Piergiorgio Fanti

Angelo Morbelli: “Per 80 centesimi”

Fabio Tolomelli

Editoriale

Paolo Arata

Punti di vista

Patrizia Degli Esposti

Un sentimento complesso

Lucia

Dalla foglia di fico al marchio di Caino

Antonio Marco Serra

Vergogna vicaria

Luigi Zen

La vergogna e le maschere

Maria Angela Soavi

Diventare rossi dalla vergogna

Concy

L’età evolutiva e la vergogna

DEDICATO AD ARIANNA LO SPAZIO DELLA POESIA

 

      Paola Scatola     La vergogna
      Giorgia Teresa Di Lullo     Il vento
      Matteo Bosinelli     Il consiglio
      Giorgia Teresa Di Lullo     Verba volant
      Giorgia Teresa Di Lullo     Liasisons amoureuses
      Maurizio Leggeri     Rose rosse
      Anna R.G.     I tuoi occhi
      Enomis     Tornata a casa lessi
      Giorgia Teresa Di Lullo     Solitudine di Faro
      Marcella Colaci     Via dalla gente
      Francesco Valgimigli     2 agosto
      La Poetessa
         della Riva Sinistra
    Il sorriso di una donna
      Piergiorgio Fanti     Carapace di tartaruga
      Maurizio Leggeri     La vergogna del nostro tempo
      Matteo Bosinelli     A battaglia finita
      Piergiorgio Fanti     Uno scherzo!
      Marcella Colaci     Nuda
      Piergiorgio Fanti     Crescente
      Marcella Colaci     La cacciata dell’ambulante
      Matteo Bosinelli     Schizofrenia
      Piergiorgio Fanti     La vergogna e l’amore
      Piergiorgio Fanti     Vergogna e vita
      La Poetessa
         della Riva Sinistra
    Cara mamma…

Stefania Galassi

Il filo rosso

Francesco Valgimigli

La vergogna di essere scoperti

Luca G.

Quando mi vergogno e quando no

Luca G.

Ci sono bambini che muoiono di fame

Lu Zen pass

Piccola silloge di vergogne

Cesare Riitano

Non si scherza più

***

La Posta del Faro

INSERTO: ESPOSTI ALLO SGUARDO ALTRUI
      Irene Sabelli     Sulla vergogna
      L. L.     Curiosità storiche

L. V.

Alla ‘Trottola’ I semi di umanità della poesia

Giovanni Romagnani

Le noterelle

Luca G.

29 luglio 2008

Luca G.

Io e A.

Maria Chiara Reitani

Lasciando correre i pensieri

Maurizio

Ho voglia di te

Matteo Bosinelli

Piccolo capolavoro di un italo-americano

Paolo Sanzani

I Post-it

Cristicchi

Recensione del libro: “La metamorfosi” di Franz Kafka

Luca G.

“Il tagliaerbe” e “Lucy”. Due film a confronto

Luigi Zen

L’acqua e la saggezza

IL TIMONE
      Francesco Bridi     Ci fa arrossire, ma può raggelare
      Benedetta Cucci     Quattro irregolari hanno conquistato Tokyo
      Fabio Tolomelli     Senza perdersi nel buio

Mariangela Pezone

Le verità

DAI GRUPPI DI SCRITTURA
      Casa San Giacomo       Acqua e limone
      Casa Mantovani       La vergogna
      DiSegno InSegno       Il volo del brutto anatroccolo
      Espressamente       Sentirsi… non ‘a posto’
LO SFOGATOIO
      Moira Orfei     Solidarność
      Paula Mencarelli     La vergogna non mi appartiene
      Darietto     Vergogna modello di vita

Alda Merini

Poesie

Gli Artisti Irregolari: Augustine Noula

Opere

                                                                                                                         
ANGELO MORBELLI:
“Per 80 centesimi”

   Piergiorgio Fanti



A ngelo Morbelli (Alessandria 1853 - Milano 1919), verista preciso e paziente, ottenne i risultati più clamorosi con opere di tematica sociale o pietistica (mondine e vecchi poveri ospitati nel “Pio Albergo Trivulzio” di Milano). La tecnica divisionista fu quella che adottò nella maturità, per confrontarsi e per capire il vero. Divisionista e progressista! La tela Per 80 centesimi è tra le sue opere più frequentemente esposte, forse anche perché tratta del lavoro femminile. Fu eseguita dopo che il pittore aveva visto scene simili nei dintorni di Casale. La sequenza di schiene curve è rifl essa nell’acqua e si ripete in lontananza. Tutta la superfi cie del quadro è occupata dal prato irriguo. Morbelli non ha dato nessuno spazio al cielo, a diff erenza di opere di altri artisti sul tema (sia dipinti che fotografi e). È proprio questo ridursi alla sola risaia che rende così ‘forte’ questa apparizione di schiene - che sembra molto polemica - in una natura di certo non benevola. La stampa progressista ravvisò nel quadro una sorta di manifesto pittorico che denunciava lo sfruttamento delle lavoratrici, ma forse a Morbelli interessava ancor di più la presa d’atto del vero. Per 80 centesimi sorprende per la magistrale resa dell’acqua e dei verdi, ma quanta fatica! L’ostinata convinzione del pittore della possibilità di ottenere unità e massima resa luministica con piccole pennellate divise comportava di provare e riprovare, riprendendo più e più volte il lavoro. A Morbelli non mancarono i riconoscimenti internazionali. Esposto insieme ad altri quadri di divisionisti, Per 80 centesimi vinse la medaglia d’oro a Dresda nel 1897. È da ricordare soprattutto la medaglia d’oro vinta nel 1900 all’esposizione universale di Parigi con Giorno di festa al Pio Albergo Trivulzio, tela del 1892. In quell’occasione a Morbelli fu conferita anche la ‘legion d’onore’.

EDITORIALE

  Fabio Tolomelli


S ono stanco di sentire persone che muoiono di vergogna. Sono stanco di vergognarmi della mia schizofrenia. Che cos’è la vergogna? Il dizionario Zanichelli la definisce così: “Turbamento e timore che si provano per azioni, pensieri, o parole che si intendono sconvenienti, indecenti, o indecorose che sono o possono essere causa di disonore o rimprovero”. Quale sarà mai la sua funzione? Probabilmente entro certi limiti la vergogna è utile per la società, in quanto impedisce comportamenti immorali che provocherebbero danno per la vita di gruppo. Quando invece è troppo forte il turbamento o timore per qualcosa che si è fatto o pensato, diventa un pericolo, perché si può arrivare fino al suicidio. Basta vedere quante persone, soprattutto giovani , si tolgono la vita perché sui social vengono pubblicate immagini che mettono in cattiva luce o in ridicolo la propria persona. Anche l’assenza di vergogna può generare problemi per la società. Da Wikipedia: “In contrasto con la vergogna è il non avere vergogna, ovvero comportarsi senza il ritegno di offendere gli altri”. Il ritegno che ne consegue permette di mantenere nel gruppo quella correttezza che se mancasse darebbe vita all’anarchia e alla violenza. Mia nonna Bianca quando facevo qualche marachella mi diceva: “Vergogna!” … Io allora avevo circa dieci anni e non capivo pienamente il significato del termine, ma ero conscio di aver fatto qualcosa di sbagliato. Mio padre, invece, forse per tutelarmi, mi ha inculcato un tipo di vergogna che mi ha nuociuto: non voleva che io parlassi del mio mal di testa. Si tratta di un’emicrania con aura, un dolore lancinante e battente in metà del cranio, accompagnato da fotomi, formicolii e afasia. Questa mia patologia me la sono diagnosticata da solo, dopo molti anni che ne soffrivo, perché i medici, o per ignoranza, o perché la scienza non l’aveva ancora classificata, mi avevano lasciato nell’incertezza. Questo fece crescere in me una forte vergogna e paura di essere diverso. Sui quaderni scrivevo di nascosto: “Sono pazzo”. Ma soprattutto avevo il terrore di perdere l’autocontrollo, perché l’afasia che mi prende in quei momenti, mi porta a dire cose diverse da quelle che voglio pronunciare. Faccio un esempio, voglio dire: “Mamma, chiama il dottore!” e invece dico: “Sono stato a pescare”. Tra la vergogna, il terrore e l’incertezza mi sono dovuto tenere dentro queste cose fino ad ora. Come vergogna in senso stretto, la più grande e terribile per me è stata sicuramente quella della schizofrenia. Un po’ per lo stigma, un po’ per l’auto-stigma , mi sono rinchiuso in me stesso, nascondendo questa mia patologia a tutti e in una certa misura anche a me. Ricordo la prima volta che entrai nel Centro di Salute Mentale di San Lazzaro di Savena. Quando vidi il cartello “Igiene mentale”, mi crollò il mondo addosso. Fu per me come per Dante nella Divina Commedia entrare all’inferno. Per molto tempo rifiutai la diagnosi di psicosi, poi col tempo ne presi atto e ora ci convivo abbastanza bene. Allo stesso modo entro ed esco dai Centri di Salute Mentale in tutta disinvoltura. Per fortuna questa vergogna è stata vinta, insieme a quella di tutte le malefatte che ho combinato nella mia vita. Sì, scrivendo mi sono tolto un grande peso o per lo meno il dolore, più o meno latente, legato alla vergogna. Dolore che può diventare esagerato, tanto da non vedere, non sentire e non elaborare la realtà in modo corretto. Dolore che può spingere al suicidio. So che esistono diverse cause di suicidio: tutti hanno il loro perché e sono anche difficili da gestire, sia psichiatricamente che psicologicamente, perché il dolore può diventare veramente insopportabile. Ma il tempo e le cure possono aiutare. A chi soffre per vergogna mi sento di dire che la vita può cambiare e chi non ha mai peccato scagli la prima pietra. Per questo leggete Il Faro e vedrete che illuminerà la vergogna da una prospettiva diversa, dandole, tra gli estremi, il giusto equilibrio.

PUNTI DI VISTA

   Paolo Arata

D a un immaginario e surreale dialogo:
- Vergogna! Ma che vergogna! Vergognati! Devi solo vergognarti! Sei la vergogna di tutti noi! Sì, dico proprio a te, svergognato! Ma proprio non ti vergogni di quel che fai e di quel che ti passa per la testa?
- No, aspetta un momento, vergogna per che cosa? Perché dovrei vergognarmi? Me lo hai già detto altre volte, ma stavolta ho letto lo Zingarelli e lì c’è scritto che la vergogna è “un turbamento o timore che si provano per azioni, pensieri o parole che sono o si ritengono sconvenienti”.
- Sì, appunto, la definizione calza a pennello per tutte le cose di cui devi vergognarti. Te ne ricordo solo qualcuna e non venirmi a dire che non sono vere:
- Vai in giro nudo, senza nulla addosso!
/ Ma qui siamo in un campo per soli nudisti…
- Hai mangiato carne di maiale ieri sera! / Ma io non sono di religione musulmana…

- Ti metti le dita nel naso! / Ma ho solo cinque anni e poi nelle auto ferme al semaforo lo fanno tutti…
- Hai mangiato il polpaccio di quel poveraccio morto in battaglia! / Ma per la nostra tribù mangiare il nemico valoroso significa acquisire le sue virtù…
- Mi hai mandato “a quel paese” chiudendo due dita a cerchio! / Ma per noi occidentali quello significa “OK”…
- Ti sei fatto la cacca addosso! / Ma avevo due anni di età e non c’erano i pannolini…
- Hai due mogli contemporaneamente! / Ma la nostra religione ne permette fino a tre…
- Sei arrivato tardi all’appuntamento!/ Ma siamo a Roma, mica in Svizzera…
- Hai detto una volgarità! / Veramente ho detto che mi piace molto la Passerina di Gigi, che è il più famoso produttore di quell’ottimo vino d’Abruzzo…
- Hai rubato una pagnotta e mezzo litro di latte al supermercato! / Ma ho perso il lavoro ed era una settimana che i miei figli non mangiavano…
- Tua sorella va in giro con la gonna sopra il ginocchio! / Guarda che le gonne lunghe non le fabbricano più da oltre sessant’anni…
- Hai toccato il sedere di quella mia amica! / Ma sono un chirurgo plastico e le ho fatto la liposuzione…
- Hai un fratello “diverso”! / Eh no, in questo caso semmai mi vergognerei di vergognarmi…
- Insomma, trovi tutte le scuse per non vergognarti…
Ma allora, la vergogna esiste o è un’invenzione di qualcuno a cui fa comodo metterci in soggezione? Sì, certo, esiste e ha una notevole valenza sociale, ma come tutte le cose è relativa e sorge solo se quel che si fa, si pensa o si dice è ‘sconveniente’ nella percezione delle persone con cui ci relazioniamo e se di tale ‘sconvenienza’ ci rendiamo conto. Potremmo infatti fare qualcosa di cui vergognarci ma non rendercene conto (e quindi non vergognarcene) perché non ci accorgiamo di urtare la sensibilità dei nostri interlocutori o, viceversa, potremmo avere il timore (e quindi vergognarci) di aver fatto qualcosa che a nostro avviso è ‘sconveniente’, che però non lo è affatto per i nostri interlocutori (un fragoroso rutto a fine pranzo è decisamente una cosa ‘vergognosa’ per la nostra cultura, ma in Cina può essere una vergogna non farlo perché significa che non abbiamo apprezzato il cibo).
Prima di fare o dire (o pensare) qualcosa, dovremmo pensare al contesto in cui ci troviamo, alle persone che abbiamo intorno e a cosa vogliamo comunicare: ridurremo il rischio di doverci vergognare o di mettere in imbarazzo i presenti (o, al contrario, lo incrementeremo esponenzialmente perché il nostro intento è proprio quello di scandalizzare gli altri, ma almeno non potremo dirci sorpresi per le ovvie reazioni che otterremo). BURP!

UN SENTIMENTO COMPLESSO

   Patrizia Degli Esposti


H o chiesto a mia madre di anni ottantotto cosa è per lei la vergogna, mi ha risposto “Qualcosa di cui si potrebbe anche fare a meno”.
La vergogna come disagio, come senso di inferiorità, una sorta di umiliazione per qualche cosa di detto o fatto che non è esattamente quello che volevamo dire o fare. La timidezza, l’insicurezza ci blocca e crea quel senso di vergogna nell’affrontare il prossimo e fa sì che ci sentiamo impacciati e ridicoli. L’educazione ricevuta fin dall’infanzia e la cultura della società in cui viviamo ci trasmettono messaggi che inducono a provare vergogna. La vergogna è un sentimento complesso che ci pervade e può bloccare le nostre azioni, è associata al giudizio che gli altri possono dare su di noi, ma parte dalla percezione che abbiamo di noi stessi e dal nostro sentirci inadatti.Muoversi in un ambiente dove gli occhi sono puntati su noi, un colloquio di lavoro, un esame, parlare in pubblico o, semplicemente, entrare in un negozio per chiedere il prezzo di un oggetto possono generare sensi di vergogna e in alcuni casi creare un blocco fisico e la rinuncia a compiere una certa azione.
Ho un ricordo legato al senso di vergogna che ho provato. Ero una ragazzina di quattordici anni e indossavo un abitino di cotone leggero con le maniche lunghe. Era una vestito confezionato da una sarta e mi sentivo elegante. Era una domenica pomeriggio di primavera inoltrata e chiacchieravo piacevolmente con altri coetanei sotto al sole. Cominciai a sudare e non ebbi il coraggio di dire al gruppetto di spostarci all’ombra. Sudavo e nell’abitino, proprio sotto le ascelle, cominciò a formarsi una macchia umida. Mi vergognavo di quella macchia umida e per nasconderla tenevo le braccia incrociate. Così la macchia umida si estese ulteriormente formando un alone scuro che si allargava e prendeva una sua forma ormai impossibile da nascondere pur tenendo le braccia appiccicate al corpo. Non ho più indossato quell’abitino nonostante fosse carino e mi stesse bene. La vergogna provata si riaffacciava ogni qualvolta lo vedevo e non volevo più provare quel disagio. Forse avrei dovuto indossarlo nuovamente e se si fosse formato l’alone di sudore avrei potuto riderci sopra e condividerlo senza sentirmi impacciata e fuori luogo. Forse affrontando le nostre vergogne, ripetendo i gesti o le parole che le hanno generate, potemmo liberarcene o conviverci senza dolore.
Vivere senza giudicarci, impresa difficilissima, ed essere fieri anche dei nostri errori, senza cadere nella presunzione, potrebbe emanciparci dalla vergogna.

DALLA FOGLIA DI FICO AL MARCHIO DI CAINO

   Lucia


Fra le mie prime esperienze di vergogna mi vengono in mente: il disagio nello spogliarmi di fronte a estranei, la voglia di ‘sprofondare’ per lo scoprimento di una bugia, i rossori incontrollabili della prima ‘cotta’, l’imbarazzo di trovarmi impreparata a qualche prova scolastica… Circostanze dell’infanzia e dell’adolescenza che ricordo in modo vivissimo, proprio per le forti emozioni provate. Queste emozioni sono una scuola di vita importante, perché da grandi, lo sappiamo tutti, il gioco si fa duro. Per esempio bisogna imparare a difendersi dai sensi di colpa e di inadeguatezza e riuscire a rapportarsi in modo educato ma fiero con le persone impietose e ‘giudicanti’ (sembra che a loro non si possa mai rispondere per le rime, ma si impara, si impara…). Anche mettere in riga gli spudorati è un esercizio non facile. Da genitori, poi, bisogna imparare a educare i figli al contegno e al ritegno… E via andare.
Tra le varie emozioni la vergogna è a mio parere la più… ‘umana’. Infatti ha stretta attinenza con la consapevolezza, e quest’ultima è forse la caratteristica che ci differenzia dagli altri esseri viventi. Dico ‘forse’ perché, non potendo entrare nella loro testa, non sono poi così sicura che gli animali non siano invece dei saggi, arrivati al dunque prima di noi. Fatto sta che - a quanto pare - loro non si vergognano dei comportamenti a cui l’istinto li guida, si accontentano di vivere secondo natura, senza farsi troppe domande. Noi, invece, ci vergogniamo un sacco, per i motivi più svariati, e ci facciamo condizionare dalla considerazione di ciò che gli altri possono pensare o dire di noi. Questa attenzione a comportarci ‘come si deve’ viene definita con una curiosa espressione: ‘rispetto umano’. Più che di rispetto, però, mi pare si tratti di ipocrisia. Fra gli animali, l’uomo si distingue anche in quanto ‘nudo’ e quindi bisognoso di ricoprirsi. Certo, il freddo, il troppo sole, le punture degli insetti, gli urti, i graffi, insidiano la nostra pelle delicata, ma a parte questo, perché quando siamo senza vestiti ci sentiamo ‘nudi come vermi’? Perché consideriamo vergognose certe parti e certe funzioni del nostro corpo? Il ‘pudore’, lo sappiamo, è un fatto culturale: dipende da tante variabili (luoghi, epoche, religioni, assetti sociali…) ed è costantemente soggetto a evoluzione (e involuzione). Date le sue tante ricadute sulla vita di relazione, ciò che ha a che fare con la corporeità e la sessualità occupa in tutte le culture una parte sostanziosa della morale, dell’educazione e del diritto (tanto per dire, nel nostro ordinamento il ‘comune senso del pudore’, peraltro attualmente piuttosto ‘affievolito’, rientra fra gli elementi di valutazione del giudice penale). Ci sono però motivi di vergogna, che mi sembrano più seri. Per spiegarmi meglio, pur senza voler rubare il mestiere a biblisti e teologi, partirò da Adamo ed Eva, come in ogni elucubrazione che si rispetti. Nella Genesi la vergogna entra subito in scena, e proprio insieme alla nudità. Appena creati, tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Poi mangiarono il frutto dell’albero proibito, che dava la conoscenza del bene e del male. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. Ecco, la consapevolezza… Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: “Dove sei?”. Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”. Il nostro Adamo, dunque, non si nasconde per pudicizia - del resto non c’era nessuno al mondo che non l’avesse già visto nudo - ma per paura! Ha paura di essere ‘scoperto’, colto in fallo. Nudo, di fronte a Dio, a cui non la si fa… Ecco, la vera vergogna: l’intima coscienza di aver agito male.
Di pudore e decenza la Genesi si occuperà un po’ più avanti, narrando della posa sconveniente in cui Noè si addormentò a causa dell’ubriachezza e dei diversi atteggiamenti dei suoi figli in quella circostanza, ma questa è un’altra storia.
Nell’esperienza umana la vergogna può essere motivata da un piccolo difetto, reale o presunto, come da una causa grave, si declina quindi sia in emozioni immediate e passeggere che in sentimenti duraturi, che vanno dall’imbarazzo al disagio, dal turbamento alla mortificazione, dal pentimento alla costernazione. Le sue manifestazioni esteriori possono essere più o meno vistose, ma ciò non dipende tanto dalla gravità del fatto, quanto dalla ‘scorza’ di cui la persona è dotata: ai giovanissimi e ai timidi capita facilmente di lasciar trapelare forti emozioni anche per cause oggettivamente insignificanti, al contrario persone ‘incallite’ dall’esperienza di vita possono riuscire a sembrare impassibili - e forse addirittura a esserlo - pur avendo la coscienza molto sporca. Coll’ispessirsi della ‘scorza’, il sentimento stesso della vergogna tende ad affievolirsi, e si passa dalla ‘faccia tosta’ all’impudenza, dall’insensibilità morale all’efferatezza. Malignità e vergogna, insomma, sono inversamente proporzionali: più si consolida la capacità di compiere il male e meno si prova vergogna. E viceversa.
Continuando la lettura della Genesi assistiamo a una specie di escalation: dall’ingenuità delle vane giustificazioni dei due malconsigliati progenitori, si arriva per gradi all’empietà irriducibile dei loro corrotti e svergognati epigoni. Cacciati dall’Eden, Adamo ed Eva cominciano a riprodursi e fin dall’inizio hanno l’amara esperienza di vedere nei propri figli lo scontro fra il bene e il male: Caino, invidioso del fratello Abele, lo uccide. Di fronte a Dio che lo accusa, si mostra già diverso dai genitori: è capace di dissimulazione, risponde con ardire e di fronte alla maledizione divina ha anche la sfrontatezza di contrattare sulla pena, convinto com’è che sarà respinto dal consorzio umano e forse ucciso. Nella sua egoistica preoccupazione si può intravedere il sorgere di un altro tipo vergogna, quella ‘sociale’: il timore per il vituperio dei propri simili, la ‘gogna’ e il probabile linciaggio… E allora il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino sopravvivrà, potrà riprodursi e fondare città, ma nella sua stirpe la tendenza al male e la relativa impudenza aumenteranno progressivamente, fino a che Dio preferirà distruggere un’umanità irrimediabilmente corrotta. E sarà diluvio universale.
Mi sono sempre interrogata sul senso del marchio di Caino, uno stigma che espone, sì, il colpevole alla riprovazione generale, ma nel contempo può salvarlo. Ma come? Mi vien da pensare che quel tocco divino abbia a che fare in qualche modo proprio con la vergogna, sentimento che facendoci soffrire intimamente può indurci a voler rimediare, pentirci, chiedere perdono, cambiare vita. Anche se il male compiuto non si cancella, grazie alla vergogna si può imparare a non ripeterlo. Anche se i nostri limiti ci portano a commettere continuamente errori, grazie alla vergogna ci possiamo sforzare di superarli… Insomma la vergogna ci offre un’opportunità di riscatto, sta a noi saperla cogliere. Ma guai a chi non prova vergogna!

