col karaoke. Dimenticavo l'inaugurazione, a cura delle autorità comunali e non, accompagnata da discorsi relativi a questo progetto. Un altro aspetto molto carino è stato quello del mercatino scambio/baratto, molto frequentato dai presenti. Ho cantato alcuni cavalli di battaglia del Liga e di Vasco Rossi, oltre ad essere un loro fan mi riesce molto bene cantare le loro canzoni. Speriamo che questo evento, apprezzato da molti, abbia un seguito.

MADONNA DELL’ACERO

   Tina Gualandi


S abato 13 giugno 2015 la Trottola è andata in gita alla Madonna dell’Acero.
Alle 9 noi partecipanti ci siamo trovati a Casalecchio. Eravamo in ventiquattro, e siamo partiti con il pulmino (guidato da Gino) e quattro macchine. Quando siamo arrivati, il clima era già diverso, perché eravamo a quota 1.200 metri sul livello del mare. Abbiamo fatto un po’ di merenda e siamo andati a vedere il santuario arcivescovile della Beata Vergine dell’Acero. Abbiamo comprato qualche souvenir, alcune cartoline e abbiamo letto la storia del santuario.
Un gruppetto ha fatto una bella camminata ed è arrivato alle cascate del Dardagna (1.400 s. m.). Quando i camminatori sono tornati dalla passeggiata abbiamo fatto alcune foto tutti insieme e alle 13 siamo andati a pranzo. Non solo abbiamo mangiato delle cose buone buone, ma abbiamo anche festeggiato il compleanno di Marco con un ottimo dolce ai frutti di bosco che è la specialità del luogo, dato che là i frutti di bosco non mancano. Dopo pranzo siamo andati a bere un caffè in un rifugio a quota 1.400 s. m. e si stava benissimo. C’era un laghetto, abbiamo visto dei cavalli con i loro cavalieri e siamo stati al sole fino alle 16. Quando abbiamo deciso di avviarci verso il pulmino e le macchine per far ritorno a casa, eravamo tutti un po’ tristi, perché la temperatura di 20 gradi che lasciavamo sicuramente una volta in città l’avremmo rimpianta. E infatti già a Casalecchio i termometri indicavano 29 gradi.
In agosto, non ricordo la data precisa, al santuario della Madonna dell’Acero fanno una specie di festa durante la quale vengono bruciati i bigliettini che i visitatori hanno lasciato in una cesta vicino all’altare. Nei bigliettini ci sono i pensieri/desideri confidati alla Madonna dell’Acero.

VERONA CITTÀ DELL’AMORE

   Paola Scatola


Alle ore 10.30 siamo tutti e venti a Verona, dopo un breve viaggio su un treno bellissimo e con tantissime persone. La Concetta si è vestita comodamente con jeans scuri ed una maglietta nera. Io mi sono vestita così così, come si suol dire, alla buona. Tutto il gruppo dopo aver percorso, in circa quindici minuti, con affanno e tanta gioia, viale Mazzini, è arrivato in Arena; questo viale è pieno di bei negozi e locali, tutti a norma di legge, qui avendo bisogno di andare in bagno mi sono fermata in un bar dove ho approfittato per prendere un caffè. La tappa successiva è stata la casa di Giulietta, dove, naturalmente a turno, ci siamo affacciati al famosissimo balcone.
Successivamente siamo riusciti a trovare, con tanta fatica, un ristorante adatto alle nostre possibilità in Piazza delle Erbe. Potevamo scegliere tra una pizza e una bibita o un primo e una bibita, io ho optato per la prima soluzione. Tutti felici abbiamo ripreso la strada del ritorno, sostando alle bancarelle che via via incontravamo, facendo piccoli acquisti e souvenir, verso metà pomeriggio è arrivata una burrasca senza pioggia ma con un gran vento.
Per fortuna ha iniziato a piovere che già eravamo nella stazione ferroviaria, seduti al bar e dopo circa una mezz'ora abbiamo ripreso la Freccia argento per tornare a Bologna. Anche questa volta siamo stati fortunati dal punto di vista meteo, c'è da dire che in tutte le gite della Trottola siamo sempre stati accompagnati dal bel tempo. Sicuramente lassù Qualcuno ci ama.




LA GUERRA DELLE TRIBÙ AFRICANE

   Associazione UmanaMente


Le tribù africane si scontrano tra loro con le lance e prima di scontrarsi si dipingono il volto con il fango. Di guerrieri oggi ce ne sono pochi. Mi piaceva il diverso, quello che si mette la maschera per non farsi riconoscere. Ci vuole coraggio per combattere.

Stefano Gardini



È un personaggio lungimirante, con lo sguardo proiettato in avanti. È coraggioso. È un guerriero. Ha un turbante che ha in sé dei monili, quindi è un capo. Il colore del turbante, l’azzurro e il marrone, esprimono il territorio e il cielo. Quando una persona deve proteggere altre persone deve avere coraggio. Il guerriero non deve temere per la propria vita perché rischia per le persone che deve proteggere. Nel guerriero è intriso il coraggio.
Senz’altro è un guerriero. Ha lo sguardo fiero, orgoglioso, altezzoso, sicuro di sé quindi coraggioso. Ha dei monili molto belli, è un po’ narciso. Ci sono dei segni che sembrano ferite perché ha combattuto diverse battaglie; ha gli occhi penetranti, neri: è un uomo coraggioso.
Lui è un capo guerriero che ha una grande responsabilità non solo su di sé ma anche rispetto al suo villaggio che deve proteggere.
Lui avrà momenti di timore perché è un uomo. Il suo coraggio è determinato dal suo senso di responsabilità nei confronti delle persone che deve proteggere. Si vede che lui ha nel suo sguardo la protezione nei confronti di altre persone.

Gruppo di scrittura di UmanaMente