VERGOGNA VICARIA

   Antonio Marco Serra

Non vergognarsi mai e osare tutto,
pochissimi sanno quale messe
di vantaggi ne derivi.
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1511


Ho qualche difficoltà a scrivere un articolo sulla vergogna, perché sinceramente ho scarsa frequentazione con questa emozione. Non so se ciò sia un bene o un male, ma tant’è. Ogni tanto qualcuno ci prova, a farmi vergognare di qualcosa che ho fatto, peccato che solitamente si tratti delle cose di cui più vado orgoglioso. Misteri della vita. La sensazione di vergogna più profonda che credo di aver provato, e che mi porto dietro ancor oggi, risale a un episodio avvenuto quando avevo, credo, sette o otto anni: erano anni in cui erano in auge le collezioni di figurine da attaccare su degli album appositi. Un giorno che ero indispettito con mia sorella per qualche motivo, che ormai non ricordo più, mi rifiutai di darle una figurina che mi chiedeva, benché l’avessi ‘doppia’, proprio per farle dispetto; un comportamento che subito dopo vissi come un’azione di malvagità gratuita ed abissale. E sin da subito, provai una grande, penosissima vergogna per quel mio comportamento, e in fondo non me ne sono mai liberato. Non voglio dire che questo ricordo mi tormenti tutt’oggi, sarebbe troppo, ma il solo fatto che ricordi ancora un accadimento apparentemente così insignificante, la dice lunga. Quello appena esposto è un caso di vergogna ‘autonoma’, una vergogna che non coinvolge il giudizio che altri possono avere su di noi, ma nasce dalla constatazione di un profondo divario tra ciò che noi riteniamo eticamente accettabile, e ciò che abbiamo concretamente messo in atto. Almeno in prima approssimazione potremmo dire che in questo caso la vergogna è la plastica espressione della nostra difficoltà a convivere con un nostro senso di colpa.
Ma questo è solo uno dei due volti di un’emozione bifronte: esiste anche una vergogna ‘eteronoma’, che è anzi la più diffusa, una vergogna che è indissolubilmente legata al giudizio che gli altri hanno di noi (o almeno: al giudizio che noi crediamo gli altri abbiano di noi). Un’emozione che il racconto biblico pone agli albori del genere umano: Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, si accorgono di essere nudi e provano vergogna delle proprie nudità, l’uno di fronte all’altro, ed entrambi di fronte a Dio. E da allora sembra che l’essere umano non abbia cessato di vergognarsi delle cose più disparate, e, almeno in molti casi, si direbbe con ragione.
Non possiamo poi dimenticare che la vergogna sembra rivestire anche un ruolo di controllo e di normalizzazione sociale: chi sgarra dalle consuetudini stabilite, viene fatto oggetto di una serie di iniziative, perché, gli piaccia o meno, provi vergogna per il proprio operato, come è testimoniato ancor oggi da modi di dire quali “additare alla pubblica vergogna”, ma che in passato comportava che gli autori di comportamenti inaccettabili in una data società, venissero fatti oggetto di concrete azioni punitive, quali l’esser mostrati immobilizzati in una gogna, nella pubblica piazza, esposti al ludibrio della folla.
Sorte che toccò anche a Daniel Defoe, l’autore del Robinson Crusoe, per aver composto un pamphlet giudicato diffamatorio per la Chiesa Anglicana. E Defoe, da par suo, seppe subito dopo vendicarsi, componendo un altro pamphlet, il satirico Inno alla gogna.
Le gogne, almeno quelle fisiche, non esistono più nel mondo Occidentale, ma il suo pamphlet, a distanza di oltre tre secoli, viene ancora letto e tradotto: le forme del controllo sociale, per quanto gravose, sono caduche, le forme dello spirito umano che ad esse si oppongono, paiono eteree, ma hanno la potenzialità di durare in eterno. Chiunque può tentare di farci vergognare, ma solo se, a causa delle nostre debolezza, ignavia e infingardaggine, accettiamo acriticamente il giudizio altrui, costoro possono realmente legare il nostro spirito: siamo noi, e soltanto noi, che glielo consentiamo.
Un’altra forma di controllo sociale attraverso la vergogna, che ha lasciato una notevole traccia letteraria, era la consuetudine seicentesca, nelle Colonie del New England, di far indossare alle adultere, sopra ai vestiti, una pezza di stoffa su cui era ricamata una “A” di colore rosso, o almeno questo è quello che ci racconta, splendidamente, Nataniel Hawthorne nel suo romanzo La lettera scarlatta. Che, a rileggerlo oggi, non può non richiamarci alla mente una ben più recente e ben più terribile consuetudine: l’obbligo imposto dai nazisti agli ebrei, di cucire sui propri vestiti una croce di David gialla: l’anticamera della Shoah.
Sembra che oggi una nuova forma di gogna mediatica, abbia trovato la sua strada d’elezione nei social network, con esiti, in alcuni casi, tragici. Non starò a citare casi particolari, che ciascuno di noi ha letto negli ultimi anni sui quotidiani. Io, che non sono mai stato un fan sfegatato della privacy, confesso che faccio fatica a provare una reale empatia con alcune (solo alcune) delle vittime di tali forme di cyberbullismo: se non si vuole che un certo nostro comportamento divenga di dominio pubblico, la strada maestra resta una sola: non compiere quelle azioni. Se è vero che gli altri non dovrebbero avere il diritto di propalare ai quattro venti fatti riservati, dovremmo essere noi stessi, a imporci di non compiere mai azioni che non possano essere rese pubbliche senza timore di dovercene vergognare. “Vivi in modo tale da non doverti vergognare di vendere il tuo pappagallo ai pettegoli della città”, diceva Will Rogers, famoso attore hollywoodiano dell’epoca del cinema muto.
Se, come ho detto, ho scarsa frequentazione con la vergogna, a livello personale, ho invece parecchia dimestichezza, anche troppa, con quella che viene chiamata vergogna ‘vicaria’, quando ci vergogniamo, cioè, del comportamento di altre persone, anche nel caso in cui queste, non ne provino alcuna. Anzi, il fatto che non provino vergogna, accresce la nostra. A me ciò capita, immancabilmente, quando mi pare che chi ho dinnanzi, abbia abdicato al proprium della propria condizione umana. Abbia appannato lo splendore del proprio spirito, rifugga con timore, se non addirittura con terrore, dalle grandi parole, dalle grandi azioni, dai grandi sentimenti, e da tutto ciò che, in fondo, dovrebbe distinguere un essere umano da un criceto, da un bradipo tridattilo o da uno scarabeo stercorario.
Se Domineddio ci avesse voluti criceti, bradipi tridattili o scarabei stercorari, non ci avrebbe dotati di libero arbitrio [vedi nota a fondo articolo]. Se è vero che di ciò che ci accade controlliamo davvero pochino, per me è altrettanto vero che ciò che decidiamo (o decidiamo di non decidere) è di nostra esclusiva pertinenza, ed è ciò che ci rende uomini, nel vero senso della parola. Se Domineddio ci avesse voluti criceti, bradipi tridattili o scarabei stercorari non ci avrebbe fatti capaci di commozione di fronte a una statua di Fidia, a una sinfonia di Mozart, a una poesia di Hölderlin, e soprattutto non ci avrebbe fatti capaci di scolpire quella statua, di comporre quella sinfonia, di scrivere quella poesia.
Provo una vergogna, ma anche una pena, infinite, quando mi trovo di fronte a persone il cui unico imperativo di vita sembrerebbe essere quello di ’volare bassi’, di non impegnarsi in alcuna azione degna di nota, di vergognarsi persino di ‘credere’ in qualcosa. La giustificazione che spesso costoro danno a sé stessi è che il mondo è una giungla, e che più si resta seppelliti nella propria tana, meno rischi si corrono. Peccato che, per mia esperienza personale, proprio costoro sono le persone più infelici che abbia conosciuto. E come potrebbe essere altrimenti? Se si nega la propria natura, è inevitabile che la natura stessa si vendichi. Sforzarsi di comportarsi come un bradipo tridattilo, va benissimo, se si è un bradipo tridattilo; trascinare palline di merda va benissimo, se si è uno scarabeo stercorario, ma se si è un essere umano, è una strategia devastante che non può che portare sofferenze indicibili.
Pensiamo, ad esempio, alla cosiddetta sindrome della crocerossina (Wendy Syndrome, in ambiente anglosassone, dal nome dell’amica di Peter Pan) - che, si badi bene, non riguarda affatto solo persone di genere femminile, ci sono nel mondo anche tanti crocerossini! - che secondo me rappresenta la rappresentazione plastica del ‘volare basso’ nel campo dei sentimenti. Persone che riescono a istituire rapporti con gli altri (in particolare nei rapporti di coppia) solo con persone particolarmente malmesse o immature, a cui immaginano di sacrificare sé stesse, senza chiedere niente in cambio, per il loro bene. Apparentemente questo potrebbe essere scambiato con un atteggiamento altruistico, sia pure spinto agli estremi, ma gli studi psicologici su tale persone ci rivelano che è esattamente il contrario: il/la crocerossino/a è una persona profondamente insicura, con una scarsa autostima, un estremo bisogno del consenso altrui e teme patologicamente l’abbandono (alcuni vi vedono una relazione stretta con un disturbo psichiatrico ufficialmente riconosciuto: il disturbo dipendente di personalità). In fondo credo ci troviamo di fronte a una paura mascherata: quella di porsi in relazione con qualcuno al proprio livello, e preferire invece di rapportarsi con chi, a causa della sua manifesta inferiorità, difficilmente ci metterà a disagio, e che, ci illudiamo, potremo manipolare a nostro piacimento. Ovviamente questa è solo una pia illusione. Nel caso in cui, poi, il partner della Wendy di turno sia il Peter Pan di turno, l’unico effetto della relazione sarà quello di alimentare il suo ego, inabissandolo sempre più nella propria immaturità. E purtroppo i disturbi di entrambi si autoalimenteranno, creando un circolo vizioso da cui risulterà sempre più difficile uscire e che, ovviamente, porterà solo una massa di sofferenze indicibili ad entrambi.
Se qualcuno, spero - nel 2019 - pochi, volesse obiettare che tutto questo parlare di grandi e nobili sentimenti è in fondo una presa in giro, perché Freud ci ha insegnato che essi non sono altro che la ‘sublimazione’ delle nostre pulsioni sessuali, non volendo sporcarmi le mani a contestare una teoria così palesemente ridicola (e direi anche estremamente bigotta, diciamocela tutta: Freud era un gran bigotto!) lascio il compito al noto psichiatra e psicanalista del secolo scorso, Elvio Fachinelli, che non aveva paura di parlare della “miseria incurabile della teoria della sublimazione, che tenta di spiegare ciò che, se è sublime, è sublime sin dal principio. La psicanalisi dichiara: ecco un letterato chiaramente nevrotico; un filosofo ossessivo; un matematico quasi psicotico, un musicista autistico... Ma la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del fuoco” (La mente estatica, 1989). La legna da ardere può ben essere un bradipo tridattilo, ma il divampare del fuoco, no: quel falò è l’uomo e solo l’uomo. Se manca quel falò, manca l’uomo. Potremmo, in quel caso, lasciandoci penzolare dai rami di un albero, cercare di farci passare per dei bradipi tridattili, ma dubito che inganneremmo qualcuno.
Non vorrei però che da quanto sinora scritto, si pensi che io sia convinto che la strada dell’essere pienamente uomini, di impegnarci in ciò che è puro, nobile e giusto, sia una strada lastricata solo di rose. A me che, pur avendo scelto altre strade, provengo da una cultura cristiana, a volte piace fare un bagno di sano realismo e fissare dritto negli occhi, senza timore alcuno, una persona che, nel contemplare il proprio ‘glorioso’ destino, sudava sangue. Gesù, al Gethsemani, non appare felice e gioioso di bere dal calice che gli viene propinato, né pensa si tratti del miglior cocktail che suo Padre gli avrebbe potuto shakerare. Non prova alcun piacere al pensiero di morire, e morire di croce, sia pure per riscattare in questo modo l’intero genere umano. “Padre, allontana da me questo calice”, sono queste le sue inequivocabili parole. “Allontanalo!”. È così poco felice del destino che il Padre gli ha apprestato che “essendo in agonia il suo sudore divenne come gocce di sangue, che colavano sino a terra”. E solo a malincuore aggiunge: “Non ciò che io voglio, ma ciò che Tu vuoi”. Ecco, mi piace pensare che Gesù avrebbe provato una vergogna infinita, se non avesse aggiunto questa disponibilità al proprio destino, una vergogna che - evidentemente - sarebbe stata ben peggiore della morte di croce.
Non c’è nulla di cui vergognarsi, se ciò che ci appare eticamente giusto, non è di nostro gradimento, ci angoscia o ci impaura, c’è da vergognarsi solo se questa paura ci impedisce di fare comunque ciò che riteniamo giusto vada fatto.

NOTA
È vero che l’esistenza stessa del libero arbitrio è stata messa in dubbio, a partire dall’epoca illuministica, in quanto in contrasto con la visione deterministica della natura da allora imperante. Scriveva il grande matematico e astronomo Pierre-Simon Laplace: “Ammesso per un istante che una mente possa tener conto di tutte le forze che animano la natura, assieme alla rispettiva situazione degli esseri che la compongono, se tale mente fosse sufficientemente vasta da poter sottoporre questi dati ad analisi […] per essa niente sarebbe incerto ed il futuro, così come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi”. E questo lascerebbe davvero poco posto ad ogni decisione autonoma da parte di chicchessia. Visto però che le attuali leggi che regolano il mondo della natura, non sono affatto deterministiche (uno dei loro punti cardini è il Principio di indeterminazione di Werner Heisenberg, più chiaro di cosi!), non sento la necessità di dilungarmi sulla questione, e me la cavo a buon mercato con una citazione del pandit Nehru: “La vita è come un gioco a carte: la mano che ti viene servita rappresenta il determinismo, il modo in cui la giochi è il libero arbitrio”.

LA VERGOGNA E LE MASCHERE

   Luigi Zen



L e maschere veneziane in origine servivano per coprire il viso quando si doveva andare a svuotare i vasi nelle latrine. Nelle antiche ville venete c’erano delle grandi sale e delle scale per salire al piano di sopra, dove i bagni erano in parete. Perciò le persone si mettevano le maschere per non essere riconosciute…Le maschere, durante il carnevale e non solo, servivano anche in altre occasioni di vergogna o di trasgressione. Anche i cappucci dei cappuccini, frati questuanti, avevano un significato anti vergogna. L’uso di incappucciarsi è tipico di confraternite e associazioni illecite, segrete, come nel caso dei Beati Paoli siciliani, dei Ninja giapponesi, del Ku Klux Klan americano. Invece le maschere di un supereroe, come ad esempio l’Uomo Ragno, servono a proteggere la sua identità e la sua vita privata.

DIVENTARE ROSSI DALLA VERGOGNA

   Maria Angela Soavi

La vergogna è una forte sensazione, che possiamo percepire in situazioni particolari, per esempio se un amico insiste nel voler raccontare ad altri come la pensiamo noi su un determinato argomento nel momento meno opportuno per farlo. Oppure quando mentiamo, ma ci vergogniamo solo se veniamo smascherati.
Ma perché, quando proviamo vergogna, arrossiamo? Fisiologicamente arrossiamo quando l’adrenalina fa allargare i capillari che trasportano il sangue alla pelle. Se arrossiamo emotivamente, generalmente è perché la vergogna provoca imbarazzo e timidezza e sviluppa una forma di linguaggio non verbale che rivela i nostri sentimenti quando meno ce lo aspettiamo. Spesso arrossiamo proprio quando vorremmo passare inosservati, perché il rossore è una reazione che a volte non riusciamo a controllare. Il rossore può comparire anche in situazioni sociali non opportune e ciò può causare eritrofobia. Il termine ‘eritrofobia’ deriva dall’unione di due parole greche: erythròs (rosso) e fobìa (paura) cioè ‘paura di arrossire’. Questa condizione determina una sensazione di forte disagio e vergogna che induce chi ne soffre a sottrarsi alla vista, al contatto o al dialogo con altre persone.
Un’esperienza comune ma dolorosa è l’essere criticati: può scatenare sentimenti di vergogna e può farci nutrire insicurezze circa l’essere incompetente o non all’altezza. La critica quindi può essere utilizzata strategicamente, come modalità per ottenere potere e controllo sugli altri, per neutralizzare un rivale all’interno di una competizione…
Con il termine ‘bullismo’ si intende un comportamento aggressivo, ripetitivo, nei confronti di chi non è in grado di difendersi. Solitamente i ruoli del bullismo sono ben definiti: da una parte c’è il bullo, colui che attua comportamenti violenti, dall’altra la vittima, colui che subisce tali atteggiamenti. La sofferenza psicologica e l’esclusione sociale sono sperimentate spesso da bambini che, senza sceglierlo, si ritrovano a rivestire il ruolo della vittima, subendo umiliazioni da coloro che ricoprono il ruolo di bullo. Le sopraffazioni avvengono soprattutto a scuola e la maggioranza delle vittime di bullismo non denuncia per vergogna.
I ragazzi infatti credono che i compagni di classe li considerino dei fifoni, che nessuno vorrà essere loro amico e si vergognano anche di rivelare quanto accaduto ai genitori per timore di deluderli. La strategia migliore per combattere il bullismo è la prevenzione. La scuola è il principale luogo in cui si sviluppano le relazioni sociali tra i bambini e proprio per questo ha la responsabilità di promuovere la conoscenza reciproca, di insegnare il rispetto verso le altre realtà socioculturali e religiose, di favorire l’autostima dei ragazzi, di insegnare come affrontare i conflitti e soprattutto di inculcare le regole della convivenza civile, scoraggiando sul nascere comportamenti prepotenti e incoraggiando la denuncia. Essenziale è anche l’intervento della famiglia: se il ragazzo o la ragazza è restio a confidarsi per timore di essere mal giudicato, è opportuno che il genitore spieghi che sono i comportamenti, non le persone che vanno corretti. Un ottimo consiglio è condividere le preoccupazioni con la scuola, chiedere di tenere d’occhio con discrezione il proprio figlio, segnalare il bullo a un insegnante o al dirigente scolastico, dire al ragazzo di non reagire, perché è esattamente quello su cui il bullo conta. Importante è anche chiedere aiuto, a volte i ragazzi potrebbero sentire il bisogno di rivolgersi ad altre persone, oltre ai genitori e agli insegnanti, in questi casi l’aiuto di uno psicoterapeuta esperto può essere prezioso. Può essere importante anche incoraggiare i giovani a sviluppare amicizie al di fuori della sfera scolastica e partecipare ad attività come ad esempio recitazione, danza, arti marziali, sport di squadra o frequentare associazioni di quartiere che aiutino a rinforzare l’autostima e la consapevolezza di sé. A conclusione di questa argomentazione permettetemi di rivolgere a tutti questo invito: “Vergogniamoci di fare il male e non di fare il bene, anche se nel perseguire questo obbiettivo incontriamo delle difficoltà”.

L’ETÀ EVOLUTIVA E LA VERGOGNA

   Concy


Prima di entrare nel merito di una significativa esperienza personale relativa al tema della vergogna, ritengo sia utile e doverosa una premessa che definisca dal punto di vista psicologico in modo chiaro e sintetico quest’emozione: la vergogna è tra le più importanti emozioni secondarie (le emozioni secondarie sono quelle che non sono presenti nell’essere umano sin dalla nascita, ma sono fortemente legate all’ambiente culturale in cui cresciamo). Si dice che essa genera reazioni di imbarazzo e di grande disagio, non soltanto nella persona osservata, ma anche in quelle che stanno osservando. A questo proposito, ho un ricordo talmente vivido dei fatti che mi sono accaduti nell’età evolutiva, da poter escludere categoricamente che i soggetti osservatori provassero in qualche modo disagio, anzi...
L’età evolutiva: quanta vergogna, ma soprattutto che stressssss!
Al compimento degli undici anni, ho avuto il menarca. Stavo frequentando la quinta elementare. Il mio corpo subì nel giro di pochissimo tempo una tale trasformazione, anzi, metamorfosi, da trovarmi totalmente impreparata. Teniamo conto, che sto parlando di fatti accaduti cinquant’anni fa, che mia madre, nata nel 1920, aveva una propensione al dialogo poco più che zero e soprattutto che parlare di certi argomenti era tabù, off-limits. Mi sentivo una ragazzina goffa, buffa e bruttina nel corpo di un’adulta. Di punto in bianco ero diventata anche la più alta delle mie compagne di classe; anche il seno lievitò improvvisamente, fino a raggiungere la quinta misura.
Nonostante i miei tentativi di negazione, rimozione e rifiuto, dovevo purtroppo fare i conti con la ‘dolorosa’ realtà. Rifiutavo di indossare il reggiseno, facevo di tutto per coprire quelle forme ingombranti e troppo vistose attraverso l’uso di indumenti larghi dai colori scuri, per poter mimetizzare e celare il cambiamento. Quando ero costretta a uscire, incrociavo le braccia sul petto a mo’ di paravento, di scudo: questi escamotages tuttavia, non sempre sortivano gli effetti sperati. Tutti i miei compagni di scuola, ma anche ragazzi più grandi e giovani adulti, al mio passaggio si lasciavano andare a fischi e ad apprezzamenti che mi creavano disagio e grave imbarazzo; il tutto si traduceva in sudorazione abbondante e acceso rossore del viso.
Pur di evitare tali situazioni, arrivai a studiare percorsi alternativi a quelli soliti, pur di non trovarmi sulla strada nel mirino dei capannelli fatti di soli uomini. Coprivo tragitti lunghissimi, impiegando solitamente il doppio o il triplo del tempo necessario. Questo tormento mi ha accompagnato per qualche anno, praticamente fino a quando l’aspetto fisico non si è armonizzato con la mia generale maturazione psicologica e mentale. Per la sottoscritta la fase evolutiva, lo sviluppo, ha rappresentato un vero e proprio ‘calvario’. Quando adesso, mi capita di tornare indietro nel tempo, nel ripensare a quelle situazioni e ai vissuti di allora riaffiorano e rivivo, sì, le sensazioni negative, ma sento di provare nei confronti della me stessa di allora una grande tenerezza.

La vergogna

   Paola Scatola


Ti osannavo e ti dicevo
Sei mia!
Rossa, verde, blu o gialla.
Ora che ti ho…
Ma ti ho,
Cosa ho?
Ho te e me stessa.

Ora so che sono tua
Ma perché ti racconto
Ma perché sei così
Inumana mente mia.

Il vento

   Giorgia Teresa Di Lullo (da Vox clamantis, 2016)


Le mani agitate del vento
frusciando sottili spiragli
creano scompigli
nelle decisioni.
Manca il coraggio
controcorrente.
Cadono voli inquieti sussurri e grida
idee nude
di mente liberatoria.

Il consiglio

   Matteo Bosinelli


Ricevere, in gennaio,
un consiglio per febbraio,
e ricevere, in novembre,
ugual consiglio per dicembre.
E così, protetto per tutto l’anno,
fronteggio con amici
violente ondate biancastre,
senza alcun danno però
per le nostre barche brunastre.

Verba volant

   Giorgia Teresa Di Lullo (da Vox clamantis, 2016)


Non proietto sonetti
su schermi giganti.
Non regalo dipinti
a illustri parenti.
Non creo sinfonie
per orchestre del mondo.
Non sono una star
ma un verso
in attesa di esordio
bozza di emozioni
fioritura pop
da frantumi di ipotesi
in cerca d’identità.
Vivo la scrittura
accanto al focolare.
Accetto inviti dalle fiamme
al camouflage.
Sprofondo nella cenere
lasciando libera
la mano inarrestabile
anarchica scribacchina.
Anagrammo immagini
senza soluzione.
Tutto è un gioco
con rischi di azzardo.
Verba volant
num scripta manent?

Liaisons amoureuses

   Giorgia Teresa Di Lullo (da Vox clamantis, 2016)


Cercando liaisons
che altri non vedono
elementi onirici
spasmi profondi
ricchi di passione
sorprendo lettori.
Il banale rivela
mille sfumature
di arcobaleni segreti.
Come nastro d'acqua
parole senza voce
trascinando chi legge.
Intimi ardori
suonano rintocchi
e il cuore fermo
al passato non finito
ritrova echi
e turbolenze vitali.

Rose rosse

   Maurizio Leggeri


Rose e lusinghe
offerte da uomo
a qual donna,
crean sensazioni
color fuoco
che contagiano
per un attimo
petali sporgenti
di un volto vellutato,
facendo apparir
altre rose,
ancor più calde,
facendo apparir
guance rosse,
ancor più umane:
dando senso
al sangue
dell’universo.

I tuoi occhi

   Anna R. G.


I tuoi occhi
dentro ai
suoi.
Le tue mani
nelle sue.
I nostri
sguardi pieni
d’amore.

Tornata a casa lessi

   Enomis


Ricordo quella vergogna
di chi era condannato alla gogna
che pure se era innocente
veniva deriso dalle persone
guardato nella sua faccia piangente
che nella vita era l’ultima visione.
Se penso alla vergogna
dico che poi anche insegna
a fortificare dai malumori
come far d’abitudine di contorno i rumori.
Con in mano la penna con cui scrivo
della città nella quale vivo
è banale la rima con vergogna
ma non mi interessano i tetti colorati
guardo la gente in faccia e una cosa si sogna
che tutti ci si scopra della vita innamorati.

Solitudine di Faro

   Giorgia Teresa Di Lullo (da Vox clamantis, 2016)


Le mani sporcate di farina altrui
scaricano immagini
da cuore diamantato
a animo di granito.
Filosofia a bocconcini
e prosopopea a peso
alzano temperatura emotiva
di molti lettori.
Felice chi legge
tra estasi e claustrofobia
prosa d'arte
estraendo radici quadrate
da ore domestiche
di faro solitario.

Via dalla gente

   Marcella Colaci


Via dalla gente
che non sente, non vede, non parla
sulla collina mi fermerò
color smeraldo
a tratti vedrò l'oro del grano
e poi mi adagerò
stanca e senza più forze.
Il fianco poggerò
per poter vedere
dal basso in alto
le verità del cielo
senza coprire gli occhi
per udire e parlare
anche se affranta e logorata
mi sazierò dell'ossigeno
e si avvererà il sogno
di noi che nel ricordo
accende la stanza del piacere.
Dispiace dirlo
ma non posso essere fiera di me
che assecondo ma non provo amore
più per te che hai fatto di me
sposa ma senza velo
incapace di prenderti e portarti via
lontano da falsità che stupidamente
credevo non appartenerti.
Vedi la curva di smeraldo ed il grano
sono piaceri della natura
che osa straziarmi
e per pudore nasconde
quello di più caro:
l'amore.

2 Agosto

   Francesco Valgimigli


Ho visto me stesso seduto
in una sala d’attesa,
senza orologio,
senza attesa.

Ho visto
i miei giorni
disgregarsi
in ali di vento.

Il sorriso di una donna

   La Poetessa della Riva Sinistra


Ti ho conosciuto dolce e innamorato,
poi nel tempo sei cambiato,
come un diavolo ti sei rivelato:
la vita insieme a te era quella di un carcerato.
Quando parlavo sembravi sempre annoiato e,
se qualcosa sbagliavo, come un folle violento
eri trasformato.
Nulla serviva per guarire questo Amore Malato,
la passione e ugualmente l’odio,
sì, l’odio, ci avevano ingoiato
in un tunnel disperato.
Il mio cuore talvolta sentiva che era tutto
peccato, ma il mio volto emaciato
era rassegnato.
In un giorno di luce, finalmente,
ti dissi che ti avrei lasciato.
E, nel tuo stile, non l'hai mai accettato,
diventando geloso e opprimente
più di quello che eri stato.
Le minacce e i tormenti
sono le ultime cose che mi hai donato.
Le persone a me care mi avevano avvisato:
non stare mai sola, neanche un minuto...
Non è servito averti denunciato,
urlavi come un pazzo il tuo Amore Dannato,
quella sera fatale quando mi hai aspettato.
Non ricordo quante coltellate mi hai dato,
ma so che nulla e nessuno ti avrebbe fermato.
Non so ancora se ti ho perdonato, come Dio
mi ha insegnato...
Dove vivo ora, in un Giardino Incantato,
con ragazze e donne che hanno vissuto
un Amore Disperato,
c'è Armonia, c'è Speranza,
l'Amicizia e la Pace
che non hanno conosciuto.
Nel vostro mondo, ora, le donne muoiono
ed è tristemente scontato: io so di me
che non l'ho meritato.
Come nessuna donna merita di conoscere
la Bestia umana nascosta nell’uomo che ama.
Gentilissimi Signori, Mariti, Fidanzati, soprattutto EX,
ricordate che un tempo i nostri nonni dicevano
“Le donne non si toccano nemmeno con un fiore”.
Cercate di amarle e rispettarle ogni minuto, ogni giorno
della vita.
Perché una cosa bellissima di questa epoca sarebbe
non portare più fiori sulla loro tomba,
ma donarli ogni volta che
una Donna sorride.

Carapace di tartaruga

   Piergiorgio Fanti


Con questo spicchio arancio
che squisitamente
il mio tramonto illumina
voglio assaporare
il tuo dolce profumo
e farti indossare
una candida serica veste.
Io porterò un abito grigiastro
e scarpe con gomma
(ché il mio passo è forse malcerto)
e ti accompagnerò
con animo pronto
a godere avidamente
ogni momento che verrà.

I tuoi giorni ancora lunghi
i miei tempi tristemente lenti,
sarò quasi il tuo guscio di tartaruga.
(Sicuramente tra noi
ci sarà calore!)

La vergogna del nostro tempo

   Maurizio Leggeri


Nelle vesti di un falso “buon senso”
e sulle ali di una vile propaganda
i paesi ricchi di qua e di là dell’atlantico
rifiutano le speranze bambine
che attraversano mari e deserti
per giocare con aquiloni più colorati.
Sono speranze strappate
alle sofferenze indicibili dei padri
seminate in guerre omicide
dagli stessi voraci ricchi paesi
per succhiare l’ultimo sangue
ai poveri diseredati della terra.
Ma i bambini cresceranno e tutti:
giovani, vecchi e tanti altri bimbi,
nel nord e nel sud del mondo
all’insegna della vera fratellanza
che non ama contese e confini
sconfiggeranno i nuovi barbari
per un domani di pace fra le genti.

A battaglia finita

   Matteo Bosinelli


“Sono preoccupata per te mi
disse allora Rhona,
che io so, non sbaglia,
ma spesso perdona Il
tempo non attende,
e sempre passa:
non devi sbagliare,
dunque, ora, la mossa”.

È passato tanto tempo, ormai,
da quando ti dissi:
“Amami e vivrai”,
sei fuggita subito molto lontano,
pur prendendomi timidamente per mano.

“Vada avanti con il suo dolore,
la seguo io – mi disse allora il Dottore –
vada avanti e non disperi:
l’accompagno io,
in questi viottoli stantii e neri”.

È un passo nuovo,
su un altro selciato,
in cui devo muovermi,
e sono turbato.
Non ci son Leggi,
a cui sia preparato,
non ci son schemi,
in cui muovermi agiato.

Uno scherzo!

   Piergiorgio Fanti


Quagliarella, Quagliarella,
sei una stella!
sei una stella del calcio moderno
sei più vecchio del padreterno.

Forse non è un caso
sei convocato in Nazionale
per le feste di carnevale.

Quasi ogni tiro una rete:
quali sono le tue mete?
Con te il pallone gira tondo
tra un po’ giocherai nel “Resto del Mondo”.

Nuda

   Marcella Colaci


Eccomi nuda,
di una nudità disarmante
senza arte né parte
vuota apparente
impervia storia
di me sola
ma il giorno è generoso
arrivi tu
e la mia nudità
si veste di gioia
la mia nudità ha il calore
il fuoco, nell'abbraccio
Nascondo il seno che ami
che mordi, che scaldi
e sono tua
come non mai
come sempre
come un passerotto al nido
come un pesce nello scoglio
come una donna
che fa di se stessa
il dono all'amore
creando pace e passione
nuda.

Crescente

   Piergiorgio Fanti


La tua pura voce
è come una calma foce
che mi irrora tutto.
È un fluido strutto
che assieme alla farina
con cui ti incipriavi da bambina
mi fa pensare alla crescentina, al pane
al pane e salame,
un qualcosa di assai fragrante
da mangiare golosamente.
Ma che amante!
Amo troppo la pasta fumante!
Ma perché così di frequente
mi pensi un serpente?

La cacciata dell’ambulante

   Marcella Colaci


Vattene
vai fuori dai coglioni
non c'è terra per te, per voi
che mendicate.
Andate via
vai via ambulante straniero
vai a fare il viaggio di ritorno
e non farti vedere in giro
non farti pizzicare incredulo
sappi che siamo duri
siamo forti, siamo noi
quelli che governano il mondo.
La vita non ti appartiene
la tua vita è nostra
la strada che ti aspetta è breve
senza futuro
con pochi stracci
da finire in mare
da finire in terra straniera
da finire in ogni caso.

Io non sono nessuno
non posso nemmeno
implorarvi a lasciarmi andare
i miei occhi sono pietosi
e voi che adorate Michelangelo
sappiate guardarmi
come i suoi occhi guardavano Cristo in croce.
Io sono colui che sapete beffeggiare
sapete pugnalare con vigliaccheria
io non sono nessuno
sono solo un uomo.

Schizofrenia

   Matteo Bosinelli


Quel ragazzo aveva l’animo ferito,
da grave malattia colpito.

Nuotava nella vita non sereno,
mentre il mare era pieno
e lo costringeva alla deriva...
Forse forse, così, da solo, moriva.

La vergogna e l’amore

   Piergiorgio Fanti


Anche la vergogna
A volte la si sogna
A volte è qualcosa di reale
Che fa veramente male

Però certamente puoi amarti
Non devi vergognarti
E lei col pensiero si ama
Non farti turbare, è la tua brama!

Non dispiacerti mai d’osare
Per la tua amata devi lottare
Lotta magari con un cuscino
Come facevi da ragazzino

Questa casa è come un bosco
È proprio qui che la conosco
È una ventenne Cappuccetto Rosso
E io la voglio a più non posso

Questo uomo travagliato
Da lei è sinceramente turbato
Ma si deve preservare l’amata
Che sia proprio illibata

È un.. sessuale travolgente
Che vive tutto nella tua mente
Oh stelle, fate che nel suo cuore
Viva per sempre un grande amore!

Vergogna e vita

   Piergiorgio Fanti


La vergogna tocca tutti:
Si nasce nella vergogna
Peggio, si muore!

Ma non vergognarti di lottare
Se la ragione te ne danno
Sbatti in galera il truffaldino
Picchia duro con la legge
Che il colpevole sia preso!
(Cedere vuol dire perdere
Non cedere vuol dire esistere)

Ma di piegarti
Per una vita cambiare
Non te ne pentire mai!

Cara mamma…

   La Poetessa della Riva Sinistra


Cara mamma, non so se ti ho mai scritto
una lettera, forse non ne ho avuto il tempo,
o forse ero giovane, troppo giovane
quando ti ho persa.
Ricordo i tuoi ultimi giorni... eri triste
in cucina, mentre stiravi... pensosa
come se nulla dovesse accadere...
Dentro di te portavi un destino che,
per troppo amore, ci nascondevi.
Il tuo segreto era la forza che ci proteggeva.

Cara mamma, ho sempre sperato di essere una ragazzina
migliore di quella che hai conosciuto.
Ti ho dato dei dispiaceri.
Ti ho fatto anche piangere, purtroppo:
mi hai amata lo stesso.
Volevo diventare una donna
forte come te.
Ma non è andata così. Non sono né moglie, né madre.
Non mi sono neanche laureata.

Cara mamma, ogni sera, prima di dormire
penso a te e a papà, che, felice, ti è accanto:
vi ringrazio perché mi avete sempre protetto e donato
quella luce che nei giorni di buio,
da sola, non avrei mai trovato.
Sarebbe stato bello abbracciarti
quando avevo paura, stringerti a me
quando ti sentivi triste.
Anche ora,
cosa darei per telefonarti
chiederti un consiglio...
Sapere che ci sei, lì ad aspettarmi.

Cara mamma, perdonami perché il tempo
pian piano ha cancellato nella mia mente
la tua voce e il tuo volto, cerco di ricordarli,
ma non è possibile...
Facciamo in modo di incontrarci
nei miei sogni...
Saremo in un mondo
solo NOSTRO...

IL FILO ROSSO

   Stefania Galassi


F requentavo la terza elementare ed ero alta un metro e sessanta centimetri. La mia statura era fonte di grande imbarazzo. A scuola mi sentivo come Gulliver approdato nell’isola dei Lillipuziani. Piccoli esseri crudeli che mi riservavano torture e umiliazioni. In particolare il ‘boss’ della classe, Matteo, mi aveva preso di mira. Mi chiamava ‘scimpanzé’ per via della camminata goffa e impacciata. Mi lanciava palline di carta nei capelli, durante le ore di lezione e aeroplanini con parolacce e insulti. Nella sua mente di ottenne, come per tutti i maschi, io con la mia terza di seno e le mie curve pericolose assomigliavo a una Jessica Rabbit, lasciva e vogliosa.
Per limitare l’esposizione del mio corpo a occhi indiscreti, mi vestivo con abiti larghi, trascorrevo anche tutta la ricreazione in classe, evitavo le ore di educazione fisica perché la divisa da palestra, pantaloncini aderenti e maglietta attillata, mettevano in risalto le forme che volevo nascondere. Se fuori avevo il corpo di una tredicenne, dentro ero una bambina spaventata. Avrei voluto avere una mamma che mi rassicurasse. Avrei voluto una madre comprensiva e amorevole. Mia madre, al contrario, era una donna autoritaria che mio padre chiamava ‘generale’.
Per lei, donna emancipata e moderna, non c’era problema che non avesse una soluzione semplice e razionale. Credeva nella scienza anche se, da buona sessantottina femminista, era legata al concetto di madre natura. “Lascia fare alla natura”, diceva sempre. “Tesoro non preoccuparti. Sei solo un po’ più alta delle tue compagne. Che c’è di male? L’importante è la salute. E tu sei sana e forte”.
Ma la natura aveva un piano tutto speciale per me che avevo da poco compiuto gli otto anni. Erano giorni che soffrivo di strani mal di testa. Ero nervosa e irritabile. In uno slancio di ottimismo decisi di fare ginnastica con i miei compagni, indossando però una tuta lunga e larga. Tutto filò liscio fino al termine della lezione. Nello spogliatoio scelsi la doccia singola mentre le mie compagne si lavavano nelle docce comuni. Erano ninfe piccole e aggraziate. Io avevo l’aspetto di una tredicenne ipersviluppata e come tale dovevo rintanarmi. Fare la doccia mi piaceva. Il mio corpo ingombrante pareva sciogliersi sotto il getto dell’acqua calda, nascondersi tra le bolle del bagnoschiuma al profumo di mandorle dolci. Le tensioni cedevano alle nuvole di vapore. Mentre mi insaponavo una gamba, notai l’acqua limpida tingersi di rosso. Controllai di non avere una ferita nella coscia ma niente. Riaprii il rubinetto e ancora l’acqua si tinse di rosso. Un rivolo di sangue usciva dalla ‘farfallina’, così chiamavo il mio organo sessuale. Mi spaventai. Forse era un’emorragia. Mi stavo dissanguando! Sentivo le forze venir meno. Le gambe deboli. Il fiato corto. La cabina della doccia fu attraversata da un lampo bianco. Un pulviscolo bianco candido scese dal soffitto come quando fuori la neve, cadendo, copre le cose e attutisce i suoni. Le parole lievi come un brusio lontano: “Maestra…”, “Maestra…”.
“S. mi senti? Coraggio, apri gli occhi... Ah, eccoti qua... Come stai?”. “Cos’è successo?”, domandai con un filo di voce alla maestra. “Sei svenuta nella doccia. Niente di grave”. Ero sdraiata sul pavimento, vicino alla guardiola della bidella, su un materassino. Avevo addosso il mio accappatoio bianco con una macchia rossa all’altezza della coscia. Un capannello di bambini. Mi circondavano fissandomi curiosi. “Maestra cos’è quel sangue?”, chiese una delle bambine. “Non è niente - disse Maria Rosa - una piccola ferita alla gamba. Guarirà presto”.
La porta d’ingresso s’aprì e, insieme a una folata di aria fredda, fece irruzione mia madre, evidentemente avvisata del mio malore. Ci raggiunse con passo deciso. “Fate largo, bambini! - disse - Fatela respirare”… “Va tutto bene, tesoro”, sussurrò.
Ora che avevo ripreso i sensi, avvertivo un fastidio in mezzo alle gambe. Qualcosa di duro oscillava avanti e indietro. Era come stare su una barca con le onde che si infrangono sullo scafo. “Gliel’ha messo l’assorbente?”, chiese mia madre rivolta alla maestra. “ Ne avevamo uno nell’armadietto dei medicinali, in guardiola”… “Assorbente?”, chiese la bambina di prima. “Sì piccola, per tamponare il sangue mestruale”, rispose mia madre. La maestra la guardò di traverso ma non disse niente.
“Cos’è ‘mestruale’?”, chiese ancora la lillipuziana. La domanda cadde nel vuoto. Ma i bambini sono curiosi e quando sentono una parola nuova la ripetono all’infinito come se, nominandola, ne carpissero il significato recondito. La mamma mi condusse in guardiola, momentaneamente vuota, dove mi vestii. La maestra si offrì di accompagnarci alla macchina. “Ce la fa da sola -disse mia madre in tono sgarbato- non è mica malata”.
Nel breve tragitto tra la guardiola e l’uscita, passai davanti ai miei compagni che mi osservavano confabulando. Ripetevano sempre la stessa parola: “Mestruazioni”. Camminai col capo chino. Rossa di sangue e di vergogna. Avevo le mestruazioni, così aveva detto la mamma, ma non avevo la minima idea di cosa fossero. Mia madre mi aveva tenuta all’oscuro di tutto. Per quanto fossi alta e prosperosa, per lei ero ancora la sua bambina che giocava con le barbie e, la sera, andava a letto coi peluche.
Ora, però, non poteva più far finta di nulla. Quel giorno decise che era giunto il momento di mettermi al corrente dei segreti della natura, dei misteri del sesso e della procreazione. Ci sedemmo sul divano in camera mia. “Sei diventata signorina - mi comunicò sollecita - non c’è nulla di cui vergognarsi, è naturale. Anche le tue compagne si svilupperanno: è solo una questione di tempo. Appena compaiono le mestruazioni, la donna è in grado di dare la vita. Le donne sanguinano una volta al mese, se non sono incinte. Se invece la donna aspetta un figlio, il ciclo si blocca finché non partorisce”.
Mi spiegò senza tanti preamboli come nascono i bambini. Poco mancò che le vomitassi addosso. Non era naturale, era sporco. Avevo perso l’innocenza, anche se non avevo fatto nulla di male. “Io non le voglio! - dissi con gli occhi strabuzzati - io non le voglio le mestruazioni!”… Ripetevo in maniera ossessivo compulsiva: “Voglio morire! Voglio morire! Ho anche mal di pancia”…
“La soluzione - sentenziò mia madre senza farsi per nulla turbare da quella scenata - è una bella puntura di antiinfiammatorio sulla pancia”. Mi bastò sentire la parola siringa per smettere di urlare e piangere. La mamma mi diede una compressa di tachipirina e mi spedì a letto con la borsa dell’acqua calda. “Vedrai che ti sentirai subito meglio”, mi assicurò. Sentivo il sangue fluire tra le gambe. Umido e appiccicaticcio. Piangevo con la testa affondata sul cuscino. Che peccato avevo commesso per meritarmi un castigo simile? Il sangue con quell’odore nauseabondo di violetta appassita e di formaggio rancido. Mamma aveva detto che il sangue serviva a fare i bambini. Ma io non li volevo, i bambini. Mi aveva detto che anche le mie compagne si sarebbero sviluppate. Ma loro erano piccole e carine. Indossavano vestitini con nastrini e paillettes, sandali colorati e portavano le treccine. Io ero alta e sgraziata. Per colpa di mia madre, ora i miei compagni sapevano delle mie mestruazioni. Avrebbero interrogato i genitori per sapere cosa fossero. Io sarei diventata lo zimbello di Matteo e dei suoi compari. Odiavo la scuola e me stessa.
Volevo solo dormire e non svegliarmi più. L’indomani mattina , quando mia madre venne a svegliarmi, le dissi di abbassare le tapparelle e di lasciarmi in pace. Non sarei andata a scuola per nessuna ragione al mondo. “Poche storie! - gridò lei - Ora ti alzi, ti prepari e ci vai!”…“No che non ci vado! - piagnucolai io - Non mi puoi costringere”. “Eccome se posso - mi rispose alterata - Non voglio finire in galera per colpa di una figlia sciagurata. Andare a scuola è obbligatorio fino a una certa età, cara la mia signorina, e tu ci vai. Eccome se ci vai!”.
La maestra mi diede il benvenuto. Mi chiese come stavo. Risposi: "Bene”, anche se ero profondamente scossa. “Ci hai fatto preoccupare, vero ragazzi?”. Le bambine annuirono. Da brave crocerossine dissero che appena mi avevano sentito chiamare: “Maestra”, avevano capito che qualcosa non andava e si erano precipitate a informare Maria Rosa. “L’importante è che tu sia qui con noi”, disse l’insegnante.
Aveva modificato l’ordine dei banchi. Li aveva disposti su due file, l’una di fronte all’altra a formare un unico tavolo. Il mio sesto senso mi suggeriva che lo avesse fatto per tenere d’occhio gli alunni più scalmanati. Forse si era accorta delle ‘angherie’ nei miei confronti e voleva proteggermi. Ero seduta accanto a lei. Matteo lo aveva sistemato nell’ultimo banco della fila di destra, lungo la sua traiettoria visiva, per poterlo facilmente controllare. Tirammo fuori i quadernoni di italiano per il dettato di ortografia. Mettemmo sotto il banco ogni cosa escluso l’astuccio. C’era silenzio, a parte lo scricchiolio dei temperini e il clin clan dei righelli appoggiati sul banco. Faticavo a concentrarmi. Il pensiero era impegnato a capire cosa stava succedendo là sotto. Avrei voluto andare in bagno a controllare l’assorbente, ma il dettato non ammetteva interruzioni. Matteo era stranamente calmo. Con la testa china e il braccio a 90 gradi nascondeva il quadernone. Senza mai alzare gli occhi, la sua mano scorreva veloce. Molto più veloce delle parole pronunciate dalla maestra.
La campanella suonò ad annunciare l’inizio della ricreazione. Maria Rosa ritirò i quadernoni e li chiuse a chiave nel cassetto della scrivania. Avremmo ripreso il dettato nell’ora successiva. I compagni si sparpagliarono nel corridoio. Alcuni andarono al bar a consumare merendine e panini, altri andarono nelle altre classi a cercare amici con cui scambiare le figurine. Le bambine si riunirono in gruppetti a parlare male di questo e quello. Io mi trovavo ancora in aula quando entrò Matteo accompagnato da tre compari. Mi circondarono e presero a sbeffeggiarmi. “Dove credi di andare?”… “Era meglio se te ne stavi a casa”… “A te ci pensiamo noi”… “Guarda un po’ qua”. Mi lanciarono il diario di Matteo. Nella pagina segnata da un’orecchia era raffigurata una ragazza nuda che mi somigliava. Aveva due seni enormi e una pozza di sangue, a terra, tra le gambe. “La spilungona piscia sangue - disse Matteo - Che schifo!”… “Oh povera piccola!”, disse uno. “Perché non lo vai a raccontare alla maestra che ti prendiamo in giro?! - disse l’altro - Gne, gne, gne!”.
Sconvolta, riuscii a rifilare un calcio nello stinco a uno dei tre, che sbandò, creandomi un varco nel cerchio spezzato. Corsi a chiudermi a chiave nel bagno. Non mi avrebbero mai lasciata in pace. Aprii la finestra: un piccolo vano senza sbarre. Calcolai la distanza tra me e il cortile: tre piani esatti. Se mi fossi buttata, probabilmente sarei morta e avrei smesso di soffrire. E se non fosse andata così? Se mi fossi ridotta su una sedia a rotelle? O intubata in un letto di ospedale? La mia vigliaccheria non poteva accettare simili eventualità. Richiusi la finestra. Dovevo trovare il coraggio di tornare in classe. Controllai l’assorbente, che non mi creasse ulteriori disagi. Le mutande elastiche di mamma lo avevano mantenuto nella posizione corretta. Il flusso era scarso perciò decisi di non cambiarlo.
La ricreazione era finita da alcuni minuti. Maria Rosa stava distribuendo i quadernoni per il dettato. I compagni erano seduti composti, persino Matteo, dopo essersi sfogato su di me, sembrava aver ritrovato il contegno. “Bene ci siamo tutti - disse la maestra, appena raggiunsi il mio posto a sedere – Allora, bambini, ascoltatemi! Mettete nell’astuccio matite, gomme, temperini: tutto quello che non serve. Prestate attenzione alla pronuncia delle parole. Vi concederò qualche minuto per pensare. Guardate sempre e solo il vostro quadernone. Non copiate altrimenti sarò costretta a dividere i banchi. Il voto del dettato sarà scritto sul registro. Siete pronti?”. La classe annuì. “Cominciamo!”.

LA VERGOGNA DI ESSERE SCOPERTI

   Francesco Valgimigli


uando devo leggere una mia poesia davanti a delle persone provo una gran vergogna, mi sento esposto a tutte le critiche che si possono fare, ho paura, insomma, di essere scoperto nei segreti più intimi. È come se in quel momento qualcuno mi facesse una radiografia. Come se non riuscissi più a trovare posti dove potermi nascondere e mi trovassi senza protezione. La poesia infatti, secondo me, rivela i segreti dell’anima di chi l’ha scritta e tra il poeta e il suo pubblico c’è solo un alberello striminzito dietro il quale potersi rifugiare. Nel racconto invece hai un intero bosco nel quale sparire, e quando leggo un mio racconto so che mentre lo sto leggendo posso truccare un po’ le carte, intuisco un margine di sicurezza, una zona buia che rimane oscura in cui potersi mimetizzare. Quando leggo una mia poesia, oltre questo senso di vergogna, c’è comunque il piacere di leggere qualcosa che si è pensato e si è scritto e di avere, a lettura finita, la soddisfazione di ricevere complimenti da chi ti ha ascoltato. È quindi una sofferenza e una gioia insieme quello che provo mentre leggo una poesia e le due emozioni si combattono dentro di me come due pupi siciliani e nessuno dei due vince, nessun colpo di spada ferisce a morte l’altro, e la rappresentazione nel mio cervello non sembra finire mai. Sento ancora il cozzare delle spade mentre leggo gli ultimi versi; poi per fortuna cala il silenzio, il sipario si chiude e io posso tornare a nascondermi dentro di me.

QUANDO MI VERGOGNO E QUANDO NO

   Luca G.


La vergogna è quel sentimento che provi quando dici o fai una cosa di cui poi ti penti amaramente e desideri non averla mai fatta o detta, oppure quando gli altri ti fanno pentire: insulti, critiche, punizioni, reazioni violente, tutto questo ti fa provare la vergogna. Personalmente, posso dire che ci sono cose di cui mi vergogno, e altre di cui non mi vergogno.
Io sono l’equivoco formato persona, nel senso che molte delle cose che faccio o dico non sono quello che sembrano. Per esempio, al lavoro mi hanno sorpreso a chiudere la porta del mio ufficio con una strana espressione sul volto: strizzavo gli occhi e tenevo la bocca serrata, mostrando i denti, come se mi fossi strappato un muscolo. Invece, come ho spiegato alle colleghe che mi hanno visto, stavo pensando in quel momento a qualcuno che si procurava una ferita e quindi strizzava gli occhi e stringeva i denti: era solo una coincidenza, niente di più. Inoltre quando sbadiglio lo faccio spesso a denti stretti, apposta per non spalancare la bocca per non fare la figura del maleducato e per evitare di mettermi la mano davanti al volto, per pigrizia. So che è una cosa molto strana, quasi assurda, ma quando sbadiglio così non me ne vergogno. Semmai mi sono vergognato quando una signora mi ha visto sbadigliare aprendo la bocca senza la mano davanti. Non tanto per il gesto, ma perché quella donna mi ha sgridato. Infatti mi chiedevo: “Ma non poteva farsi i fatti propri, quella donna?”. Non per maleducazione, beninteso, ma perché sono convinto che se fossi stato io a vedere un’altra persona sbadigliare così e a correggerla, quell’altra persona mi avrebbe rinfacciato di non farmi i fatti miei.
Devo sempre spiegare agli altri che con me le cose non sono mai come sembrano. E spiegarlo pure con le parole giuste, perché “le parole sono importanti”, come diceva Nanni Moretti. Bisogna scegliere bene gli argomenti e le parole da usare a seconda del momento e dell’interlocutore. Perché se usi parole troppo sofisticate per chi non capisce certe cose, o ne usi di volgari con persone che sono molto educate, rischi di fare una brutta figura e di provare vergogna per questo. Fortunatamente io ho quasi sempre a che fare con delle persone che tollerano un linguaggio semplice e con le quali, oltre ad avere una certa confidenza, non devo usare parole troppo complicate, anzi in moltissime occasioni devo fare il contrario. Non mi hanno mai detto: “Parla come mangi!”, però me l’hanno fatto capire, sia a casa che a scuola.
Mi è successo di dire ai genitori o agli insegnanti parole o concetti difficili da capire o diversi da quelli che mi hanno insegnato, e qualche volta mi è successo di sentirmi rispondere che devo parlare come gli altri, o non prendere iniziative. E in quelle occasioni ho provato vergogna. Per esempio quando ho citato in un compito in classe d’inglese l’anticiclone delle Azzorre, che la prof non aveva mai menzionato. Oppure quando i compagni di classe facevano i buffoni scrivendo o disegnando cose schifose sulla lavagna senza ritegno. Ho visto uno di loro fare una caricatura di una professoressa disegnandola come l’omino dei marshmallows del film Ghostbusters: mi sono vergognato per lui, anche se la prof non ha visto niente.
Mi è capitato che i genitori mi facessero provare vergogna quando parlavo troppo forte o con tono troppo arrabbiato. E tutto perché avevo trasformato in motto della mia vita il proverbio latino Rem tene, verba sequentur, che in sintesi vuol dire: “Tieni a mente il concetto, le parole verranno da sé”. Perciò ho badato sempre a ‘cosa’ dire, e non troppo a ‘come’ lo dico. Per fortuna riesco quasi sempre a badare alle parole che uso e al volume della voce, solo che non gli do tutta questa priorità. Quelle poche volte che non ci riesco mi vergogno: in casa bastava anche solo superare il limite di un centimetro, magari con un urlo di disappunto o una parolaccia da parte mia, anche solo una volta all’anno, che il babbo si arrabbiava e mi sgridava e mi faceva pentire di quest’infrazione. Quando c’era lui non potevo ‘sbroccare’ o irritarmi, ma lui sì. Non so perché si arrogasse il diritto di farlo, di sicuro non me l’ha mai spiegato né mi ci ha fatto ragionare sopra, e di questo mi vergogno. Era il capofamiglia, era più vecchio della mamma e ovviamente anche di me, ma non sempre questo gli dava il diritto di sbagliare, o di dimostrare che lui la sapeva più lunga di me. E questo mi ha portato a desiderare che fossero tutti uguali, e trovare un metodo per parlare con gli altri che potesse andare bene per chiunque. E qua mi ritrovo sul concetto “Parla come mangi!”, che sembra cozzare con “le parole sono importanti”, ma non è così. Anzi, è importante usare un linguaggio semplice con chi parla come mangia, come lo è usare un modo di parlare educato o complesso con chi è abituato all’educazione e a livelli di linguaggio più alti. È tutta una questione di comunicazione.
Una cosa di cui non mi vergogno affatto e che qualche volta dico, è che quando si ha a che fare con una persona poco gradita l’ideale non sarebbe farla morire, ma farla sparire! Detto così, è facile che chi me lo sente dire pensi che io quella persona voglia farla a pezzi, disintegrarla, farne sparire il corpo dopo averla fatta fuori. No, niente affatto. Per far sparire una persona ci sono metodi molto più civili, anche se più complicati. Un tempo, per punire qualcuno di un crimine che aveva commesso, o per toglierlo di mezzo perché scomodo, lo si mandava in esilio, lontano da tutto e da tutti. Oppure, come al giorno d’oggi, lo si rinchiudeva in prigione, escludendolo dal resto della comunità, ai cui occhi il personaggio in questione ‘spariva’. Questo discorso vale anche dal punto di vista personale: se un ragazzo che conosci smette di frequentare la tua stessa scuola o cambia quartiere o città, è come se sparisse dalla tua vita. Oppure, visto che non si può esiliare o mettere in galera qualcuno solo perché dà fastidio, puoi smettere di andare nelle vie e di frequentare gli stessi posti dove va lui. Almeno questo è quello che ho imparato a fare io. Non occorre arrivare a uccidere, perché altrimenti si finisce dalla parte del torto. E peggio ancora, si potrebbe avere il tormento del ricordo della persona uccisa per il resto della vita. Roba da Delitto e castigo di Dostoevskij.
Come dicevo, ci sono cose della vita di tutti i giorni che mi vergogno di fare, o di non riuscire a fare, e altre che non mi vergogno di fare. Per esempio non mi vergogno di riflettere ad alta voce (ossia parlando, anche avendo cura di non farmi sentire dagli altri, oppure senza fare attenzione a questo), e non mi vergogno nemmeno di borbottare esclamazioni colorite. Non perché siano volgari, anche se qualche volta sussurro a me stesso insulti e parolacce che mi entrano in testa (a causa della mia bassa autostima), ma perché sono originali. Non capita spesso di sentire qualcuno esclamare: “Per mille afgani!” o “Per Gabbiadini!”… Le mie esclamazioni sono ispirate dalla prima persona, cosa o parola che mi viene in mente o che secondo me ha un bel suono, e quindi mi ritrovo a dirle sottovoce. Non me ne vergogno, anzi sotto questo aspetto mi sento un po’ come Deadpool, il mercenario chiacchierone dei fumetti Marvel.
Semmai mi vergogno di non avere mai imparato a spiegare la strada ai passanti. Ogni volta che qualcuno mi chiede un’informazione, o arriva qualcun altro che risponde prima di me, o non so cosa rispondere, perché certe vie e zone della città non le conosco, oppure impiego un sacco di tempo a formulare e dire la mia spiegazione. Allora per far prima preferisco di gran lunga dire “non lo so” o “non sono di queste parti”, a meno che io non conosca veramente bene quello che mi viene chiesto. Se conosco il posto o la via, allora mi offro di accompagnare chi mi ha chiesto l’informazione, oppure se è di poche o immediate parole, gliela espongo senza problemi.
Mi vergogno anche di aver fatto insieme ad altri cose che mi piacevano, ma che lasciavano sconvolti loro. A undici anni io e i miei genitori eravamo a L’Italia in miniatura ed entrammo in un gigantesco simulatore che ci mostrò il filmato di una gara di rally, facendoci sballottare e sobbalzare sui sedili come se fossimo stati dentro l’auto. Io mi divertii, i miei genitori rimasero invece scombussolati e sconvolti. E allora mi sono vergognato di averli fatti stare così. Ancora prima di allora, quand’ero molto piccolo, mi incollavo davanti alla tv quando c’era la pubblicità, ignorando tutto il resto. E a due anni ho preso una sbarra e ho graffiato l’auto nuova di zecca di un parente. Non provavo vergogna allora, l’ho provata molto fortemente quando il babbo mi ha raccontato questi due aneddoti con tono allegro, quasi si volesse prendere gioco di me. Mi vergogno anche quando vengo sgridato dai conducenti d’autobus. Qualche esempio: per una volta che non alzavo il braccio per segnalare all’autobus che doveva fermarsi, successe che l’autista fermò il mezzo, ma poi mi sgridò. “Alzare la mano no, eh?”… “Di solito lo faccio…”, iniziai a dirgli con tono cortese. “Di solito lo fa!”, mi rimbeccò lui, come a dirmi che devo farlo sempre e lasciandomi senza più parole per giustificarmi. Un’altra volta, per salire sull’autobus, mi ritrovai a tagliare senza volerlo la strada a una ciclista. Se l’avessi lasciata passare, avrei perso il bus. E l’autista mi sgridò. “Hai osato tagliare la strada a quella bicicletta!”… “No...”… “Sì, non no!”… “Mi scusi, non l’ho fatto apposta!”. Lui non mi rispose più, forse non mi ascoltava neanche più, però come disse mia madre quando glielo raccontai avrebbe dovuto pensare solo a fare il suo lavoro. “E chi è, un vigile urbano?”, fu il suo commento. Un altro episodio che posso raccontare è questo: una mattina mi stava passando davanti un autobus che dovevo prendere. L’autista si era fermato, ma aveva aperto solo la porta anteriore, per permettere a un uomo alla fermata di salire, ma tenendo chiusa quella posteriore. Prima mi ero messo davanti a quest’ultima, ma subito dopo, avendo intuito che lui non me l’avrebbe aperta, mi ero messo a correre verso l’altra. Proprio quando l’avevo raggiunta il conducente la stava chiudendo, e allora avevo dovuto mettere le mani dentro la porta e fare il gesto di aprirla a mano. Ammetto che avrei rischiato di rimanere incastrato, ma non mi importava e non me ne vergognavo. Ero solo sbalordito perché l’autista non aveva fatto il suo dovere di aprire tutte le porte del mezzo pubblico. L’autista alla fine mi aprì, ma una volta salito a bordo ignorando il mio “grazie” cominciò a farmi una serie di urla che non finivano più: “Che fai? Fermi l’autobus?”. Non era la prima volta che un autista mi criticava, ma tentai di spiegarmi: “Stavo correndo... Stavo raggiungendo...”. L’implacabile autista, forse senza ascoltarmi, mi interruppe e continuò a urlare dicendo cosa sarebbe potuto succedere: “Io parto, tu cadi con la testa sotto la ruota e ti ammazzi!”… “Stavo correndo… Stavo raggiungendo…”, tentavo di dirgli, ma oltre queste parole non riuscivo ad andare, visto che l’autista continuava a interrompermi tutto arrabbiato. Lì per lì ci rimasi male, con i passeggeri che mi guardavano indifferenti o sconvolti, però cercai di ragionare e giustificare anche l’autista. Quelle frasi le aveva dette male, ma aveva buone intenzioni, si era preoccupato per me, anche spaventato. Però trovo assurdo che mi stesse chiudendo la porta in faccia, proprio mentre stavo per salire. L’autista aveva fermato il bus, aveva fatto salire un passeggero aprendo una porta sola, non aveva neanche pensato di aprire quella posteriore, e poi quasi mi chiudeva in faccia l’unica che aveva aperto. Alla fine ho ottenuto quel che volevo, salire a bordo, per di più con delle maniere non buone, e non me ne vergogno nemmeno adesso, però ho provato vergogna nell’osservare le facce indifferenti o sbalordite degli altri passeggeri. E penso che se fossi stato nei panni di quel conducente di autobus, avrei dovuto provare vergogna anche nel suo caso.
Non provo invece vergogna nel dire e pensare che alle volte sono invisibile. Poche ore dopo l’episodio dell’autista che non aveva aperto tutte le porte, una collega di lavoro non mi notò se non dopo essersi girata e mi chiese scusa per non avermi salutato. “Non importa, tanto sono invisibile”, le dissi. “No, non sei invisibile”, rispose lei. “Sì, invece”, ribattei. “Sono invisibile nel senso che faccio cose invisibili!”. La collega di nuovo negò, ma io sono sicuro che è come dico io: non sono trasparente né posso diventarlo, ma se io faccio qualcosa e nessuno mi nota, è come se non mi vedesse quindi, non essendo visto, sono invisibile. Se faccio un gesto o mangio una merendina e nessuno mi vede, sono invisibile. Diventerei visibile solo se qualcuno mi buttasse l’occhio addosso e smettesse di ignorarmi. Allora sì che sarei visibile, perché sarei visto. E certe volte non mi vergogno proprio di essere invisibile. Semmai fa male essere ignorati, ma non è proprio la stessa cosa.
Non mi vergogno nemmeno di pensare qualche volta: “Homer è un cane”. Non l’ho mai detto a nessuno, perché non ho mai avuto ragioni per farlo, però mi rendo conto che una frase detta così lascia un po’ spiazzati, e per i fan dei Simpson può sembrare un insulto bello e buono. Ma pensateci bene: Homer, come i cani, ha una grandissima passione per il cibo, anzi sbava e prova libidine davanti alla carne di maiale, alle ciambelle e a tutto ciò che può far male al fegato e ingrassare. Inoltre Homer è fedele e affezionato alla sua famiglia come lo è un cane verso il suo padrone, e farebbe qualunque cosa per essa: per amore verso Marge non esita a ributtare nel lago un enorme pesce da lui pescato di nascosto mentre la moglie tenta di riparare il loro matrimonio presso un consulente in montagna. Oppure non esita ad aiutare Lisa sacrificando dei soldi risparmiati per comprarsi cose che desidera per sé, tipo regalandole un sassofono nuovo invece che procurarsi un condizionatore. E anche a Bart, col quale spesso perde la pazienza, tanto da arrivare a strangolarlo, cerca di dimostrare che è il miglior padre che si possa desiderare facendo e condividendo molte cose con lui. Ed è anche molto affettuoso verso la piccola Maggie, pur dimenticandosi spesso della sua esistenza. Quindi Homer sembra un tipo egoista, pigro, ignorante, maleducato, non sempre onesto, che a volte fa arrabbiare la sua famiglia, però quando serve sa anche essere molto sensibile, gentile, comprensivo, sa redimersi, è quindi ovvio che agli occhi di Marge egli sia l’unico uomo della sua vita. Homer è quindi un cane, ma in senso figurato e tutt’altro che offensivo, anzi è anche considerato un uomo ‘intelligente nella sua stupidità’, come dice David Silverman, il regista dei Simpson. Certe volte anche Homer si vergogna, tanto per restare in tema: ne sono la prova i suoi innumerevoli “D’oh!”, esclamazione che dice quando capisce di aver detto o fatto una cosa stupida.
Tornando a me, mi vergogno semmai quando non riesco a parlare con gli altri per giustificare certe cose, di cui non mi vergogno. Per esempio non mi vergogno di aver chiamato “fessi” due amici con cui giocavo a briscola perché avevano fatto una mossa sbagliata: io avevo messo sul tavolo un tre di briscola, dieci punti. Davanti a una carta simile gli altri giocatori dovrebbero mettere giù delle carte del minor valore possibile. Invece in quell’occasione i miei due compagni di gioco hanno mostrato due assi, regalandomi undici punti a testa! In quel frangente diedi per scontato che l’avessero fatto apposta, non pensai ad altre eventualità, pensai solo che se fossi stato io a regalare una carta così a un giocatore che aveva messo giù una briscola pesante, sarei stato corretto, o sgridato. Perciò senza vergognarmene, dissi loro che erano due fessi, che non è una parola carina ma neanche un insulto gravissimo, che ci stava tutto nella circostanza. Non me ne vergognai allora, non me ne vergogno adesso. Semmai mi vergogno di non essere riuscito a spiegare all’educatore che ci osservava il motivo per cui l’avevo fatto. Per tre volte tentai di parlare, per tre volte l’educatore me lo impedì, senza che avessi detto mezza parola, sentenziando freddamente: “Se avessero detto fesso a te, ti sentiresti bene?”… E i miei due compagni di gioco che ridacchiavano! Non so se l’abbiano fatto apposta o se non avessero altre carte da giocare a parte quei due assi, di sicuro non erano due deficienti o novellini, e nemmeno esordienti totali a briscola. E di sicuro non mi piace che altri facciano impunemente cose che se le faccio io vengo ripreso o mi vergogno.
Altre cause di vergogna (o non vergogna) sono state delle circostanze per me spiacevoli che mi hanno fatto arrabbiare. Se poi mi sono vergognato o no, di queste mie arrabbiature, dipende dalla situazione. Ricordo di certi insegnanti che mi hanno urlato in faccia, ma non sempre quando questo accadeva provavo vergogna. Qualche volta me ne facevano provare, ma alle elementari avevo un’insegnante di sostegno che alcune volte con me era piuttosto cordiale, ma altre volte quando facevo qualcosa che non andava bene mi sgridava con delle urla tali che mentre la fissavo mi sentivo scuotere la testa, prossimo al pianto. Anzi, a volte mi picchiava pure, facendomi piangere per forza. Ammetto che quando facevo cose cattive per cui meritavo di essere messo in punizione non mi vergognavo sempre, ma c’erano ben altri casi in cui era quest’insegnante che doveva vergognarsi, perché ricordo che lei stracciava i fogli su cui scrivevo o disegnavo delle cose che non le piacevano o che non pensava c’entrassero con la lezione. Anzi, ancora oggi temo che se dovesse vedere le cose da me scritte dopo le elementari straccerebbe pure quelle, libri compresi.
Anche il mio prof di educazione tecnica delle medie dovrebbe vergognarsi di alcune cose che mi ha fatto. Un giorno mi stava riprendendo per qualche cosa che non mi ricordo. Io dissi: “Sì, va bene, professore, ma…”… “NON ESISTE UN MA!” strillò lui. L’urlo fu così spaventoso e crudele che mi misi poco dopo a piangere. E lui, aggressivo: “Che fai, piangi?”. E poco dopo ancora, mentre disegnava una cosa sulla lavagna, quando avevo smesso di piangere mi rivolse una domanda con lo stesso tono: “A chi parlo? Al muro?!”.
Da allora l’ho sempre odiato, come odio moltissime persone che mi hanno fatto piangere. E poco m’importava che era il padre di un’educatrice che io e i compagni di classe conoscevamo e frequentavamo. Una volta, in seconda, mi ha spiegato perché si rifiutava di sentirsi dire che aveva ragione: “La ragione viene data ai fessi!”. Da allora un po’ tutti i compagni di classe hanno adottato questo proverbio come loro motto di battaglia o motivo di vita, facendomi sentire uno stupido. Se uno ti fa un discorso serio, sensato, non puoi non dargli ragione. Ma quel professore era fatto così, era bislacco e sarcastico, tanto che faticavo a sopportarlo. Ogni volta che mi cavava di bocca un: “Scusi, ha ragione lei”, subito dopo gridava che non aveva ragione né voleva averne, perché aveva sempre paura che gli dessimo ragione solo per fargli un piacere. Non prendeva nemmeno le mie difese quando i compagni mi spaventavano con le loro maschere da Halloween, specie quella di Scream, e non li metteva in punizione. Solo dopo ho capito che il prof non voleva rischiare di sentirsi dire “Ha ragione lei” solo per fargli un piacere e non perché lo pensassimo davvero. E voleva rendermi più forte davanti agli spaventi che mi prendevo. All’epoca però mi pareva un despota, alla maniera di 1984: quando glielo consigliai per renderlo più buono e gentile, fu lui a consigliarlo a me!
Una volta mi chiese di essere onesto nel valutare un brutto disegno che avevo fatto. Non avevo vergogna del mio operato, però rimasi dubbioso. Mi misi a pensare a alla fine mi diedi un sufficiente. “Sei stato onesto”, disse lui con tono calmo.
Durante la prima settimana dell’anno di terza media non ci fu nessuna lezione da lui tenuta, e credetti di essermi tolto dai piedi professore e materia. Ma non era così. La seconda settimana tornò e appresi che era pure diventato vicepreside. Mi diceva: “Comoda la vita!”, per criticare il mio presunto scarso impegno. Una volta mi aveva messo una nota sul diario perché era convinto che durante tutto il primo quadrimestre non avessi fatto nemmeno un disegno. Avevo cercato di dimostrargli che non era vero, semplicemente li facevo ma non glieli facevo vedere, non pensavo di doverglieli consegnare. Dovevo solo tenerli dopo averli fatti. Così sapevo.
Tra me e questo prof c’è stato un rapporto conflittuale, altalenante, che mi ha visto in terza media prendere quattro note da lui sul diario. Addirittura aveva cominciato a bollarmi come ‘perugino’ solo perché aveva saputo che col babbo avevo visto allo stadio una partita tra Bologna e Perugia. Però non mi ha mai messo le mani addosso, almeno questo devo riconoscerlo. E fuori di scuola era una persona assai più calma.
Un’altra insegnante con cui non sono stato a mio agio era la prof di fisica che avevo alle superiori. Anche lei mi ha fatto vergognare qualche volta della mia ignoranza. Per esempio urlandomi in faccia come si dovesse fare per prendere le misure di un quaderno. Ma io penso che a vergognarsi dovrebbe essere lei: per aver detto parolacce durante alcune interrogazioni, per aver inveito contro me e gli altri miei compagni di classe quando non sapevamo le cose che ci spiegava o non mostravamo attenzione, o quella volta che non mi mostrò nessuna sensibilità quando mi chiamò alla lavagna per interrogarmi dopo che avevo saltato un compito in classe per la morte di mio nonno. E visto che non gliel’avevano detto, convinti di non portarmi rispetto, aveva creduto che avessi fatto un’assenza strategica. Addirittura penso che dovrebbe vergognarsi per aver fatto accendere una sigaretta e tirare una boccata a un mio compagno di classe per vedere se un proiettore funzionava. Far fumare uno studente in un luogo pubblico! Assurdo! Ma quando gliel’ho detto, lei ha risposto che non le sembrava tanto assurdo, pur non avendo mai fumato. Ha detto che ormai fumano tutti! Ma vi pare normale? Io trovo ci sia da vergognarsi. Almeno si è scusata quando mia madre le ha detto che ero stato al funerale del nonno.

CI SONO BAMBINI CHE MUOIONO DI FAME

   Luca G.


M olte volte, fino ai quattordici anni, ho avuto a che fare con educatrici che mi mettevano in punizione e mi facevano soffrire perché mi rifiutavo di mangiare la minestra. È un classico, tanti bambini si sono rifiutati di farlo.
Io lo facevo perché non mi piaceva l’aspetto del cibo nel piatto, o perché avevo paura che ci cadesse dentro una foglia, o un petalo di un fiore, persino un pezzo di carta ritagliato da una rivista. Non mi hanno mai minacciato di chiamare il lupo se non avessi mangiato la minestra, però mi hanno mostrato e indicato con rabbia immagini di bambini piccoli che soffrivano la fame.
Non mi vergogno a dirlo, ma quelle immagini, l’idea di questi bambini meno fortunati non mi ha mai fatto effetto. Impressione sì, un bambino denutrito scheletrico, rugoso, che respira con la bocca (altra conseguenza della denutrizione) mi ha impressionato. Ma l’idea che ci fossero bambini piccoli che non mangiavano spesso quanto un bambino medio dell’emisfero nord non la trovavo un’esortazione efficace a mangiare quel che avevo nel piatto. Forse perché non ho mai sentito sulla pelle la loro sofferenza.
In un’occasione, avevo già tredici anni e frequentavo un campo solare, all’ora di mangiare fui trattato molto duramente da un’educatrice che mi sembrava gentile, ma che cambiava atteggiamento quando contrariata. Quando le dissi: “Ehi, ma questa è violenza!”, mi rispose sfacciata: “Sì, è violenza, e allora?” , lasciandomi stupito.
Per tutta la durata del pranzo continuò a rivolgersi a me con tono ostile, e fui messo pure in punizione. Rimasi seduto con la pietanza davanti a piangere, senza nemmeno toccarla. Poi ebbi uno scoppio d’ira e col braccio scagliai per terra il piatto. E l’educatrice mi costrinse ad alzarmi in piedi, a guardarla in faccia (ed era molto più bassa di me!) e ad ascoltarla mentre mi sgridava parlando a stento per mantenere la calma: “Ci sono bambini che muoiono di fame - disse rabbiosa - e tu ti rifiuti di mangiare!”.
Io rimasi lì a guardarla dall’alto in basso, piangendo e vociando. Eppure non solo non mi pento o vergogno di aver scansato il piatto, semmai provo dispiacere e stupore nel pensare come potesse essere così brusca quell’educatrice se contrariata. Ricordo che qualche giorno dopo mi aveva cacciato dalla stanza e costretto a stare sotto un portico per punizione. Quel giorno pioveva: peggio di così poteva essere solo farmi stare sotto l’acqua scrosciante. E in tal caso quell’educatrice secondo me si sarebbe dovuta vergognare.

PICCOLA SILLOGE DI VERGOGNE

   Lu Zen pass


La vergogna degli innamorati timidi
Per non vergognarsi l’uno dell’altro, si incontrano al buio.


La vergogna della prostituta
La prima volta lo fa di notte perché non si veda che diventa rossa. Poi, quando si è abituata, può lavorare anche di giorno.


La vergogna del frequentatore di prostitute
Passeresti col rosso sapendo che ti fanno cento euro di multa? No. Se per andare da una prostituta ti vergogni e diventi rosso, meglio evitare di spendere cento euro.


La vergogna della pelle
Uno particolarmente sensibile punto da più zanzare diventa rosso: è la parte punta che si vergogna.


La vergogna frazionata
Il mutuo della vergogna è quando si diventa rossi solo in una piccola parte del corpo, come quando una zanzara ti ha punto in un punto.


Vergogne collettive
Ci sono anche le vergogne collettive, e quelle degli stati. I politici che hanno ordinato di fare guerre dovrebbero vergognarsi.

NON SI SCHERZA PIÙ

   Cesare Riitano


T ra il Redentore e il Battezzatore ho sempre preferito Giovanni. Mi piaceva la potenza delle sue parole, ma anche il suo enorme coraggio nell’abbandonare le comodità e le ricchezze che competevano al suo rango per gridare seminudo nel deserto la venuta del Salvatore. Ho sempre scherzato su tutto, ma sul Battista mai; è un personaggio troppo bello e nobile per infangarlo con qualsivoglia sarcasmo. Mi sembra di vederlo tra le dune di un deserto palestinese. Ecco, là, quello strano figuro che sbraita l’avvento del Messia spalancando le ganasce. È un ometto ossuto, si copre le pudenda con una pelle di cammello, la sua mano è ‘armata’ di bastone, è inebriato da un invincibile sacro fuoco e consapevole della giustezza della sua missione, operata in nome e per conto di Dio; la sua voce è potente, terrificante, destabilizzante, la folla che lo segue è ammaliata, completamente sedotta, è scossa. Le vibrazioni provocate dal sisma sedizioso che Giovanni sta innescando arrivano alle corrotte stanze del Tempio di Gerusalemme, e poi più su, fino a rimbombare nella testa coronata del dissoluto Re Erode. Se la sua predicazione messianica esalta il coraggio, l’eroismo e la forza della sua fede, la sua decapitazione, ma ancor più la detenzione in quell’oscura cella di rigore, lo rende commovente per la sua umana vulnerabilità. Soffro e mi identifico, immaginando quei drammatici momenti che precedono la sua morte. Denudato, sporco, affamato e fiaccato dalla sferza, Giovanni sente l’approssimarsi della fine e crollando psicologicamente chiama in soccorso il suo amico Gesù: “Sei tu colui che deve venire?”, manda a dire il Battista al Cristo, sottintendendo una seconda invocazione: “Io sono qua... Salvami”. Il Nazareno risponderà con parole volutamente ambigue, tese a incoraggiare l’amico evidenziando tuttavia l’impossibilità di cambiarne il destino. A Giovanni solo, disperato, abbandonato, non rimarrà altro che rivolgersi a Dio, ma da lassù nessuna risposta; “È finita, Giovanni - sembra pensare il profeta - nessuno verrà mai a salvarti... Ti aspetta solo la mannaia del boia!”.




Non potevo attendere oltre ad inviarvi questa mail, non fosse altro per farvi i miei migliori auguri per un 2019 ricco di idee e di stimoli e, tanta tantissima fortuna. Due parole sulla vostra rivista che conservo e ogni tanto, nei momenti di ‘calma’, riprendo in mano e sfoglio, trovando sempre qualcosa che o mi era sfuggito o avevo rimosso. Ho trovato molto interessanti i pochi numeri che sono riuscita a reperire (purtroppo non sono una lettrice da video, il cartaceo mi è più congeniale), brevemente: temi sempre interessanti; rubriche originali e mai scontate; fantasia e coraggio nell’aff rontare gli argomenti trattati che, pur non essendo di facile approccio, vengono sviluppati con molta semplicità e partecipazione sentita, sincera, autentica e, a volte, una vena ironica, nella soff erenza e nel disagio, che dovrebbe insegnare a tutti qualcosa. Non ultimo la grande professionalità degli ‘addetti ai lavori’. Vi auguro di cuore di continuare a regalare emozioni a chi vi legge. Un grazie per quello che ci avete dato e quello che ci darete.

Luciana Bernardini


Qui di seguito uno scritto di una cara amica che ha avuto, pure lei, l’occasione di leggervi: “Sono anziana e leggo da tanto e mi sorprendo ancora, leggendo, quando incontro parole vere: sono quelle che scrivete voi nella Rivista Il FARO. Ho trovato verità nei racconti; nelle storie, nelle vostre rifl essioni ironiche, battute e vignette. Tutto è percorso da un pensiero libero e disperato e coraggioso. Ho avuto l’impressione di trovarmi tra persone curiose della vita e golose, perfi no, di questo vivere diffi cile ma autentico. Grazie grazie davvero.”

Laura Perini








SULLA VERGOGNA

    Irene Sabelli, psicologa, psicoterapeuta
   (www.irenesabelli.it - email: irene@irenesabelli.it)

C he cos’è la vergogna? È un’emozione etichettata come ‘secondaria’, dato che implica un certo grado di auto-coscienza, cioè di una capacità di guardarsi da fuori e considerarsi oggetto di attenzione altrui.
Vergognarci, quando supera una certa intensità, fa provare una combinazione di angoscia, rabbia, tristezza, ma si tratta di qualcosa di diverso ancora, spesso è difficile anche riconoscerla. Anche perché, diciamocelo, spesso non è un’esperienza piacevole. A volte è talmente sgradita che fatichiamo a darle un nome; in quanto può risultarci un’esperienza di disagio che rimane nebulosa. Così però non la ascoltiamo e non riesce ad aiutarci. Sappiamo che ci stiamo vergognando quando sentiamo che vorremmo nasconderci, sotterrarci, o addirittura scomparire per intero, è la sensazione di essere esposti senza possibilità di difesa allo sguardo altrui. Quando ci vergogniamo ci viene da chiuderci in noi stessi anche fisicamente: ci raccogliamo, abbassiamo lo sguardo, arrossiamo (o in alternativa proviamo a mascherarla facendo l’opposto, magari gli spavaldi) e proviamo sensazioni intense, che amplificano i nostri difetti o particolarità facendoci sentire più insicuri, inadeguati.
Le conseguenze di quest’emozione sono molteplici e personali e… sorpresa! Contrariamente al vissuto più immediato al riguardo, non sono solo negative, anzi, hanno una funzione adattiva importantissima. La vergogna, per sua stessa costituzione, coinvolge sempre qualcun altro: quando ci vergogniamo è come se fossimo contemporaneamente al nostro posto e anche al posto dell’altro, altro che è certamente qualcuno che ‘ci sta a cuore’ (un genitore, un amico importante, qualcuno che ci piace...). Per capirla proviamo a pensare che coinvolge tre personaggi, di cui dobbiamo prenderci cura...
1) Io che la sto vivendo: di che cosa ci vergogniamo in particolare? Qual è quella nostra caratteristica che se fosse scoperta dagli altri ci farebbe venir voglia di scappare a gambe levate? Una caratteristica fisica tipo il naso grosso, la pancia, oppure quel mio difetto di pronuncia? Può anche essere un comportamento, tipo “quando non riesco a rispondere subito ad una domanda mi sento così impacciato che vorrei sotterrarmi”. Questo ci dà informazioni su quali caratteristiche sono importanti per la nostra autostima.
2) L’immagine che ho di me: meno mi sento sicuro di me, più bassa è la mia autostima, più è facile che sia soggetto a provare vergogna e tenda ad evitare situazioni di esposizione. Il rischio però è di innescare così un circolo vizioso, che ci porta a non esporci né a rischiare mai, non facendoci però collezionare possibili successi. La vergogna può essere un’emozione molto penosa, perché il suo meccanismo diventa una pena che ci auto- infliggiamo e che autoalimentiamo senza accorgercene. Magari credendo di prevenire ulteriori situazioni in cui verremmo visti in tutta la nostra negatività. Finiamo così per vergognarci della nostra stessa vergogna, sentendoci inferiori e diversi da tutti e ci isoliamo, o ci blocchiamo.
3) L’altro da cui mi sento osservato: più mi sento diverso da un gruppo, o più tengo all’opinione di quella persona, magari perché mi sto innamorando di lei, o perché è un insegnante che mi piace. Più ci tengo a fare una bella impressione, più è probabile che provi vergogna se questo non succede. In queste situazioni il confronto può risultare difficile per il timore di essere rifiutati o giudicati male: significa che ci teniamo a dare una bella impressione di noi. Proprio per questo però potrebbe essere importante per noi andare in quella direzione: confrontarci, pur sentendoci diversi o inferiori. Per farlo è importante soffermarci e metterci il nostro impegno per migliorarci, per dare il meglio delle nostre potenzialità.
La vergogna ci sensibilizza alle opinioni e ai sentimenti degli altri, è una specie di collante sociale perché ci porta a ricercare con il nostro comportamento l’approvazione e la stima altrui. Quest’emozione, quando non è troppo intensa, può fungere anche come regolatore di buona distanza nella relazione, anche in senso fisico, aiutandoci a ridimensionare il nostro spazio privato dove avvertiamo un’intrusione, oppure a non esporci in situazioni che potrebbero a posteriori rivelarsi controproducenti. Pensiamo ad esempio ai social network e a cosa ci piace e non ci piace condividere, e se siamo nel dubbio un certo grado di vergogna, può aiutarci a decidere di non condividere qualcosa, e potremmo poi scoprire di avere fatto la cosa più giusta per noi. Come sapere decidere fra un confronto che ci aiuta e il rischio di esporci troppo a qualcuno che non ci può/vuole comprendere? Si impara affrontando un percorso fatto di prove ed errori… E se poi? E se poi? Se poi va male? Se quella/quel ragazza/o nonostante io ci abbia messo tutto me stesso nel dichiararmi mi rifiuta? Se mi espongo a dire la mia opinione a quell’insegnante che mi piace così tanto e lui la giudica una scemenza? Se mi espongo a raccontare quella cosa di me che mi fa sentire uno sfigato al mio amico e poi lui pensa male di me? Sono scenari possibili, la delusione, il rischio di un rifiuto sono dietro l’angolo. Se ci esponiamo, però, corriamo anche il rischio… Che le cose vadano bene. Mentre se non lo facciamo non lo sapremo mai, rischiando di continuare a darla vinta alla bassa autostima. E se alla fine ci ho messo tutto me stesso e va male, come faccio? Potremmo provare a… Riderci sopra? Ci è possibile pensare di ridere di noi stessi se quella situazione andasse male? Vi è mai capitato di inciampare per strada, o di rovesciarvi qualcosa addosso, provare imbarazzo o vergogna e dopo qualche minuto riderci sopra? Il ridere di sé stessi, serve a prendere le distanze da un’esperienza emotiva faticosa. Inoltre, ridendo, cogliamo l’occasione di unirci agli altri nel ruolo di osservatori esterni, passando dall’altra parte, dalla posizione della vergogna solitaria alla posizione dell’osservazione condivisa con gli altri. Qualche giorno fa passeggiando per Bologna ho visto una scritta su un muro che mi ha fatto pensare a un brutto effetto collaterale della vergogna: “Nessuno ti consola se hai solamente segreti”. Un’alternativa, quando non ci sia possibile riderci su, è quella di raccontare a un altro, magari selezionato con cura, o se non lo troviamo, a un professionista, la nostra esperienza di vergogna. Questo è un altro modo di alleviarla, ci dà anche sollievo dal punto di vista dell’autostima, che così possiamo recuperare: “non sarò un granché, ma almeno so ammettere i miei difetti”. È un’idea che attenua la svalorizzazione di sé, rimediandola con un’azione proattiva.








CURIOSITÀ STORICHE

   ricerca su siti internet di L. L.


LA BERLINA E LA GOGNA


Mettere ‘alla berlina’ significa, in senso figurato, esporre qualcuno alla pubblica derisione, rendere qualcuno ridicolo davanti a tutti. L’origine del detto è piuttosto antica. La berlina (dal tedesco antico bretling, asse, tavola) era una pena infamante di origine barbarica, che veniva utilizzata soprattutto in epoca medievale, ma che era ancora vigente nel XIX secolo; consisteva nel condurre il condannato in un luogo esposto al pubblico (detto appunto ‘berlina’), con l’indicazione del crimine commesso; talvolta il condannato veniva portato in giro per la città su una carretta preceduta da un banditore che rendeva note le sue colpe. Il condannato alla berlina poteva essere immobilizzato per mezzo della gogna, originariamente un collare in ferro fissato a una colonna per mezzo di una catena, successivamente sostituito da un apparecchio in legno con fori in cui venivano bloccati la testa e gli arti. Vicino al prigioniero un cartello indicava il suo reato e il suo nome. In caso di morte o contumacia se ne esponeva l’effigie. La cittadinanza ave- va una certa libertà d’infierire sul reo, e normalmente lo copriva d’insulti, sputi e percosse… Oggi si parla di ‘gogna mediatica’, un sistema per umiliare il prossimo meno pittoresco e apparentemente incruento, ma sicuramente molto efficace.








IN BRAGHE DI TELA


Ancora oggi, per indicare che una persona è andata in rovina, si dice che “è rimasta in braghe di tela”. Queste espressioni fanno riferimento a una condanna che veniva inflitta nel Medioevo a chi non era in grado di pagare i suoi debiti. Si trattava di un’espiazione pubblica che in alcune parti d’Italia sostituiva punizioni ben più gravi, come frustate e torture, o il carcere. Il debitore, veniva spogliato di tutto, compresa la dignità, così si liberava dei debiti, però da quel giorno difficilmente avrebbe trovato nella sua città qualcuno disposto a fargli credito.
A Modena nell’angolo nord-est di piazza Grande c’è una grande lastra di marmo rosso chiamata preda ringadora (pietra dell’arringa), perché faceva da palco per gli oratori. Serviva anche per esporre cadaveri da identificare, nonché per mettere alla berlina i debitori insolventi. Nel giorno del mercato, dopo aver fatto il giro della piazza preceduto dal suono di una tromba, con la testa rasata e uno speciale copricapo, il malcapitato doveva dichiararsi fallito e «dare a culo nudo suso la preda rengadora, la quale sia ben unta de trementina, tre volte, dicendo: “Cedo bonis, cedo bonis, cedo bonis”», e questo doveva accadere per tre sabati, su richiesta dei creditori. A Padova, invece, all’ingresso del Palazzo della Ragione, c’è un blocco di porfido nero poggiato su una base quadrata chiamato ‘pietra del vituperio’. Coloro che non potevano pagare i loro debiti, anche per cause di forza maggiore o disgrazie personali, fino al 1231 venivano condannati senza appello al carcere perpetuo oppure al tratto di corda.
Quell’anno però S. Antonio, già vicino alla morte, si presentò al Consiglio Maggiore chiedendo che quelle pene troppo dure fossero sostituite dalla berlina. Il podestà non poteva certo dir di no al Santo, ordinò quindi che “per ricerca del venerando frate Antonio nessuno per alcun debito sia carcerato”. Nel 1260 venne ufficializzato il luogo in cui porre la pietra e la prassi da seguire: il debitore insolvente doveva spogliarsi (probabilmente anche i vestiti venivano confiscati), rimanendo con la sola camicia e in mutande, quindi alla presenza di almeno cento persone doveva battere le natiche per tre volte sulla pietra, ripetendo cedo bonis e poi lasciare la città per rifarsi una vita. In caso fosse rientrato senza il consenso dei creditori, sarebbe stato costretto a ripetere l’umiliazione della pietra e in più gli sarebbero stati gettati addosso tre secchi d’acqua.








I POVERI VERGOGNOSI


Il 25 marzo 1495, all’interno del Convento di San Do- menico, dieci nobili fondarono una delle più antiche istituzioni caritatevoli bolognesi, la Compagnia de’ Poveri Vergognosi, con lo scopo di “provvedere ai poveri, ai quali era vergogna il mendicare per essere caduti in povertà per disgrazie ed infortuni dei loro stati e condizioni”. Si trattava di una specie di mutuo soccorso fra persone altolocate, esistente anche in altre città italiane ed europee, che aveva un’indubbia finalità benefica, ma aveva anche lo scopo di attenuare o occultare questi casi di mobilità sociale discendente, che rappresentavano un’infrazione alle norme della società per ceti. L’Opera Pia crebbe e prosperò, facendo sorgere e amministrando anche altre istituzioni e riuscendo per quattro secoli a mantenere la propria autonomia, finché, col Regio Decreto 6972 del 17 luglio 1890, meglio noto come Legge Crispi, tutti gli enti benefici italiani con natura privatistica diventarono Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza (IPAB). Successive modifi che statutarie porteranno al passaggio all’attuale Azienda di Servizi alla Persona (ASP). Il patrimonio, accumulato nel corso dei secoli grazie ai lasciti delle famiglie nobili, comprende una grande quantità di beni immobili in città e in campagna, preziosi oggetti d’arte e d’arredo, documenti, paramenti sacri. Nel 1716, non avendo eredi, Giovanni Francesco Rossi Poggi Marsili lasciò all’opera Pia dei Poveri Vergognosi la propria dimora cittadina di via Marsala 7, con la clausola che ne diventasse la sede. Lo vediamo qui ritratto da Giovanni Battista Canziani nel 1707, mentre firma l’atto di donazione. Oggi il palazzo ospita la preziosa Quadreria dei poveri Vergognosi, costituita da una cinquantina di dipinti prevalentemente di scuola bolognese del Cinquecento, Seicento e Settecento.

ALLA ‘TROTTOLA’ I SEMI DI UMANITÀ DELLA POESIA

   L. V.


“Cosa possiamo fare noi?”, chiese don Camillo.
Il Cristo sorrise: “Ciò che fa il contadino quando
il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna
salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo
alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà”.
(da Don Camillo e i giovani d’oggi di Giovannino Guareschi)

I l 2 febbraio scorso, alla Trottola di Croce di Casalecchio, alcuni collaboratori del Faro hanno letto loro poesie. Chissà perché, ascoltandoli, mi è tornato alla mente il racconto di Giovannino Guareschi e la risposta di Gesù alla domanda di don Camillo: “Che cosa possiamo fare di fronte al dilagare di un’ipocrisia senza vergogna che si sta diffondendo anche fra i giovani?”. Don Camillo si riferiva a comportamenti sociali della fine degli anni Sessanta.
Da allora molte cose sono cambiate, il mondo è diventato più piccolo grazie alla diffusione degli aerei e, soprattutto grazie a Internet che consente di comunicare in tempo reale con tutti i cinque continenti. Sembra incredibile, ma, nonostante gli enormi progressi, la domanda “Cosa possiamo fare?” è ancora di grande attualità. I giovani di cui si lamentava don Camillo sfidavano il sentimento della vergogna, ma oggi siamo andati oltre: ‘vergogna’ sembra una parola scomparsa. Basta navigare sui vari siti e blog Internet per trovare infiniti esempi (purtroppo anche da parte di politici) di una deriva senza vergogna che attacca i valori fondanti della nostra civiltà. Come il vantarsi e diffondere sui social web cose di cui una volta ci si vergognava: portar via le coperte a un barbone che dorme al freddo, fischiare un giocatore di calcio perché è ‘negro’, cliccare ‘mi piace’ su un post che invoca l’uso dei forni crematori per i migranti in attesa di un alloggio popolare… Questi post ignoranti e volgari si diffondono rapidamente e fanno molto rumore, ma non ci devono ingannare: sono soltanto una minima parte dei messaggi che ogni giorno circolano in Internet, molti dei quali comunicano invece fatti e opinioni ricchi di valori umani.
Nelle poesie lette alla Trottola, ho ritrovato la saggezza contadina del Gesù di Guareschi, che suggerisce di cercare, salvare e valorizzare quei semi di umanità dall’alluvione di una volgarità ignorante. C’è un fondamento di grande umanità nelle poesie pubblicate sul Faro e in quelle recitate alla Trottola. Tutte comunicano bisogni e valori universali profondi. Primo fra tutti il bisogno insopprimibile di amare e di essere amati. Da molti versi traspaiono il mistero e la speranza di un Amore universale che va oltre la dimensione individuale.
Ai poeti del Faro un grazie e un invito a mantenere il coraggio anticonformista di un’arte capace di svelare quei semi di umanità che, in questa crisi etica e morale che stiamo vivendo, fanno meno notizia di uno slogan volgare, ma sono fertili e conservano la potenzialità di far crescere un vasto campo di valori umani.


29 LUGLIO 2008

   Luca G.


S e mi alzo la mattina e sembro nervoso, non è sempre per colpa mia, ma è colpa degli altri. Quindi sono più innervosito che nervoso. Io mi alzo tranquillo, se poi per una scemenza qualsiasi mi provocano, è normale che io sembri essermi alzato con la luna storta: mi hanno fatto agitare. Ma non è giusto darmi addosso per questo! Esempio: 29 luglio 2008. Siamo in vacanza a Foggia, io mi alzo dal letto che sono tranquillissimo, e dopo essermi cambiato ed aver fatto colazione, cosa vedo? Vedo che nella mia stanza hanno sostituito il tavolo con un altro più piccolo. Irritato, chiedo ai miei genitori di rimettere tutto come prima, ma loro non lo fanno. E figuratevi se lo facevano! Ma soprattutto figuratevi se mi avvertivano! Perché non lo hanno fatto?! Perché non mi hanno detto, spiegato o neanche provato a dirmi di questa loro idea e di metterla in atto?! Rimarreste sorpresi anche voi se vedeste il vostro amministratore far svuotare la casa dagli operai senza preavviso!
Infatti ho detto a mio padre: “Non avete il diritto di piombare così in una casa qualsiasi e cambiare i mobili senza preavviso! Voi state sempre a fare innovazioni, a cambiare le cose! Sostituite sempre qualcosa, un mobile, un elettrodomestico, quello che è! Arredare la casa, fare le innovazioni dev’essere un divertimento, non un lavoro! Dev’essere un piacere, non un dovere, e voi lo fate come un obbligo! Che bisogno c’è di cambiare tutto? Perché fate certe cose senza dirmi niente?”.
Ho detto che dovevano dirmi le cose, spiegarmele, dirmi la verità, che non era giusto che loro dicessero le bugie e io non potessi farlo. Fra una frase e l’altra il babbo mi chiede cosa voglio, perché non capisce. La discussione diventa una litigata molto violenta, nella quale non ci picchiamo ma ci lanciamo urla a vicenda.
Comincio a chiedergli perché non mi dicono mai la verità, perché non sono di parola.
Vista la reticenza del babbo, che continua a non capire quel che dico, io grido: “Quand’ero piccolo, mi sgridavate perché dicevo le bugie. Ora che sono grande, mi sgridate perché dico la verità. Vuoi spiegarmi cosa volete da me?”. Do un calcio a un bidone, mio padre piagnucola: “Non ce la faccio più! Basta!”. Allora, capendo che ormai i miei faranno le loro operazioni indipendentemente dalla mia opinione, e non volendo essere presente, prendo il biglietto dell’autobus e vado al cancello: “ME NE VADO!”. urlo, sottintendendo che tornerò quando loro avranno finito, ma col tono di uno che vuole andarsene da casa per sempre.
Ho preso le mie cose e sono andato alla fermata dell’autobus. Ero deciso ad allontanarmi per un po’ finché le acque non si fossero calmate e finché tutto non fosse stato rimesso a posto. Ma la circostanza e il tono da me usato hanno fatto intendere che io volessi andarmene per sempre. E allora ho gridato di nuovo: “Quand’ero piccolo vi arrabbiavate perché dicevo le bugie. Ora vi arrabbiate perché dico la verità. Volete spiegarmi cosa pretendete da me? LASCIATEMI IN PACE!!!”.
Solo dopo un po’, quando sono più calmo, mia madre mi spiega che già da tempo lei e il babbo volevano buttare via della roba vecchia. Quanto al mio tavolo, che era malridotto, vecchio e impolverato. volevano cambiarlo con uno nuovo, magari anche buttarlo, ma solo perché pieno di tarli. Vista la mia reazione hanno stabilito che non bisognava necessariamente buttarlo via: se proprio dovevamo tenerlo, almeno si poteva pulirlo dai tarli. Da parte loro volevano anche buttarlo, ma alla fine l’abbiamo solo ripulito e rimesso dov’era, buttando via solo un paio di vecchie scarpe e conservando in una scatola dei nastri stereo 8 che buttarli via era un delitto assoluto. Chissà quanto valgono adesso.
Tutto finito, ma io ricordo questa cosa perché non è giusto che non mi dicano niente solo perché sono il figlio (e quindi quello che conta di meno) o perché io dico sempre no alle loro proposte. Chi sono io per non essere avvertito? Cavolo, non avevo mica cinque anni e un cervello incapace di intendere e volere! Anzi, ne avevo già ventuno! Perché non me ne hanno parlato? Perché non mi hanno preparato in anticipo all’idea di cambiare il tavolo? Forse avevano paura dei miei no? Avevo voglia di fargli capire l’assurdità della situazione prendendo le loro sedie e i loro sgabelli per buttarli fuori e urlare: “Ora siamo pari! Così imparate a togliere i mobili agli altri senza dire nulla a nessuno!”. Vi piacerebbe se un pazzo vi sgomberasse la casa così di colpo? Non credo. Questo mi hanno fatto percepire i miei genitori quel giorno! Mi hanno rovinato la mattina, LORO! E anche la gola!
Non mi vergogno di essermi arrabbiato così tanto, né delle reazioni che ho avuto. Non sono il tipo di persona che scappa di casa per non tornare più, con me le cose non sono mai come sembrano. Sono stato male, certo, ma non mi vergogno. Se poi gli ho chiesto scusa è un altro paio di maniche, succede che le persone chiedano scusa senza pentirsi o vergognarsi delle loro azioni. Chiedono scusa per rincuorare chi si è angustiato, si fa un discorso per spiegare e giustificare il comportamento negativo, ma non sempre si prova vergogna.

IO E A.

   Luca G.


Dieci anni fa conobbi A., un’educatrice che gestiva un’attività di cucina nella quale si preparavano dolci e dolcetti da offrire ad altri utenti del Tasso. Avevo deciso di entrarne a far parte per un solo scopo: preparare una torta farcita di crema al cioccolato che avevo assaggiato qualche mese prima. Nient’altro.
Devo dire che tra me e A. era nato un rapporto favoloso, infatti mi era molto simpatica, tanto che una notte (e non mi vergogno a dirlo) sognai che io e lei eravamo distesi su un letto matrimoniale a chiacchierare. Magari penserete che eravamo nudi, sotto le coperte, prima o dopo di consumare un amplesso. Ma non è così, anzi: con me le cose non sono mai come sembrano. Io e A. eravamo vestiti, rilassati sopra le coperte ben fatte e intenti a parlare. Non sapete quante volte io e mio padre siamo stati distesi sul letto a fare questa cosa. Niente di erotico o di incestuoso.
Quanto all’attività con A. non avevo ancora avuto la possibilità di far fare quella torta che desideravo, pure perché non eravamo solo noi due, c’era anche un amico di nome R. Dopo le vacanze natalizie, le casse di via Tasso rimasero chiuse a tempo indeterminato, e finché non si erano completati i calcoli delle spese dell’anno prima non si poté comprare niente. Mancando le uova in cucina, fummo costretti per un tempo lunghissimo a preparare ricette senz’uova: fiadoncini (plum cake a base di formaggio), caramelle al cioccolato, perfino piadine.
Una mattina, quando ormai le casse erano state riaperte (e le uova potevano essere riacquistate), tutto cambiò: arrivato in via Tasso, discussi con A. di questa storia delle casse chiuse. Come mai due anni prima, quando avevo fatto un’altra attività di cucina, questa cosa non si era fatta?! Pur parlando educatamente, A. aveva iniziato a mostrare una certa impazienza e ostilità. Poi arrivò R., lo presi in disparte, sapendo che avrebbe dovuto essere lui a scegliere il dolce da fare per la volta dopo, e tentai di convincerlo a chiedere di fare la torta farcita al cioccolato. Gli dissi con calma e gentilezza: “Senti, ti devo dire una cosa…”… “No”, mi interruppe A.
Io, con gentilezza e fretta, iniziai a mentire su quel che stavo per dire a R.: “È completamente esule da…”… “No!” , mi interruppe A. di nuovo, per dirmi che non dovevo dirgli niente. “Non voglio condizionarlo - dissi, tentando di nascondere le mie intenzioni - volevo solo…”. A. mi interruppe ancora una volta senza che potessi completare la frase. “Non vedo perché devo per forza lasciar stare R.”, provai una quarta volta, ma A. mi interruppe anche questa volta. Allora esasperato lanciai un grido: “OH!”. Un urlo di rabbia e disappunto che mi diranno in seguito essere stato colto anche dalle case vicine al Tasso. Alla fine decidemmo di fare la zuppa inglese (la proposta, come d’accordo, doveva essere approvata all’unanimità). I miei due compagni di attività si calmarono, io no.
Tirai fuori la ricetta e A. mi costrinse a essere educato. Lessi la ricetta con voce malferma e tenendo il foglio tra le mani tremanti dalla rabbia che la stessa A. mi aveva fatto scaturire. Notai che mi stava guardando con disappunto. Come se non bastasse, quando le dissi che il latte era leggermente scaduto lei mi sgridò mostrando di non curarsene. Dopo quella giornata, ho ridimensionato il mio sentimento verso A. e ho smesso di idolatrarla. Non mi vergogno di questo, e nemmeno di aver alzato la voce. Non sopporto di essere interrotto di continuo ogni tre secondi, senza avere la possibilità di spiegarmi o di spiccicare anche solo mezza parola. In questo modo non c’è comunicazione. E possono esserci risvolti negativi, equivoci, complicazioni, rancori. Con A. non sono passato da un estremo all’altro, non ho preso a odiarla, ma durante il resto di quella giornata ero talmente infuriato con lei che mentre tornavo a casa mi ritrovai a inveirle contro, e persino a desiderare un manichino o un sacco da pugile contro cui sfogarmi. E quella notte ebbi un terribile mal di pancia, avendo somatizzato tutto quanto. Un tutto che si poteva evitare se A. mi avesse lasciato dire qualche parola in più e non mi avesse fatto arrabbiare. Solo col tempo, parecchi giorni dopo, la rabbia svanì.

LASCIANDO CORRERE I PENSIERI

   Maria Chiara Reitani


Trentasei anni fa mi laureavo al DAMS (Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo), con una tesi sul regista Luca Ronconi e il laboratorio di Prato, un’esperienza che si era tenuta per l’appunto a Prato dal 1976 al 1980 e che aveva visto la nascita di tre spettacoli: Calderon, La torre di Hofmansthal, e uno spettacolo ispirato a un testo di Pasolini, di cui mi sfugge il nome, ma che posso rintracciare senza molta difficoltà. Avevo allora ventisei anni e ora ne ho quasi sessantadue, li compirò, per la precisione il 10 agosto del 2019. Ora frequento al mattino dalle 9 alle 13 (pressappoco) un centro diurno di cui è responsabile Carmela e a cui partecipano Cecilia, Rosalia, Mirella, Cinzia e Monica, signore che son tutte nella terza età, cioè mie coetanee con delle disabilità, e mi sento meno sola. Finalmente riesco a realizzare che ho un grosso dono, quello di saper scrivere, ma nello stesso tempo riesco a focalizzare i miei limiti, per esempio l’essere molto disordinata, smemorata, tendente al perfezionismo ma con scarsi risultati. Mi piace essere elegante, passione che ho ereditato da mia madre, che ho perso nel 2010, quando aveva ottantotto anni. Posso dire senza alcun dubbio che l’ho assistita fino agli ultimi attimi della sua vita e l’ho vista morire. Per la precisione ricordo che aveva balbettato delle frasi e poi si era accasciata sul cuscino ed era spirata. Cosa dire? Sentirsi orfani non è piacevole. Avevo perso mio padre, a cui ero molto legata, a soli quindici anni, un dolore che tuttora non sono riuscita ad elaborare del tutto. Ora che ho sessantadue anni posso dire che ho avuto coraggio e ho fatto delle scelte precise, quali lasciare il mio paese natale, un paesone della Puglia in cui erano nati il sindacalista Giuseppe Di Vittorio e Nicola Zingarelli, l’autore del vocabolario della lingua italiana, che era il mio bisnonno da parte materna. Condivido con Calvino la passione per Il Corriere dei Piccoli, che mio nonno Gaetano aveva fatto rilegare e ne sono risultati due libroni, ora impolverati, che mi divertivo a sfogliare soprattutto quando ero ammalata. Da piccola soffrivo di crisi di acetone ed ero spesso a letto. Devo dire che personaggi quali Bonaventura e il suo Milione, Bibì e Bibò, la Tordella e, in tempi più recenti, Valentina Mela Verde, una ragazzina adolescente con cui mi ero identificata, mi hanno fatto tanta compagnia.


PICCOLO CAPOLAVORO DI UN ITALO-AMERICANO

   Matteo Bosinelli





Come bisogna ricordare le origini italiane di Fabiano Caruana, non meno interessante è che il giapponese Nakamura - mi risulta - ha sposato una italiana!
In astratto, questi due fortissimi giocatori si equivalgono, ma Fabiano ha sfoggiato una partita veramente straordinaria, con un sacrificio di Regina, 19) Dxf6 , incredibile e imprevedibile. Il seguito è pura tecnica: il nero viene lentamente soffocato dai pezzi bianchi, fino alla resa.


Caruana – Nakamur (Londra 2016)
 
1) e4 c5
2) Cf3 d6
3) d4 c x d4
4) C x d4 Cf6
5) Cc3 a6
6) Ag5 e6
7) f4 h6
8) Ah4 Db6
9) a3 Ae7

(se Dxb2 il bianco guadagna la Regina con Ca4)

10) Af2 Dc7
11) Df3 Cbd7
12) 0-0-0 b5
13) g4 g5
14) h4 g x f4
15) Ae2

(fino a qui tutto già teoricamente studiato)

15) ... b4

(Novità teorica che sarà confutata dalla mossa 19 ... Dxf6)

16) a x b4 Ce5
17) D x f4 Ce x g4
18) A x g4 e5
19) D x f6

(Splendida! Il nostro connazionale si fa valere e il nero è bloccato)



19) A x f6
20) Cd5 Dd8
21) Cf5

(ed ora, per la Regina, il bianco ha due soli cavalli: ma che cavalli !)

21) … Tb8
22) Cxf6+ D x f6
23) Txd6

(forse era meglio giocare la più incisiva Cxd6+ - Rf8 , Af5 e il bianco vince grazie alla ottima collocazione dei suoi pezzi minori)

23) ... Ae6
24) Thd1 0-0

(Pur essendo riuscito ad arroccare, il nero si ritrova però ancora con tutti i suoi pezzi bloccati)

25) h5 Dg5+
26) Ae3 Df6

(se ...Dxg4, Cxh6+)

27) Cxh6+ Rh8
28) Af5 De7

(in posizione persa, il nero cerca di liberarsi tatticamente)

29) b5 De8
30) Cxf7+ Txf7
31) Txe6 Dxb5
32) Th6+



e il nero abbandona
 


Soliti socialisti

Da avanguardisti a passatisti, il passo è breve. Devi metterti la maglia aziendale e crederci. Questa è l’aria che tira in certe cooperative dove se ti permetti di chiedere l’aumento di stipendio ti rispondono che lo fai perché ‘stressato’ dalla situazione.



Problemi di ansia???

L’esercizio della scrittura, potrebbe essere paragonato a una sorta di specchio...
La matassa da dipanare altro non è che il conflitto interno tra ciò che siamo e ciò che per gli altri rappresentiamo. Credo, in fondo, che non si possa piacere a tutti.



La città

È pur sempre vero che si parla degli assenti.



Déjà vu

I ricordi si accavallano in quello che maldestramente chiamiamo déjà vu. Tra il Vero e il Falso la memoria ripercorre momenti che spesso sono avvolti da una nebbia che scontornando visi, fatti ed eventi rendono il contesto quasi plastico.



Monoliti

Come monoliti di un colore nero (dove il nero tutto assorbe e nulla riflette) si confrontano senza esclusione di colpi... Probabilmente due facce di una stessa medaglia.



Esclusi dal Gotha

La lotta è sempre più dura... La percezione di non poter entrare e di essere esclusi dal gotha è insostenibile. Gli esterofili governano il mondo. Non si è profeti in patria.



Siamo i primi

Siamo i primi a bistrattare le cose che dovremmo preservare.



Sottigliezze

Capita sovente che sia una questione di lana caprina.



Zelig

Il modello è quello del biadesivo, appiccicare il profilo di una persona ad un’altra. Non si riesce mai a capire di che diavolo stiano parlando, se non tramite un sillabario.



Militante

Caso curioso è quello della fotografia di stampo militante. Non è possibile distinguere se è il soggetto ripreso a essere militante oppure il fotografo.



Città perduta

Cerco una Città oramai perduta, semplicemente uguale alle altre. La kappa che circonda tutti noi è quasi soffocante.



Piccole considerazioni

Capita al capo popolo di essere osannato, idolatrato e perfino clonato, in quelle che dovrebbero essere per lui normali atteggiamenti nei confronti dell’esistenza/resistenza alla vita. Credo che il problema sia poi alla mattina, quando, come si suol dire, guardandosi allo specchio, il nostro capo popolo non ne trova riscontro… Che la ‘coerenza’ sbiadisca, con il passare del tempo?



Forma e sostanza

Ma è proprio vero che l’abito fa il monaco.



Fotoreportage

Molto più ‘attiva’, è la registrazione tramite una forma di scrittura personalizzata che riesca a rilevare fatti e circostanze accaduti. Nel fotoreportage o fotogiornalismo, la questione, non è, a mio avviso, quella di cambiare o testimoniare il mondo, ma quella di non essere ‘passivi’ nella rilevazione degli accadimenti. costruire un’immagine è questione molto complicata: non basta scattare a raffica per ottenere una ‘buona immagine’.



Appartenenza

Curioso caso, è il senso di ‘appartenenza’ che ci contraddistingue tutti quanti… Vogliamo appartenere a qualche cosa o a qualcheduno, un sistema ‘corporativo’ che ci induce, specchiandoci a riconoscerci nell’‘altro’. Giusto o sbagliato, si perdona per essere perdonati.



Piccola considerazione

Strani scherzi produce il cosiddetto mondo capitalista… Nella moltitudine degli oggetti ti puoi comprare anche simboli del mondo comunista.



Radical chic

Si possono barattare presunti diritti civili a discapito dei diritti dei lavoratori? Questo è a mio avviso, l’andazzo che da anni in Italia si è insinuato in maniera silente. La spina che collega un mondo di tipo radical chic, di stampo americano a un mondo cattolico terzomondista è proprio questo…



Autoreferenzialità

L’aria è stantia, verrebbe voglia di spalancare la finestra e di scaraventare fuori tutto… Ma come ogni sistema che si rispetti, il livello di autoreferenzialità tende a saturare ogni cosa (discorsi, parole, immagini)…



Il paradiso perduto

Ti ho parlato in maniera schietta, confidando nella tua capacità critica ed emotiva, ma quando si toccano determinati argomenti lontani o recenti del passato, scatta improvvisamente una sorta di barriera, uno scudo impenetrabile, le relazioni saltano... Il sistema consolidato in decenni di politica aveva reso la città impermeabile ad accadimenti di natura sociale.



Charles Bukowski

“Ci sono dei momenti in cui la follia diventa così vera che non è più follia”.



Il prezzo da pagare

Difficile rimanere amici, quando il tuo interlocutore ti identifica come suo antagonista. È una miscela che mescola patologia, parte caratteriale ed esperienza probabilmente negativa della vita. Quando il problema è riconoscere i propri limiti, altro non rimane che aspettare un’altra ricaduta... Il prezzo più alto lo paga sempre il paziente.



All'origine

Solo il tempo ci restituirà le cose come sono all’origine.



Questioni di punti di vista

Qui Houston, siamo lavoratori / utenti, non utenti / lavoratori… Sembra la stessa cosa, ma non lo è.



La pillola amara

È amara la pillola da ingoiare, quando scopri che si è circondati da arrampicatori sociali. Il problema non è quello di avere delle ambizioni nella vita, ma dimenticarsi da dove si proviene.



Fermo immagine

Il fermo immagine è rimasto tra la fine degli anni Settanta e metà anni Ottanta. Evidentemente cristallizzare il tempo in quel periodo è utile per mantenere quella tensione mai sopita... Spirale di fatti e avvenimenti che ingloba chiunque vi venga a contatto.



Trompe l'oeil

Non si smette mai di meravigliarsi di fronte alla propria famiglia d’origine… Il trompe l’oeil che si presenta davanti a noi è qualcosa di terrificante, ti aspetti un appoggio se non materiale, almeno ‘morale’, e ti trovi invece una ‘voragine’. I confronti, spesso sono spietati e quando, a concorrere all’interno della famiglia ci si mette pure il padre, ti accorgi di avere un ‘fratello’ acquisito che tigna e strilla, si piange addosso, riversa continuamente le sue aspettative sul figlio preferito, dimenticandosi totalmente dell’altro (che sarei IO).



Libertà di stampa

La pretesa di voler svolgere la professione di ‘giornalista’, informando e nello stesso tempo esprimendo il proprio punto di vista, con la conseguenza di ricevere delle non troppe velate ‘minacce’ per ciò che si scrive, rende il tutto più credibile.



La nausea

Si arriva a un punto della vita dove la nausea per ciò che si fa è veramente insopportabile... L’odore di morte e di morti che ti circonda si taglia nell’aria. Ti viene chiesto di comprendere il contesto in cui ti trovi e la tua mente corre a fatti che sono accaduti nel tempo anche recente. È un tritacarne, il sistema, non lascia scampo. Andare o rimanere??? Un segno che ti rimane impresso comunque.



Disfatta

Ogni uomo è artefice del proprio destino... E della propria disfatta.



Dipende dal contesto

Alza le mani, sei circondato... La miglior difesa è l’attacco... Sei solo paranoide.



Cerchiobottismo

Ripeto, non simpatizzare per questo governo, non significa non rispettare la volontà di chi l’ha votato.



Il fondo

Se è pur vero che le persone non si conoscono mai abbastanza, fino in fondo, e al fondo non c’è mai fine, è altrettanto vero che non ci conosciamo noi stessi fino in fondo, e al fondo non c’è mai fine.



La radio

Le inflessioni dialettali comunque parlano di te.








Tensione di vita

Tenere la guardia alta. Come un incontro di box, non c’è tregua, il gancio è in agguato. Può arrivare da chiunque. Posizionarsi in modo da poter schivare l’attacco avversario...



Padre

Se non può essere autorevole, almeno che sia onesto...



Droghe di classe

Il mondo del proibito, droghe incluse, fa scaturire curiosi ragionamenti di tipo morale/classista. All’appartenenza politica corrisponde un certo tipo di stupefacente che vorremmo in qualche modo legalizzare.



Ma che sapore ha...

Sempre più conformi a un canone prestabilito, come prodotti esposti in un supermercato, dove la differenza tra uno e l’altro è nell’etichetta, ma il sapore è standardizzato... Confidiamo in un’esistenza di vita quanto mai sorprendente, speciale e unica.



Con / testi

Nell’intenzione di ricontestualizzare oggetti decontestualizzati dalla loro funzione, come molti artisti propongono dopo M.D. [Marcel Duchamp n.d.r.], mi domando se un’opera di arte sacra (il soggetto ritratto) lo sia perché in un contesto sacro (chiese, templi eccetera) oppure lo sia per un significato intrinseco.



L'incubo

Vorrei dormire e non svegliarmi più. Vorrei svegliarmi e non dormire più.



Tutti dentro

La pena all’ergastolo, in fondo, cela una condanna a morte nei fatti. È pensabile che un paese che si ritiene civile, possa utilizzare questo sistema di condanna “occhio per occhio”? Quando funzionari dello stato pensano di far marcire nelle patrie galere persone che si sono macchiate di reati gravi??? La realtà è che la reclusione perdurante nel tempo non porta a nessun ravvedimento, le galere a poco servono, se utilizzate in questa maniera, e le persone si incattiviscono…



Tutti dentro 2

Non è certo perdono cristiano quello che ho in mente, solamente credo che le battaglie civili siano improntate a una certa direzione quando le necessità lo impongano… Rifuggire dai facili calcoli politici, mantenere la lucidità...



Scrivere una fotografia

Mi arrovello da tempo, nel tentativo di “scrivere una fotografia”... Di gettito, a posa lunga eccetera. Cogliere l’attimo, ma non essere nello stesso tempo passivo, come una foto di reportage, dove a raffica spari quasi senza pensare. Il troppo pensare, invece, non fa altro che assomigliare alla scrittura classica, dove tutto funziona e rimane l’esercizio stilistico un po’ fine a sé stesso. Non rimane che l’anti/scrittura, come l’anti-fotografia di W. K. (William Klein n.d.r.) riportava alla luce soggetti un tantino scomodi ripresi con l’obiettivo giusto. E alla giusta distanza.



Scrivere una fotografia 2

Dettagli sfocati, oggetti volutamente tenuti in secondo piano, particolari che riaffiorano dal fondo indistinto eccetera. Cogliere e nello stesso tempo togliere i fronzoli di una scrittura di tipo autoreferenziale (ci sono io e poi io), la complessità di tutto ciò vale la scrittura.



Scene di vita

Ho fatto scelte sbagliate, sono agitato per le conseguenze. Non esco più dal tunnel. Datemi qualcosa da ingerire. Sto impazzendo… E giù tranquillanti.



Lento cambiamento

Credo sia la frustrazione, che segue all’impotenza di incidere in qualche maniera nei cambiamenti, che ci porta spesso e volentieri a domandarci della nostra incapacità di relazione e di confronto con il mondo…



Confini allargati

Curioso caso è quello dei confini allargati. Dove abbiamo ad esempio un infermiere che si crede medico, un medico che si crede primario e così via, all’infinito.



Franz Kafka: La metamorfosi

I l primo romanzo di Kafka, La Metamorfosi, scritto nel 1912 e pubblicato nel 1915 a Lipsia, è una delle opere che hanno influenzato maggiormente la narrativa del XX secolo.
La storia inizia così: un venditore ambulante, Gregor Samsa, una mattina si svegliò trasformato in un parassita mostruoso. Pensò, come se niente fosse, che comunque doveva andare a lavorare, ma la sveglia non aveva suonato e quindi aveva perso il treno. Ebbe paura di prendersi una lavata di capo dal suo principale. Tutti i membri della famiglia intanto si preoccupavano, perché non si era ancora alzato. Gregor faceva molta fatica, perché non aveva braccia e gambe ma solo delle zampette. A un certo punto della mattinata il procuratore andò a casa sua per sapere perché non era andato al lavoro. Gregor ne fu infastidito, perché secondo lui non c’era nessun bisogno di essere così allarmisti, ma i genitori gli urlarono che il procuratore era venuto a lamentarsi anche perché ultimamente il suo lavoro era insoddisfacente. Gregor dalla sua stanza cercò di rassicurare il procuratore. La sorella Grete, sentendo la sua voce si preoccupò: pensò che Gregor stesse male e avesse bisogno di un medico. Il padre, poi, visto che Gregor non apriva la porta, pensò che ci fosse bisogno di un fabbro. Gregor capiva che volevano aiutarlo, allora cercò di girare la chiave con i denti, ma con fatica perché non aveva dei veri propri denti. Alla fine riuscì ad aprire, uscì dalla stanza e si fece vedere. Il procuratore fu meravigliato nel vederlo. Il padre fu preso da un grande vergogna e serrò il pugno, ostile, quasi a volerlo ricacciare verso la camera. Mi ha colpito il fatto che il protagonista nonostante tutto volesse andare a lavorare. Cercò di spiegare al procuratore che senza lavorare non avrebbe saputo vivere e lo pregò di mettere una buona parola con il principale, dicendo che ci si poteva sentire incapaci, ma proprio allora bisognava riprendere con più impegno e concentrazione. Aggiunse anche che doveva pensare ai suoi genitori e a sua sorella. Ma fin dalle prime parole il procuratore fece cenno di andarsene e il padre, invece di trattenerlo, ricacciò Gregor nella sua stanza col bastone. Il fianco sinistro, colpito, sembrava ridotto a un’unica cicatrice.
Poco dopo Gregor, avendo antenne molto sviluppate, venne attirato da un gran profumo di cibo: c’era infatti una tazza di latte zuccherato con dentro pezzi di pane. Ma Gregor non la gradì, e il fianco sinistro gli faceva troppo male. Il suo corpo era grande, perciò si sistemò sul divano e vi passò tutta la notte. La mattina seguente di buon’ora la sorella entrò nella stanza e vide che il latte non era stato toccato. Gregor forse per orgoglio voleva che Grete gli portasse qualcosa da mangiare, ma di sua spontanea volontà, senza che lui glielo chiedesse. Lei cominciò a portargli verdura appassita, ossa avanzate, qualche chicco d’uva e del formaggio. Per far capire a Gregor che poteva mangiare indisturbato, se ne andava e girava la chiave nella toppa. Quando rientrava per rassettare la stanza, Gregor correva subito via, per non farsi vedere. Riceveva il suo cibo ogni giorno in quella maniera, la prima volta al mattino, quando i genitori e la domestica dormivano ancora, la seconda dopo mezzogiorno, quando i genitori facevano un pisolino. La sorella non diceva ai genitori di questi servizi, perché non voleva preoccuparli.
Gregor, origliando alla porta, sentiva che parlavano sempre di lui e facevano discussioni su come comportarsi. Fra i vari discorsi sentì anche parlare della situazione finanziaria della famiglia. La fabbrica del padre cinque anni prima aveva avuto un crollo e Gregor aveva avuto il compito di mantenerli tutti, compito svolto egregiamente, tanto che si era persino pensato di mandare Grete al conservatorio. La notizia bella fu che erano rimasti alcuni risparmi. Questa somma però non bastava, bisognava lavorare… Ma chi lavorava ora che lui era in quelle condizioni? Il padre non poteva fare affidamento sulle proprie forze, la madre soffriva d’asma, la sorella era troppo giovane. Questi pensieri gli procuravano sensi di colpa, ma soprattutto tristezza. Avrebbe voluto ringraziare Grete per quello che faceva, ma si vergognava davanti a lei. La sorella si accorse che Gregor padroneggiava bene il proprio corpo e che gli piaceva fare un salto dal soffitto fino al pavimento, quindi pensò di togliere molti mobili dalla camera per agevolarlo in questo; la madre non voleva, perché sperava in un miglioramento e pensava che poi Gregor avrebbe voluto la stanza in ordine (con la mobilia). Alla fine ebbe la meglio la sorella. Da parte sua Gregor era dispiaciuto che gli togliessero i suoi mobili, soprattutto la scrivania, perché su di essa aveva fatto tutti i compiti delle scuole elementari medie e commerciali. Inoltre voleva che non fosse tolto un quadro, perciò si adagiò su di esso con tutto il corpo. Fu allora che la madre lo vide e svenne. Trascorso un po’ di tempo rientrò il padre e Grete gli riferì che la madre era svenuta e il fratello era uscito dalla stanza. Il padre travisò, pensò che Gregor avesse combinato chissà che cosa e si mise a inseguirlo. Gregor non lo riconosceva più, tanto era cambiato di carattere. Prima era tanto buono e adesso lo rifiutava. Si avvicinò alla porta della sua stanza per fargli capire che aveva intenzione di entrarvi, ma il padre non capì e si mise a inseguirlo fino a quando Gregor inciampò in un mucchio di mele facendosi male.
Da quel giorno la porta della cucina fu lasciata semiaperta, così Gregor poteva vedere come se la passava la famiglia: il padre si addormentava sulla seggiola, la madre cuciva e la sorella studiava francese e stenografia. Le spese per il governo della casa venivano sempre più limitate, tanto che furono venduti i gioielli. La domestica venne licenziata, quindi toccava Grete aiutare la madre. In Gregor si alternavano momenti di affetto per la famiglia (a volte pensava di riprendere in mano la situazione economica della casa) a momenti di rabbia, per la cattiva assistenza che gli riservavano. La pulizia era sbrigata frettolosamente. Per invitare Grete a pulire meglio Gregor si metteva nei punti più sporchi, ma la sorella non puliva lo stesso. Però non voleva che nessuno pulisse la stanza di Gregor, voleva pulirla solo lei. Una volta la pulì la madre e lei la sgridò. Ma Grete era stanca, quindi il compito fu affidato a una donna ossuta, che era molto forte e non aveva nessuna ripugnanza per Gregor, ma lo offendeva chiamandolo ‘vecchio scarafaggio’, ‘blatta’… Egli pensava che la donna invece di scocciarlo con questi epiteti, avrebbe dovuto fare meglio la stanza tutti i giorni.
Ormai Gregor non mangiava quasi nulla, anche perché la sua stanza era in disordine. La famiglia si era abituata a mettere lì quello che non serviva e di queste cose ce n’erano molte. La famiglia aveva affittato un vano a tre tizi serissimi, maniaci dell’ordine e meticolosi non solo a proposito della loro stanza, ma anche dell’andamento del resto della casa, in particolare della cucina. Non sopportavano roba inutile o sporca. Inoltre avevano arredato la stanza con mobili di loro proprietà. Per questo erano diventati inutili molti oggetti che non si potevano né vendere né buttar via (la cassetta delle ceneri e quella dell’immondizia). I tre mangiavano in sala, la famiglia invece mangiava in cucina. Erano molto schizzinosi anche nel giudicare il cibo.
Una sera avendo sentito Grete suonare il violino, gli affittuari chiesero al padre se la ragazza poteva suonare per loro, ma furono delusi da quell’esibizione e si misero a parlare tra loro vicino alla finestra. Gregor, che osservava la scena da lontano, ci rimase male. Si immaginò di portare Grete col suo violino nella sua stanza, per confidarle che voleva pagarle il conservatorio. Decise quindi di uscire e di presentarsi a quei tre. Il padre cercò di rassicurarli, ma quelli si incollerirono, non si sapeva se più per il comportamento del padre o per il fatto di aver avuto uno scarafaggio nella casa. Così vollero andare via e non pagare niente, anzi volevano chiedere un indennizzo. Per questo avvenimento, proprio la sorella che fino a quel momento era stata così buona, volle sbarazzarsi di Gregor. Diceva che bisognava pensare che quello scarafaggio non fosse lui: se fosse stato lui, avrebbe capito che la convivenza con gli esseri umani era impossibile e se ne sarebbe andato via spontaneamente. Allora lei non avrebbe più avuto un fratello in senso fisico, ma avrebbe onorato la sua memoria. Così invece aveva cacciato gli affittuari e sembrava volersi impadronire dell’intera casa…
Gregor aveva molto dispiacere della situazione nella quale dovevano vivere i suoi genitori per colpa sua e pensava di dover scomparire, proprio come diceva la sorella. Finché una notte esalò l’ultimo respiro. Fu trovato il mattino seguente dalla donna delle pulizie. La famiglia, dopo i primi dispiaceri, si riunì e si mise a scrivere delle lettere: al direttore della banca, al committente e al principale. Decisero di traslocare in un appartamento più piccolo e più economico, ma situato in una posizione migliore.
Questo libro mi ha molto commosso. Ho visto crudeltà, ma nello stesso tempo umanità, sia nel comportamento della sorella nei confronti del protagonista (gli portava da mangiare) sia i quello del protagonista nei confronti della famiglia (avrebbe voluto nonostante tutto andare a lavorare per mantenere la famiglia).
Consiglio la lettura perché è una storia che offre tanti spunti di riflessione. Quello che ho scritto non è il riassunto del libro, ma l’insieme di avvenimenti che mi hanno più toccato.

‘IL TAGLIAERBE’ E ‘LUCY’. Due film a confronto

   Luca G.


P rotagonisti
Nel film Il tagliaerbe, il protagonista è Giobbe Smith (Jeff Fahey), un giovane giardiniere ritardato che vive in una piccola città americana, nella quale abita anche uno scienziato, il dottor Lawrence Angelo (Pierce Brosnan) che vuole aiutarlo a raggiungere un livello di quoziente intellettivo normale e per questo conduce su di lui un esperimento, sottoponendolo ad iniezioni di droghe neurotrope e immersioni nella realtà virtuale. In Lucy, la protagonista è una studentessa americana di nome Lucy Miller (Scarlett Johansson), che vive a Taipei e che ama andare in discoteca. Un giorno viene convinta dal suo fidanzato a fargli un favore, che consiste nel fare una consegna molto particolare. Rapita, stravolta e quasi violentata, Lucy si ritrova costretta a fare da corriere della droga e le viene inserito nell’addome un sacchetto contenente il CPH4 sintetico, un enzima prodotto dalle madri in gravidanza per sviluppare il feto. Dopo un tentativo di stupro, Lucy riceve un calcio nello stomaco, il sacchetto si rompe e l’enzima si sparge nel resto del corpo. Nel frattempo, un docente universitario che vive a Parigi, il professor Samuel Norman (Morgan Freeman) teorizza che gli esseri umani usano solo il 10% del loro cervello. Se lo usassero al 100%, farebbero delle cose eccezionali come il controllo della materia.
Aumento intelligenza
Sia Giobbe che Lucy vedono aumentare di molto la propria intelligenza. Ma mentre quella di Giobbe aumenta in un mese, l’intelligenza di Lucy aumenta nel giro di pochissime ore. In entrambi i casi comunque, i personaggi imparano prestissimo a fare cose che prima non sapevano fare (come guidare un’auto e maneggiare armi con una mira precisissima) e acquisiscono una memoria fotografica, tanto che Giobbe impara il latino in meno di due ore e Lucy impara a memoria le 6734 pagine di ricerche del professor Norman. Giobbe e Lucy acquisiscono anche capacità mentali al di fuori dell’ordinario, come la telepatia e la telecinesi.
Conseguenze dell’esperimento e capacità acquisite
Nel film Il tagliaerbe, l’esperimento avviato da Angelo va fuori controllo, perché l’intelligenza di Giobbe continua a crescere e le sue facoltà continuano a cambiare, nonostante l’interruzione dell’esperimento stesso. Inizialmente Giobbe è sconvolto dall’acquisizione di poteri di natura psicocinetica, ma poi impara a controllarli e si convince che bisogna continuare il trattamento a cui è sottoposto per desiderio di usarli a suo vantaggio. Inoltre il supervisore di Angelo viene spinto dal direttore del suo centro di ricerche a indirizzare l’esperimento verso scopi militari, così sostituisce di nascosto le droghe neurotrope con stimolanti dell’aggressività, che Giobbe assume senza accorgersene. Mentre i suoi poteri mentali si fanno sempre più forti, egli rende il proprio carattere sempre più freddo, diventa onnipotente e crudele e comincia a usare i poteri che ha acquistato per fare del male a chi l’ha sempre maltrattato e a chi tenterà di ostacolarlo. Infine preso da deliri di onnipotenza ed allucinazioni smette di ragionare e decide di usare le sue capacità per dominare il mondo. Anche nel film Lucy la protagonista acquisisce poteri telepatici e telecinetici, ma la sua metamorfosi è molto più rapida e una volta che il CPH4 sintetico ha iniziato a fare effetto, la ragazza diventa fin da subito fredda, consapevole di sé, mantiene lucida la sua capacità di ragionare e i poteri che manifesta all’inizio sono subito tanti, molto sviluppati e destinati a evolversi velocemente. Dopo essersi liberata dei suoi carcerieri, Lucy li uccide con le loro armi mostrando di aver acquisito una mira infallibile. Quindi dopo aver finito di consumare la loro cena, essersi cambiata d’abito e armata, lei realizza che ha solo dodici ore di tempo per fare qualcosa della sua vita, di cui percepisce la fine imminente, dato che molte sue azioni le fanno consumare energia. In compenso i poteri che ottiene sono già molto ben allenati: oltre alla telepatia e alla telecinesi acquisisce due capacità che Giobbe non ottiene: quella di cambiare il proprio aspetto fisico con la sola forza di volontà (utile per mimetizzarsi all’aeroporto) e addirittura quella di viaggiare nel tempo e nello spazio, cosa che fa quando arriva a usare il 99% del cervello verso la fine del film. Sia Giobbe che Lucy col tempo diventano sempre più freddi, ma mentre Giobbe arriverà a elaborare un piano per entrare nella rete informatica e governare il mondo, Lucy non avrà nessuna idea di cosa fare dei suoi poteri e della vita che le rimane. In ogni caso l’aumento delle sue capacità si manifesta quando si fa asportare il sacchetto dell’enzima sintetico dal corpo (senza bisogno dell’anestesia, poiché l’enzima l’ha resa anche insensibile al dolore) e racconta per telefono alla madre che riesce a ricordare cose come le prime poppate da neonata o addirittura altre che si sono verificate prima della sua nascita. Lucy è anche in grado di sentire le funzioni vitali e i fluidi corporali delle persone che tocca, cosa che le succede quando abbraccia una sua amica. Leggendo nella mente di un boss coreano toccandogli le tempie, Lucy apprende che tre suoi corrieri della droga sono diretti a Berlino, Parigi e Roma. Lucy riesce poi a contattare molto in fretta il professor Norman mostrandogli le sue capacità ancora limitate, ma già molto sviluppate. Lucy comunica a Norman la propria situazione e le proprie opinioni riguardo alle teorie del professore, definendole elementari, anche se “è sulla strada giusta”. In questa scena, Lucy dimostra che può controllare l’elettricità entrando in televisori, telefoni e computer: una facoltà che in Il tagliaerbe Giobbe inizialmente non possiede e che arriva a sviluppare solo alla fine del film. Sia Giobbe che Lucy, quando iniziano a manifestare i loro poteri non sono in grado di entrare nelle onde magnetiche ed elettriche, ed entrambi hanno comunque bisogno di macchine per farlo. Giobbe usa i macchinari del laboratorio dove lavorava Angelo per accedere alla realtà virtuale e poi per tentare di entrare nella rete informatica e governare il mondo, e Lucy usa un telefono per chiamare prima il professor Norman e poi gli agenti dell’antidroga della polizia francese dopo aver preso il posto del corriere diretto a Parigi e aver cambiato aspetto. Sull’aereo diretto in Francia a Lucy succede una cosa che a Giobbe non avviene mai: rischia di vedere disintegrato il suo corpo per espandersi sotto forma di energia. Come Giobbe, però, anche lei diventa dipendente dalla droga usata per aumentare le capacità cerebrali, ne è la prova che per evitare che il suo corpo si disintegri la ragazza è costretta ad assumere un’altra dose del CPH4 sintetico.
Il destino dei protagonisti
In entrambi i film, sia Giobbe che Lucy abbandonano la propria forma umana, ma non nello stesso modo e non dopo gli stessi eventi. In Il tagliaerbe, Giobbe usa la telepatia per raggiungere il centro di ricerche e togliere di mezzo le guardie. Quindi si immerge definitivamente nella realtà virtuale, lasciandosi dietro solo il suo corpo. Per raggiungere la rete informatica planetaria prova numerose combinazioni, e proprio quando esplodono delle bombe che Angelo aveva disposto per fermarlo, trova quella giusta. Prima di abbandonare la sua città, Angelo sente squillare il proprio telefono e poi tutti quelli del mondo, pertanto si presume che Giobbe riuscirà a governare il mondo sotto forma di pura energia. Per Lucy il discorso è diverso. Dopo aver recuperato le ultime sacche di CPH4 sintetico dal boss coreano che l’aveva fatta rapire, si incontra con il professor Norman e alcuni suoi colleghi e dimostra di nuovo di non sapere cosa fare delle sue facoltà. Il professore le suggerisce di riversare le tante ed elevate conoscenze acquisite dopo l’assunzione dell’enzima all’interno di una chiavetta USB, in modo che l’umanità possa sfruttarle a fin di bene. Lucy si trasforma allora in una specie di computer nel quale inserisce le sue conoscenze. Mentre si verifica all’esterno della stanza una sparatoria tra gli agenti dell’antidroga e gli uomini del coreano, la ragazza riesce nell’intento, ma poi raggiunge il 100% dell’uso del cervello e nel tentativo di scappare dalla sparatoria si proietta attraverso il tempo e lo spazio tornando indietro fino al Big Bang e poi scompare, lasciando solo i vestiti. E poi? Che cosa farà? Il film termina con i protagonisti maschili che si fanno domande su dove si trovi, e come risposta compare su un cellulare un messaggio nel quale lei dice: “Io sono ovunque”. Questo vuol dire che è diventata onnipresente e onnisciente, che è in ogni luogo e c’è sempre stata pur non essendo visibile, un po’ come Dio, ma non dà nessuna idea di cosa farà dal punto di vista pratico.
Considerazioni personali e teorie scientifiche
Il tagliaerbe è un film particolare, nel quale viene ipotizzato che in futuro si userà moltissimo la realtà virtuale. Ci sono molte scene che sono state ricreate con la computer grafica, come nella pellicola Tron del 1982. Ma in verità la realtà virtuale, tridimensionale, ricreata al computer, non si è rivelata di così grande uso. Al massimo viene usata per scopi didattici (vengono per esempio simulate immersioni in città del passato ricostruite alla perfezione) o per scopi ludici, con videogiochi visionari. Dal 2000 in poi ha prevalso la realtà aumentata, cioè l’arricchimento delle percezioni sensoriali per mezzo di informazioni ottenute con dispostivi artificiali. Esempi di realtà aumentata sono il cruscotto dell’automobile, o lo smartphone, o la chirurgia robotica. È vero che ne Il tagliaerbe si usano guanti e visori che sono poi stati utili per la realtà aumentata, ma gli scopi pratici offerti da quest’ultima sono di gran lunga superiori di quelli offerti dalla realtà virtuale. La gente ha convenuto che è più utile rimanere nella realtà fisica e sfruttare informazioni utili riguardo a essa piuttosto che immergersi in un mondo del tutto diverso, virtuale, lontano da quello reale al punto da dimenticarsi in che realtà si vive ed è presente il proprio corpo. Se con la mente si è nel mondo virtuale, nel corpo si resta in quello reale. L’uso che si fa oggi di Internet, dei computer, degli smartphone e degli oggetti con cui ci si tiene connessi è la dimostrazione del trionfo della realtà aumentata, con cui è possibile orientarsi (usando la bussola o il GPS), informarsi sui luoghi che si stanno visitando o fare operazioni chirurgiche complesse e delicate. L’unico vantaggio della realtà virtuale rispetto a quella aumentata è che non c’è il rischio che venga violata la propria privacy. Il film con Jeff Fahey e Pierce Brosnan è tratto liberamente da un racconto di Stephen King, nel quale si narra di un signore, ridotto nel film a personaggio secondario, che chiama qualcuno che gli tagli il prato venendo però falciato lui stesso. Racconto nel quale la realtà virtuale non c’entra affatto, pur lasciando un po’ inquieto chi ha visto Il tagliaerbe. Lucy è stato a mio parere più divertente e meno riflessivo di quest’ultimo, e Scarlett Johansson è una garanzia in quanto avvenenza e protagonismo, nella sua filmografia non mancano infatti film d’autore come Lost in translation o La ragazza con l’orecchino di perla. E vengono anche discusse interessanti teorie sul tempo, oltre che sulla materia, nonostante l’idea che noi usiamo solo il 10% del cervello sia solo una leggenda metropolitana e non una teoria scientifica. Lucy è un film che Luc Besson ha non solo diretto, ma anche scritto rendendolo pieno di azione ed effetti speciali che balzano all’occhio e stupiscono, ma basandosi su teorie scientifiche spesso senza fondamento. Prima di riversare il suo sapere in una chiavetta USB, Lucy mostra di poter controllare la materia per mezzo di comunicazioni tra una cellula e l’altra semplicemente modificando in forme molteplici la sua mano destra e spiega che gli esseri umani hanno codificato la natura e la loro esistenza per mezzo di unità di misura per renderla comprensibile. Ma non sono le discipline come la matematica o la fisica a governare l’universo, esse permettono solo di comprenderlo. L’unica vera cosa che regola l’esistenza è il tempo, in quanto prova dell’esistenza della materia. Senza tempo, noi non esistiamo. Una teoria che potrebbe anche starci, che si può considerare credibile, ma che cozza contro quella su cui si basa il film con la Johansson: che noi usiamo solo il 10% del nostro cervello. È vero che alcuni aspetti del cervello sono ancora sconosciuti, ma ad ogni zona di esso si conosce tutto e a ciascuna è stata attribuita una funzione. La radice della teoria ha origine fra l’Ottocento e il Novecento, quando si fecero alcuni studi neurologici che portarono gli esperti a interrogarsi sulle funzioni e potenzialità delle zone intorno alla corteccia cerebrale. Ma molti anni dopo, il neuroscienziato Barry Beyerstein dimostrò che non è vero che il 90% del cervello è inutilizzato. Se fosse così, si potrebbero arrecare gravi danni a una zona non attiva del cervello senza provocare conseguenze, e comunque il processo di selezione naturale che caratterizza l’evoluzione umana avrebbe già portato ad eliminare quella parte del cervello non utilizzata. Inoltre, decenni di ricerche successive al 1930 circa e l’uso della TAC e della risonanza magnetica hanno dimostrato che tutte le parti del cervello sono sempre attive, anche durante il sonno. Le mappature fatte con le nuove tecnologie hanno dimostrato che il cervello è un organo singolo, ma con zone distinte per diverse funzioni, sempre attive.
Se ci fossero delle cellule cerebrali inutilizzate, sarebbero già state notate. La teoria confutata da Beyerstein resta comunque popolare e ritenuta credibile per effetto di organizzazioni e religioni come Scientology, per portare la gente a migliorare le proprie capacità e potenzialità. Ma l’auto perfezionamento è una cosa, l’attività cerebrale è un’altra. Ed è quindi difficile, forse addirittura impossibile, dimostrare che con l’applicazione quotidiana (lo studio o l’esperienza) si possa giungere a manifestare o anche solo sbloccare certi poteri mentali, che sono spesso un terreno battuto nella fantascienza.

L’ACQUA E LA SAGGEZZA - PENSIERO ZEN

   Lu Zen pass


Gli arabi fanno tre tipi di tè e lo versano dall’alto (NOTA1). Quando si versa il tè, più è lungo il filo e più il tè si raffredda.
Versare i liquidi in senso dinamico li vitalizza. L’acqua diventa acqua viva perché si forma un vortice..
Secondo Masaru Emoto (NOTA 2) l’acqua ha una memoria: lo si vede mettendone in frigo piccole quantità per formare cristalli. Se prima le si fa ascoltare della musica, l’acqua raccoglie le vibrazioni. Con la musica heavy metal non si formano cristalli, i cristalli vengono tutti scomposti, con la musica di Mozart vengono cristalli armoniosi, corrispondenti al brano armonioso. Se le dici “ti amo” l’acqua rimane bella se le dici degli insulti va a male.
Ci sono persone studiose ma non sagge, che pensano che i saggi che dicono queste cose non siano credibili. Non è detto che se sono in pochi a dire una cosa non sia vera.

NOTA 1
Gli arabi insaporiscono il tè con foglie di menta fresca e lo servono in bicchieri anziché nelle tazze.
Molto complesso anche il rituale del tè dei Tuareg, gli uomini blu del Sahara: secondo tradizione vengono consumati tre tè alla menta diversi, uno di seguito all’altro. Si passa dal primo tè, forte e amaro (come la morte), servito alzando la teiera, così che si formi un po’ di schiuma nella tazza, al secondo tè per il quale viene aggiunta altra acqua bollente nella teiera e altre foglie di menta per un risultato più dolce (la vita), per finire con un tè molto più zuccherato e leggero (l’amore). Questa complessa cerimonia richiede circa 2-3 ore

Da Storia: una bevanda antica migliaia di anni http://www.illyteca-brescia.it/download-pdf/cultura-te.pdf

NOTA 2
Masaru Emoto (Yokoama 1943 - 2014) saggista giapponese




CI FA ARROSSIRE MA PUÒ RAGGELARE

   Francesco Bridi
   (Da LiberaLaMente n.45 - settembre 2012)


S i dice spesso che, per vergogna, si arrossisce. Una sensazione di calore che si trasmette alle guance e non di rado si percepisce lungo il corpo. Un’emozione, nascente dall’interiorizzazione del giudizio altrui, che ci avvampa; tale, nel suo essere ‘calda’, da essere visibile agli occhi di chi ci sta accanto. Un’emozione che, pur nella sua a volte drammaticità, genera, almeno per chi se ne accorge, energia (magari statica).
Un barlume di senso di presenza, anche se fonte di imbarazzo per chi lo sente, con desiderio di fuga, spesso insostenibilmente impellente. Ci si sente forse incapaci di muoversi, un blocco di cemento senza vie di uscita. Un viso che si colora e si accalora, che lascia trasparire emozioni, anche se vorrebbe nasconderle.
In fondo, un essere umano, anche se percepito è cristallizzato nella sua fragilità dell’essere nel mondo, in quel momento e in quel luogo, con quelle persone.
Ma esiste anche una vergogna fredda, gelida come un pianto muto. Una vergogna che non fa arrossire, che non scalda, nella quale il sangue non pare circolare, ma, anzi, sembra congelarsi, a fermare il respiro in un attimo attonito. Una vergogna che non sembra avere dimensioni né peso, ma scivola nell’aria, svapora o si sbriciola, fuggendo nel silenzio e nell’assenza. Anzi, essendo già essa stessa silenzio e assenza. Un fantasma che, in quanto tale, non ha un corpo, dal quale si è già fuggiti o, addirittura, nel quale non si è mai stati. Che non ha mai avuto specchi o pozzanghere o occhi in cui riflettersi. E che, quindi, non ha imparato a vedersi e a vedere, e non sa come si fa e non sa cosa e non sa chi. Una vergogna che non balbetta perché non sa parlare, non sa come si fa, non sa a chi. In un’epoca che appare sempre più senza vergogna, chi la prova in questa “versione” si vede costretto a seppellirla sempre di più, nel profondo, e impercettibile agli altri, rimbombare di un’eco senza fine. Perché, certo, non sa vedere e non sa parlare, ma non ha mai smesso di sentire. Nel suo essere ciclone invisibile, sente il silenzio che sta nell’occhio, nel centro di quel ciclone, ma sente anche il turbinìo della tempesta che tutto travolge e tutto fagocita, nel vuoto del suo essere fantasma.





QUATTRO ‘IRREGOLARI’ HANNO CONQUISTATO TOKYO
DAL DIPARTIMENTO DI SALUTE MENTALE AL GIAPPONE IN RAPPRESENTANZA DELL’ITALIA

   Tratto dall'articolo di Benedetta Cucci ll Resto del Carlino 8 febbraio 2019


[...] MacKenzie (al secolo Giovanni Elmi), Augustine Noula, Francesco Valgimigli e Andrea Giordani, quattro bolognesi di nascita o residenza che fanno parte del Collettivo Artisti Irregolari di Bologna, sono gli unici italiani volati in Giappone attraverso le loro opere, per partecipare a ParaArt Tokyo, kermesse dedicata all’arte creata da disabili, sia fisici che mentali, andata in scena dall’1 al 5 febbraio con oltre settecento opere esposte. Quattro identità potenti con un percorso esistenziale a tratti psicologicamente interrotto che, con altri ventun creativi, animano il collettivo nato in seno al Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche nel 2014 e coordinato da Concetta Pietrobattista dell’Ausl, educatrice dalla trentennale carriera, che cita, come ispirazione l’Art Brut: sono tutti figli di Jean Dubuffet, gli Irregolari… Come sottolinea Pietrobattista, rispetto al- la fondazione del gruppo dalla creatività differente, la sua attività è finalizzata “a rendere le persone autonome e visibili nell’ambito del territorio”. E prosegue: “Queste persone hanno sempre avuto una predisposizione per il mondo pittorico o della scultura, ma grazie al Comitato ‘Nobel per i Disabili’ creato da Dario e Jacopo Fo, sono diventati visibili sulla galleria virtuale arteirregolare.it, creata in collaborazione col nostro Dipartimento, dove sono stati immediatamente ospitati e contattati per la loro produzione”. Anche grazie a due recenti esposizioni di opere, una a Palazzo d’Accursio e l’altra all’Alcatraz di Santa Cristina di Gubbio, è poi arrivato l’interessamento da parte della cooperativa Soteria-NPO Tokyo [...]



 


SENZA PERDERSI NEL BUIO

   Fabio Tolomelli
   (Da Il Cappello di Padre Marella - ottobre-novembre-dicembre 2018)


La rivista Il Faro nasce per orientare le persone che si sono perse nel buio di una società che emargina le persone per comportamenti non in linea con quelli considerati ‘normali’. L’obiettivo del giornale è di utilizzare la scrittura e la lettura per fare emergere, scoprire e riconoscere aspetti della propria personalità e testimoniare alle persone che si sono appena ammalate, che è possibile stare meglio o guarire.
Il giornale è stato pensato dal dottor Filippi, da mia moglie e da me e ha goduto da subito di un forte interesse da parte di operatori ed utenti. Un grazie va a Paolo Facchinetti che ha curato la grafica fino a che la salute glielo ha permesso; poi a Lucia Luminasi e a Concetta Pietrobattista che sono le persone che si sono impegnate per salvare la rivista dopo che è deceduto Paolo, anche nominando una nuova direttrice responsabile, Michela Trigari e un grafico, Marco Balboni. Grazie a loro il giornale è diventato più espressivo e lo si può apprezzare anche su internet. La redazione è formata da un nucleo storico e da alcuni redattori ‘satellite’ e tutti sono potenziali lettori. La cosa più importante è poter crescere umanamente capendo che ci sono delle difficoltà psicologiche che, se condivise, possono facilitare un percorso di salute attraverso una società più giusta e rispettosa. Conoscendo la sofferenza psichica sotto il profilo umano si può superare quello che è lo stigma. I tumulti delle onde nel buio della vita ci disarcionano da quelle che sono le nostre sicurezze. Quando mi sono ammalato ho perso la facoltà di interpretare correttamente la realtà, di avere un buon umore, di avere una memoria efficace e via di seguito. Però con le cure e con il tempo ora sto meglio ed ho recuperato queste facoltà che erano andate perse. L’importante è avere il faro che ci permette di orientarci e trarci in salvo. A me... mi ha salvato.

L’ALIBI

U n giorno un gattino era nel parco di un grande ex ospedale psichiatrico chiuso, dove però era aperto un CSM in cui molte persone sofferenti di salute mentale potevano beneficiare di aiuto. Il piccolo felino, mentre curiosava qua e là, vide un cane, che si trovava anche lui nel parco per passeggiare in compagnia del suo padrone e lo apostrofò così: “Ehi, ciao! Senti, ma tu vieni qui per quel motivo là?”.
Il cane rispose prontamente: “Ah no, no di certo! Io sono qua solo perché il mio padrone mi porta a passeggiare. Inoltre lui ci tiene a far sapere a chi lo incontra nel parco che neanche lui, come me, è qui per quel motivo - e indicando il suo padrone aggiunse - Per capire che quel che dico è vero, basta osservarlo quando mostra alle altre persone che gli passeggiano accanto che lui ha un guinzaglio in mano, che è lì con il cane… E se io mi allontano troppo, lui subito mi chiama a voce alta: ‘Pippo, Pippo, dove sei?’, se no risulterebbe difficile agli altri capire che noi due siamo insieme al parco…”. Il gattino senza mostrarsi troppo sorpreso osservò: “Si preoccupa che qualcuno possa fraintendere e pensare che siete lì perché siete pazzi?”. E il cane: “Già...”.



LO STIGMA

U n paziente un giorno si chiese come mai se una persona ha una malattia mentale si vergogna e cerca di nasconderla. Chi ha un cancro, per esempio - pensò - non si nasconde, e se non è una persona riservata parla volentieri della sua malattia. Essendo ascoltato e capito, il suo disagio si ridimensiona. Inoltre un malato di cancro non si vergogna di recarsi in ospedale per le cure, mentre una persona che ha problemi psichici, si vergogna di andare in CSM.



IL DEPÔT

Un giorno uno psichiatra affermò che i farmaci depôt avrebbero risolto molti problemi riguardo alla somministrazione farmacologica, in quanto agendo secondo un rilascio graduale nell’organismo possono essere somministrati ad esempio una sola volta al mese e hanno la stessa funzione dei farmaci che debbono essere somministrati anche sei, sette volte al giorno. “I depôt - spiegò - risolvono sia il problema dei pazienti che si dimenticano di assumere le medicine durante il giorno, sia quello di coloro che si vergognano di far sapere agli amici che assumono farmaci antipsicotici. Un paziente che deve assumere farmaci tre, quatto, o cinque volte al giorno, se esce con gli amici e resta parecchie ore in compagnia, a un certo momento avrà la necessità di assumerli e, se si vergogna, magari dovrà farlo di nascosto, in bagno. I depôt invece si prendono una sola volta mensilmente e uno può farlo anche tranquillamente a casa sua, quando è da solo…”. Un operatore che aveva ascoltato attentamente il discorso dello psichiatra, quando questi ebbe concluso obiettò che in realtà il vero passo in avanti, per la società come per la salute mentale, sarà quando un cittadino verrà messo in condizione di non vergognarsi di alcuna diversità di fronte ai suoi amici, e potrà vivere senza cercar di apparire quello che non è o far finta di non essere malato…



COSE DELL’ ALTRO MONDO

I n un pianeta molto distante dalla terra, c’era una donna che si vergognava della sua mamma, perché questa era matta.
Quando uscivano insieme per fare delle commissioni o recarsi alle visite mediche, la figlia diceva alla mamma di non starle vicina, ma di camminare qualche metro più avanti, perché così le persone in strada non avrebbero capito che erano insieme e che lei era sua figlia. La mamma con tanto dispiacere a queste richieste di sua figlia rispondeva che per lei andava bene. Così si incamminavano ogni giorno per la città. La mamma con un grande borsone a tracolla e vestita abbastanza stravagante, parlando da sola si dispiaceva.
Il pianeta in cui vivevano aveva avuto una forte influenza da parte del pianeta delle anime felici, i servizi perciò si attivarono e, anziché preoccuparsi di riabilitare la mamma, presero in carico la figlia, facendole superare il senso di vergogna che, stranamente, le era rimasto. I clinici non capivano perché, in quanto questa educazione veniva praticata fin dai primi anni dell’asilo.



L’INIBIZIONE

N on è la malattia mentale che paralizza l’energia del corpo e della mente, è la vergogna la responsabile di tale impoverimento. La malattia mentale diventa paralizzante a causa dello stigma che colpisce la persona che soffre. Lo stigma, in una lotta feroce ma silenziosa, abbatte l’azione, la quale morendo distrugge la strada che accompagna alla guarigione.
La vergogna ha una funzione positiva, in quanto consente di rispettare condivise norme sociali, ma se inibisce eccessivamente ostacola lo sviluppo di relazioni sane, che si nutrono di spontaneità. Se ti deridono mentre cammini, oppure quando piangi, quando parli in pubblico o quando parli da solo, pensa che non dovresti essere tu a provare vergogna, ma chi fa del male sbeffeggiando.

ACQUA E LIMONE

    Laboratorio di Arteterapia - C.R.E.I. Casa San Giacomo Coop. Soc. Nazareno


U n educatore che si appresta a lavorare con le emozioni insieme ai ragazzi della comunità è facile che si ponga diverse domande come: qual è l’obbiettivo di un ragazzo che inizia ad esplorare le proprie emozioni? Quanto diverge la prospettiva emotiva dei ragazzi rispetto a quella dell’adulto che prova a sintonizzarsi con il suo sentire? Come si modulerà il costrutto di un’emozione che si sperimenta nell’isolamento?
Sorgono parecchi dubbi rispetto a questo argomento e, anche se superano le nostre risposte, in quest’articolo proveremo ad inquadrare l’emozione ‘vergogna’ attraverso diverse lenti. Non ci sono verità assolute ma relative, è bene tenerlo a mente se vogliamo facilitare il viaggio all’interno del mondo soggettivo dei ragazzi che sperimentano la vita e costruiscono le proprie teorie per spiegarla.
È indubbio che le emozioni sono una grande fonte di informazioni che permette di modulare l’organizzazione esterna ed interna del soggetto che le sperimenta. Iniziare un discorso centrato sulla vergogna può essere difficile per un addetto ai lavori, figuriamoci per un adolescente, soprattutto se consideriamo che ‘vergogna’ è una parola avulsa dal suo significato teorico, è astratta, non esiste se non provata da esseri umani. Ognuno di loro la esperisce a suo modo, a seconda dei costrutti personali interiorizzati nel corso la vita, che si raffrontano con diversi livelli di tipo sociale, familiare, affettivo e contribuiscono alla costruzione di regole affinché si possa abitare il mondo oltre che lo spazio intimo. Detto questo, in parole semplici potremmo definirla come quell’emozione che può assalirci quando, in un determinato contesto, ci rendiamo conto che abbiamo agito o parlato in modo non consono, questa caratteristica prettamente sociale si commisura con i modelli etici interiorizzati di ognuno di noi. La vergogna può acquisire differenti sfumature da soggetto a soggetto e quindi assumere diverse accezioni: imbarazzo, pudore, rossore, disagio e tante altre. In particolare, è un’emozione di cui spesso si sente parlare in relazione al senso di colpa, tanto che c’è chi li considera la medesima cosa. Detto questo, sembrerebbe che nelle varie culture del mondo le due cose siano vissute differentemente. Generalizzando: mentre a occidente pare prevalga il senso di colpa a oriente vivono un maggior senso di vergogna.
All’interno del laboratorio di narrativa abbiamo introdotto l’argomento raccontando una storia:

Un giorno la regina di un paese d’occidente invitò il re di una popolazione africana molto lontana per banchettare insieme a tutte le più grandi cariche mondiali in onore della giornata della pace. Durante l’evento viene servita una pietanza che si mangia con le mani, una volta consumata, i domestici misero di fronte i commensali una ciotolina contenente acqua e limone per potersi sciacquare le mani. Il re africano non avvezzo a questi usi, bevve il contenuto della coppa ritrovandosi addosso gli occhi di tutti i presenti. A quel punto la regina, con sguardo d’intesa, prese fra le mani la ciotolina e si gustò l’acqua e limone, tutti gli invitati fecero il medesimo gesto.

Dopodiché abbiamo chiesto ai ragazzi che tipo di emozione ha provato il re africano nel momento in cui aveva gli occhi di tutti addosso. Non c’è stato molto da attendere, la maggioranza ha detto imbarazzo. Abbiamo chiesto di condividere un episodio in cui hanno sperimentato la vergogna e come l’hanno gestita pensando alla regina del racconto. Una volta terminato il lavoro è stato chiesto ai ragazzi come si sono trovati nel descrivere le loro esperienze. Il riscontro è stato positivo, anche se avere a che fare con questo tipo di emozione non è facile, poiché può inibire una performance sociale e affettiva, può far arrabbiare e probabilmente può diventare senso di colpa.
La vergogna deriva dal latino verecondia, da vereri, che significa riverire, avere rispetto. È interessante notare come la costruzione sociale successiva ha fatto assumere un’accezione più severa e rigida di quella che aveva in origine. Infatti, di norma, questo sentimento è considerato la ‘cenerentola’ di tutte le emozioni, nel senso che è relegato a pulire i pavimenti, a fare il lavoro sporco. Potremmo rileggere questo sentimento partendo dalle sue fondamenta etimologiche e facendo nostro il suo significato primario: avere rispetto di noi stessi che si traduce nel costruire delle regole, basi della nostra società che a loro volta formano e alimentano il rispetto dell’altro e della società nella quale viviamo.

Alessandro Falcone

Di seguito gli elaborati dei ragazzi che hanno partecipato:

A. - “Quando ero in terza media a San Marino c’è stato il torneo di pallavolo delle medie. Ogni partecipante aveva una maglia del colore assegnato alla propria classe che bisognava portare a scuola ad ogni partita. Ogni volta che giocavamo tutte le altre classi ci guardavano. Una volta mi sono dimenticato di portare la felpa perché non mi ricordavo ci fosse la partita, così ho dovuto giocare con i jeans, ero l’unico vestito in quel modo. Mi sono sentito in imbarazzo, ma una volta terminata la partita, tornato in classe, ero io l’unico a essere normale”.

M. - “Quando avevo circa sette anni, una mattina a scuola ho tirato una forbice a un altro alunno che per poco non è andato in ospedale. È intervenuta la maestra e per fortuna nessuno si è fatto male. Quando sono tornato a casa, la mamma fortunatamente non mi ha fatto niente, mi ha semplicemente detto di andare a letto senza cena. Per me quella giornata è stata la lezione in cui mi sono sentito più in imbarazzo davanti ai miei compagni e ai miei amici. Il giorno dopo non volevo più andare a scuola”.

C. - “In vacanza con i miei, siamo andati in piscina. Prima di entrare c’era una piccola vasca per pulirsi i piedi, il pavimento era talmente scivoloso che sono caduto per terra a sedere. Mi sono sentito in imbarazzo e indifeso perché c’era una ragazza che mi piaceva che mi guardava ridendo. Così, in un primo momento, sono arrossito molto, ma poi mi sono accorto che non stava ridendo di me, ma con me. Ho cominciato a ridere anch’io e l’imbarazzo è andato via”.

R. - “Ero in classe con i miei compagni e una ragazza che mi piaceva da un po’ di tempo. Volevo rivelarle i miei sentimenti ma avevo paura che non ricambiasse. Un giorno però mi sono fatto avanti durante l’intervallo, lei conversava con delle amiche. Le ho chiesto se potevamo parlare in disparte e le ho detto ciò che provavo per lei. In quel momento ho provato tanto imbarazzo e vergogna, ero diventato rosso. Fortunatamente mi ha rivelato di ricambiare i miei sentimenti e dopo pochi giorni ci siamo fidanzati”.

L. - “Stavo parlando con una ragazza che frequenta la mia scuola e che mi piace molto, discutevamo di quanto fosse difficile prendere la patente, quale fosse la nostra macchina preferita e quali razze canine ci piacciono di più. Mentre parlavamo ero teso, agitato, non mi sentivo alla sua altezza ed ero diventato tutto rosso in viso. Mi sono bloccato, non riuscivo a parlare ma è intervenuta una sua amica che mi ha aiutato a sbloccarmi. Una volta che si è rotto il ghiaccio sono stato più a mio agio”.

LA VERGOGNA

   LABORATORIO DI NARRATIVA - RTP Casa Mantovani


Testimonianza
Il mio percorso a “Casa Mantovani” è stato faticoso e travagliato, ma pieno di ostacoli; posso dire che ero una ribelle, non ascoltavo nessuno... Col tempo ho deciso di cambiare, di voler essere una persona migliore. Grazie all’aiuto di operatori e non, sono riuscita a lavorare su me stessa e a diventare la persona che sono. Come ho accennato sono stata ospite a “Casa Mantovani” prima di intraprendere il percorso del teatro. Questo lavoro è stato e continua a essere un’emozione unica, ci vuole pazienza, passione ed energia, non credo di avervi spaventato nel dire ciò.
Il mio suggerimento per riuscire a ottenere qualcosa è quello di lottare con tutte le proprie forze, se l’inizio sarà un po’ faticoso non spaventatevi, la vita, si sa, è una lotta continua da quando si nasce... Faccio parte della compagnia del teatro “Testoni Ragazzi” e sono un’attrice a tutti gli effetti, questo è sempre stato il mio sogno nel cassetto, me la porto dietro sin da quando ero bambina. Grazie al teatro sono riuscita a ridurre notevolmente la timidezza che mi ha sempre accompagnato, perché a dirla tutta, non è facile stare sul palcoscenico davanti a un pubblico di adulti e bambini. L’emozione è fortissima e l’adrenalina non è da meno, a volte sembra di perdere la cognizione del tempo, il momento più critico per un attore riguarda i cinque minuti prima dello spettacolo, perché hai la sensazione di non ricordare più nulla.
La fine dello spettacolo, gli applausi, però, ti ripagano di tutto. Sono felice di fare parte di questo gruppo teatrale perché siamo tutti molto affiatati, ci aiutiamo e stiamo insieme nei momenti di gioia, ma soprattutto nei momenti tristi e stressanti.
Anja C.



La vergogna è una condizione che vivo spesso, perché mi sento molto ignorante e con poche qualità ed esperienza di vita.
Irene C.



Non mi faccio vedere
Non mi faccio vedere
Ho troppa vergogna
Bevo bel vedere
Alla faccia di chi sogna
Bologna fa schifo
Mi sembra una fogna
Per quello che dico
Finirò alla gogna
Mi vergogno di quello che penso
Provo a leggere ma non ha senso
È da tempo che mi sento perso
Do un bacio all’universo
L’odio scritto in ogni verso
La strada qua è lunga
Serve una prolunga
Stacco la spina
Poi la riattacco
Do vita a un altro
Nuoto nell’alcol
Muoio pensando
Non serve tanto
Mi vergogno di quello che penso
Provo a leggere ma non ha senso
È da tempo che mi sento perso
Do un bacio all’universo
L’odio scritto in ogni verso
Mi vergogno di me stesso, ma ci sto lavorando!
Davide P.



La vergogna è un’emozione che, al pari di tutte le altre, non va giudicata in termini di positività o negatività. Va solamente riconosciuta e, nel caso in cui la sua intensità si riveli molto forte e quindi causa di blocchi nell’agire, analizzata. A un’intensità media e bassa credo possa segnalare normali intenti di riservatezza su temi personali e intimi. Se l’intensità invece si presenta più alta, di difficile gestione e invalidante, va affrontata e combattuta. Credo che il modo migliore per farlo sia quello di attuare azioni opposte a quelle che sarebbero dettate istintivamente dall’emozione stessa. Con un po’ di allenamento l’intensità di questa emozione dovrebbe quindi attenuarsi e col tempo non risultare più invalidante.
Clemente P.

IL VOLO DEL BRUTTO ANATROCCOLO

   Gruppo di scrittura DiSegno InSegno – Budrio


Il brutto anatroccolo volò
E non si sentì più solo
Avendo trovato in sé stesso un ruolo
La vergogna non lo accompagnò.
Le piume grigie ora erano bianche
Lo ricoprivano fino alle anche,
Le ali battevano mai stanche.
Come Icaro si lanciò verso il sole
Era il più maestoso di tutti
Mai più vergogna!...Solo frutti
I migliori che si possono sognare
Volando sul mare.
I piccoli anatroccoli
Lo guardarono sgomenti
Librarsi su ali potenti...
Sognarono anche per sé stessi
Cieli diversi, mari aperti.

Agostino, Massimo, Giovanni, Simone, Laura, Maria Elena, Betta e Danila

SENTIRSI... NON ‘A POSTO’

    Gruppo del Laboratorio ESPRESSAMENTE
   (progetto PRISMA “Benessere psicofisico e autonomia”)
   condotto dalla dott. Elena Pasquali, psicologa e psicoterapeuta


Definizione:
La vergogna è un’emozione complessa che riguarda l’autoconsapevolezza, poiché legata alla percezione che si ha di sé stessi. Ci si vergogna per qualche cosa che si è commesso, che si è fatto o detto, per quello che si è, si pensa e si sente. È però possibile anche vergognarsi anche per qualcosa che si vede fare o dire da altri con cui ci si identifica, e che si sente particolarmente sconveniente e inopportuno. La vergogna si presenta in conseguenza a uno smascheramento, alla sensazione di essere stati scoperti, di essere messi a nudo, per cui si vorrebbe sparire, diventare invisibili, sprofondare. Si può reagire alla vergogna in diversi modi, generalmente arrabbiandosi o isolandosi.
Si distinguono diversi tipi di vergogna riguardanti situazioni più o meno invasive e dolorose, che si riferiscono allo svelamento, all’essere lodato, a qualcosa che riguarda gli altri e la propria appartenenza, eccetera.

Lavoro di gruppo:
Il gruppo ha raccontato diverse esperienze personali di vergogna che riguardavano principalmente un senso di inadeguatezza di fronte agli altri che portava al desiderio di sparire, di nascondersi. “Sentirsi non a posto… e allora mi vergogno di me!”.
Questo vissuto ha portato a una comune riflessione a partire dalla lettura della favola di Hans Christian Andersen:

Il brutto anatroccolo
C’era una volta un’anatra che stava aspettando la schiusa delle sue uova, poste nel nido fatto sulla riva di un laghetto all’interno del campo di una fattoria. Poco a poco le uova si schiusero tutte, e ne uscirono dei bellissimi pulcini tutti dorati. Però mancava ancora un uovo, quello più grande di tutti, che tardava a schiudersi. Finalmente l’uovo si aprì e… Che sorpresa! Mamma anatra e i suoi fratellini videro uscire da quell’uovo più grande del normale uno strano anatroccolo, tutto grigio e goffo! I suoi fratellini lo ribattezzarono subito “Brutto Anatroccolo” e non mancavano mai di prenderlo in giro e fargli gli scherzi. “Come sei brutto! Noi con te non vogliamo giocare! Brutto, brutto! Sei brutto!”... Mamma anatra cercava di difenderlo come poteva, e quando era triste il Brutto Anatroccolo correva da lei a farsi stringere e coccolare. Ma purtroppo anche le altre anatre che abitavano il laghetto lo deridevano e lo prendevano in giro, tanto che il poverino tornava sempre a casa con i lacrimoni agli occhi.
Un giorno il Brutto Anatroccolo decise che ne aveva abbastanza di tutte quelle stupide anatre che lo trattavano male. “Andrò dove troverò delle anatre che mi sapranno apprezzare per quello che sono”, si disse, e spiccò un volo incerto con le sue piccole alette. Non riuscì ad andare molto lontano, e per la stanchezza si fermò in uno stagno lì vicino, dove vide arrivare uno stormo di anatre selvatiche. “Forse loro mi accetteranno meglio di come mi hanno accettato le anatre della fattoria”, pensò. Il Brutto Anatroccolo si avvicinò piano piano allo stormo che stava riposando sulle acque dello stagno, e quando fu abbastanza vicino si presentò facendo la riverenza. “Salve a tutte signore anatre selvatiche io sono…”, ma non fece in tempo a finire la frase che già le anatre selvatiche lo stavano additando e deridendo. “E cosa saresti tu? Un anatroccolo mostriciattolo?” e continuarono a ridere. Il povero anatroccolo, deluso, amareggiato e pieno di lacrime, scappò via anche da lì, finché stremato dal volo non si fermò sulle rive di un altro stagno non molto lontano. Lì vide degli splendidi e candidi cigni che nuotavano con grazia ed eleganza sullo specchio d’acqua. Erano così belli che il Brutto Anatroccolo ne rimase incantato. Più li guardava e più pensava: “Quanto vorrei essere bello come loro…”. Così, senza nemmeno accorgersene, aveva nuotato verso di loro, fino ad arrivare praticamente in mezzo al gruppo. “Forse mi beccheranno e mi cacceranno anche loro - pensò l’anatroccolo - ma preferisco che siano a farlo loro, che sono bellissimi davvero, piuttosto che quelle stupide anatre vanitose…”. Ma invece che deriderlo e cacciarlo, i cigni gli corsero tutti incontro, salutandolo e abbracciandolo. Il Brutto Anatroccolo non capiva, e chiese: “Come mai non mi deridete e non mi prendete in giro per quanto sono brutto?”. Una di loro gli rispose; “Brutto tu?! Ma se stai per diventare uno splendido cigno!” ... “Cigno io?!”, rispose sbalordito il Brutto Anatroccolo. Tutti i cigni si misero a far di sì con la testa e gli sorrisero con calore. “Aspetta qualche giorno e vedrai…”.
E fu così che dopo pochi giorni il Brutto Anatroccolo si svegliò e, andatosi a specchiare nello stagno, vide che tutte le sue piume grigiastre erano diventate bianche come il latte, e la sua goffaggine si era trasformata in un portamento elegante ed aggraziato: era diventato un cigno! E quanto era bello, il più bello di tutto lo stagno! “Quando ero ancora un Brutto Anatroccolo, non avrei mai immaginato che un giorno sarei stato così felice!”. E spiccò il volo insieme a tutti i suoi nuovi amici.


Morale della favola: solo credendo sempre in sé stessi e nelle proprie capacità alla fine si riesce a diventare grandi, accettandosi per quello che si è.

Lavoro di gruppo:
Il lavoro di gruppo ha riguardato la lettura e messa in scena della favola nella sua prima e più drammatica parte, quella che riguarda la schiusa delle uova e l’esclusione del brutto anatroccolo da parte dei fratelli e di altre anatre dello stagno. Ogni membro del gruppo veniva invitato a interpretare il ruolo del brutto anatroccolo e a creare un finale per la storia mettendolo in scena.

I finali per la storia del Brutto Anatroccolo:
A. - Rifiutato da tutti, rimango da solo e sconsolato vado a mangiare alghe nello stagno.

B. - “Venite qui fratellini, non vedete che sono anche io della famiglia?! Qualcuno deve pure difendermi e sostenermi. Mamma vieni anche tu che ne parliamo". Tutte le anatre allora fecero una riunione familiare e trovarono un accordo insieme per vivere felici e contente.

F. - Mi faccio dare da mangiare da un bambino e aspetto da solo che ogni tanto ritorni.

S. - Mi faccio portare nello stagno da mamma anatra e lì rimango da solo.

M.C. - Cerco qualcuno finché non trovo un cagnolino e gioco con lui.




Solidarność

   Moira Orfei (scritto postumo)


meglio la fine della solidarietà, o la finta solidarietà? Chi per ruolo aiuta, accetta di essere aiutato? E chi in genere è aiutato, poi riesce ad aiutare? Prove quotidiane per diventare Esp…
Ieri sono stata da un dentista, beninteso di quelli della ASL. In sala d’aspetto ho cominciato a parlare con una signora che aveva accanto la figlia, una donna disabile.
La figlia esce presto dall’ambulatorio e le chiedo se posso darle una mano a mettere il cappotto. “Eh, sì, sono un disastro”, mi dice. Io le infilo un braccio, poi l’altro. Poi cerco con difficoltà di chiuderle la cerniera e le dico: “Non dire che sei un disastro, non è così. Lo dico sempre anch’io, ma non è vero”. Esce l’assistente alla poltrona del dentista e urla a gran voce: “Lo dico sempre anch’io che sono un disastro!”. Io guardo la donna disabile e con un immenso sorriso le dico: “Tranquilla, siamo nella stessa barca, sono disabile anch’io”. Lei: “Non si direbbe”, e non smette più di ringraziarmi per quel piccolo gesto.
Dopo il dentista, mi catapulto alla mensa parrocchiale. Un marocchino ubriaco inveisce contro un altro. La situazione degenera, si vogliono spaccare le caraffe di vetro in testa, è il caos. La polizia è stata chiamata ma non arriva. Una volontaria anziana è scaraventata a terra, un’altra volontaria, minuta minuta, urla con tutto il fiato che ha: “Bastaaaaaaaaaaaa, bastaaaaaaaa, bastaaaaaa!”, ma a un certo punto crolla, si accascia in ginocchio. A nessuno sembra importare nient’altro che di portare a casa la propria pellaccia, che sia bianca, nera o gialla. Mi precipito a prendere una sedia, sollevo l’eroica volontaria impaurita per la sua ernia del disco e la metto a sedere. Vado a cercare un bicchiere d’acqua e lo porgo alla signora, che continua incredula a ringraziarmi. Mentre io tra me e me penso: “Ma possibile che a nessuno sia venuto in mente un gesto così semplice? Una sedia e un bicchiere d’acqua… Cosa ho mai fatto di speciale?”…
Oppure era l’inversione dei ruoli a rendere la cosa talmente inaspettata: un’utente che sostiene una volontaria! Ma utente e volontaria non appartengono entrambe al genere umano? Poi il ragazzo marocchino aggredito. Non lo conosco bene, in realtà guardo sempre il suo amico, perché è molto carino e loro ridacchiano di me... Avevo un po’ paura che in questo caso una gentilezza potesse essere fraintesa. Alla fine mi sono decisa. Sono andata alla ricerca di un altro bicchiere d’acqua; lo ha rifiutato, ma io l’ho appoggiato accanto a lui. Poi, prima di andarmene, mi avvicino e gli chiedo: “Come stai, tutto bene?”. Avverto che la mia attenzione gli fa piacere: “Tutto bene, risponde”. E io: “Sei proprio sicuro?”. Lui mi sorride: “Sicuro, sicuro”. Tutti a urlare: “Ma vai al pronto soccorso”, “Denuncialo quello stronzo”, “Magari così ti becchi un sacco di soldi”... Mentre io, tra me e me, penso: “Possibile che a nessuno sia venuto in mente di chiedergli semplicemente come sta?”. Mi sono sentita molto bene, con quella pienezza d’animo che sento poche volte.
La sera in autobus. L’autista investe un ragazzino sulle strisce. Niente di grave, ma due cose particolari. L’autista, terrorizzato di perdere il posto per l’incidente, solo molto molto dopo aver bestemmiato va a parlare con il ragazzino per capire come sta. Il tredicenne insanguinato, da parte sua, non è preoccupato di essersi fatto male, ma urla terrorizzato: “Vi prego, non chiamate mio padre, lui farebbe un casino, la prenderebbe malissimo e sono sicuro che mi picchierebbe”.

LA VERGOGNA NON MI APPARTIENE

   Paula Mencarelli


La vergogna come sensazione non mi è mai appartenuta in questi vent’anni di disagio. Non mi sono mai vergognata né delle mie scelte di vita né del mio disturbo. Spesso mi sono vergognata per empatia, in luogo di persone poco sensibili e professionisti troppo frettolosi o addirittura indifferenti a noi utenti. Quello che mi viene da dire è che ho incontrato tra i miei ‘amici’ utenti più pudore che vergogna. E tanta dignità, a volte ironia, condividendo i nostri drammi, ma mai vergogna. Se ci penso sinceramente, piuttosto, mi viene in mente che le persone che mi vivono accanto spesso hanno vergogna di avere una madre come me o una nuora come me... Io li perdono, ma non li giustifico e la loro pochezza si riflette sullo stigma che mi appartiene, nella mia dolce follia... Posso comprenderlo, ma non giustificarlo. Quando la dignità di ogni creatura vivente sarà ritrovata, forse la nostra follia sarà compresa e la vergogna annullata. E quando penso alla ‘follia’, penso alle poesie di Alda Merini, alla vita trasformata in poesia, alle immagini di Van Gogh, la sua passione su tela, alle bellissime risate con il mio caro amico Fabrizio, che spero presto di riabbracciare, a Giorgia che con la sua empatia riesce a farmi sentire normale...
Sto scrivendo da un letto di ospedale e pensavo proprio di non farcela questa volta. Ringrazio mia sorella Alida, Tiziano e il dottor Gianluca Piastra che non mi hanno mai abbandonato in questo lungo e spero ultimo ricovero, e te, cara mia dolce infermiera, che prima che mi recassi in quell’inferno che è l’Ottonello del Maggiore mi hai consolata e preparata al più atroce dei giri dell’inferno danteschi… A te va tutta la mia stima e il mio affetto. Tu ci sei sempre al momento giusto. Ti voglio bene, Giorgia, tantissimo. E… Scusate la mia irruenza… Caro direttore, ma lei ha mai fatto un giro in quell’inferno del Maggiore???
Di quel brutto posto, sì, mi vergognerei terribilmente, fossi in lei.

VERGOGNA MODELLO DI VITA

   Darietto


D opo che Adamo ed Eva sono stati scacciati dal Paradiso, la vergogna è diventata un modello di vita, quasi addirittura un trofeo. Basta vedere in politica quanti inetti, che nemmeno si vergognano di azioni fatte ai danni del popolo italiano, portando il paese sull’orlo di una crisi. Ad esempio, parlando del clima: un certo signore volle incrementare l’energia nucleare quando ormai tanti paesi lo hanno già abbandonato a favore di energie più pulite come l’eolica e i pannelli solari; sempre quel signore creò Equitalia, strozzando l’esistenza di tante persone che già erano in crisi e, grazie a quella trovata, molti decisero di togliersi la vita... Quindi è come se fosse stato lui ad ucciderli! Non se ne vergogna? Han fatto benissimo a levarlo e non capisco come certa gente, che si dovrebbe vergognare, continua a votarlo! Forse gli piace sto schifo di vita: sono ‘sadomaso’.
Comunque, ricordo anche che quando, all’età circa di vent’anni, ero alla ricerca di un lavoro, le agenzie prendevano in giro noi giovani, indicando che per fare dell’apprendistato, bisognava avere già dell’esperienza: ma che contraddizione del cavolo era? Cioè se io voglio apprendere un mestiere, come faccio già ad avere esperienza su quel lavoro? Mi chiedevo quindi: “Ma non si vergognano a mettere degli annunci di quel tipo?” e non ero l’unico a pensarlo, tanto che lo chiesi ai miei amici e loro mi diedero ragione. A tutt’oggi comunque l’apprendistato non c’è più, sostituito da pratiche comunque precarie che portano un disagio peggiore e, per di più, spingono i giovani a uscire dall’Italia. Mi ricordo di un ragazzo che qui in Italia non era stato apprezzato, mentre in Australia è diventato un gran ricercatore. Ora devi avere esperienza in un ambito specifico per entrare in un luogo di lavoro, ma chi altri lo può insegnare se non il datore di lavoro stesso? I genitori non ti insegnano un lavoro (una volta si passava da padre in figlio il mestiere, ora non più) e la scuola non è adeguata al passaggio al mondo del lavoro (si fanno degli stage che comunque non vengono pagati ed è come se i giovani fossero degli schiavi, cosa vergognosa!!!). Tutto ciò, ripeto: non è estremamente vergognoso?
Personalmente, l’unica cosa di cui provo vergogna è di vivere in un paese nel quale le persone non vengono premiate per il loro merito (meritocrazia) e per la volontà di aiutare il prossimo, ma vengono messe in difficoltà. Molti poi vengono ‘rinchiusi in gabbie’, cucendo loro la bocca. Molti vengono allontanati dalla società, costretti a vivere la vita quotidiana in grave stato di crisi, cose che poi sboccano in depressione.
La loro attitudine e bravura in certi campi (c’è ad esempio chi è portato per la grafica, chi per il sociale, chi per l’informatica e via di seguito) finisce per essere buttata nella spazzatura, con conseguente perdita di stima e fiducia in sé stessi, e la persona finisce per chiudersi e sminuire la sua potenzialità. Questo anche perché, il mondo cambia troppo velocemente a favore di robot che portano via posti di lavoro. Il dio denaro non perdona chi è troppo debole e non dà spazio a chi invece vorrebbe far sentire la propria voce (quindi addio libertà di parola e di pensiero). Ad esempio: pubblicare un libro, solo chi ha potere e soldi può farlo liberamente e chi è debole... Ciao! Stessa cosa avviene nella legge (“La legge è uguale per tutti” è indicato nell’insegna di un qualsiasi tribunale: ne siamo sicuri?) in quanto chi ha soldi e potere, se la cava con un nonnulla, ma chi è nella fascia debole ha trentamila grattacapi che prima di poterne uscire, per il poverino passano degli anni: non è vergognoso? Bravi! Applaudiamo al grande ingegno dell’essere umano, bravo solo a fare gravi contraddizioni. Vergognatevi! Complimenti a tutti!


OPERE DEGLI ARTISTI IRREGOLARI BOLOGNESI:
AUGUSTINE NOULA


Augustine Noula è nata in Camerun (Yaoundé) nel 1981. Laureata in Comunicazione e Marketing, è affascinata dalla miscela dei colori e da tutto quello che tocca la realtà virtuale tridimensionale.




I dipinti riprodotti qua sotto sono dell’artista Augustine Noula